Viaggio in Italia: motore di conoscenza e sviluppo grazie ai valori del turismo culturale e industriale
Il viaggio in Italia è un rito, di formazione e conoscenza, rilettura della storia e immaginazione del futuro. La riprova sta nelle pagine del Grand Tour di Goethe, Houël, Tocqueville e Dumas e in quelle più recenti di Alberto Arbasino nelle tante edizioni di “Fratelli d’Italia”. Ma anche nelle esemplari inchieste giornalistiche negli anni Cinquanta e Sessanta firmate da Mario Soldati per la Rai, Guido Piovene per il “Corriere della Sera” e Giorgio Bocca per “Il Giorno”. O ancora in quell’originale avventura corale di venti fotografi coordinati da Luigi Ghirri impegnati a raccontare, nel 1984, giusto quarant’anni fa, il paesaggio di un paese in cambiamento (“Noi, in viaggio con Ghirri nell’Italia normale, per riconoscere come abitabili i luoghi abitati, ma disprezzati e ignorati”, ricorda uno dei protagonisti, Vittore Fossati, su la Repubblica, 10 novembre).
Il ritratto che ne emerge, con tutte le naturali differenze di cultura e di stile degli autori, è quello di un paese carico di contrasti e aspetti controversi, con un paesaggio connotato da un’emozionante bellezza ma anche segnato da laceranti devastazioni. E con una particolare capacità di tenere insieme cultura e intraprendenza, egoismi localistici e solidarietà, benessere diffuso e intollerabili povertà, economiche e di spirito.
Un capitale sociale robusto comunque. Il ritratto mobile di una straordinaria umanità.
Il luogo comune dell’Italia come “museo a cielo aperto” non rende giustizia di questa speciale condizione geografica, culturale, economica. E ha ragione Andrea Carandini, grande archeologo e storico dell’arte, quando critica quella definizione (Corriere della Sera, 7 novembre) e spiega che il paese è piuttosto “un enorme contesto a cielo aperto, tra i più belli del mondo”. Contesto di interventi diversi, parti di una storia da raccontare. Nei suoi tanti aspetti. “Le nostre città – insiste Carandini, rivolgendosi al ministro della Cultura Giuli – sono contesti vivi. Ciascuna merita un museo che la spieghi. Partiamo da Roma e Napoli”.
Ecco il punto. Si ragiona, da tempo, sul valore economico della cultura, sui nessi tra patrimonio culturale e attrattività turistica, sulle caratteristiche speciali che legano i territori alle imprese. E vale la pena, proprio adesso, dopo le polemiche estive sull’overtourism e gli stravolgimenti delle principali città d’arte e le attese inquiete, a Roma, dei 35 milioni di pellegrini del Giubileo, provare a ragionare sulle caratteristiche del paesaggio italiano, così fortemente antropizzato ma anche così ricco e vario e sui valori della cultura d’impresa come cultura sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale e come motore di sviluppo equilibrato.
Una cultura che vale una quota considerevole del nostro Pil ma anche e soprattutto incide positivamente sui valori del Bes, l’indicatore del “benessere equo e sostenibile” messo a punto dall’Istat per quantificare il valore della qualità della vita (su cui pesano conoscenza, istruzione, salute, relazioni sociali positive).
Il sistema produttivo culturale e creativo, calcola il Rapporto “Io sono cultura” messo a. Punto da Symbola, Unioncamere, Centro Studi Tagliacarne e Deloitte, conta nel 2023 un valore aggiunto di 104,3 miliardi di euro (in crescita del 5,5% sull’anno precedente) e dà lavoro a 1,5 milioni di addetti. Con un moltiplicatore di 1,8 in settori economici diversi, come i trasporti e il turismo, si generano altri 192,6 miliardi. Il totale, tra ricchezza diretta della cultura e indiretta, arriva a 296,9 miliardi. Il 15,8% del Pil italiano.
Secondo Banca Ifis, nel suo studio recente sulla Economia della Bellezza, arte e cultura sono asset strategici per la competitività. Le imprese del settore sono 732 e producono 192 miliardi di ricavi annui.
Comunque si calcolino i valori dell’industria culturale e artistica (secondo Symbola ne fa parte anche l’industria dei giochi), l’incidenza sulla ricchezza nazionale è rilevante. E il rapporto con l’attrattività del sistema Paese nel suo complesso è di tutto rispetto.
Ma torniamo a guardare in particolare al turismo. “Negli ultimi dieci anni la motivazione di vacanza legata alla fruizione del patrimonio culturale è passata del settimo al primo posto, facendo presa soprattutto sulla domanda turistica internazionale, che è il 55% e su quella più altospendente”, sostiene Loretta Credaro, presidente di Isnart, l’Istituto nazionale ricerche turistiche (Il Messaggero, 7 novembre). Un turismo attento ai territori, alle esperienze anche culturali legate sì all’arte ma pure alla cucina, al vino, al design, alla moda e agli altri prodotti del made in Italy. E sensibile agli aspetti umani e sociali della qualità dell’ospitalità.
Si muove in questo contesto, appunto, pure l’idea del turismo industriale come parte del capitolo del turismo culturale, facendo leva sui musei d’impresa e gli archivi storici aziendali, riuniti in Museimpresa (150 aderenti, tra imprese grandi, medie e piccole e sostenitori istituzionali, come per esempio l’Archivio dei Cavalieri del Lavoro). Storia d’impresa. Non solo e non tanto come orgoglio per un passato d’ingegno, impegno, lavoro, creatività. Ma soprattutto come asset di competitività, come leva di identità per affermarsi su mercati internazionali molto selettivi e come stimolo d’innovazione.
In tempi di cambiamenti e grandi transizioni, infatti, lavorare sulla memoria del nostro passato e sulla valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale e industriale italiano è un modo per testimoniare di essere parte di una cittadinanza attiva che consente di pensare alla qualità dello sviluppo e alla sua inclusività. Il saper fare italiano è un punto distintivo, un dato etico del lavoro sul quale vale la pena concentrare la nostra attenzione.
Nei nostri musei e archivi d’impresa c’è, appunto, la storia di donne e di uomini che hanno saputo, di fronte alle sfide del tempo che cambia e anche in condizioni di grande difficoltà, dare una risposta produttiva e commerciale ancora attuale, come dimostrano i dati di un export ancora forte, robusto. E queste testimonianze possono essere elemento di attrattività e stimolo anche per le ragazze e i ragazzi che possono capire come le nostre imprese siano gli ambienti ideali per realizzare i loro progetti, fare valere la loro intraprendenza e la loro creatività.
Se il turismo stimola conoscenza, il turismo industriale nei territori del made in Italy può avere un ruolo importante anche per imprese perennemente in cerca di persone di qualità.
I dati di un’indagine condotta da Nomisma per Museimpresa documenta che quasi 6 milioni di italiani (5,8 milioni, per l’esattezza), negli ultimi quattro anni, hanno visitato un museo d’impresa, un archivio storico aziendale o un luogo d’archeologia industriale. Sono stati mossi dal desiderio di capire meglio cosa c’è dietro gli oggetti icone del miglior made in Italy, di conoscere la storia delle imprese e l’arte e il design collegati, di sapere quali siano i rapporti tra industrie e territori. Sono giovani (la maggior parte hanno fra i 30 e i 44 anni), con un alto livello di istruzione, vengono soprattutto dalle regioni del Nord. E giudicano l’esperienza fatta “educativa e formativa”. E fra i 34milioni di italiani che, appunto negli ultimi quattro anni, hanno fatto un viaggio o almeno una gita fuori porta, oltre al 17% che ha già visto un museo d’impresa, c’è un buon 21% che volentieri ci andrebbe. Una occasione interessante per sviluppare il “turismo industriale”, dunque. E una prospettiva quanto mai stimolante per chi ha a cuore la conoscenza della storia economica, il rilancio della cultura d’impresa e una più diffusa e responsabile comprensione del ruolo delle nostre aziende manifatturiere e dei servizi per migliorare lo sviluppo economico del nostro paese.
I musei più frequentati? Quello della Ferrari a Maranello, seguito dal Villaggio Crespi d’Adda in provincia di Bergamo, dal Museo storico Alfa Romeo ad Arese, dal Museo Lavazza a Torino e dall’Archivio Storico Olivetti a Ivrea. C’è spazio per crescere e valorizzare altre realtà un po’ in tutta Italia.
Il paesaggio industriale e il paesaggio culturale sono, insomma, parti dello stesso paesaggio. E con attenzione e rispetto ambientale e sociale possono fare da sempre più solido motore di sviluppo. Di ricchezza diffusa. Di buona economia.
(foto Getty Images)
Il viaggio in Italia è un rito, di formazione e conoscenza, rilettura della storia e immaginazione del futuro. La riprova sta nelle pagine del Grand Tour di Goethe, Houël, Tocqueville e Dumas e in quelle più recenti di Alberto Arbasino nelle tante edizioni di “Fratelli d’Italia”. Ma anche nelle esemplari inchieste giornalistiche negli anni Cinquanta e Sessanta firmate da Mario Soldati per la Rai, Guido Piovene per il “Corriere della Sera” e Giorgio Bocca per “Il Giorno”. O ancora in quell’originale avventura corale di venti fotografi coordinati da Luigi Ghirri impegnati a raccontare, nel 1984, giusto quarant’anni fa, il paesaggio di un paese in cambiamento (“Noi, in viaggio con Ghirri nell’Italia normale, per riconoscere come abitabili i luoghi abitati, ma disprezzati e ignorati”, ricorda uno dei protagonisti, Vittore Fossati, su la Repubblica, 10 novembre).
Il ritratto che ne emerge, con tutte le naturali differenze di cultura e di stile degli autori, è quello di un paese carico di contrasti e aspetti controversi, con un paesaggio connotato da un’emozionante bellezza ma anche segnato da laceranti devastazioni. E con una particolare capacità di tenere insieme cultura e intraprendenza, egoismi localistici e solidarietà, benessere diffuso e intollerabili povertà, economiche e di spirito.
Un capitale sociale robusto comunque. Il ritratto mobile di una straordinaria umanità.
Il luogo comune dell’Italia come “museo a cielo aperto” non rende giustizia di questa speciale condizione geografica, culturale, economica. E ha ragione Andrea Carandini, grande archeologo e storico dell’arte, quando critica quella definizione (Corriere della Sera, 7 novembre) e spiega che il paese è piuttosto “un enorme contesto a cielo aperto, tra i più belli del mondo”. Contesto di interventi diversi, parti di una storia da raccontare. Nei suoi tanti aspetti. “Le nostre città – insiste Carandini, rivolgendosi al ministro della Cultura Giuli – sono contesti vivi. Ciascuna merita un museo che la spieghi. Partiamo da Roma e Napoli”.
Ecco il punto. Si ragiona, da tempo, sul valore economico della cultura, sui nessi tra patrimonio culturale e attrattività turistica, sulle caratteristiche speciali che legano i territori alle imprese. E vale la pena, proprio adesso, dopo le polemiche estive sull’overtourism e gli stravolgimenti delle principali città d’arte e le attese inquiete, a Roma, dei 35 milioni di pellegrini del Giubileo, provare a ragionare sulle caratteristiche del paesaggio italiano, così fortemente antropizzato ma anche così ricco e vario e sui valori della cultura d’impresa come cultura sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale e come motore di sviluppo equilibrato.
Una cultura che vale una quota considerevole del nostro Pil ma anche e soprattutto incide positivamente sui valori del Bes, l’indicatore del “benessere equo e sostenibile” messo a punto dall’Istat per quantificare il valore della qualità della vita (su cui pesano conoscenza, istruzione, salute, relazioni sociali positive).
Il sistema produttivo culturale e creativo, calcola il Rapporto “Io sono cultura” messo a. Punto da Symbola, Unioncamere, Centro Studi Tagliacarne e Deloitte, conta nel 2023 un valore aggiunto di 104,3 miliardi di euro (in crescita del 5,5% sull’anno precedente) e dà lavoro a 1,5 milioni di addetti. Con un moltiplicatore di 1,8 in settori economici diversi, come i trasporti e il turismo, si generano altri 192,6 miliardi. Il totale, tra ricchezza diretta della cultura e indiretta, arriva a 296,9 miliardi. Il 15,8% del Pil italiano.
Secondo Banca Ifis, nel suo studio recente sulla Economia della Bellezza, arte e cultura sono asset strategici per la competitività. Le imprese del settore sono 732 e producono 192 miliardi di ricavi annui.
Comunque si calcolino i valori dell’industria culturale e artistica (secondo Symbola ne fa parte anche l’industria dei giochi), l’incidenza sulla ricchezza nazionale è rilevante. E il rapporto con l’attrattività del sistema Paese nel suo complesso è di tutto rispetto.
Ma torniamo a guardare in particolare al turismo. “Negli ultimi dieci anni la motivazione di vacanza legata alla fruizione del patrimonio culturale è passata del settimo al primo posto, facendo presa soprattutto sulla domanda turistica internazionale, che è il 55% e su quella più altospendente”, sostiene Loretta Credaro, presidente di Isnart, l’Istituto nazionale ricerche turistiche (Il Messaggero, 7 novembre). Un turismo attento ai territori, alle esperienze anche culturali legate sì all’arte ma pure alla cucina, al vino, al design, alla moda e agli altri prodotti del made in Italy. E sensibile agli aspetti umani e sociali della qualità dell’ospitalità.
Si muove in questo contesto, appunto, pure l’idea del turismo industriale come parte del capitolo del turismo culturale, facendo leva sui musei d’impresa e gli archivi storici aziendali, riuniti in Museimpresa (150 aderenti, tra imprese grandi, medie e piccole e sostenitori istituzionali, come per esempio l’Archivio dei Cavalieri del Lavoro). Storia d’impresa. Non solo e non tanto come orgoglio per un passato d’ingegno, impegno, lavoro, creatività. Ma soprattutto come asset di competitività, come leva di identità per affermarsi su mercati internazionali molto selettivi e come stimolo d’innovazione.
In tempi di cambiamenti e grandi transizioni, infatti, lavorare sulla memoria del nostro passato e sulla valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale e industriale italiano è un modo per testimoniare di essere parte di una cittadinanza attiva che consente di pensare alla qualità dello sviluppo e alla sua inclusività. Il saper fare italiano è un punto distintivo, un dato etico del lavoro sul quale vale la pena concentrare la nostra attenzione.
Nei nostri musei e archivi d’impresa c’è, appunto, la storia di donne e di uomini che hanno saputo, di fronte alle sfide del tempo che cambia e anche in condizioni di grande difficoltà, dare una risposta produttiva e commerciale ancora attuale, come dimostrano i dati di un export ancora forte, robusto. E queste testimonianze possono essere elemento di attrattività e stimolo anche per le ragazze e i ragazzi che possono capire come le nostre imprese siano gli ambienti ideali per realizzare i loro progetti, fare valere la loro intraprendenza e la loro creatività.
Se il turismo stimola conoscenza, il turismo industriale nei territori del made in Italy può avere un ruolo importante anche per imprese perennemente in cerca di persone di qualità.
I dati di un’indagine condotta da Nomisma per Museimpresa documenta che quasi 6 milioni di italiani (5,8 milioni, per l’esattezza), negli ultimi quattro anni, hanno visitato un museo d’impresa, un archivio storico aziendale o un luogo d’archeologia industriale. Sono stati mossi dal desiderio di capire meglio cosa c’è dietro gli oggetti icone del miglior made in Italy, di conoscere la storia delle imprese e l’arte e il design collegati, di sapere quali siano i rapporti tra industrie e territori. Sono giovani (la maggior parte hanno fra i 30 e i 44 anni), con un alto livello di istruzione, vengono soprattutto dalle regioni del Nord. E giudicano l’esperienza fatta “educativa e formativa”. E fra i 34milioni di italiani che, appunto negli ultimi quattro anni, hanno fatto un viaggio o almeno una gita fuori porta, oltre al 17% che ha già visto un museo d’impresa, c’è un buon 21% che volentieri ci andrebbe. Una occasione interessante per sviluppare il “turismo industriale”, dunque. E una prospettiva quanto mai stimolante per chi ha a cuore la conoscenza della storia economica, il rilancio della cultura d’impresa e una più diffusa e responsabile comprensione del ruolo delle nostre aziende manifatturiere e dei servizi per migliorare lo sviluppo economico del nostro paese.
I musei più frequentati? Quello della Ferrari a Maranello, seguito dal Villaggio Crespi d’Adda in provincia di Bergamo, dal Museo storico Alfa Romeo ad Arese, dal Museo Lavazza a Torino e dall’Archivio Storico Olivetti a Ivrea. C’è spazio per crescere e valorizzare altre realtà un po’ in tutta Italia.
Il paesaggio industriale e il paesaggio culturale sono, insomma, parti dello stesso paesaggio. E con attenzione e rispetto ambientale e sociale possono fare da sempre più solido motore di sviluppo. Di ricchezza diffusa. Di buona economia.
(foto Getty Images)