Imprese e sindacati protagonisti di sviluppo e welfare con i nuovi contratti nazionali (chimici) e aziendali (Ferrero)
L’economia italiana vive soprattutto nelle fabbriche. Altrove, arranca. Dalla manifattura viene la spinta all’export, motore determinante della crescita (che adesso accusa segni di debolezza, anche per le tensioni dei commerci internazionali, condizionati negativamente dalle ondate di protezionismo che hanno nel presidente Usa Trump il principale responsabile). Dai settori industriali arrivano le maggiori e migliori novità in termini di relazioni industriali, redditi, lavoro, welfare e dunque benessere diffuso. Dalle imprese chimiche e della gomma, dalla meccatronica e dagli stabilimenti della componentistica automotive s’affermano sulla scena economica e sociale le innovazioni che dicono che, nonostante tutto, l’Italia è un paese in trasformazione, in movimento. Mai dimenticarle, insomma, le fabbriche.
Una conferma dell’innovazione arriva dal nuovo contratto dei lavoratori della chimica e della farmaceutica, firmato giovedì 19 luglio da Federchimica e Farmindustria e dai sindacati di categoria Cgil, Cisl e Uil: aumento di 97 euro sul trattamento minimo a parte, le novità maggiori riguardano la possibilità di usare il premio di produzione per ridurre gli orari e conciliare meglio vita e lavoro, le opportunità di formazione per stare al passo con le innovazioni produttive, i sostegni per favorire la staffetta generazionali tra anziani che diminuiscono l’impegno di lavoro e cedono gradualmente il passo ai giovani, cui fanno da tutor (con un fondo per le pensioni anticipate). E ancora misure sui temi della sicurezza, dell’ambiente, dell’organizzazione del lavoro e del welfare aziendale. Non un contratto “economicista”, dunque, ma uno strumento di nuove e migliori relazioni industriali, con sguardo sulla fabbrica e oltre i confini delle fabbrica.
Il contratto è stato chiuso senza un’ora di sciopero e con sei mesi d’anticipo sulla sua scadenza. “Abbiamo voluto dare un segnale di coesione tra imprese e lavoratori e, nello stesso tempo, di visione del futuro”, sintetizza Paolo Pirani, segretario dei chimici della Uil, uno dei migliori sindacalisti italiani. Con un messaggio politico forte, che Pirani sintetizza: “Invece di occuparsi di finte emergenze come l’arrivo dei barconi, chi governa dovrebbe affrontare i problemi veri. Il consolidamento di questa ripresa economica fragilissima. La definizione di una politica industriale che ci porti nell’era del digitale mantenendoci competitivi sui mercati internazionali” (Corriere della Sera, 22 luglio).
Ecco il punto: imprese e sindacati proprio con i contratti, a livello nazionale e aziendale, mostrano concretamente la propria capacità di essere attori sociali dello sviluppo, rivendicano un ruolo da protagonisti di cui tenere conto quando si parla di lavoro, investimenti, ricerca, sviluppo e welfare. Non per concertazioni formali. Ma per poter pesare, con competenza e senso di responsabilità, sulle scelte fondamentali per il futuro dell’Italia. Con concretezza. Senza retorica né velleità.
Una indicazione in tal senso era già venuta, con altri governi, un paio d’anni fa, nel novembre 2016, con la firma del contratto di lavoro dei metalmeccanici, settore d’avanguardia per tutte le relazioni industriali (innovazione, formazione, welfare aziendale, premi sui salari legati al miglioramento della produttività). Da allora si è andati avanti, sulla strada della maggiore e migliore competitività.
Oggi, chimici a parte, altro si deve registrare in termini di buone relazioni industriali. I contratti degli edili. E quello dei dipendenti delle aziende di commercio aderenti alla Confesercenti. E i contratti integrativi alla Lamborghini-Audi e soprattutto alla Ferrero di Alba (esemplare: oltre 9mila euro di premio in quattro anni, maggiore flessibilità con lo smart working, maggior tempo libero per stare con i figli, migliori servizi di welfare aziendale). Sono tutti segni importanti “di una vitalità delle forze della rappresentanza sociale”, nota giustamente Dario Di Vico sul Corriere della Sera (21 luglio), come una sorta di monito al governo che con il cosiddetto Decreto Dignità sta intervenendo pesantemente sulla disciplina dei rapporti di lavoro (“Una trasformazione epocale che non si governa a colpi di leggi e con le categorie del Novecento industriale”, sostiene Michele Tiraboschi, autorevole giuslavorista; e Maurizio Ferrera, economista di gran prestigio: “Decreto dignità: miopia sul lavoro precario”). Un governo, inoltre, che su alcune partite chiave di politica industriale (il futuro dell’Ilva e dell’industria italiana dell’acciaio) non mostra affatto d’avere chiarezza di idee e di progetti.
Non si tratta, dunque, di insistere sulle contrapposizioni tra governo e Confindustria, in uno scontro mediatico di scarso interesse. Ma di saper guardare con competenza e intelligenza alle trasformazioni economiche e sociali e di rafforzare le leve fondamenti dello sviluppo. L’industria, appunto. Valga, tra le tante voci, quella di Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, la più grande associazione territoriale di Confindustria: “Non c’è una visione industriale, il pericolo è un neo-dirigismo” (IlSole24Ore, 21 luglio).
Bonomi è preoccupato per le sorti dell’Ilva, per le tentazioni di usare la Cassa Depositi e Prestiti (il risparmio di milioni di italiani) per cercare di risolvere crisi industriali con i vecchi strumenti della nazionalizzazione, per un clima anti-impresa diffuso. Rivendica il ruolo responsabile delle parti sociali, in un dialogo costruttivo con il governo, fatto da proposte e progetti. E aggiunge: “Non capisco la visione industriale del governo, che deve trovare per il bene della manifattura italiana una sintesi tra le pulsioni anti-industriali dei Cinque Stelle e la cultura produttivistica della Lega, che governando pezzi del Nord da 25 anni conosce le esigenze del ciclo della manifattura”.
L’ondata dei nuovi contratti, di categoria e aziendali, di cui abbiamo parlato, mostrano che imprese e sindacati sanno guardare, contemporaneamente, agli interessi delle parti economiche e a quelli generali di sviluppo dell’Italia, come grande paese europeo aperto, dinamico, competitivo. Sarebbe il caso che la politica sapesse tenerne ben conto.


L’economia italiana vive soprattutto nelle fabbriche. Altrove, arranca. Dalla manifattura viene la spinta all’export, motore determinante della crescita (che adesso accusa segni di debolezza, anche per le tensioni dei commerci internazionali, condizionati negativamente dalle ondate di protezionismo che hanno nel presidente Usa Trump il principale responsabile). Dai settori industriali arrivano le maggiori e migliori novità in termini di relazioni industriali, redditi, lavoro, welfare e dunque benessere diffuso. Dalle imprese chimiche e della gomma, dalla meccatronica e dagli stabilimenti della componentistica automotive s’affermano sulla scena economica e sociale le innovazioni che dicono che, nonostante tutto, l’Italia è un paese in trasformazione, in movimento. Mai dimenticarle, insomma, le fabbriche.
Una conferma dell’innovazione arriva dal nuovo contratto dei lavoratori della chimica e della farmaceutica, firmato giovedì 19 luglio da Federchimica e Farmindustria e dai sindacati di categoria Cgil, Cisl e Uil: aumento di 97 euro sul trattamento minimo a parte, le novità maggiori riguardano la possibilità di usare il premio di produzione per ridurre gli orari e conciliare meglio vita e lavoro, le opportunità di formazione per stare al passo con le innovazioni produttive, i sostegni per favorire la staffetta generazionali tra anziani che diminuiscono l’impegno di lavoro e cedono gradualmente il passo ai giovani, cui fanno da tutor (con un fondo per le pensioni anticipate). E ancora misure sui temi della sicurezza, dell’ambiente, dell’organizzazione del lavoro e del welfare aziendale. Non un contratto “economicista”, dunque, ma uno strumento di nuove e migliori relazioni industriali, con sguardo sulla fabbrica e oltre i confini delle fabbrica.
Il contratto è stato chiuso senza un’ora di sciopero e con sei mesi d’anticipo sulla sua scadenza. “Abbiamo voluto dare un segnale di coesione tra imprese e lavoratori e, nello stesso tempo, di visione del futuro”, sintetizza Paolo Pirani, segretario dei chimici della Uil, uno dei migliori sindacalisti italiani. Con un messaggio politico forte, che Pirani sintetizza: “Invece di occuparsi di finte emergenze come l’arrivo dei barconi, chi governa dovrebbe affrontare i problemi veri. Il consolidamento di questa ripresa economica fragilissima. La definizione di una politica industriale che ci porti nell’era del digitale mantenendoci competitivi sui mercati internazionali” (Corriere della Sera, 22 luglio).
Ecco il punto: imprese e sindacati proprio con i contratti, a livello nazionale e aziendale, mostrano concretamente la propria capacità di essere attori sociali dello sviluppo, rivendicano un ruolo da protagonisti di cui tenere conto quando si parla di lavoro, investimenti, ricerca, sviluppo e welfare. Non per concertazioni formali. Ma per poter pesare, con competenza e senso di responsabilità, sulle scelte fondamentali per il futuro dell’Italia. Con concretezza. Senza retorica né velleità.
Una indicazione in tal senso era già venuta, con altri governi, un paio d’anni fa, nel novembre 2016, con la firma del contratto di lavoro dei metalmeccanici, settore d’avanguardia per tutte le relazioni industriali (innovazione, formazione, welfare aziendale, premi sui salari legati al miglioramento della produttività). Da allora si è andati avanti, sulla strada della maggiore e migliore competitività.
Oggi, chimici a parte, altro si deve registrare in termini di buone relazioni industriali. I contratti degli edili. E quello dei dipendenti delle aziende di commercio aderenti alla Confesercenti. E i contratti integrativi alla Lamborghini-Audi e soprattutto alla Ferrero di Alba (esemplare: oltre 9mila euro di premio in quattro anni, maggiore flessibilità con lo smart working, maggior tempo libero per stare con i figli, migliori servizi di welfare aziendale). Sono tutti segni importanti “di una vitalità delle forze della rappresentanza sociale”, nota giustamente Dario Di Vico sul Corriere della Sera (21 luglio), come una sorta di monito al governo che con il cosiddetto Decreto Dignità sta intervenendo pesantemente sulla disciplina dei rapporti di lavoro (“Una trasformazione epocale che non si governa a colpi di leggi e con le categorie del Novecento industriale”, sostiene Michele Tiraboschi, autorevole giuslavorista; e Maurizio Ferrera, economista di gran prestigio: “Decreto dignità: miopia sul lavoro precario”). Un governo, inoltre, che su alcune partite chiave di politica industriale (il futuro dell’Ilva e dell’industria italiana dell’acciaio) non mostra affatto d’avere chiarezza di idee e di progetti.
Non si tratta, dunque, di insistere sulle contrapposizioni tra governo e Confindustria, in uno scontro mediatico di scarso interesse. Ma di saper guardare con competenza e intelligenza alle trasformazioni economiche e sociali e di rafforzare le leve fondamenti dello sviluppo. L’industria, appunto. Valga, tra le tante voci, quella di Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, la più grande associazione territoriale di Confindustria: “Non c’è una visione industriale, il pericolo è un neo-dirigismo” (IlSole24Ore, 21 luglio).
Bonomi è preoccupato per le sorti dell’Ilva, per le tentazioni di usare la Cassa Depositi e Prestiti (il risparmio di milioni di italiani) per cercare di risolvere crisi industriali con i vecchi strumenti della nazionalizzazione, per un clima anti-impresa diffuso. Rivendica il ruolo responsabile delle parti sociali, in un dialogo costruttivo con il governo, fatto da proposte e progetti. E aggiunge: “Non capisco la visione industriale del governo, che deve trovare per il bene della manifattura italiana una sintesi tra le pulsioni anti-industriali dei Cinque Stelle e la cultura produttivistica della Lega, che governando pezzi del Nord da 25 anni conosce le esigenze del ciclo della manifattura”.
L’ondata dei nuovi contratti, di categoria e aziendali, di cui abbiamo parlato, mostrano che imprese e sindacati sanno guardare, contemporaneamente, agli interessi delle parti economiche e a quelli generali di sviluppo dell’Italia, come grande paese europeo aperto, dinamico, competitivo. Sarebbe il caso che la politica sapesse tenerne ben conto.