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Medtec, laureati i primi medici-ingegneri Milano rilancia il soft power della cultura politecnica

Un medico ingegnere, una sintesi originale tra competenze diverse, in grado di tenere insieme l’anatomia e le macchine tecnologiche più sofisticate, l’attenzione specialistica per la salute e la capacità di usare tutti gli strumenti digitali per diagnosi e terapia e prevenzione sanitaria. Di conoscere a fondo, insomma, quella creazione straordinaria, complessa e fragile, che è il corpo umano e di governare, a suo vantaggio, le possibilità offerte dall’Intelligenza Artificiale. A metà della scorsa settimana, a Milano, si sono laureati i primi 37 studenti di un corso di studi interdisciplinare, la Medtec School, nata sei anni fa dalla collaborazione tra la Humanitas University e il Politecnico (Corriere della Sera, 3 luglio). E la città conferma, così, una sua caratteristica di fondo: essere avanguardia nella formazione di alto livello, punto di riferimento internazionale delle Life Sciences, centro culturale di sperimentazione, ibridazione e sintesi di saperi diversi, lungo le nuove frontiere high tech. Una metropoli politecnica.

Sostiene Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico: “La convergenza tra Medicina e Ingegneria rappresenta un fattore di sviluppo economico e sociale a livello globale e nasce come eccellenza italiana. E la nostra speranza è che i neolaureati scelgano di specializzarsi qui e di lavorare in strutture ospedaliere e aziende del nostro paese”. E Luigi Maria Terracciano, rettore della Humanitas University: “L’obiettivo che ci siamo dati è formare professionisti capaci di governare l’evoluzione tecnologica in campo medico, mantenendo lo sguardo umano e la relazione con il paziente. Si tratta di un’esperienza universitaria con sbocchi importanti nel settore ospedaliero ma anche nell’ambito della ricerca avanzata”.

La Medtec School oggi ha 389 iscritti (il 58% sono studentesse), con una forte capacità di attrazione internazionale: il 17% vengono dall’estero, soprattutto da Francia, Grecia e Turchia. Quest’anno i laureati saranno in tutto 42. I corsi sono naturalmente in inglese, si svolgono a semestri alterni al Politecnico e alla Humanitas University e traggono vantaggio anche dal fitto sistema di relazioni che le due università hanno con docenti e ricercatori dei grandi atenei e dei migliori centri di ricerca nei principali paesi del mondo. Riprova dei vantaggi di una cultura scientifica critica, dialettica, aperta all’innovazione e sensibile agli stimoli di cambiamento.

È proprio questa, d’altronde, nella storia e nella pur controversa contemporaneità, una caratteristica di fondo di Milano, oramai la principale città universitaria italiana, con oltre 220mila studenti in una decina tra università (sempre meglio inserite nelle più prestigiose classifiche internazionali) e scuole di alta formazione (nel mondo del design e della moda). La caratteristica di chi, nell’accoglienza (comunque esigente, severa, produttiva), sa costruire stimoli di crescita e tenere insieme competitività e inclusione sociale, cittadinanza (uno spirito civile, di comunità) e intraprendenza, mercato e welfare. E anche se queste attitudini oggi conoscono un momento di crisi, una trasformazione delle tendenze di fondo (molti superficiali city users, un numero crescente di abitanti in difficoltà per gli alti costi dell’abitare e del vivere) e si ascoltano frequenti critiche e autocritiche sulle trasformazioni della “milanesità” (Milano è la città italiana più incline a discutere su se stessa, spregiudicatamente), è comunque vero che proprio qui continuano a nascere e maturare culture, fenomeni economici e sociali, processi che anticipano e strutturano modi d’essere, lavorare e produrre che innervano altri territori della Grande Milano, dell’Italia e della parte più dinamica e produttiva dell’Europa. Milano metropoli aperta, spazio di relazioni e contaminazioni.

È a Milano, d’altronde, che si rinnovano i fondamenti della “cultura politecnica”, diffusa tra le sue imprese e i suoi centri culturali e formativi, con solide basi nell’Ottocento di Carlo Cattaneo e frequenti trasformazioni negli anni fecondi d’inizio Novecento (l’Esposizione Universale del 1906), poi in quelli del boom economico e delle dinamiche riviste aziendali di Pirelli, Olivetti, Eni e Finmeccanica, testimonianza di una feconda “civiltà delle macchine” e poi ancora nell’inquieto passaggio contemporaneo di secolo e millennio (“Stiamo trasecolando”, avrebbe commemtato ironicamente uno spirito caustico come Enzo Sellerio).

Ed è appunto qui, nelle stanze di Assolombarda, connotata dalle architetture firmate Gio Ponti, che si insiste sulla necessità di avere una maggiore e migliore formazione culturale e universitaria Stem (Science, Technology , Engineering e Mathematics) anche per rafforzare e rilanciare la competitività internazionale delle imprese e però si insiste anche su una aggiunta essenziale: la “A” di Arts e cioè le conoscenze umanistiche, la cultura della bellezza. Un’indicazione elaborata e resa pubblica durante la presidenza Assolombarda di Gianfelice Rocca (2013- 2017) e adesso ripresa in vari ambienti economici nazionali ed europei. Rocca, appunto, presidente dell’Humanitas. I medici-ingegneri ne sono testimonianza. Così come gli ingegneri filosofi su cui il Politecnico di Milano, così come quello di Torino, insistono da anni.

Questa dimensione della “cultura politecnica”, che si può anche definire come “umanesimo industriale” che oggi si declina in “umanesimo digitale” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), è quanto mai utile anche per riflettere sulla forza del soft power espressa dal Made in Italy. Téchne e cioè saper fare e gusto per la bellezza (intesa anche come senso della misura, dell’equilibrio, della forma che esprime qualità della funzione: se n’è parlato nei giorni scorsi al Forum dei Territori di UniCredit per la Lombardia). Cultura del progetto che innerva la cultura del prodotto (gli oggetti esposti all’ADI Design Museum, premiati negli anni con il “Compasso d’Oro” ne sono chiare testimonianze). Produzioni di qualità nei settori di meccanica e meccatronica, aerospazio, cantieristica navale, gomma e plastica, robotica e automotive, chimica e farmaceutica (le Life Sciences, appunto), oltre che nei tradizionali settori di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare.

Innovazione, tecnologie d’avanguardia, bellezza. Un soft power inimitabile, da spendere di più e meglio nella competizione internazionale, grazie a una nuova e migliore politica industriale nazionale ed europea. E da valorizzare non solo come produttività, ma anche come attrattività per una migliore qualità della vita e del lavoro.

La Medtec School, da cui è cominciato il nostro ragionamento, ne è un buon esempio. Ibridazioni da valorizzare.

Un medico ingegnere, una sintesi originale tra competenze diverse, in grado di tenere insieme l’anatomia e le macchine tecnologiche più sofisticate, l’attenzione specialistica per la salute e la capacità di usare tutti gli strumenti digitali per diagnosi e terapia e prevenzione sanitaria. Di conoscere a fondo, insomma, quella creazione straordinaria, complessa e fragile, che è il corpo umano e di governare, a suo vantaggio, le possibilità offerte dall’Intelligenza Artificiale. A metà della scorsa settimana, a Milano, si sono laureati i primi 37 studenti di un corso di studi interdisciplinare, la Medtec School, nata sei anni fa dalla collaborazione tra la Humanitas University e il Politecnico (Corriere della Sera, 3 luglio). E la città conferma, così, una sua caratteristica di fondo: essere avanguardia nella formazione di alto livello, punto di riferimento internazionale delle Life Sciences, centro culturale di sperimentazione, ibridazione e sintesi di saperi diversi, lungo le nuove frontiere high tech. Una metropoli politecnica.

Sostiene Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico: “La convergenza tra Medicina e Ingegneria rappresenta un fattore di sviluppo economico e sociale a livello globale e nasce come eccellenza italiana. E la nostra speranza è che i neolaureati scelgano di specializzarsi qui e di lavorare in strutture ospedaliere e aziende del nostro paese”. E Luigi Maria Terracciano, rettore della Humanitas University: “L’obiettivo che ci siamo dati è formare professionisti capaci di governare l’evoluzione tecnologica in campo medico, mantenendo lo sguardo umano e la relazione con il paziente. Si tratta di un’esperienza universitaria con sbocchi importanti nel settore ospedaliero ma anche nell’ambito della ricerca avanzata”.

La Medtec School oggi ha 389 iscritti (il 58% sono studentesse), con una forte capacità di attrazione internazionale: il 17% vengono dall’estero, soprattutto da Francia, Grecia e Turchia. Quest’anno i laureati saranno in tutto 42. I corsi sono naturalmente in inglese, si svolgono a semestri alterni al Politecnico e alla Humanitas University e traggono vantaggio anche dal fitto sistema di relazioni che le due università hanno con docenti e ricercatori dei grandi atenei e dei migliori centri di ricerca nei principali paesi del mondo. Riprova dei vantaggi di una cultura scientifica critica, dialettica, aperta all’innovazione e sensibile agli stimoli di cambiamento.

È proprio questa, d’altronde, nella storia e nella pur controversa contemporaneità, una caratteristica di fondo di Milano, oramai la principale città universitaria italiana, con oltre 220mila studenti in una decina tra università (sempre meglio inserite nelle più prestigiose classifiche internazionali) e scuole di alta formazione (nel mondo del design e della moda). La caratteristica di chi, nell’accoglienza (comunque esigente, severa, produttiva), sa costruire stimoli di crescita e tenere insieme competitività e inclusione sociale, cittadinanza (uno spirito civile, di comunità) e intraprendenza, mercato e welfare. E anche se queste attitudini oggi conoscono un momento di crisi, una trasformazione delle tendenze di fondo (molti superficiali city users, un numero crescente di abitanti in difficoltà per gli alti costi dell’abitare e del vivere) e si ascoltano frequenti critiche e autocritiche sulle trasformazioni della “milanesità” (Milano è la città italiana più incline a discutere su se stessa, spregiudicatamente), è comunque vero che proprio qui continuano a nascere e maturare culture, fenomeni economici e sociali, processi che anticipano e strutturano modi d’essere, lavorare e produrre che innervano altri territori della Grande Milano, dell’Italia e della parte più dinamica e produttiva dell’Europa. Milano metropoli aperta, spazio di relazioni e contaminazioni.

È a Milano, d’altronde, che si rinnovano i fondamenti della “cultura politecnica”, diffusa tra le sue imprese e i suoi centri culturali e formativi, con solide basi nell’Ottocento di Carlo Cattaneo e frequenti trasformazioni negli anni fecondi d’inizio Novecento (l’Esposizione Universale del 1906), poi in quelli del boom economico e delle dinamiche riviste aziendali di Pirelli, Olivetti, Eni e Finmeccanica, testimonianza di una feconda “civiltà delle macchine” e poi ancora nell’inquieto passaggio contemporaneo di secolo e millennio (“Stiamo trasecolando”, avrebbe commemtato ironicamente uno spirito caustico come Enzo Sellerio).

Ed è appunto qui, nelle stanze di Assolombarda, connotata dalle architetture firmate Gio Ponti, che si insiste sulla necessità di avere una maggiore e migliore formazione culturale e universitaria Stem (Science, Technology , Engineering e Mathematics) anche per rafforzare e rilanciare la competitività internazionale delle imprese e però si insiste anche su una aggiunta essenziale: la “A” di Arts e cioè le conoscenze umanistiche, la cultura della bellezza. Un’indicazione elaborata e resa pubblica durante la presidenza Assolombarda di Gianfelice Rocca (2013- 2017) e adesso ripresa in vari ambienti economici nazionali ed europei. Rocca, appunto, presidente dell’Humanitas. I medici-ingegneri ne sono testimonianza. Così come gli ingegneri filosofi su cui il Politecnico di Milano, così come quello di Torino, insistono da anni.

Questa dimensione della “cultura politecnica”, che si può anche definire come “umanesimo industriale” che oggi si declina in “umanesimo digitale” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), è quanto mai utile anche per riflettere sulla forza del soft power espressa dal Made in Italy. Téchne e cioè saper fare e gusto per la bellezza (intesa anche come senso della misura, dell’equilibrio, della forma che esprime qualità della funzione: se n’è parlato nei giorni scorsi al Forum dei Territori di UniCredit per la Lombardia). Cultura del progetto che innerva la cultura del prodotto (gli oggetti esposti all’ADI Design Museum, premiati negli anni con il “Compasso d’Oro” ne sono chiare testimonianze). Produzioni di qualità nei settori di meccanica e meccatronica, aerospazio, cantieristica navale, gomma e plastica, robotica e automotive, chimica e farmaceutica (le Life Sciences, appunto), oltre che nei tradizionali settori di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare.

Innovazione, tecnologie d’avanguardia, bellezza. Un soft power inimitabile, da spendere di più e meglio nella competizione internazionale, grazie a una nuova e migliore politica industriale nazionale ed europea. E da valorizzare non solo come produttività, ma anche come attrattività per una migliore qualità della vita e del lavoro.

La Medtec School, da cui è cominciato il nostro ragionamento, ne è un buon esempio. Ibridazioni da valorizzare.

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