Ecco perché fare cultura significa un buon libro e un’acciaieria green
“La cultura non è il superfluo, ma un elemento distintivo dell’identità italiana”. Sono parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di insediamento al Quirinale. E sono state ricordate e ripetute la settimana scorsa, a Torino, durante gli Stati Generali della Cultura organizzati da “Il Sole24Ore” per ragionare con personalità delle istituzioni, delle imprese, delle strutture culturali e dell’informazione, su come valorizzare il ricco patrimonio di conoscenze umanistiche e scientifiche del nostro Paese e farne leva di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.
La nostra, infatti, è una identità complessa, aperta, dialettica, frutto originale di sintesi tra componenti differenti e spesso contrastanti. Mediterranea e mitteleuropea. Fortemente segnata dalle radici greche e latine e comunque sensibile alle influenze di altri mondi. Conflittuale e inclusiva. Sensibile alla storia ma anche incline all’innovazione. L’avvenire della memoria ne è un’attitudine specifica, nella speranza che la memoria abbia un futuro (secondo l’indimenticabile lezione di Leonardo Sciascia). La coniugazione tra senso della bellezza, creatività, operosità, intraprendenza e piacere per la qualità della vita è la sua connotazione fondamentale.
Sono temi forti, italiani ed europei, appunto. E sono per fortuna ricorrenti nel discorso pubblico (anche se purtroppo assai meno di quanto sarebbe necessario, nel contesto delle scelte politiche e di governo). Se ne è discusso, appunto, agli Stati Generali di Torino, ma anche a Treia, bellissimo borgo marchigiano, per il Seminario annuale di Symbola concentrato sui temi della sostenibilità e in parecchi dei festival dedicati ai libri e alla cultura che, come ogni estate, affollano le agende di molte città e località turistiche un po’ in tutta Italia.
Bellezza e cultura. Letteratura e scienza. Creatività artistica e conoscenze scientifiche. Consapevolezza delle radici (“Essere stati è condizione per essere”, ci ha insegnato Fernand Braudel, uno dei massimi storici del Novecento) e sguardo lungimirante verso il cambiamento. “Una storia al futuro”, appunto, come indica il titolo essenziale del libro curato dalla Fondazione Pirelli, pubblicato da Marsilio e dedicato a raccontare i 150 anni di vita di una grande multinazionale italiana e le sue prospettive per il tempo che verrà (con saggi e testimonianze, tra i tanti, di Ian McEwan, David Weinberger, Renzo Piano, Salvatore Accardo, Ernesto Ferrero, Monica Maggioni, Bruno Arpaia, Giuseppe Lupo, Maria Cristina Messa, Ferruccio Resta, Guido Saracco, etc.).
Ecco il punto: il ruolo dell’impresa come soggetto culturale, come attore creativo di cultura. L’impresa mecenate, capace cioè di farsi carico di investimenti per tutelare e valorizzare beni culturali, pubblici e privati. L’impresa culturale, con competenze imprenditoriali e manageriali per la gestione di attività culturali (musei, cinema, teatro, musica, arti figurative, editoria, etc.). E l’impresa in generale, se cultura non è solo un racconto, ma una formula chimica, la creazione di nuovi materiali, un processo produttivo, un nuovo prodotto o un servizio, un museo e un archivio storici d’impresa come asset di competitività, un contratto di lavoro, una scelta originale di governance, la scoperta e l’applicazione di nuovi linguaggi al marketing, alla pubblicità, alla comunicazione.
La cultura non come cosa, ma come un modo di fare le cose (lo testimoniava Angelo Guglielmi, intellettuale sofisticato e popolare, profondo innovatore della Tv).
Cultura, per fare solo un esempio, è anche la svolta sostenibile di un grande gruppo siderurgico come Arvedi, la prima acciaieria green al mondo, certificata a livello internazionale come net zero emission: “Un emblema del successo, anche economico, che possono ottenere le aziende italiane che hanno un legame stretto con il proprio territorio e che hanno capito quanto sia strategico per il successo economico di un’impresa puntare sul paradigma della sostenibilità”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola.
Sostenibilità come scelta di produttività e competitività su mercati globali sempre più selettivi, come insieme di valori per produrre valore economico e responsabilità sociale. Buona cultura d’impresa, appunto.
E’ indispensabile, infatti, una solida cultura politecnica, perché l’Italia possa rifondare e rafforzare le basi del suo sviluppo, proprio in tempi di crisi radicali, di grandi mutazioni geopolitiche, di fratture industriali e sociali e di necessari cambi di paradigma economici e sociali, per fronteggiare la stagione dell’incertezza e, andando oltre le fragilità, costruire le condizioni per un’economia più giusta e solida, circolare e civile. Una cultura che ibrida i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. Un nuovo “umanesimo industriale” che, nelle evoluzioni verso l’uso esteso dell’Intelligenza Artificiale, si qualifica come “umanesimo digitale”.
L’impresa ne è sempre al centro: data driven e cioè guidata dall’uso intelligente dei dati per la ricerca, la produzione, i servizi, la logistica, i rapporti con i mercati e i consumi, ha bisogno di algoritmi che siano scritti da ingegneri, neuroscienziati, statistici, filosofi, giuristi e, perché no? letterati che sappiano tenere insieme l’efficienza dei risultati e la comprensione del senso e dei valori secondo cui muoversi. La matematica e l’etica. La produttività e l’insieme degli effetti su cui l’impresa fonda la sua originale legittimazione sociale. La sperimentazione. E il racconto. La sostenibilità, appunto.
Cos’è tutto questo se non cultura?
La sfida che abbiamo dunque di fronte, come donne e uomini di cultura e d’impresa, ma anche come cittadini/spettatori/amanti dell’arte come espressione della bellezza non è solo di imparare a convivere con l’innovazione, ma soprattutto di essere parte attiva nella costruzione di nuovi meccanismi di partecipazione e fruizione delle attività culturali, di stare dentro, con spirito sia critico che costruttivo, all’individuazione di originali forme di cultura popolare: nuovi linguaggi, nuove modalità di costruzione dei processi culturali, nuovi rapporti tra memoria e tecnologie d’avanguardia. Una nuova e migliore civiltà.
“La cultura non è il superfluo, ma un elemento distintivo dell’identità italiana”. Sono parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di insediamento al Quirinale. E sono state ricordate e ripetute la settimana scorsa, a Torino, durante gli Stati Generali della Cultura organizzati da “Il Sole24Ore” per ragionare con personalità delle istituzioni, delle imprese, delle strutture culturali e dell’informazione, su come valorizzare il ricco patrimonio di conoscenze umanistiche e scientifiche del nostro Paese e farne leva di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.
La nostra, infatti, è una identità complessa, aperta, dialettica, frutto originale di sintesi tra componenti differenti e spesso contrastanti. Mediterranea e mitteleuropea. Fortemente segnata dalle radici greche e latine e comunque sensibile alle influenze di altri mondi. Conflittuale e inclusiva. Sensibile alla storia ma anche incline all’innovazione. L’avvenire della memoria ne è un’attitudine specifica, nella speranza che la memoria abbia un futuro (secondo l’indimenticabile lezione di Leonardo Sciascia). La coniugazione tra senso della bellezza, creatività, operosità, intraprendenza e piacere per la qualità della vita è la sua connotazione fondamentale.
Sono temi forti, italiani ed europei, appunto. E sono per fortuna ricorrenti nel discorso pubblico (anche se purtroppo assai meno di quanto sarebbe necessario, nel contesto delle scelte politiche e di governo). Se ne è discusso, appunto, agli Stati Generali di Torino, ma anche a Treia, bellissimo borgo marchigiano, per il Seminario annuale di Symbola concentrato sui temi della sostenibilità e in parecchi dei festival dedicati ai libri e alla cultura che, come ogni estate, affollano le agende di molte città e località turistiche un po’ in tutta Italia.
Bellezza e cultura. Letteratura e scienza. Creatività artistica e conoscenze scientifiche. Consapevolezza delle radici (“Essere stati è condizione per essere”, ci ha insegnato Fernand Braudel, uno dei massimi storici del Novecento) e sguardo lungimirante verso il cambiamento. “Una storia al futuro”, appunto, come indica il titolo essenziale del libro curato dalla Fondazione Pirelli, pubblicato da Marsilio e dedicato a raccontare i 150 anni di vita di una grande multinazionale italiana e le sue prospettive per il tempo che verrà (con saggi e testimonianze, tra i tanti, di Ian McEwan, David Weinberger, Renzo Piano, Salvatore Accardo, Ernesto Ferrero, Monica Maggioni, Bruno Arpaia, Giuseppe Lupo, Maria Cristina Messa, Ferruccio Resta, Guido Saracco, etc.).
Ecco il punto: il ruolo dell’impresa come soggetto culturale, come attore creativo di cultura. L’impresa mecenate, capace cioè di farsi carico di investimenti per tutelare e valorizzare beni culturali, pubblici e privati. L’impresa culturale, con competenze imprenditoriali e manageriali per la gestione di attività culturali (musei, cinema, teatro, musica, arti figurative, editoria, etc.). E l’impresa in generale, se cultura non è solo un racconto, ma una formula chimica, la creazione di nuovi materiali, un processo produttivo, un nuovo prodotto o un servizio, un museo e un archivio storici d’impresa come asset di competitività, un contratto di lavoro, una scelta originale di governance, la scoperta e l’applicazione di nuovi linguaggi al marketing, alla pubblicità, alla comunicazione.
La cultura non come cosa, ma come un modo di fare le cose (lo testimoniava Angelo Guglielmi, intellettuale sofisticato e popolare, profondo innovatore della Tv).
Cultura, per fare solo un esempio, è anche la svolta sostenibile di un grande gruppo siderurgico come Arvedi, la prima acciaieria green al mondo, certificata a livello internazionale come net zero emission: “Un emblema del successo, anche economico, che possono ottenere le aziende italiane che hanno un legame stretto con il proprio territorio e che hanno capito quanto sia strategico per il successo economico di un’impresa puntare sul paradigma della sostenibilità”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola.
Sostenibilità come scelta di produttività e competitività su mercati globali sempre più selettivi, come insieme di valori per produrre valore economico e responsabilità sociale. Buona cultura d’impresa, appunto.
E’ indispensabile, infatti, una solida cultura politecnica, perché l’Italia possa rifondare e rafforzare le basi del suo sviluppo, proprio in tempi di crisi radicali, di grandi mutazioni geopolitiche, di fratture industriali e sociali e di necessari cambi di paradigma economici e sociali, per fronteggiare la stagione dell’incertezza e, andando oltre le fragilità, costruire le condizioni per un’economia più giusta e solida, circolare e civile. Una cultura che ibrida i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. Un nuovo “umanesimo industriale” che, nelle evoluzioni verso l’uso esteso dell’Intelligenza Artificiale, si qualifica come “umanesimo digitale”.
L’impresa ne è sempre al centro: data driven e cioè guidata dall’uso intelligente dei dati per la ricerca, la produzione, i servizi, la logistica, i rapporti con i mercati e i consumi, ha bisogno di algoritmi che siano scritti da ingegneri, neuroscienziati, statistici, filosofi, giuristi e, perché no? letterati che sappiano tenere insieme l’efficienza dei risultati e la comprensione del senso e dei valori secondo cui muoversi. La matematica e l’etica. La produttività e l’insieme degli effetti su cui l’impresa fonda la sua originale legittimazione sociale. La sperimentazione. E il racconto. La sostenibilità, appunto.
Cos’è tutto questo se non cultura?
La sfida che abbiamo dunque di fronte, come donne e uomini di cultura e d’impresa, ma anche come cittadini/spettatori/amanti dell’arte come espressione della bellezza non è solo di imparare a convivere con l’innovazione, ma soprattutto di essere parte attiva nella costruzione di nuovi meccanismi di partecipazione e fruizione delle attività culturali, di stare dentro, con spirito sia critico che costruttivo, all’individuazione di originali forme di cultura popolare: nuovi linguaggi, nuove modalità di costruzione dei processi culturali, nuovi rapporti tra memoria e tecnologie d’avanguardia. Una nuova e migliore civiltà.