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Moravia e la fabbrica, storia d’un film mancato e dei conflitti irrisolti tra industria e letteratura

Raccontare la fabbrica, il lavoro, la creatività e la tecnologia, la fatica e i conflitti, la routine produttiva e le trasformazioni. Fare i conti, insomma, con una civiltà industriale connotata dalle tensioni della complessità e irriducibile allo schema del tradizionale scontro di classe. Entrare dentro tensioni e conflitti, piuttosto, analizzandone tutte le caratteristiche. E, per capirne meglio le sfumature, usare non soltanto gli schemi dell’economia e della sociologia quanto soprattutto quelli della letteratura, delle arti figurative e, perché no? del cinema e della fotografia. Una conversazione, appunto. Per usare una parola cara all’illuminismo (e alla sua dialettica) e poi a Elio Vittorini, lo scrittore che, con “Il Politecnico”, dal 1945 al 1947, aveva provato a rinnovare radicalmente la cultura italiana, legando umanesimo e scienza e lasciando un’impronta profonda sull’editoria e la letteratura.

“Veniamo con voi a conversare…”, aveva scritto Alberto Pirelli, presidente, insieme al fratello Piero, della multinazionale milanese fondata dal padre Giovanni Battista, nell’editoriale del primo numero della Rivista “Pirelli”, nel novembre 1948, un periodico di “informazione e tecnica”. Una conversazione, un confronto aperto e spregiudicato, dunque, durato sino al 1972, sui grandi temi dell’economia e della tecnologia, dell’arte e della scienza, ma anche della politica e delle trasformazioni economiche e sociali, sotto la guida di sofisticati intellettuali come Giuseppe Luraghi, Vittorio Sereni e Leonardo Sinisgalli e con la collaborazione delle principali firme della cultura italiana (Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Gio Ponti, Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Umberto Eco, Enzo Biagi, Camilla Cederna e tanti altri ancora).

Era la stagione che, dal dopoguerra della dinamica ricostruzione al boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, aveva visto tra i protagonisti del dibattito culturale anche le principali riviste aziendali (oltre a quella della Pirelli, la “Civiltà delle Macchine” della Finmeccanica Iri, “Comunità” della Olivetti e “Il gatto selvatico” dell’Eni). E in cui alcuni scrittori, registi, fotografi, artisti avevano provato a fare i conti con la modernità dell’economia, della tecnologia, dell’urbanizzazione, della cultura di massa e delle radicali trasformazioni di consumi e costumi.

All’inizio di quella stagione, tra la primavera e l’estate del 1947, si colloca anche l’incontro tra la Pirelli, il regista Roberto Rossellini e lo scrittore Alberto Moravia, per la realizzazione di un film che avesse al suo centro il racconto dello sviluppo dell’industria, attraverso la rappresentazione delle vicende di una famiglia di operai. Rossellini è entusiasta del progetto. Moravia si mette rapidamente al lavoro e in breve tempo produce un copione, 109 cartelle dattiloscritte attorno alle traversie dei Riva, operai Pirelli, origini contadine ma oramai in fabbrica, alla Bicocca, da tre generazioni, nonno, figlio e tre nipoti (Carlo, Angela e Ida).

Sullo sfondo, la guerra appena finita, la Resistenza contro i nazifascisti e la Liberazione, l’avvio faticoso eppur intenso della democrazia e della ripresa civile e produttiva, l’incrocio difficile tra la forza delle speranze d’una migliore qualità della vita e del lavoro e le prime disillusioni sulla portata del rinnovamento.

Quel film, però, non vedrà mai la luce. Ne resta il copione, a lungo custodito nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli e adesso pubblicato da Bompiani, con il titolo originario, “Questa è la nostra città”, a cura di Alessandra Grandelis e con una postfazione di Giuseppe Lupo.

Cos’era successo? Problemi di alti costi dell’operazione (75 milioni di lire, tanti, in un momento di difficoltà della ripresa, di inflazione e di severa attenzione ai conti). Ma soprattutto di mancata sintonia tra la committenza Pirelli e Moravia.

Il copione, infatti, tiene sullo sfondo la fabbrica e il binomio antifascismo-mondo del lavoro che aveva connotato gli anni milanesi dal ‘43 al ‘45. E si concentra sui conflitti dell’ultima generazione dei Riva, che rifiutano la condizione operaia e i suoi valori e sognano invece vita facile, arricchimento veloce, disinvoltura dei comportamenti, sino al coinvolgimento in affari illegali d’una banda criminale. Con un esito tragico: la morte di Angela. Anima nera. Disperazione.

In una lettera ad Alberto Pirelli, Giuseppe Luraghi, manager e uomo di profonda cultura (sarà, anni dopo, protagonista del successo dell’Alfa Romeo, ma anche raffinato editore) esprime chiare riserve: “A me pare che, trattandosi di un film Pirelli, troppo si insista sui loschi intrighi che, in realtà, finiscono per costituire il fulcro del racconto. La fabbrica rimane estranea e convenzionale, là dove essa dovrebbe costituire non lo sfondo, ma la protagonista della vicenda”.

Il giudizio negativo di Luraghi è ripreso dalla postfazione di Lupo, che commenta: “Quel che non piace a Luraghi è l’essere la fabbrica un luogo che poco incide sulle sorti tanto della gente comune quanto in quelle della nazione” e addirittura “si connota di sfumature latamente immorali, essendo alcuni personaggi collusi con la piccola criminalità di periferia… quasi a suggerire un vincolo tra industrializzazione e malavita, come prezzo da pagare sull’altare della modernità in espansione”.

“Moravia e la fabbrica, storia di un fallimento”, è il titolo della Domenica de “Il Sole24Ore” che pubblica stralci della postfazione di Lupo (18 maggio).

“E Moravia restò fuori dalla fabbrica”, titola il “Corriere della Sera” per un articolo di Paolo Di Stefano (12 maggio) sulla pubblicazione di “Questa è la nostra città”. Nota Di Stefano: “Forse manca, dal soggetto di Moravia, l’ambiente tecnico del lavoro che stava più a cuore al committente, decisamente insoddisfatto, benché la vicenda si concluda, dopo la tragedia, con un’apertura di luce affidata proprio alla fabbrica”.

Ecco, appunto, Moravia: “Le sirene ripetono il loro richiamo. Il treno si allontana sbuffando. I mille rumori della fabbrica in attività, severi, inesorabili quasi, riempiono l’aria. Nella sua maestosa grandezza e potenza, par che la fabbrica livelli ogni cosa, racchiudendola nel suo grande abbraccio. La vita ricomincia – e ricomincia il duro, pesante, ma pur necessario, ma sano, ma benefico, ma benedetto lavoro di tutti i giorni”.

Insiste Lupo: Moravia “pensava a una pellicola imbevuta di neorealismo, secondo i modi di una poetica che in quegli anni intrecciava esistenzialismo e questioni sociali, solitudine e fordismo”. Con un limite: la scarsa conoscenza dell’autore della cultura industriale e del linguaggio operaio: “La periferia milanese non presenta gli stessi caratteri del suburbio romano, ha un’impronta decisamente più civile, è il luogo del proletariato (raccontato da Testori) anziché del sottoproletariato (raccontato da Pasolini)”.

In fin dei conti, una conversazione mancata. E dunque un film mai realizzato.

Restano, nel testo appena pubblicato, la qualità della scrittura moraviana, il suo gusto per le immagini, il sofisticato linguaggio visivo di un intellettuale che ama il cinema. Si perde però il senso profondo del rapporto originale tra letteratura e modernità industriale.

Una sfida mancata che, durante tutta la seconda metà del Novecento, coinvolge gran parte dell’intellettualità contemporanea, eccezion fatta per Vittorini, Sinisgalli e Sereni, gli “olivettiani” (Zorzi, Ottieri, Volponi, per fare solo alcuni nomi) e i collaboratori delle riviste aziendali cui abbiamo fatto cenno. Proprio Giuseppe Lupo ne ha documentato tensioni e cadute in un saggio di grande rilievo, “La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana” (Marsilio, 2023).

La questione del rapporto letteratura-modernità resta comunque d’attualità. Perché è davvero necessario costruire una nuova e migliore rappresentazione dell’industria e del lavoro, proprio quando le tecnologie digitali e la coscienza della sostenibilità ambientale e sociale stanno radicalmente cambiando prodotti, sistemi di produzione, commerci e consumi. E dunque provare a costruire un racconto dell’impresa come attore non solo economico ma anche sociale, culturale e civile.

È una sfida essenziale. Che riguarda le imprese, che devono imparare a essere sempre più “aperte” e “connesse” (i due termini che connotano i progetti del Gruppo tecnico Cultura di Confindustria) e dunque a parlare con sincerità e trasparenza con tutti gli stakeholders, per creare valore economico facendo leva sui valori generali e gli interessi generali delle comunità di riferimento.

Ma è anche una sfida che investe in pieno gli ambienti culturali, della comunicazione e della formazione: scrittori, artisti, registi del cinema e del teatro, fotografi, giornalisti, autori Tv, architetti e designer, esperti dei mondi digitali e dell’Intelligenza Artificiale. Ben sapendo che fare impresa significa fare cultura. E che l’impresa culturale, in tutte le sue molteplici forme creative, non può non fare finalmente i conti con una caratteristica di fondo dell’Italia: l’essere ancora, pur nel nuovo contesto tecnologico e competitivo, un grande paese industriale.

Uscita operai Bicocca, foto Calcagni, 1955 (Fondazione Pirelli)

Raccontare la fabbrica, il lavoro, la creatività e la tecnologia, la fatica e i conflitti, la routine produttiva e le trasformazioni. Fare i conti, insomma, con una civiltà industriale connotata dalle tensioni della complessità e irriducibile allo schema del tradizionale scontro di classe. Entrare dentro tensioni e conflitti, piuttosto, analizzandone tutte le caratteristiche. E, per capirne meglio le sfumature, usare non soltanto gli schemi dell’economia e della sociologia quanto soprattutto quelli della letteratura, delle arti figurative e, perché no? del cinema e della fotografia. Una conversazione, appunto. Per usare una parola cara all’illuminismo (e alla sua dialettica) e poi a Elio Vittorini, lo scrittore che, con “Il Politecnico”, dal 1945 al 1947, aveva provato a rinnovare radicalmente la cultura italiana, legando umanesimo e scienza e lasciando un’impronta profonda sull’editoria e la letteratura.

“Veniamo con voi a conversare…”, aveva scritto Alberto Pirelli, presidente, insieme al fratello Piero, della multinazionale milanese fondata dal padre Giovanni Battista, nell’editoriale del primo numero della Rivista “Pirelli”, nel novembre 1948, un periodico di “informazione e tecnica”. Una conversazione, un confronto aperto e spregiudicato, dunque, durato sino al 1972, sui grandi temi dell’economia e della tecnologia, dell’arte e della scienza, ma anche della politica e delle trasformazioni economiche e sociali, sotto la guida di sofisticati intellettuali come Giuseppe Luraghi, Vittorio Sereni e Leonardo Sinisgalli e con la collaborazione delle principali firme della cultura italiana (Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Gio Ponti, Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Umberto Eco, Enzo Biagi, Camilla Cederna e tanti altri ancora).

Era la stagione che, dal dopoguerra della dinamica ricostruzione al boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, aveva visto tra i protagonisti del dibattito culturale anche le principali riviste aziendali (oltre a quella della Pirelli, la “Civiltà delle Macchine” della Finmeccanica Iri, “Comunità” della Olivetti e “Il gatto selvatico” dell’Eni). E in cui alcuni scrittori, registi, fotografi, artisti avevano provato a fare i conti con la modernità dell’economia, della tecnologia, dell’urbanizzazione, della cultura di massa e delle radicali trasformazioni di consumi e costumi.

All’inizio di quella stagione, tra la primavera e l’estate del 1947, si colloca anche l’incontro tra la Pirelli, il regista Roberto Rossellini e lo scrittore Alberto Moravia, per la realizzazione di un film che avesse al suo centro il racconto dello sviluppo dell’industria, attraverso la rappresentazione delle vicende di una famiglia di operai. Rossellini è entusiasta del progetto. Moravia si mette rapidamente al lavoro e in breve tempo produce un copione, 109 cartelle dattiloscritte attorno alle traversie dei Riva, operai Pirelli, origini contadine ma oramai in fabbrica, alla Bicocca, da tre generazioni, nonno, figlio e tre nipoti (Carlo, Angela e Ida).

Sullo sfondo, la guerra appena finita, la Resistenza contro i nazifascisti e la Liberazione, l’avvio faticoso eppur intenso della democrazia e della ripresa civile e produttiva, l’incrocio difficile tra la forza delle speranze d’una migliore qualità della vita e del lavoro e le prime disillusioni sulla portata del rinnovamento.

Quel film, però, non vedrà mai la luce. Ne resta il copione, a lungo custodito nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli e adesso pubblicato da Bompiani, con il titolo originario, “Questa è la nostra città”, a cura di Alessandra Grandelis e con una postfazione di Giuseppe Lupo.

Cos’era successo? Problemi di alti costi dell’operazione (75 milioni di lire, tanti, in un momento di difficoltà della ripresa, di inflazione e di severa attenzione ai conti). Ma soprattutto di mancata sintonia tra la committenza Pirelli e Moravia.

Il copione, infatti, tiene sullo sfondo la fabbrica e il binomio antifascismo-mondo del lavoro che aveva connotato gli anni milanesi dal ‘43 al ‘45. E si concentra sui conflitti dell’ultima generazione dei Riva, che rifiutano la condizione operaia e i suoi valori e sognano invece vita facile, arricchimento veloce, disinvoltura dei comportamenti, sino al coinvolgimento in affari illegali d’una banda criminale. Con un esito tragico: la morte di Angela. Anima nera. Disperazione.

In una lettera ad Alberto Pirelli, Giuseppe Luraghi, manager e uomo di profonda cultura (sarà, anni dopo, protagonista del successo dell’Alfa Romeo, ma anche raffinato editore) esprime chiare riserve: “A me pare che, trattandosi di un film Pirelli, troppo si insista sui loschi intrighi che, in realtà, finiscono per costituire il fulcro del racconto. La fabbrica rimane estranea e convenzionale, là dove essa dovrebbe costituire non lo sfondo, ma la protagonista della vicenda”.

Il giudizio negativo di Luraghi è ripreso dalla postfazione di Lupo, che commenta: “Quel che non piace a Luraghi è l’essere la fabbrica un luogo che poco incide sulle sorti tanto della gente comune quanto in quelle della nazione” e addirittura “si connota di sfumature latamente immorali, essendo alcuni personaggi collusi con la piccola criminalità di periferia… quasi a suggerire un vincolo tra industrializzazione e malavita, come prezzo da pagare sull’altare della modernità in espansione”.

“Moravia e la fabbrica, storia di un fallimento”, è il titolo della Domenica de “Il Sole24Ore” che pubblica stralci della postfazione di Lupo (18 maggio).

“E Moravia restò fuori dalla fabbrica”, titola il “Corriere della Sera” per un articolo di Paolo Di Stefano (12 maggio) sulla pubblicazione di “Questa è la nostra città”. Nota Di Stefano: “Forse manca, dal soggetto di Moravia, l’ambiente tecnico del lavoro che stava più a cuore al committente, decisamente insoddisfatto, benché la vicenda si concluda, dopo la tragedia, con un’apertura di luce affidata proprio alla fabbrica”.

Ecco, appunto, Moravia: “Le sirene ripetono il loro richiamo. Il treno si allontana sbuffando. I mille rumori della fabbrica in attività, severi, inesorabili quasi, riempiono l’aria. Nella sua maestosa grandezza e potenza, par che la fabbrica livelli ogni cosa, racchiudendola nel suo grande abbraccio. La vita ricomincia – e ricomincia il duro, pesante, ma pur necessario, ma sano, ma benefico, ma benedetto lavoro di tutti i giorni”.

Insiste Lupo: Moravia “pensava a una pellicola imbevuta di neorealismo, secondo i modi di una poetica che in quegli anni intrecciava esistenzialismo e questioni sociali, solitudine e fordismo”. Con un limite: la scarsa conoscenza dell’autore della cultura industriale e del linguaggio operaio: “La periferia milanese non presenta gli stessi caratteri del suburbio romano, ha un’impronta decisamente più civile, è il luogo del proletariato (raccontato da Testori) anziché del sottoproletariato (raccontato da Pasolini)”.

In fin dei conti, una conversazione mancata. E dunque un film mai realizzato.

Restano, nel testo appena pubblicato, la qualità della scrittura moraviana, il suo gusto per le immagini, il sofisticato linguaggio visivo di un intellettuale che ama il cinema. Si perde però il senso profondo del rapporto originale tra letteratura e modernità industriale.

Una sfida mancata che, durante tutta la seconda metà del Novecento, coinvolge gran parte dell’intellettualità contemporanea, eccezion fatta per Vittorini, Sinisgalli e Sereni, gli “olivettiani” (Zorzi, Ottieri, Volponi, per fare solo alcuni nomi) e i collaboratori delle riviste aziendali cui abbiamo fatto cenno. Proprio Giuseppe Lupo ne ha documentato tensioni e cadute in un saggio di grande rilievo, “La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana” (Marsilio, 2023).

La questione del rapporto letteratura-modernità resta comunque d’attualità. Perché è davvero necessario costruire una nuova e migliore rappresentazione dell’industria e del lavoro, proprio quando le tecnologie digitali e la coscienza della sostenibilità ambientale e sociale stanno radicalmente cambiando prodotti, sistemi di produzione, commerci e consumi. E dunque provare a costruire un racconto dell’impresa come attore non solo economico ma anche sociale, culturale e civile.

È una sfida essenziale. Che riguarda le imprese, che devono imparare a essere sempre più “aperte” e “connesse” (i due termini che connotano i progetti del Gruppo tecnico Cultura di Confindustria) e dunque a parlare con sincerità e trasparenza con tutti gli stakeholders, per creare valore economico facendo leva sui valori generali e gli interessi generali delle comunità di riferimento.

Ma è anche una sfida che investe in pieno gli ambienti culturali, della comunicazione e della formazione: scrittori, artisti, registi del cinema e del teatro, fotografi, giornalisti, autori Tv, architetti e designer, esperti dei mondi digitali e dell’Intelligenza Artificiale. Ben sapendo che fare impresa significa fare cultura. E che l’impresa culturale, in tutte le sue molteplici forme creative, non può non fare finalmente i conti con una caratteristica di fondo dell’Italia: l’essere ancora, pur nel nuovo contesto tecnologico e competitivo, un grande paese industriale.

Uscita operai Bicocca, foto Calcagni, 1955 (Fondazione Pirelli)

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