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I nostri ragazzi pronti a lasciare l’Italia raccontano un paese in declino e in crisi di fiducia e di futuro

L’inverno demografico, con meno di 400mila bambini nati nel ‘23 e un crescente invecchiamento della popolazione. E la fuga verso l’estero di decine di migliaia di ragazze e di ragazzi, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita: 525mila, per l’esattezza, dal 2008 al 2022, secondo i dati forniti dal Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta nella sua Relazione del maggio scorso. L’Italia fatica a pensare positivamente al futuro. E per quanto i dati negativi sulla demografia siano oramai noti da tempo, il mondo dei decisori politici e di governo parla moltissimo dei giovani, promette misure per i giovani, vanta scelte per i giovani ma non sembra ancora in grado di varare misure convincenti per invertire una drammatica tendenza al declino. Della popolazione e dunque del Pil, della produttività e, in prospettiva, della competitività e dello sviluppo sostenibile del sistema Paese.

L’ultimo allarme viene da uno studio realizzato dall’Ipsos per la Fondazione Barletta, che sarà presentato mercoledì e che è stato anticipato domenica 7 luglio da “IlSole24Ore”: il 35% dei giovani italiani sotto i 30 anni sono pronti a espatriare, per avere “salari più alti” e “opportunità di lavoro migliori”. Un dato drammatico: uno su tre dei nostri figli e nipoti vuole andare via, uno su tre “vota con i piedi” (scegliendo, cioè, di lasciare l’Italia, manifestando una vera e propria crisi di fiducia nei confronti del Paese) e dunque boccia le politiche del lavoro, le prospettive di carriera, le offerte delle pubbliche amministrazioni e delle imprese. Uno su tre, in sintesi, forte di un titolo di studio preso in Italia, vuole andare all’estero per fare l’ingegnere e il medico, il ricercatore scientifico e il professore universitario, il tecnico informatico e il chimico e così via declinando tutte le professioni e i mestieri, soprattutto quelli high tech, quelli che garantiscono un più soddisfacente futuro.

Il fenomeno dell’inclinazione all’esodo riguarda mediamente tutte le regioni e le città italiane. Ma nel Mezzogiorno va molto peggio. Perché a leggere i risultati dell’indagine Ipsos si scopre che accanto a quel 35% pronto a espatriare, c’è solo un 15% che dichiara di non volersi muovere. Un altro 18% dice di voler andare “ovunque in Italia” e un 32% disposto a trasferirsi “solo nella mia regione o in quelle limitrofe”. Fatte le somme, dunque, l’85% dei ragazzi sono decisi a lasciare casa. Un gigantesco sommovimento sociale ed economico. Una radicale modifica dei tessuti familiari e urbani. Commentano Cristina Casadei e Claudio Tucci su “IlSole24Ore”: “Mentre il Nord Italia più o meno riesce a compensare le uscite con l’attrazione di giovani provenienti dal Mezzogiorno, il Sud si ferma alla perdita secca di talenti. Una doppia onda che mette alla prova la tenuta dell’intero Paese, specialmente quando la fuoriuscita riguarda professioni ad alto valore aggiunto”.
Milano, grande città universitaria (con oltre 200mila studenti, in più di dieci atenei di rilievo internazionale per qualità di formazione e ricerca) continua infatti a essere attrattiva, anche nei confronti di giovani provenienti dall’estero. Ma il resto dell’Italia soffre.

Avere pochi laureati (abbiamo solo il 22% della popolazione con un titolo di studio superiore, in coda rispetto agli altri paesi Ue) comporta una bassa produttività dell’intero Paese, una scarsa spinta all’innovazione e al cambiamento, una ridotta propensione all’intraprendenza e alla costruzione di nuove e migliori opportunità non solo di cresciuta economica, ma anche di miglioramento complessivo della qualità della vita. Nella stagione del predominio della “economia della conoscenza”, la carenza di laureati, non solo nelle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria, matematica) ma più in generale, rende quanto mai difficile all’Italia e alle sue imprese reggere la concorrenza su mercati sempre più esigenti e selettivi. E se è quanto mai utile magnificare e sostenere il Made in Italy di qualità, è sopratutto necessario investire in formazione di lungo periodo, in sostegni fiscali a chi investe e innova, in politiche industriali di respiro europeo. Tutto quel che serve anche per dare ai giovani prospettive di futuro, elementi di ricostruzione della fiducia. Per fare tornare chi è andato via. Per trattenere chi comunque vuole continuare a vivere in Italia. E per attrarre ragazze e ragazzi da altre aree del Mediterraneo, dell’Europa, del mondo.

Abbiamo appunto bisogno di giovani intelligenze, di conoscenze e competenze aggiornate, di sguardi aperti al cambiamento. Senza questi talenti, il sistema economico ne soffrirà sempre di più. Un dato, per dare le dimensioni del fenomeno: le imprese dicono di essere pronte ad assumere 800mila persone, ma ne trovano meno della metà.
In futuro, senza scelte strategiche opportune, andrà anche peggio. Come confermano queste previsioni, che ripete da tempo un uomo attento alle relazioni tra cultura, formazione e competitività, come Francesco Profumo, uomo di scienza e di governo (è stato ministro della Pubblica Istruzione e presidente del Cnr e della Compagnia di San Paolo). Nel 2023 abbiamo avuto 180mila laureati, di fronte agli 800mila bambini nati all’inizio degli anni 2000. Ferme restando queste percentuali, tra vent’anni, dei 379mila nati nel 2023, ne laureeremo 80 o 90mila. Una cifra irrisoria.
Ecco il punto chiave della denatalità. In vent’anni abbiamo perso 3milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni. E tra trent’anni, secondo calcoli di Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia ed ex presidente dell’Istat, la popolazione in età attiva (nella fascia d’età 15/64 anni) passerà dagli attuali 37,5 milioni a 27,2 milioni: dieci milioni in meno, con un calo del 27,3%. Economicamente, un disastro. Socialmente, un’Italia che invecchia, perde risorse, stimoli, prospettive.

Che fare, allora? Pensare a politiche contro la denatalità, facendo adesso le scelte indispensabili per arginare un fenomeno di lungo periodo. Preparare e gestire politiche di immigrazione, con tutto ciò che ne consegue in termini di inserimento e formazione, di lavoro e di cittadinanza. Ma anche, fin da subito, migliorare la qualità della scuola fin dalle classi primarie e fare crescere il numero di ragazze e ragazzi che arrivano e poi escono dall’università, dall’attuale 22% ad almeno il 30%, cercando di allinearsi rapidamente al resto dell’Europa. E, naturalmente, proprio sulle strade dell’innovazione, rendere le nostre imprese più appetibili, a cominciare da quelle manifatturiere, spina dorsale del made in Italy: non solo per le retribuzioni, ma per la qualità del lavoro, le prospettive di carriera e di vita, l’ambiente, le relazioni e le opportunità, personali, professionali, culturali. Una sfida di qualità e di futuro, appunto.

(foto Getty Images)

L’inverno demografico, con meno di 400mila bambini nati nel ‘23 e un crescente invecchiamento della popolazione. E la fuga verso l’estero di decine di migliaia di ragazze e di ragazzi, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita: 525mila, per l’esattezza, dal 2008 al 2022, secondo i dati forniti dal Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta nella sua Relazione del maggio scorso. L’Italia fatica a pensare positivamente al futuro. E per quanto i dati negativi sulla demografia siano oramai noti da tempo, il mondo dei decisori politici e di governo parla moltissimo dei giovani, promette misure per i giovani, vanta scelte per i giovani ma non sembra ancora in grado di varare misure convincenti per invertire una drammatica tendenza al declino. Della popolazione e dunque del Pil, della produttività e, in prospettiva, della competitività e dello sviluppo sostenibile del sistema Paese.

L’ultimo allarme viene da uno studio realizzato dall’Ipsos per la Fondazione Barletta, che sarà presentato mercoledì e che è stato anticipato domenica 7 luglio da “IlSole24Ore”: il 35% dei giovani italiani sotto i 30 anni sono pronti a espatriare, per avere “salari più alti” e “opportunità di lavoro migliori”. Un dato drammatico: uno su tre dei nostri figli e nipoti vuole andare via, uno su tre “vota con i piedi” (scegliendo, cioè, di lasciare l’Italia, manifestando una vera e propria crisi di fiducia nei confronti del Paese) e dunque boccia le politiche del lavoro, le prospettive di carriera, le offerte delle pubbliche amministrazioni e delle imprese. Uno su tre, in sintesi, forte di un titolo di studio preso in Italia, vuole andare all’estero per fare l’ingegnere e il medico, il ricercatore scientifico e il professore universitario, il tecnico informatico e il chimico e così via declinando tutte le professioni e i mestieri, soprattutto quelli high tech, quelli che garantiscono un più soddisfacente futuro.

Il fenomeno dell’inclinazione all’esodo riguarda mediamente tutte le regioni e le città italiane. Ma nel Mezzogiorno va molto peggio. Perché a leggere i risultati dell’indagine Ipsos si scopre che accanto a quel 35% pronto a espatriare, c’è solo un 15% che dichiara di non volersi muovere. Un altro 18% dice di voler andare “ovunque in Italia” e un 32% disposto a trasferirsi “solo nella mia regione o in quelle limitrofe”. Fatte le somme, dunque, l’85% dei ragazzi sono decisi a lasciare casa. Un gigantesco sommovimento sociale ed economico. Una radicale modifica dei tessuti familiari e urbani. Commentano Cristina Casadei e Claudio Tucci su “IlSole24Ore”: “Mentre il Nord Italia più o meno riesce a compensare le uscite con l’attrazione di giovani provenienti dal Mezzogiorno, il Sud si ferma alla perdita secca di talenti. Una doppia onda che mette alla prova la tenuta dell’intero Paese, specialmente quando la fuoriuscita riguarda professioni ad alto valore aggiunto”.
Milano, grande città universitaria (con oltre 200mila studenti, in più di dieci atenei di rilievo internazionale per qualità di formazione e ricerca) continua infatti a essere attrattiva, anche nei confronti di giovani provenienti dall’estero. Ma il resto dell’Italia soffre.

Avere pochi laureati (abbiamo solo il 22% della popolazione con un titolo di studio superiore, in coda rispetto agli altri paesi Ue) comporta una bassa produttività dell’intero Paese, una scarsa spinta all’innovazione e al cambiamento, una ridotta propensione all’intraprendenza e alla costruzione di nuove e migliori opportunità non solo di cresciuta economica, ma anche di miglioramento complessivo della qualità della vita. Nella stagione del predominio della “economia della conoscenza”, la carenza di laureati, non solo nelle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria, matematica) ma più in generale, rende quanto mai difficile all’Italia e alle sue imprese reggere la concorrenza su mercati sempre più esigenti e selettivi. E se è quanto mai utile magnificare e sostenere il Made in Italy di qualità, è sopratutto necessario investire in formazione di lungo periodo, in sostegni fiscali a chi investe e innova, in politiche industriali di respiro europeo. Tutto quel che serve anche per dare ai giovani prospettive di futuro, elementi di ricostruzione della fiducia. Per fare tornare chi è andato via. Per trattenere chi comunque vuole continuare a vivere in Italia. E per attrarre ragazze e ragazzi da altre aree del Mediterraneo, dell’Europa, del mondo.

Abbiamo appunto bisogno di giovani intelligenze, di conoscenze e competenze aggiornate, di sguardi aperti al cambiamento. Senza questi talenti, il sistema economico ne soffrirà sempre di più. Un dato, per dare le dimensioni del fenomeno: le imprese dicono di essere pronte ad assumere 800mila persone, ma ne trovano meno della metà.
In futuro, senza scelte strategiche opportune, andrà anche peggio. Come confermano queste previsioni, che ripete da tempo un uomo attento alle relazioni tra cultura, formazione e competitività, come Francesco Profumo, uomo di scienza e di governo (è stato ministro della Pubblica Istruzione e presidente del Cnr e della Compagnia di San Paolo). Nel 2023 abbiamo avuto 180mila laureati, di fronte agli 800mila bambini nati all’inizio degli anni 2000. Ferme restando queste percentuali, tra vent’anni, dei 379mila nati nel 2023, ne laureeremo 80 o 90mila. Una cifra irrisoria.
Ecco il punto chiave della denatalità. In vent’anni abbiamo perso 3milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni. E tra trent’anni, secondo calcoli di Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia ed ex presidente dell’Istat, la popolazione in età attiva (nella fascia d’età 15/64 anni) passerà dagli attuali 37,5 milioni a 27,2 milioni: dieci milioni in meno, con un calo del 27,3%. Economicamente, un disastro. Socialmente, un’Italia che invecchia, perde risorse, stimoli, prospettive.

Che fare, allora? Pensare a politiche contro la denatalità, facendo adesso le scelte indispensabili per arginare un fenomeno di lungo periodo. Preparare e gestire politiche di immigrazione, con tutto ciò che ne consegue in termini di inserimento e formazione, di lavoro e di cittadinanza. Ma anche, fin da subito, migliorare la qualità della scuola fin dalle classi primarie e fare crescere il numero di ragazze e ragazzi che arrivano e poi escono dall’università, dall’attuale 22% ad almeno il 30%, cercando di allinearsi rapidamente al resto dell’Europa. E, naturalmente, proprio sulle strade dell’innovazione, rendere le nostre imprese più appetibili, a cominciare da quelle manifatturiere, spina dorsale del made in Italy: non solo per le retribuzioni, ma per la qualità del lavoro, le prospettive di carriera e di vita, l’ambiente, le relazioni e le opportunità, personali, professionali, culturali. Una sfida di qualità e di futuro, appunto.

(foto Getty Images)

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