Riscoprire la Storia contro “il pensiero veloce” e dare spazio ai valori della democrazia europea
Riscoprire e studiare di più e meglio la storia. Non tanto perché sia magistra vitae e abbia qualcosa da insegnarci pragmaticamente. Ma soprattutto perché la conoscenza delle tensioni attive nel passato e della forza delle radici migliora la consapevolezza dell’importanza delle scelte e delle principali opzioni culturali, sociali e politiche secondo cui indirizzare valori, passioni, interessi.
In tempi così controversi, infatti, proprio mentre trionfano la retorica della forza e la prepotenza degli interessi e vanno in ombra le culture del rispetto e del dialogo e i valori delle diversità (la sostanza della democrazia liberale, insomma, “l’anima buona” del pur difficile Novecento) imparare a fare i conti con la Storia e le sue verità ci aiuta a capire come poter continuare a essere cives, cioè cittadini responsabili e consapevoli di una polis in cui coltivare le migliori eredità del passato e lasciare ai nostri figli e nipoti un capitale sociale di cultura democratica, senza ideologismi ma soprattutto senza inclinazioni autoritarie e smemorate dei guasti dei totalitarismi appena passati ma tutt’altro che scomparsi.
Che storia? La storia politica e quella militare. La storia economica e quella sociale. La public history e la global history. La storia dei grandi avvenimenti. E quella della cultura “alta” ma anche delle culture materiali (il cibo, la casa, l’abbigliamento, l’artigianato e l’industria, i consumi e i costumi, la cui essenzialità è stata documentata dalla scuola francese delle Annales). La storia patria. E le sue connessioni con le storie di altri popoli e altri paesi. Perché nessun uomo è un’isola, come ci ha insegnato John Donne, un grande poeta inglese. Nessuna valle è chiusa. E nessuno basta a se stesso.
L’identità, la migliore, la più feconda, sta non nel soggetto ma nelle relazioni, secondo la lezione filosofica di Emmanuel Lévinas. E, proprio per noi italiani ed europei, la nostra storia, la storia del Mediterraneo mare di conflitti e di confronti, di scontri e di commerci, mostra come nel corso del tempo lungo di cui abbiamo conoscenza, la durezza delle guerre sia stata compensata e superata dall’intelligenza dei dialoghi e degli scambi. Per averne consapevolezza, vale la pena rileggere le pagine lucide di Fernand Braudel e quelle, altrettanto sapienti ma anche profondamente poetiche, di Predrag Matvejevic, a cominciare dal suo “Breviario mediterraneo”, uno dei libri più importanti dell’intero Novecento.
Leggere di storia. Scrivere di storia, ben sapendo come ciò significhi seguire la disciplina severa del “dare fisionomia alla date” (Walter Benjamin), con grande rispetto per fatti e dati, evitando spregiudicate manipolazioni e falsificazioni. E scrivere storie, con senso di responsabilità. Cercando sempre la connessione con altre discipline, la letteratura e l’arte, la filosofia e la matematica, la sociologia, la psicologia, il diritto, la fisica e la chimica. I saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. L’antropologia e l’economia.
Hanno appunto ragione i professori dell’Università Cattolica di Milano che stanno promuovendo un “Dottorato in storia dell’Economia: imprese, istituzioni, culture” e gli storici, i giuristi e gli economisti che, come Giuliano Amato, Piero Barucci, Pierluigi Ciocca, Claudio De Vincenti, Elsa Fornero, Giorgio La Malfa, Romano Prodi, Alberto Quadrio Curzio, Paolo Savona e Ignazio Visco, hanno pubblicato (Il Sole24Ore, 29 gennaio) un appello alle forze politiche e accademiche per “salvare il dottorato in storia dell’economia” e ridargli lo spazio che merita nei contesti formativi e di ricerca delle nostre università.
Storia, insomma, come pilastro di “cultura politecnica”. E anche di cultura d’impresa. Muovendosi in ampiezza e, contemporaneamente, in profondità. Tutto il contrario delle cattive abitudini così di moda sui social media e della propaganda, purtroppo vincente, ispirata dalla “semplificazione del pensiero veloce” (è il sapiente ammonimento di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002, per aver dimostrato la profonda incidenza degli aspetti psicologici nelle decisioni economiche).
Sono proprio queste attitudini, d’altronde, a costituire una parte essenziale del patrimonio culturale e morale della nostra Europa, oggi incerta e perfino smarrita di fronte alle sfide d’un quadro geopolitico dominato da giganti prepotenti, dagli Usa alla Russia e alla Cina, e dalle Big Tech che disprezzano la democrazia. Un’Europa che deve ritrovare orgoglio, potenza e consapevolezza dei propri punti di forza (la democrazia e il mercato, i valori dell’intraprendenza economica individuale e la diffusione del welfare, l’attitudine alle scoperte scientifiche e l’essenzialità del pensiero critico). Un’Europa protagonista del proprio destino, nonostante tutto. Un’Europa migliore di quella che abbiamo visto all’opera.
Ha ragione, in questo contesto, Giulio Tremonti, da critico delle distorsioni regolatorie e burocratiche della Ue (“un ventennio perduto”) e da politico di solida cultura liberale, quando insiste sulla necessità di rileggere attentamente uno dei documenti storici costitutivi dell’Europa di cui siamo parte, il “Manifesto di Ventotene” e da lì ripartire per parlare di moneta comune ed esercito comune, politiche di sviluppo, ruolo geopolitico del continente (Il Foglio, 18 febbraio).
Era stato scritto, quel “Manifesto per un’Europa libera e unita”, nel 1941, da tre giovani intellettuali, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, condannati dal regime fascista al confino nell’isola di Ventotene, proprio in uno dei momenti più bui della storia (le armate naziste occupavano gran parte del continente). Pubblicato nel 1944, ancora prima che finisse la guerra, e diffuso anche per l’intraprendenza di una donna di straordinarie qualità, Ursula Hirshmann, il Manifesto di Ventotene era diventato uno dei testi fondanti dell’unificazione europea, grazie all’intelligenza progettuale e alla generosa visionarietà politica di una classe dirigente (Adenauer, De Gasperi, Schuman, Monnet e Spaak, i “padri dell’Europa”) capace di fare sintesi tra interessi nazionali e valori europei. E ancora oggi molte di quelle ispirazioni hanno forza di attualità: mercato comune, moneta comune, fisco comune, esercito comune: “la moneta” e “la spada”, le relazioni economiche e la democrazia politica.
Per leggerne l’attualità, i Rapporti Letta e Draghi sul Mercato Unico e sugli investimenti europei da mille miliardi all’anno per dieci anni (con risorse a debito raccolte sui mercati da una Ue finalmente coesa e dunque autorevole), forniscono importanti riferimenti su cosa e come fare, tempestivamente, per rispondere alle pressioni Usa mai come adesso, in epoca Trump, così poco amichevoli e alle manovre degli altri grandi e potenti attori della scena internazionale. Un’Europa che, citando le parole di Draghi davanti al Parlamento Europeo, deve finalmente “agire come un unico Stato” (Corriere della Sera, 19 febbraio).
L’Italia, paese fondatore della Ue, ha un ruolo fondamentale. E sono d’aiuto, in questo processo di ripresa e riscatto, anche le culture di fondo che hanno ispirato il Quirinale, di presidente in presidente: il socialismo democratico di Sandro Pertini, il pensiero democristiano di Oscar Luigi Scalfaro (che aveva frequentato fin dall’Assemblea Costituente il leader Alcide De Gasperi e il giovane Aldo Moro), l’azionismo e la liberaldemocrazia di Carlo Azeglio Ciampi, il comunismo profondamente italiano e costituzionale di Giorgio Napolitano, lo spessore dei valori sociali cattolici e della passione istituzionale di Costantino Mortati (che fu maestro di Diritto Costituzionale sino alle generazioni che sono entrate all’università alla fine degli anni Sessanta) così cari a Sergio Mattarella. Diversità nell’unità della cultura istituzionale della Repubblica. Valori democratici profondi. Forza delle radici storiche delle nostre essenziali democrazie e cardini di un migliore futuro. Di cui siamo profondamente debitori ai nostri figli e ai nostri nipoti. Europei.
(Foto Getty Images)


Riscoprire e studiare di più e meglio la storia. Non tanto perché sia magistra vitae e abbia qualcosa da insegnarci pragmaticamente. Ma soprattutto perché la conoscenza delle tensioni attive nel passato e della forza delle radici migliora la consapevolezza dell’importanza delle scelte e delle principali opzioni culturali, sociali e politiche secondo cui indirizzare valori, passioni, interessi.
In tempi così controversi, infatti, proprio mentre trionfano la retorica della forza e la prepotenza degli interessi e vanno in ombra le culture del rispetto e del dialogo e i valori delle diversità (la sostanza della democrazia liberale, insomma, “l’anima buona” del pur difficile Novecento) imparare a fare i conti con la Storia e le sue verità ci aiuta a capire come poter continuare a essere cives, cioè cittadini responsabili e consapevoli di una polis in cui coltivare le migliori eredità del passato e lasciare ai nostri figli e nipoti un capitale sociale di cultura democratica, senza ideologismi ma soprattutto senza inclinazioni autoritarie e smemorate dei guasti dei totalitarismi appena passati ma tutt’altro che scomparsi.
Che storia? La storia politica e quella militare. La storia economica e quella sociale. La public history e la global history. La storia dei grandi avvenimenti. E quella della cultura “alta” ma anche delle culture materiali (il cibo, la casa, l’abbigliamento, l’artigianato e l’industria, i consumi e i costumi, la cui essenzialità è stata documentata dalla scuola francese delle Annales). La storia patria. E le sue connessioni con le storie di altri popoli e altri paesi. Perché nessun uomo è un’isola, come ci ha insegnato John Donne, un grande poeta inglese. Nessuna valle è chiusa. E nessuno basta a se stesso.
L’identità, la migliore, la più feconda, sta non nel soggetto ma nelle relazioni, secondo la lezione filosofica di Emmanuel Lévinas. E, proprio per noi italiani ed europei, la nostra storia, la storia del Mediterraneo mare di conflitti e di confronti, di scontri e di commerci, mostra come nel corso del tempo lungo di cui abbiamo conoscenza, la durezza delle guerre sia stata compensata e superata dall’intelligenza dei dialoghi e degli scambi. Per averne consapevolezza, vale la pena rileggere le pagine lucide di Fernand Braudel e quelle, altrettanto sapienti ma anche profondamente poetiche, di Predrag Matvejevic, a cominciare dal suo “Breviario mediterraneo”, uno dei libri più importanti dell’intero Novecento.
Leggere di storia. Scrivere di storia, ben sapendo come ciò significhi seguire la disciplina severa del “dare fisionomia alla date” (Walter Benjamin), con grande rispetto per fatti e dati, evitando spregiudicate manipolazioni e falsificazioni. E scrivere storie, con senso di responsabilità. Cercando sempre la connessione con altre discipline, la letteratura e l’arte, la filosofia e la matematica, la sociologia, la psicologia, il diritto, la fisica e la chimica. I saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. L’antropologia e l’economia.
Hanno appunto ragione i professori dell’Università Cattolica di Milano che stanno promuovendo un “Dottorato in storia dell’Economia: imprese, istituzioni, culture” e gli storici, i giuristi e gli economisti che, come Giuliano Amato, Piero Barucci, Pierluigi Ciocca, Claudio De Vincenti, Elsa Fornero, Giorgio La Malfa, Romano Prodi, Alberto Quadrio Curzio, Paolo Savona e Ignazio Visco, hanno pubblicato (Il Sole24Ore, 29 gennaio) un appello alle forze politiche e accademiche per “salvare il dottorato in storia dell’economia” e ridargli lo spazio che merita nei contesti formativi e di ricerca delle nostre università.
Storia, insomma, come pilastro di “cultura politecnica”. E anche di cultura d’impresa. Muovendosi in ampiezza e, contemporaneamente, in profondità. Tutto il contrario delle cattive abitudini così di moda sui social media e della propaganda, purtroppo vincente, ispirata dalla “semplificazione del pensiero veloce” (è il sapiente ammonimento di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002, per aver dimostrato la profonda incidenza degli aspetti psicologici nelle decisioni economiche).
Sono proprio queste attitudini, d’altronde, a costituire una parte essenziale del patrimonio culturale e morale della nostra Europa, oggi incerta e perfino smarrita di fronte alle sfide d’un quadro geopolitico dominato da giganti prepotenti, dagli Usa alla Russia e alla Cina, e dalle Big Tech che disprezzano la democrazia. Un’Europa che deve ritrovare orgoglio, potenza e consapevolezza dei propri punti di forza (la democrazia e il mercato, i valori dell’intraprendenza economica individuale e la diffusione del welfare, l’attitudine alle scoperte scientifiche e l’essenzialità del pensiero critico). Un’Europa protagonista del proprio destino, nonostante tutto. Un’Europa migliore di quella che abbiamo visto all’opera.
Ha ragione, in questo contesto, Giulio Tremonti, da critico delle distorsioni regolatorie e burocratiche della Ue (“un ventennio perduto”) e da politico di solida cultura liberale, quando insiste sulla necessità di rileggere attentamente uno dei documenti storici costitutivi dell’Europa di cui siamo parte, il “Manifesto di Ventotene” e da lì ripartire per parlare di moneta comune ed esercito comune, politiche di sviluppo, ruolo geopolitico del continente (Il Foglio, 18 febbraio).
Era stato scritto, quel “Manifesto per un’Europa libera e unita”, nel 1941, da tre giovani intellettuali, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, condannati dal regime fascista al confino nell’isola di Ventotene, proprio in uno dei momenti più bui della storia (le armate naziste occupavano gran parte del continente). Pubblicato nel 1944, ancora prima che finisse la guerra, e diffuso anche per l’intraprendenza di una donna di straordinarie qualità, Ursula Hirshmann, il Manifesto di Ventotene era diventato uno dei testi fondanti dell’unificazione europea, grazie all’intelligenza progettuale e alla generosa visionarietà politica di una classe dirigente (Adenauer, De Gasperi, Schuman, Monnet e Spaak, i “padri dell’Europa”) capace di fare sintesi tra interessi nazionali e valori europei. E ancora oggi molte di quelle ispirazioni hanno forza di attualità: mercato comune, moneta comune, fisco comune, esercito comune: “la moneta” e “la spada”, le relazioni economiche e la democrazia politica.
Per leggerne l’attualità, i Rapporti Letta e Draghi sul Mercato Unico e sugli investimenti europei da mille miliardi all’anno per dieci anni (con risorse a debito raccolte sui mercati da una Ue finalmente coesa e dunque autorevole), forniscono importanti riferimenti su cosa e come fare, tempestivamente, per rispondere alle pressioni Usa mai come adesso, in epoca Trump, così poco amichevoli e alle manovre degli altri grandi e potenti attori della scena internazionale. Un’Europa che, citando le parole di Draghi davanti al Parlamento Europeo, deve finalmente “agire come un unico Stato” (Corriere della Sera, 19 febbraio).
L’Italia, paese fondatore della Ue, ha un ruolo fondamentale. E sono d’aiuto, in questo processo di ripresa e riscatto, anche le culture di fondo che hanno ispirato il Quirinale, di presidente in presidente: il socialismo democratico di Sandro Pertini, il pensiero democristiano di Oscar Luigi Scalfaro (che aveva frequentato fin dall’Assemblea Costituente il leader Alcide De Gasperi e il giovane Aldo Moro), l’azionismo e la liberaldemocrazia di Carlo Azeglio Ciampi, il comunismo profondamente italiano e costituzionale di Giorgio Napolitano, lo spessore dei valori sociali cattolici e della passione istituzionale di Costantino Mortati (che fu maestro di Diritto Costituzionale sino alle generazioni che sono entrate all’università alla fine degli anni Sessanta) così cari a Sergio Mattarella. Diversità nell’unità della cultura istituzionale della Repubblica. Valori democratici profondi. Forza delle radici storiche delle nostre essenziali democrazie e cardini di un migliore futuro. Di cui siamo profondamente debitori ai nostri figli e ai nostri nipoti. Europei.
(Foto Getty Images)