Il posto delle donne ai vertici delle imprese e la spinta positiva delle rettrici nelle università
“Le donne stanno al loro posto”, proclama lo slogan d’una vistosa pagina di pubblicità, apparsa la scorsa settimana su alcuni quotidiani di grande diffusione. Un asterisco rinvia alla spiegazione di quale sia il posto di cui si parla: “Nei consigli di amministrazione”.
La pagina, curata da ValoreD (un’associazione che da tempo promuove un’impegnativa battaglia culturale ed economicacontro i divari di genere), aggiunge che “solo nel network di ‘InThe Boardroom di ValoreD’ sono più di 500 le manager e le professioniste di talento che possono sedere al posto che meritano. Oggi si è scelto di promuovere l’equità e la parità di genere, accelerando lo sviluppo economico sostenibilee una cultura di valorizzazione delle diversità”.
L’iniziativa di ValoreD va avanti da parecchi anni. Ha avuto una particolare visibilità ancora di recente, nei giorni in cui una delle maggiori imprese pubbliche, la Cassa Depositi e Prestiti, è stata bloccata nelle procedure di rinnovo dei vertici perché negli ambienti di governo non si trovava un accordo che tenesse nel giusto conto i nomi di donne da eleggere nel consiglio d’amministrazione (dopo momenti di tensione, l’accordo è finalmente arrivato). Ma, cronache contemporanee a parte, l’impegno continua perché “sulla parità di genere si sono fatti passi avanti ma la strada è ancora lunga” e “in Piazza Affari (nelle società quotate in Borsa, cioè) è donna solo un manager su 5”, anche perché “il ribilanciamento dei generi dev’essere accompagnato da un ricambio generazionale, che soprattutto nelle aziende europee è molto più lento che negli Usa e in Asia” (la Repubblica – Affari&Finanza, 22 luglio).
L’Italia, è vero, per il numero di donne nei board, è “tra i paesi più virtuosi in Europa” (IlSole24Ore, 21 luglio), grazie anche alla legge Golfo-Mosca del 2011 che impone una quota dei due quinti nei consigli d’amministrazione delle società quotate per “il genere meno rappresentato”, le donne, appunto: oggi sono il 43,1%.
Ma va fatto ancora di più per le cariche operative di vertice: solo il 4% degli amministratori delegati delle società quotate in Piazza Affari è donna (dati Deloitte per la ricerca “Women in boardroom 2024). Troppo poco.
Un’ulteriore spinta per superare il gender gap può venire dalle università. Grazie anche al crescente numero di donne alla guida degli atenei italiani. Adesso le rettrici sono il 19%. E donna è la presidentessa della Crui (la Conferenza dei rettori): Giovanna Iannantuoni, economista, dal 2019 rettrice dell’Università Bicocca di Milano.
Ecco un punto di grande rilevanza: la sollecitazione che viene proprio da Milano e da alcune altre università lombarde. Una sollecitazione crescente, proprio nel corso degli ultimi due anni. Sono donne, oltre la Iannantuoni, la rettrice del Politecnico di Milano, Donatella Sciuto, ingegnere elettronica, la rettrice dell’Università Statale Marina Brambilla, professoressa ordinaria di Lingua e linguistica tedesca, la rettrice della Cattolica Elena Beccalli, ordinaria di Economia degli intermediari finanziari e, fresche di nomina rettorale, Maria Pierro, giurista, all’Università dell’Insubria (Varese e Como) e Anna Gervasoni, economista, direttrice dell’Aifi (l’Associazione nazionale degli intermediari finanziari) alla Liuc, la Libera Università “Cattaneo” di Castellanza (nata nel 1991 su iniziativa dell’Unione Industriali di Varese).
La storia racconta un nesso molto stretto tra la vocazione industriale e, più in generale, d’impresa manifatturiera dei territori lombardi, a partire da Milano, l’intraprendenza del mondo dei servizi, a cominciare da quelli bancari e finanziari legati alla “economia reale” e i processi culturali connessi a una crescente diffusione della cosiddetta “economia della conoscenza”. Città produttive. E città colte. Città ad alto reddito. E città attrattive, per talenti provenienti da tale altre realtà geografiche italiane e, nel corso del tempo, anche internazionali. Città forti di una straordinaria competenza del “fare, e fare bene”. E dunque strutture urbane in grado di tenere insieme tutte le componenti di una vera e propria “cultura politecnica” che si esprime nelle sintesi originali tra conoscenze scientifiche/tecnologiche e saperi umanistici, tra spinte all’innovazione e consapevolezza dei valori della “bellezza” (la diffusione del design ne è testimonianza esemplare).
Milano metropoli è paradigma di tutto ciò. Forte com’è di una cultura trasformativa che da tempo va definita come “umanesimo industriale” che diventa “umanesimo digitale” e nei tentativi di ricomposizione delle antinomie novecentesche tra Kultur e Zivilization, la “cultura alta” da una parte e le tecnologie e le competenze della vita quotidiana dall’altra. E’ una connotazione forte, che fa da leva per un vero e proprio vantaggio competitivo sui mercati globali, sempre più esigenti e selettivi e quindi particolarmente attenti alle identità distintive. Ed è una caratteristica che può accompagnare le nostre imprese nel difficile percorso della cosiddetta twin transition, sia ambientale che digitale, con tutte le connessioni indispensabili a rendere accettabili, socialmente e politicamente, i percorsi della sostenibilità, ambientale e sociale, appunto.
Le università hanno, proprio in questa dimensione, un ruolo fondamentale. E la guida in mani femminili aggiunge una caratteristica in più, nel saper coniugare dimensioni diverse dell’intelligenza e della passione, nella interpretazione e gestione dei conflitti tra differenti saperi e attitudini, nel valorizzare le diversità come vantaggi competitivi e motori sociali positivi. Nel costruire, insomma, una nuova e migliore dimensione del “capitale sociale” più sensibile non solo alla produzione di valore economico, ma soprattutto al rispetto e al rilancio dei valori umani. Nel passaggio, in altri termini, dal primato del Pil (il Prodotto interno lordo, la costruzione di ricchezza) a quello del Bes (il benessere equo e sostenibile), l’indice elaborato dall’Istat secondo i valori legati al benessere (salute, istruzione, qualità della vita, sviluppo, dinamiche sociali positive) secondo l’Onu, ma ancora poco considerato nella misurazione dei fenomeni economici e dunque nella costruzione dei paradigmi sociali dominanti.
Sfide complesse, appunto. Che chiedono una particolare intelligenza del cuore, per essere affrontate, oltre che competenze tecniche di alto livello e conoscenze aperte, dinamiche, inclusive. Come ricorda bene Anna Gervasoni, la rettrice di più recente nomina, quando indica le tre grandi questioni che l’università dovrà affrontare: la denatalità, la diffusione dell’intelligenza artificiale e i cervelli in fuga (IlSole24Ore, 17 luglio). Questioni che incidono profondamente sulla struttura sociale e civile, sui processi di produzione e consumo, sui mercati del lavoro e sulle dinamiche della formazione. Sulle dinamiche del potere. E su quelle della conoscenza. C’è davvero molto da sapere. Da capire. Da fare.
(foto Getty Images)
“Le donne stanno al loro posto”, proclama lo slogan d’una vistosa pagina di pubblicità, apparsa la scorsa settimana su alcuni quotidiani di grande diffusione. Un asterisco rinvia alla spiegazione di quale sia il posto di cui si parla: “Nei consigli di amministrazione”.
La pagina, curata da ValoreD (un’associazione che da tempo promuove un’impegnativa battaglia culturale ed economicacontro i divari di genere), aggiunge che “solo nel network di ‘InThe Boardroom di ValoreD’ sono più di 500 le manager e le professioniste di talento che possono sedere al posto che meritano. Oggi si è scelto di promuovere l’equità e la parità di genere, accelerando lo sviluppo economico sostenibilee una cultura di valorizzazione delle diversità”.
L’iniziativa di ValoreD va avanti da parecchi anni. Ha avuto una particolare visibilità ancora di recente, nei giorni in cui una delle maggiori imprese pubbliche, la Cassa Depositi e Prestiti, è stata bloccata nelle procedure di rinnovo dei vertici perché negli ambienti di governo non si trovava un accordo che tenesse nel giusto conto i nomi di donne da eleggere nel consiglio d’amministrazione (dopo momenti di tensione, l’accordo è finalmente arrivato). Ma, cronache contemporanee a parte, l’impegno continua perché “sulla parità di genere si sono fatti passi avanti ma la strada è ancora lunga” e “in Piazza Affari (nelle società quotate in Borsa, cioè) è donna solo un manager su 5”, anche perché “il ribilanciamento dei generi dev’essere accompagnato da un ricambio generazionale, che soprattutto nelle aziende europee è molto più lento che negli Usa e in Asia” (la Repubblica – Affari&Finanza, 22 luglio).
L’Italia, è vero, per il numero di donne nei board, è “tra i paesi più virtuosi in Europa” (IlSole24Ore, 21 luglio), grazie anche alla legge Golfo-Mosca del 2011 che impone una quota dei due quinti nei consigli d’amministrazione delle società quotate per “il genere meno rappresentato”, le donne, appunto: oggi sono il 43,1%.
Ma va fatto ancora di più per le cariche operative di vertice: solo il 4% degli amministratori delegati delle società quotate in Piazza Affari è donna (dati Deloitte per la ricerca “Women in boardroom 2024). Troppo poco.
Un’ulteriore spinta per superare il gender gap può venire dalle università. Grazie anche al crescente numero di donne alla guida degli atenei italiani. Adesso le rettrici sono il 19%. E donna è la presidentessa della Crui (la Conferenza dei rettori): Giovanna Iannantuoni, economista, dal 2019 rettrice dell’Università Bicocca di Milano.
Ecco un punto di grande rilevanza: la sollecitazione che viene proprio da Milano e da alcune altre università lombarde. Una sollecitazione crescente, proprio nel corso degli ultimi due anni. Sono donne, oltre la Iannantuoni, la rettrice del Politecnico di Milano, Donatella Sciuto, ingegnere elettronica, la rettrice dell’Università Statale Marina Brambilla, professoressa ordinaria di Lingua e linguistica tedesca, la rettrice della Cattolica Elena Beccalli, ordinaria di Economia degli intermediari finanziari e, fresche di nomina rettorale, Maria Pierro, giurista, all’Università dell’Insubria (Varese e Como) e Anna Gervasoni, economista, direttrice dell’Aifi (l’Associazione nazionale degli intermediari finanziari) alla Liuc, la Libera Università “Cattaneo” di Castellanza (nata nel 1991 su iniziativa dell’Unione Industriali di Varese).
La storia racconta un nesso molto stretto tra la vocazione industriale e, più in generale, d’impresa manifatturiera dei territori lombardi, a partire da Milano, l’intraprendenza del mondo dei servizi, a cominciare da quelli bancari e finanziari legati alla “economia reale” e i processi culturali connessi a una crescente diffusione della cosiddetta “economia della conoscenza”. Città produttive. E città colte. Città ad alto reddito. E città attrattive, per talenti provenienti da tale altre realtà geografiche italiane e, nel corso del tempo, anche internazionali. Città forti di una straordinaria competenza del “fare, e fare bene”. E dunque strutture urbane in grado di tenere insieme tutte le componenti di una vera e propria “cultura politecnica” che si esprime nelle sintesi originali tra conoscenze scientifiche/tecnologiche e saperi umanistici, tra spinte all’innovazione e consapevolezza dei valori della “bellezza” (la diffusione del design ne è testimonianza esemplare).
Milano metropoli è paradigma di tutto ciò. Forte com’è di una cultura trasformativa che da tempo va definita come “umanesimo industriale” che diventa “umanesimo digitale” e nei tentativi di ricomposizione delle antinomie novecentesche tra Kultur e Zivilization, la “cultura alta” da una parte e le tecnologie e le competenze della vita quotidiana dall’altra. E’ una connotazione forte, che fa da leva per un vero e proprio vantaggio competitivo sui mercati globali, sempre più esigenti e selettivi e quindi particolarmente attenti alle identità distintive. Ed è una caratteristica che può accompagnare le nostre imprese nel difficile percorso della cosiddetta twin transition, sia ambientale che digitale, con tutte le connessioni indispensabili a rendere accettabili, socialmente e politicamente, i percorsi della sostenibilità, ambientale e sociale, appunto.
Le università hanno, proprio in questa dimensione, un ruolo fondamentale. E la guida in mani femminili aggiunge una caratteristica in più, nel saper coniugare dimensioni diverse dell’intelligenza e della passione, nella interpretazione e gestione dei conflitti tra differenti saperi e attitudini, nel valorizzare le diversità come vantaggi competitivi e motori sociali positivi. Nel costruire, insomma, una nuova e migliore dimensione del “capitale sociale” più sensibile non solo alla produzione di valore economico, ma soprattutto al rispetto e al rilancio dei valori umani. Nel passaggio, in altri termini, dal primato del Pil (il Prodotto interno lordo, la costruzione di ricchezza) a quello del Bes (il benessere equo e sostenibile), l’indice elaborato dall’Istat secondo i valori legati al benessere (salute, istruzione, qualità della vita, sviluppo, dinamiche sociali positive) secondo l’Onu, ma ancora poco considerato nella misurazione dei fenomeni economici e dunque nella costruzione dei paradigmi sociali dominanti.
Sfide complesse, appunto. Che chiedono una particolare intelligenza del cuore, per essere affrontate, oltre che competenze tecniche di alto livello e conoscenze aperte, dinamiche, inclusive. Come ricorda bene Anna Gervasoni, la rettrice di più recente nomina, quando indica le tre grandi questioni che l’università dovrà affrontare: la denatalità, la diffusione dell’intelligenza artificiale e i cervelli in fuga (IlSole24Ore, 17 luglio). Questioni che incidono profondamente sulla struttura sociale e civile, sui processi di produzione e consumo, sui mercati del lavoro e sulle dinamiche della formazione. Sulle dinamiche del potere. E su quelle della conoscenza. C’è davvero molto da sapere. Da capire. Da fare.
(foto Getty Images)