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Il tempo degli anziani serve a costruire memoria e pensiero critico, per preparare un migliore futuro

È un esile libro, 86 pagine appena, sapienti, scorrevoli. Il titolo è “I venti”. L’ha scritto Mario Vargas Llosa, poco prima di morire (nell’aprile di quest’anno). E l’ha appena pubblicato Einaudi. Si legge in un’ora. È il punto di vista d’un padre nobile della letteratura mondiale, un memoriale, una sorta di testamento. E merita attenzione d’intelligenza e di cuore.

Si racconta che a Madrid, implicitamente metafora d’altre città, chiudono i cinema, perché oramai non li frequenta più nessuno. Deserte, le biblioteche e le librerie. Tra non molto, chiuderanno anche i musei, per mancanza di pubblico. E alle manifestazioni di protesta contro questi atti di tramonto della conoscenza e dunque dello spirito civile di una comunità, non vanno che pochi anziani, malinconici, rattristati. E inascoltati.

Tutt’attorno, è il trionfo della tecnologia e delle immagini (s’invera, peggiorata, la distopia della “società dello spettacolo” profetizzata criticamente, a metà degli anni Sessanta del Novecento, da Guy Debord): riproduzioni digitali delle opere d’arte sui display di telefonini e computer invece dei quadri dal vivo; stolte passioni per una società “Paper free” senza né libri né giornali; romanzi scritti su ordinazione dall’Artificial Intelligence invece che le opere di Tolstoj, Cervantes e Virginia Woolf. Algoritmi, invece che creatività degli artisti.

E l’artista, allora? Il protagonista del libro si smarrisce dalle parti della Biblioteca Nacional di paseo de Recoletos, nel cuore della città, è fragile e confuso, non ricorda più neppure la strada di casa. E vaga, sommerso da ricordi e rimpianti. Un anziano alla deriva. “Triste, solitario y final”, titola acutamente “Robinson” de “la Repubblica”, citando Osvaldo Soriano, per dare forza alla recensione di Paolo Di Paolo sulle scarne, ironiche ed essenziali pagine del romanzo postumo di Vargas Llosa di cui abbiamo detto. Un’elegia conservatrice della buona cultura. Monito su quanto il suo degrado finisca per coinvolgere anche il complesso delle libertà sociali, economiche, politiche.

Muoiono, i vecchi maestri (gli ultimi, per le emozioni dolenti di chi scrive, sono stati pochi giorni fa Marco Onado e Goffredo Fofi). Lasciano patrimoni di pensieri e parole, nella speranza che tra noi che restiamo ci siano pur sempre persone animate da intelligenza e passioni per continuare a farli vivere e dar frutti di nuove conoscenze e intensi racconti.

Attraversiamo con ansia tempi difficili. In cui la realtà di guerre armate e conflitti commerciali (a dispetto di un ordine internazionale e di una serie di intese economiche che credevamo valori e pratiche stabilmente acquisite) scompaginano gli equilibri del mondo. E in cui aumentano i divari, geografici, sociali, razziali, culturali, di genere e generazione. Un mondo inquieto, dolente, rancoroso. Disorientato dalla crisi dei tradizionali principi d’autorità e autorevolezza. Invaso da tecnologie sofisticate. Ma sempre più incerto rispetto al pensiero critico di cui avremmo tutti uno straordinario bisogno, proprio per navigare con senso e consapevolezza nell’universo high tech.

Anche per questo, forse, ogni morte d’una persona anziana forte d’esperienza e capace di memoria ci colpisce tanto e incupisce i nostri giorni così controversi e precari.

È un pensiero in controtendenza, l’elogio dell’importanza degli anziani, in tempi di giovanilismo diffuso e di narcisismo che, in un’interpretazione involgarita del ritratto di Dorian Gray, prova a ingannare il trascorrere del tempo e dunque a evitare anche il carico delle relative responsabilità. Forse, è persino una cattiva abitudine che gli anziani coltivano per se stessi.

Eppure, ci deve pur essere uno squilibrio di fondo con cui provare a fare i conti se cronache giornalistiche, rapporti economici e indagini sociologiche ci parlano, contemporaneamente, di un’Italia che non è “un paese per giovani” e però, pure, non è “un paese per vecchi”.

Per quel che riguarda i giovani, un dato per tutti: negli ultimi dieci anni, 97 mila giovani laureati hanno lasciato il Paese, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E questo dato medio, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Nel solo ‘23, erano 21mila, cioè il 21% in più dell’anno precedente (ne abbiamo parlato nel blog del 24 giugno ).

Ma l’Italia non è nemmeno un buon paese per vecchi: gli anziani sono tanti, è vero, ma spesso anche solitari, fragili, impauriti, via via estranei ai meccanismi frenetici della contemporaneità. L’Istat certifica che un quarto della popolazione italiana (siamo quasi 59 milioni, al 1° gennaio ‘25) ha più di 65 anni e in 4milioni 591mila persone superano gli 80 anni (50mila in più rispetto al ‘24). Le speranze di vita alla nascita hanno raggiunto gli 81,4 anni per gli uomini e gli 85,5 per le donne (quasi cinque mesi in più rispetto al ‘23). Le nascite, invece continuano a diminuire: 370 mila nuovi nati nel ‘24, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna, uno dei più bassi in Europa.

Si vive più a lungo, e meglio. Ma siamo un paese con l’ascensore sociale bloccato. E se è vero che “il 75% della ricchezza è in mano agli over 50” (La Stampa, 10 luglio, secondo i dati del Rapporto di Proof Society), è altrettanto vero che il crescente malfunzionamento delle strutture di welfare (come testimonia il dramma dell’allungamento delle liste d’attesa per la sanità) e i nuovi assetti familiari e sociali aggravano la marginalità degli anziani non benestanti e poco autosufficienti.

Ecco il punto. C’è un’Italia da capire più a fondo e a cui dare prospettive meno squilibrate e speranze più solide. Slogan a parte, è necessario guardare meglio all’interno del corpo del Paese, imparare a leggere fuori dagli stereotipi le condizioni di periferie metropolitane, borghi montani, campagne in via d’abbandono. E curarsi molto di più delle questioni dei “beni comuni” e dei valori generali delle comunità. Costruire, insomma, percorsi di buona politica ed efficace pubblica amministrazione.

“I vecchi e i giovani”, prendendo in prestito il titolo d’un grande romanzo di Luigi Pirandello, non può essere tema da giocare su contrasti e contrapposizioni. Semmai, va pensato in nuove e originali sintesi. Tra presenze sociali e generazionali diverse. Nell’incrocio fertile tra memoria e futuro, consapevolezza storica e spazio aperto per l’innovazione. Le vicende stesse della società italiana, di queste sintesi, offrono testimonianze esemplari.

Come le pagine di Italo Calvino, ne “Le città invisibili”: “Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, vederle cambiare pietra su pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi”.

Rimemorare, dunque, è la responsabilità degli anziani. E, senza cedere al narcisismo giovanilista e all’ossessione del potere, essere utili nel suggerire percorsi, nell’alimentare dubbi e domande, nel fornire materiali di pensiero critico.

Il nostro tempo di vita va naturalmente verso la scadenza. E vale la pena fare tesoro della lezione di Enzo Bianchi: aggiungere “vita ai giorni”, non potendo aggiungere “giorni alla vita”.

Saper essere maestri, insomma. Con la m minuscola. Raccontare. Insegnare. Mostrare. Far leggere e rileggere.

Torniamo, così, là dove siamo partiti. Ai “venti” di Vargas Llosa. Alla letteratura. Alle parole che a noi anziani tocca scrivere e ripetere.

Rileggendo, per esempio, José Saramago, che introduce le poesie di Fernando Pessoa: “Era un uomo che conosceva le lingue e scriveva versi. Si guadagnò il pane e il vino mettendo le parole nel posto delle parole, scrisse versi come i versi si devono scrivere come se fosse la prima volta. Ini­ziò chia­man­dosi Fer­nando, pes­soa, per­sona come tutti”.

(foto Getty Images)

È un esile libro, 86 pagine appena, sapienti, scorrevoli. Il titolo è “I venti”. L’ha scritto Mario Vargas Llosa, poco prima di morire (nell’aprile di quest’anno). E l’ha appena pubblicato Einaudi. Si legge in un’ora. È il punto di vista d’un padre nobile della letteratura mondiale, un memoriale, una sorta di testamento. E merita attenzione d’intelligenza e di cuore.

Si racconta che a Madrid, implicitamente metafora d’altre città, chiudono i cinema, perché oramai non li frequenta più nessuno. Deserte, le biblioteche e le librerie. Tra non molto, chiuderanno anche i musei, per mancanza di pubblico. E alle manifestazioni di protesta contro questi atti di tramonto della conoscenza e dunque dello spirito civile di una comunità, non vanno che pochi anziani, malinconici, rattristati. E inascoltati.

Tutt’attorno, è il trionfo della tecnologia e delle immagini (s’invera, peggiorata, la distopia della “società dello spettacolo” profetizzata criticamente, a metà degli anni Sessanta del Novecento, da Guy Debord): riproduzioni digitali delle opere d’arte sui display di telefonini e computer invece dei quadri dal vivo; stolte passioni per una società “Paper free” senza né libri né giornali; romanzi scritti su ordinazione dall’Artificial Intelligence invece che le opere di Tolstoj, Cervantes e Virginia Woolf. Algoritmi, invece che creatività degli artisti.

E l’artista, allora? Il protagonista del libro si smarrisce dalle parti della Biblioteca Nacional di paseo de Recoletos, nel cuore della città, è fragile e confuso, non ricorda più neppure la strada di casa. E vaga, sommerso da ricordi e rimpianti. Un anziano alla deriva. “Triste, solitario y final”, titola acutamente “Robinson” de “la Repubblica”, citando Osvaldo Soriano, per dare forza alla recensione di Paolo Di Paolo sulle scarne, ironiche ed essenziali pagine del romanzo postumo di Vargas Llosa di cui abbiamo detto. Un’elegia conservatrice della buona cultura. Monito su quanto il suo degrado finisca per coinvolgere anche il complesso delle libertà sociali, economiche, politiche.

Muoiono, i vecchi maestri (gli ultimi, per le emozioni dolenti di chi scrive, sono stati pochi giorni fa Marco Onado e Goffredo Fofi). Lasciano patrimoni di pensieri e parole, nella speranza che tra noi che restiamo ci siano pur sempre persone animate da intelligenza e passioni per continuare a farli vivere e dar frutti di nuove conoscenze e intensi racconti.

Attraversiamo con ansia tempi difficili. In cui la realtà di guerre armate e conflitti commerciali (a dispetto di un ordine internazionale e di una serie di intese economiche che credevamo valori e pratiche stabilmente acquisite) scompaginano gli equilibri del mondo. E in cui aumentano i divari, geografici, sociali, razziali, culturali, di genere e generazione. Un mondo inquieto, dolente, rancoroso. Disorientato dalla crisi dei tradizionali principi d’autorità e autorevolezza. Invaso da tecnologie sofisticate. Ma sempre più incerto rispetto al pensiero critico di cui avremmo tutti uno straordinario bisogno, proprio per navigare con senso e consapevolezza nell’universo high tech.

Anche per questo, forse, ogni morte d’una persona anziana forte d’esperienza e capace di memoria ci colpisce tanto e incupisce i nostri giorni così controversi e precari.

È un pensiero in controtendenza, l’elogio dell’importanza degli anziani, in tempi di giovanilismo diffuso e di narcisismo che, in un’interpretazione involgarita del ritratto di Dorian Gray, prova a ingannare il trascorrere del tempo e dunque a evitare anche il carico delle relative responsabilità. Forse, è persino una cattiva abitudine che gli anziani coltivano per se stessi.

Eppure, ci deve pur essere uno squilibrio di fondo con cui provare a fare i conti se cronache giornalistiche, rapporti economici e indagini sociologiche ci parlano, contemporaneamente, di un’Italia che non è “un paese per giovani” e però, pure, non è “un paese per vecchi”.

Per quel che riguarda i giovani, un dato per tutti: negli ultimi dieci anni, 97 mila giovani laureati hanno lasciato il Paese, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E questo dato medio, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Nel solo ‘23, erano 21mila, cioè il 21% in più dell’anno precedente (ne abbiamo parlato nel blog del 24 giugno ).

Ma l’Italia non è nemmeno un buon paese per vecchi: gli anziani sono tanti, è vero, ma spesso anche solitari, fragili, impauriti, via via estranei ai meccanismi frenetici della contemporaneità. L’Istat certifica che un quarto della popolazione italiana (siamo quasi 59 milioni, al 1° gennaio ‘25) ha più di 65 anni e in 4milioni 591mila persone superano gli 80 anni (50mila in più rispetto al ‘24). Le speranze di vita alla nascita hanno raggiunto gli 81,4 anni per gli uomini e gli 85,5 per le donne (quasi cinque mesi in più rispetto al ‘23). Le nascite, invece continuano a diminuire: 370 mila nuovi nati nel ‘24, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna, uno dei più bassi in Europa.

Si vive più a lungo, e meglio. Ma siamo un paese con l’ascensore sociale bloccato. E se è vero che “il 75% della ricchezza è in mano agli over 50” (La Stampa, 10 luglio, secondo i dati del Rapporto di Proof Society), è altrettanto vero che il crescente malfunzionamento delle strutture di welfare (come testimonia il dramma dell’allungamento delle liste d’attesa per la sanità) e i nuovi assetti familiari e sociali aggravano la marginalità degli anziani non benestanti e poco autosufficienti.

Ecco il punto. C’è un’Italia da capire più a fondo e a cui dare prospettive meno squilibrate e speranze più solide. Slogan a parte, è necessario guardare meglio all’interno del corpo del Paese, imparare a leggere fuori dagli stereotipi le condizioni di periferie metropolitane, borghi montani, campagne in via d’abbandono. E curarsi molto di più delle questioni dei “beni comuni” e dei valori generali delle comunità. Costruire, insomma, percorsi di buona politica ed efficace pubblica amministrazione.

“I vecchi e i giovani”, prendendo in prestito il titolo d’un grande romanzo di Luigi Pirandello, non può essere tema da giocare su contrasti e contrapposizioni. Semmai, va pensato in nuove e originali sintesi. Tra presenze sociali e generazionali diverse. Nell’incrocio fertile tra memoria e futuro, consapevolezza storica e spazio aperto per l’innovazione. Le vicende stesse della società italiana, di queste sintesi, offrono testimonianze esemplari.

Come le pagine di Italo Calvino, ne “Le città invisibili”: “Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, vederle cambiare pietra su pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi”.

Rimemorare, dunque, è la responsabilità degli anziani. E, senza cedere al narcisismo giovanilista e all’ossessione del potere, essere utili nel suggerire percorsi, nell’alimentare dubbi e domande, nel fornire materiali di pensiero critico.

Il nostro tempo di vita va naturalmente verso la scadenza. E vale la pena fare tesoro della lezione di Enzo Bianchi: aggiungere “vita ai giorni”, non potendo aggiungere “giorni alla vita”.

Saper essere maestri, insomma. Con la m minuscola. Raccontare. Insegnare. Mostrare. Far leggere e rileggere.

Torniamo, così, là dove siamo partiti. Ai “venti” di Vargas Llosa. Alla letteratura. Alle parole che a noi anziani tocca scrivere e ripetere.

Rileggendo, per esempio, José Saramago, che introduce le poesie di Fernando Pessoa: “Era un uomo che conosceva le lingue e scriveva versi. Si guadagnò il pane e il vino mettendo le parole nel posto delle parole, scrisse versi come i versi si devono scrivere come se fosse la prima volta. Ini­ziò chia­man­dosi Fer­nando, pes­soa, per­sona come tutti”.

(foto Getty Images)

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