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“Imparare a fare le cose difficili”: rileggere Calvino e Rodari anche per saper reggere le sfide dell’Intelligenza Artificiale

In questi tempi così controversi e preoccupanti, vale la pena cercare un filo di saggezza nelle parole cariche di senso e sapienza. Rileggere, per esempio, Italo Calvino: “Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della faciloneria, del fare tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno”.

Sono parole tratte da una intervista rilasciata nel 1981 ad Alberto Sinigaglia per Rai 3 per la serie “Vent’anni al Duemila”, diventata l’anno successivo un volume dall’analogo titolo. Parole opportunamente riprese dal cardinale Gianfranco Ravasi nel suo Breviario sulla “Domenica” de Il Sole24Ore (29 settembre), sotto il titolo di “Faciloneria” e commentate così: “Parole incisive… anche e soprattutto oggi, a distanza di oltre quarant’anni, quando la tecnologia sembra aver reso tutte le cose agevoli, comode e apparentemente facili. Ed è così che si scivola nella faciloneria. Essa è subito accompagnata da una corte di sorelle come la superficialità, l’approssimazione, la banalità, la corrività”.

Insiste Ravasi: “Lo stesso linguaggio è spesso un flusso spontaneo di parole che ignora ogni controllo e, tanto meno, ogni cesello; le scelte operative fluiscono senza nessuna ponderatezza; il pensiero sfarfalla senza riflessione; appena si presenta un sentiero d’altura che esige sudore, pazienza e fatica, si ritorna a valle e alle sue strade senza asperità”.

In sintesi, “la stessa educazione in famiglia e nella scuola si adatta ad esigere il minimo; guai a proporre uno stile di vita sobrio e impegnato e uno studio serio e costante; la rinuncia è esorcizzata lasciando spazio a tutto ciò che è di moda”. E l’essere di moda, spesso, non è né sapienza né eleganza, di pensieri e di stile. Estetica ed etica, d’altronde, vantano una strettissima parentela.

Ecco il punto cardine: per fare fronte alla superficialità di un mondo di giudizi frettolosi ed esclusivamente emotivi, all’ignoranza diffusa, alla tendenza così cara ai social media di schiacciare la complessità delle azioni e delle relazioni umane nella banalità dei like e degli emoticon, è indispensabile tornare all’uso pertinente delle parole, alla ricchezza delle argomentazioni affidate a un discorso ben costruito, alle pagine che spingono a ragionare, fuor di retorica e di propaganda. Alla solidità della cultura, dunque. Alle conoscenze critiche della scienza.

Serve insegnare tutto ciò innanzitutto ai bambini, anche con l’esempio della lettura a casa e a scuola, con l’abitudine ai libri come oggetti essenziali per il piacere del gioco e la felicità dell’imparare cose nuove.

Difficile? Meno di quanto si pensi (per averne riprova basta guardare gli spazi ben costruiti e arredati e affollati da bambini allegri nelle librerie più intelligenti e consapevoli). E comunque indispensabile, per chi ha a cuore il miglior futuro nei nostri figli e dei nostri nipoti.

Difficile, in ogni caso? Sì. E allora?

Vengono in soccorso altre pagine sapienti. Come quelle della “Lettera ai bambini” in forma di poesia, contenuta in “Parole per giocare” di Gianni Rodari: “È difficile fare/ le cose difficili:/ parlare al sordo/ mostrare la rosa al cieco/ Bambini, imparate/ a fare le cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi/ che si credono liberi”. È proprio quest’ultima frase, del 1979, quasi mezzo secolo fa, a risuonare per noi quasi profetica, se si pensa all’inconsapevolezza che segna il rapporto di milioni di persone con gli strumenti digitali e i social media.

Calvino e Rodari sono stati efficaci maestri, di letteratura e valori di buona educazione, culturale e civile. Come Primo Levi, con le pagine sulla memoria dolorosa dell’Olocausto e sulla bellezza della meccanica (“La chiave a stella”) e della scienza (“Il sistema periodico”). E come tante altre donne e altri uomini che hanno affidato a parole e immagini il racconto del viaggio di scoperta (anche delle profondità dell’intimo e dell’infimo del cuore), dell’intraprendenza, della creatività e dell’esperienza (cognizione del dolore compresa). Maestri di parole dense. Di memoria. E dunque di futuro. Da rileggere. E usare come stimoli per altri viaggi. Parole dialettiche. D’una società aperta. Per leggere, insomma, la società nel suo complesso, come condizione per conoscere anche un singolo campo del sapere. Estensione. Per andare efficacemente in profondità.

Dove sta, appunto, il senso della vita di un uomo? Nelle cose dette, scritte, fatte. Negli amori vissuti, nelle amicizie scelte e ricambiate. Nell’essere stato padre, di figli e di idee. Nelle opere. Nei segni, pur piccoli e leggeri, lasciati su altre vite e altri destini. Nelle lezioni imparate e trasmesse. E nelle intenzioni che ancora ci ispirano, nonostante lo scorrere dell’età. C’è sempre, un buon tempo da vivere.

Vengono in mente, così, altre parole magistrali sulla conoscenza, quelle di don Lorenzo Milani: “Il padrone conosce mille parole. L’operaio cento. Ecco perché è lui, il padrone”. È lo schema ruvido degli anni Sessanta del Novecento. Ma la lezione è chiara: gli squilibri nell’uso del linguaggio nascono dalla condizione sociale e determinano il perpetuarsi del divario. E tocca proprio alla diffusione della conoscenza la responsabilità di provare a colmare o comunque ridurre le diseguaglianze di potere, di ricchezza, di possibilità di futuro. Ed è la scuola a fare da primario ascensore sociale (la formazione lungo tutto il corso della propria vita, diremmo oggi). La Costituzione ne indica, giustamente, l’essenzialità, anche adesso che le transizioni digitali pongono inedite sfide a chi cerca di scrivere le nuove mappe dello sviluppo sostenibile e dei migliori equilibri sociali e culturali.

Gli strumenti dell’Intelligenza Artificiale ci mettono a disposizione, con facilità (per chi è tecnologicamente attrezzato), numerosissime combinazioni di parole. Costruiscono discorsi. Contaminano saperi. Compongono pagine dotate di una sintassi, una discorsività, un senso. Ma vanno attivati con domande. Dunque con processi verbali carichi di significati e prospettive. E con la consapevolezza dei meccanismi logici e culturali secondo cui si costruiscono i nessi digitali. L’innovazione offre straordinarie opportunità. Ma determina nuovi disagi e disparito. Da cercare di superare.

Anche da questa strada torniamo all’importanza fondamentale della conoscenza di parole pertinenti, non solo da parte di chi interroga i sistemi di IA, ma anche da parte di chi ne è utente, consumatore. Una sfida di civiltà, al di là dell’evoluzione delle tecnologie. Di coscienza critica. In sintesi, di democrazia.

(Foto Getty Images)

In questi tempi così controversi e preoccupanti, vale la pena cercare un filo di saggezza nelle parole cariche di senso e sapienza. Rileggere, per esempio, Italo Calvino: “Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della faciloneria, del fare tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno”.

Sono parole tratte da una intervista rilasciata nel 1981 ad Alberto Sinigaglia per Rai 3 per la serie “Vent’anni al Duemila”, diventata l’anno successivo un volume dall’analogo titolo. Parole opportunamente riprese dal cardinale Gianfranco Ravasi nel suo Breviario sulla “Domenica” de Il Sole24Ore (29 settembre), sotto il titolo di “Faciloneria” e commentate così: “Parole incisive… anche e soprattutto oggi, a distanza di oltre quarant’anni, quando la tecnologia sembra aver reso tutte le cose agevoli, comode e apparentemente facili. Ed è così che si scivola nella faciloneria. Essa è subito accompagnata da una corte di sorelle come la superficialità, l’approssimazione, la banalità, la corrività”.

Insiste Ravasi: “Lo stesso linguaggio è spesso un flusso spontaneo di parole che ignora ogni controllo e, tanto meno, ogni cesello; le scelte operative fluiscono senza nessuna ponderatezza; il pensiero sfarfalla senza riflessione; appena si presenta un sentiero d’altura che esige sudore, pazienza e fatica, si ritorna a valle e alle sue strade senza asperità”.

In sintesi, “la stessa educazione in famiglia e nella scuola si adatta ad esigere il minimo; guai a proporre uno stile di vita sobrio e impegnato e uno studio serio e costante; la rinuncia è esorcizzata lasciando spazio a tutto ciò che è di moda”. E l’essere di moda, spesso, non è né sapienza né eleganza, di pensieri e di stile. Estetica ed etica, d’altronde, vantano una strettissima parentela.

Ecco il punto cardine: per fare fronte alla superficialità di un mondo di giudizi frettolosi ed esclusivamente emotivi, all’ignoranza diffusa, alla tendenza così cara ai social media di schiacciare la complessità delle azioni e delle relazioni umane nella banalità dei like e degli emoticon, è indispensabile tornare all’uso pertinente delle parole, alla ricchezza delle argomentazioni affidate a un discorso ben costruito, alle pagine che spingono a ragionare, fuor di retorica e di propaganda. Alla solidità della cultura, dunque. Alle conoscenze critiche della scienza.

Serve insegnare tutto ciò innanzitutto ai bambini, anche con l’esempio della lettura a casa e a scuola, con l’abitudine ai libri come oggetti essenziali per il piacere del gioco e la felicità dell’imparare cose nuove.

Difficile? Meno di quanto si pensi (per averne riprova basta guardare gli spazi ben costruiti e arredati e affollati da bambini allegri nelle librerie più intelligenti e consapevoli). E comunque indispensabile, per chi ha a cuore il miglior futuro nei nostri figli e dei nostri nipoti.

Difficile, in ogni caso? Sì. E allora?

Vengono in soccorso altre pagine sapienti. Come quelle della “Lettera ai bambini” in forma di poesia, contenuta in “Parole per giocare” di Gianni Rodari: “È difficile fare/ le cose difficili:/ parlare al sordo/ mostrare la rosa al cieco/ Bambini, imparate/ a fare le cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi/ che si credono liberi”. È proprio quest’ultima frase, del 1979, quasi mezzo secolo fa, a risuonare per noi quasi profetica, se si pensa all’inconsapevolezza che segna il rapporto di milioni di persone con gli strumenti digitali e i social media.

Calvino e Rodari sono stati efficaci maestri, di letteratura e valori di buona educazione, culturale e civile. Come Primo Levi, con le pagine sulla memoria dolorosa dell’Olocausto e sulla bellezza della meccanica (“La chiave a stella”) e della scienza (“Il sistema periodico”). E come tante altre donne e altri uomini che hanno affidato a parole e immagini il racconto del viaggio di scoperta (anche delle profondità dell’intimo e dell’infimo del cuore), dell’intraprendenza, della creatività e dell’esperienza (cognizione del dolore compresa). Maestri di parole dense. Di memoria. E dunque di futuro. Da rileggere. E usare come stimoli per altri viaggi. Parole dialettiche. D’una società aperta. Per leggere, insomma, la società nel suo complesso, come condizione per conoscere anche un singolo campo del sapere. Estensione. Per andare efficacemente in profondità.

Dove sta, appunto, il senso della vita di un uomo? Nelle cose dette, scritte, fatte. Negli amori vissuti, nelle amicizie scelte e ricambiate. Nell’essere stato padre, di figli e di idee. Nelle opere. Nei segni, pur piccoli e leggeri, lasciati su altre vite e altri destini. Nelle lezioni imparate e trasmesse. E nelle intenzioni che ancora ci ispirano, nonostante lo scorrere dell’età. C’è sempre, un buon tempo da vivere.

Vengono in mente, così, altre parole magistrali sulla conoscenza, quelle di don Lorenzo Milani: “Il padrone conosce mille parole. L’operaio cento. Ecco perché è lui, il padrone”. È lo schema ruvido degli anni Sessanta del Novecento. Ma la lezione è chiara: gli squilibri nell’uso del linguaggio nascono dalla condizione sociale e determinano il perpetuarsi del divario. E tocca proprio alla diffusione della conoscenza la responsabilità di provare a colmare o comunque ridurre le diseguaglianze di potere, di ricchezza, di possibilità di futuro. Ed è la scuola a fare da primario ascensore sociale (la formazione lungo tutto il corso della propria vita, diremmo oggi). La Costituzione ne indica, giustamente, l’essenzialità, anche adesso che le transizioni digitali pongono inedite sfide a chi cerca di scrivere le nuove mappe dello sviluppo sostenibile e dei migliori equilibri sociali e culturali.

Gli strumenti dell’Intelligenza Artificiale ci mettono a disposizione, con facilità (per chi è tecnologicamente attrezzato), numerosissime combinazioni di parole. Costruiscono discorsi. Contaminano saperi. Compongono pagine dotate di una sintassi, una discorsività, un senso. Ma vanno attivati con domande. Dunque con processi verbali carichi di significati e prospettive. E con la consapevolezza dei meccanismi logici e culturali secondo cui si costruiscono i nessi digitali. L’innovazione offre straordinarie opportunità. Ma determina nuovi disagi e disparito. Da cercare di superare.

Anche da questa strada torniamo all’importanza fondamentale della conoscenza di parole pertinenti, non solo da parte di chi interroga i sistemi di IA, ma anche da parte di chi ne è utente, consumatore. Una sfida di civiltà, al di là dell’evoluzione delle tecnologie. Di coscienza critica. In sintesi, di democrazia.

(Foto Getty Images)

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