Lavoro qualificato, stipendi più alti, innovazione: ecco le scelte per frenare la fuga dei nostri giovani
L’Italia invecchia. Fa sempre meno figli. E vede andar via, di anno in anno più numerosi, le sue ragazze e i suoi ragazzi, soprattutto quelli con alto titolo di studio e maggiore intraprendenza. In prospettiva, s’impoverisce: meno giovani, meno lavoro, meno imprese, meno Prodotto interno lordo, meno produttività ma anche minore passione per l’innovazione, minore coesione e sociale e più fragile spirito civile legato ai valori di comunità. Italia in declino, insomma? Ancora no. Ma i rischi sono forti.
Sono queste le considerazioni che tornano prepotenti in mente leggendo, negli ultimi giorni, una serie di dati economici e demografici, a conferma di tendenze note da tempo eppure, di volta in volta, sempre più allarmanti. E purtroppo, nonostante i passi avanti fatti, ancora non adeguatamente centrali nel discorso pubblico e politico, a parte le retoriche sull’attenzione per le nuove generazioni.
Quali dati? L’Istat certifica che un quarto della popolazione italiana (siamo 58 milioni 934 mila, al 1° gennaio ‘25) ha più di 65 anni e in 4milioni 591mila persone superano gli 80 anni (50mila in più rispetto al ‘24). Le speranze di vita alla nascita hanno raggiunto gli 81,4 anni per gli uomini e gli 85,5 per le donne (quasi cinque mesi in più rispetto al ‘23). E le nascite continuano a diminuire: 370 mila nuovi nati nel ‘24, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna, uno dei più bassi in Europa.
Ecco un altro dato quanto mai negativo: negli ultimi dieci anni, 97 mila giovani laureati hanno lasciato il Paese, in cerca di migliori opportunità di lavoro e di vita. E questo dato medio, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Nel solo ‘23, erano 21mila (il 21% in più dell’anno precedente). Quasi centomila laureati spariti dal nostro mercato del lavoro. Si sono formati nelle nostre scuole, hanno imparato sofisticate e solide conoscenze nelle nostre università (parecchie delle quali sono oramai tra le migliori del mondo: il Politecnico di Milano è appena entrato nella classifica delle prime cento) e adesso però sono risorse di qualità, “talenti”, si usa dire, a disposizione di altri paesi, altri sistemi produttivi, altre società. Uno spreco, insomma, ancora più grave nella stagione in cui la principale leva competitiva è, appunto, “l’economia della conoscenza”. E l’Italia, con il 20,7% di laureati contro una media Ue del 32%, non ricresce affatto a soddisfare le necessità di lavoro qualificato delle imprese ma anche delle pubbliche amministrazioni e dei servizi (la sanità, per esempio).
Sempre l’Istat documenta che nel biennio ‘23-‘24 gli espatri dei cittadini italiani (270mila) sono aumentati del 39,3% (facendo sempre riferimento al numero di coloro che cambiano residenza, nettamente inferiore a quello di chi va all’estero restando formalmente iscritto all’anagrafe delle città d’origine). Scelte temporanee o di lungo periodo. Comunque con pochi rientri: tra il ‘19 e il ‘23 sono espatriati 192 mila italiani, d’età compresa fra i 25 e i 34 anni e ne sono rientrati 73mila. Quasi 120mila sono rimasti all’estero.
Dove? Nel Regno Unito, poi in Germania, in Svizzera, in Francia e in Spagna, innanzitutto (la fonte è sempre l’Istat). “Non abbiamo investito sulla loro formazione, sulle politiche attive, sulla ricerca, sulla valorizzazione del capitale umano all’interno delle aziende. Non stiamo consentendo ai giovani di sentirsi parte attiva di una società che cresce e migliora con loro. Gli altri Paesi, invece, risultano più attrattivi”, sintetizza Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica all’università Cattolica di Milano (La Stampa, 18 giugno).
Per capire meglio perché tanti ragazzi vadano via, basta dare un occhiata anche alle retribuzioni. L’ultimo rapporto di Almalaurea (il consorzio che riunisce 82 atenei italiani) documenta come “il valore medio degli stipendi in Italia sia molto basso: a parità di livello educativo all’estero i laureati percepiscono il 54% in più che in Italia, a un anno dalla laurea e il 62% per i laureati da cinque anni” (Il Sole24Ore, 17 giugno).
Eppure, nonostante siano malpagati, i nostri laureati sono davvero bravi. Anche nel mondo della ricerca. Come confermano gli ultimi dati sugli Erc Advanced Grants, i finanziamenti europei destinati ai ricercatori senior: l’Italia è terza, in Europa, dopo il Regno Unito e la Germania, avendo appena superato la Francia e l’Olanda. E, se si guarda al passaporto dei ricercatori, l’Italia è addirittura seconda, alle spalle della Germania. Il problema, per il Paese, che molti degli italiani che si aggiudicano i finanziamenti Erc lavorano stabilmente all’estero: quest’anno, su 37 premiati, 23 lavorano in Italia e 14 all’estero (Corriere della Sera, 18 giugno). Nel ‘23 il quadro era peggiore: 22 all’estero e 12 in Italia. Si registra, insomma, un’interessante tendenza al miglioramento della qualità e delle opportunità offerte dai centri italiani. Il tempo ci dirà quanto questa tendenza si possa consolidare o meno.
Ecco il punto chiave delle vicende di cui stiamo parlando: per trattenere in Italia i nostri laureati ma anche per essere attrattivi nei confronti delle ragazze e dei ragazzi internazionali serve investire molto di più nella ricerca (ben oltre l’attuale 1,4% del Pil, quota bassissima rispetto alla media Ue superiore al 2%), nella formazione di qualità, ma anche negli stipendi, nelle opportunità di carriera, nella costruzione di migliori condizioni di affermazione e sviluppo delle opportunità professionali e personali.
Le scelte da fare chiamano in causa la spesa pubblica, anche quella del Pnrr, che stando alle premesse del Next Generation Ue, avrebbe dovuto privilegiare le varie opportunità della “economia della conoscenza”, nel contesto degli stimoli e dei supporti alle transizioni ambientali e digitale (la spesa in corso non punta se non parzialmente agli obiettivi di partenza). Le scelte di cambiamento da fare riguardano anche le imprese: gli stipendi d’ingresso sono bassi e nelle aziende piccole e medie, tutt’ora a forte dominanza familiare nella gestione, le possibilità per giovani laureati sono ancora quanto mai ridotte. “Ma il Paese pensa ai giovani?”, si chiede polemicamente un economista accorto come Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 19 giugno), forte anche dell’esperienza di governo fatta a Palazzo Chigi durante la presidenza del Consiglio di Mario Draghi. L’Italia in cui prevalgono gli anziani, d’altronde, lascia sempre meno spazio, anche sociale e culturale, alle nuove generazioni. Che emigrano. Appesantendo così il clima e le abitudini del “paese per vecchi”, con le sue paure e la sua sospettosità verso il cambiamento. Un circuito vizioso.
Servono maggiori e più mirati investimenti pubblici e privati, dunque. Innovazione. E scelte che premino conoscenze, competenze, intraprendenza, cultura internazionale. Tutto il contrario delle tendenze alla conservazione e delle resistenze alla modernizzazione. E della diffusione del “lavoro povero”, tipico di una tendenza politica diffusa che continua a trascurare l’industria, i servizi high tech, gli stimoli di politica industriale ai settori più produttivi e innovativi. Per dirla in sintesi: “Università, lavoro, stipendi: serve una politica europea”, sostiene Patrizio Bianchi, economista, ex rettore universitario a Ferrara ed ex assessore al Lavoro alla Regione Emilia. E Rosina: “Garantire ai nostri giovani condizioni pari a quelle che trovano negli altri paesi europei è una sfida cruciale per la crescita e lo sviluppo dell’Italia”. Sfida di buona politica, appunto. E di sguardo davvero aperto sul futuro.
(foto Getty Images)


L’Italia invecchia. Fa sempre meno figli. E vede andar via, di anno in anno più numerosi, le sue ragazze e i suoi ragazzi, soprattutto quelli con alto titolo di studio e maggiore intraprendenza. In prospettiva, s’impoverisce: meno giovani, meno lavoro, meno imprese, meno Prodotto interno lordo, meno produttività ma anche minore passione per l’innovazione, minore coesione e sociale e più fragile spirito civile legato ai valori di comunità. Italia in declino, insomma? Ancora no. Ma i rischi sono forti.
Sono queste le considerazioni che tornano prepotenti in mente leggendo, negli ultimi giorni, una serie di dati economici e demografici, a conferma di tendenze note da tempo eppure, di volta in volta, sempre più allarmanti. E purtroppo, nonostante i passi avanti fatti, ancora non adeguatamente centrali nel discorso pubblico e politico, a parte le retoriche sull’attenzione per le nuove generazioni.
Quali dati? L’Istat certifica che un quarto della popolazione italiana (siamo 58 milioni 934 mila, al 1° gennaio ‘25) ha più di 65 anni e in 4milioni 591mila persone superano gli 80 anni (50mila in più rispetto al ‘24). Le speranze di vita alla nascita hanno raggiunto gli 81,4 anni per gli uomini e gli 85,5 per le donne (quasi cinque mesi in più rispetto al ‘23). E le nascite continuano a diminuire: 370 mila nuovi nati nel ‘24, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna, uno dei più bassi in Europa.
Ecco un altro dato quanto mai negativo: negli ultimi dieci anni, 97 mila giovani laureati hanno lasciato il Paese, in cerca di migliori opportunità di lavoro e di vita. E questo dato medio, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Nel solo ‘23, erano 21mila (il 21% in più dell’anno precedente). Quasi centomila laureati spariti dal nostro mercato del lavoro. Si sono formati nelle nostre scuole, hanno imparato sofisticate e solide conoscenze nelle nostre università (parecchie delle quali sono oramai tra le migliori del mondo: il Politecnico di Milano è appena entrato nella classifica delle prime cento) e adesso però sono risorse di qualità, “talenti”, si usa dire, a disposizione di altri paesi, altri sistemi produttivi, altre società. Uno spreco, insomma, ancora più grave nella stagione in cui la principale leva competitiva è, appunto, “l’economia della conoscenza”. E l’Italia, con il 20,7% di laureati contro una media Ue del 32%, non ricresce affatto a soddisfare le necessità di lavoro qualificato delle imprese ma anche delle pubbliche amministrazioni e dei servizi (la sanità, per esempio).
Sempre l’Istat documenta che nel biennio ‘23-‘24 gli espatri dei cittadini italiani (270mila) sono aumentati del 39,3% (facendo sempre riferimento al numero di coloro che cambiano residenza, nettamente inferiore a quello di chi va all’estero restando formalmente iscritto all’anagrafe delle città d’origine). Scelte temporanee o di lungo periodo. Comunque con pochi rientri: tra il ‘19 e il ‘23 sono espatriati 192 mila italiani, d’età compresa fra i 25 e i 34 anni e ne sono rientrati 73mila. Quasi 120mila sono rimasti all’estero.
Dove? Nel Regno Unito, poi in Germania, in Svizzera, in Francia e in Spagna, innanzitutto (la fonte è sempre l’Istat). “Non abbiamo investito sulla loro formazione, sulle politiche attive, sulla ricerca, sulla valorizzazione del capitale umano all’interno delle aziende. Non stiamo consentendo ai giovani di sentirsi parte attiva di una società che cresce e migliora con loro. Gli altri Paesi, invece, risultano più attrattivi”, sintetizza Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica all’università Cattolica di Milano (La Stampa, 18 giugno).
Per capire meglio perché tanti ragazzi vadano via, basta dare un occhiata anche alle retribuzioni. L’ultimo rapporto di Almalaurea (il consorzio che riunisce 82 atenei italiani) documenta come “il valore medio degli stipendi in Italia sia molto basso: a parità di livello educativo all’estero i laureati percepiscono il 54% in più che in Italia, a un anno dalla laurea e il 62% per i laureati da cinque anni” (Il Sole24Ore, 17 giugno).
Eppure, nonostante siano malpagati, i nostri laureati sono davvero bravi. Anche nel mondo della ricerca. Come confermano gli ultimi dati sugli Erc Advanced Grants, i finanziamenti europei destinati ai ricercatori senior: l’Italia è terza, in Europa, dopo il Regno Unito e la Germania, avendo appena superato la Francia e l’Olanda. E, se si guarda al passaporto dei ricercatori, l’Italia è addirittura seconda, alle spalle della Germania. Il problema, per il Paese, che molti degli italiani che si aggiudicano i finanziamenti Erc lavorano stabilmente all’estero: quest’anno, su 37 premiati, 23 lavorano in Italia e 14 all’estero (Corriere della Sera, 18 giugno). Nel ‘23 il quadro era peggiore: 22 all’estero e 12 in Italia. Si registra, insomma, un’interessante tendenza al miglioramento della qualità e delle opportunità offerte dai centri italiani. Il tempo ci dirà quanto questa tendenza si possa consolidare o meno.
Ecco il punto chiave delle vicende di cui stiamo parlando: per trattenere in Italia i nostri laureati ma anche per essere attrattivi nei confronti delle ragazze e dei ragazzi internazionali serve investire molto di più nella ricerca (ben oltre l’attuale 1,4% del Pil, quota bassissima rispetto alla media Ue superiore al 2%), nella formazione di qualità, ma anche negli stipendi, nelle opportunità di carriera, nella costruzione di migliori condizioni di affermazione e sviluppo delle opportunità professionali e personali.
Le scelte da fare chiamano in causa la spesa pubblica, anche quella del Pnrr, che stando alle premesse del Next Generation Ue, avrebbe dovuto privilegiare le varie opportunità della “economia della conoscenza”, nel contesto degli stimoli e dei supporti alle transizioni ambientali e digitale (la spesa in corso non punta se non parzialmente agli obiettivi di partenza). Le scelte di cambiamento da fare riguardano anche le imprese: gli stipendi d’ingresso sono bassi e nelle aziende piccole e medie, tutt’ora a forte dominanza familiare nella gestione, le possibilità per giovani laureati sono ancora quanto mai ridotte. “Ma il Paese pensa ai giovani?”, si chiede polemicamente un economista accorto come Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 19 giugno), forte anche dell’esperienza di governo fatta a Palazzo Chigi durante la presidenza del Consiglio di Mario Draghi. L’Italia in cui prevalgono gli anziani, d’altronde, lascia sempre meno spazio, anche sociale e culturale, alle nuove generazioni. Che emigrano. Appesantendo così il clima e le abitudini del “paese per vecchi”, con le sue paure e la sua sospettosità verso il cambiamento. Un circuito vizioso.
Servono maggiori e più mirati investimenti pubblici e privati, dunque. Innovazione. E scelte che premino conoscenze, competenze, intraprendenza, cultura internazionale. Tutto il contrario delle tendenze alla conservazione e delle resistenze alla modernizzazione. E della diffusione del “lavoro povero”, tipico di una tendenza politica diffusa che continua a trascurare l’industria, i servizi high tech, gli stimoli di politica industriale ai settori più produttivi e innovativi. Per dirla in sintesi: “Università, lavoro, stipendi: serve una politica europea”, sostiene Patrizio Bianchi, economista, ex rettore universitario a Ferrara ed ex assessore al Lavoro alla Regione Emilia. E Rosina: “Garantire ai nostri giovani condizioni pari a quelle che trovano negli altri paesi europei è una sfida cruciale per la crescita e lo sviluppo dell’Italia”. Sfida di buona politica, appunto. E di sguardo davvero aperto sul futuro.
(foto Getty Images)