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Le “parole che fanno vivere”: maestro, gentilezza, rispetto, equilibrio e probità

Ci sono parole che fanno vivere. Paul Eluard, uno dei più intensi poeti francesi del Novecento, le enumerava così: “La parola calore la parola fiducia/ Giustizia amore e la parola libertà/ la parola figlio e la parola gentilezza/ la parola coraggio la parola scoprire/ E la parola fratello e la parola compagno…”. “Parole innocenti”, le chiamava, anche per ricordare “certi nomi di luoghi e paesi/ e certi nomi di donne e di amici”. Come Gabriel Péri, eroe della Resistenza, cui la poesia era dedicata.

Possiamo provare a continuarlo, oggi, quest’elenco, anche come antidoto ai tempi difficili che ci tocca vivere. Tempi di violenza e volgarità, narcisismi e politica “con molti incubi e pochi sogni” (Il Foglio, 6 settembre), menzogne e sortilegi che rendono sempre più difficili le possibilità di scrivere storie a misura d’umanità.

Scriviamo la parola maestro, per esempio. E la parola probità. La parola lavoro, la parola rispetto e la parola equilibrio. La parola grazie e la parola scusa. La parola altrui. E, dopo Eluard, potremmo ripetere in modo nuovo la parola giustizia e la parola gentilezza.

Gli esempi di riferimento di questo nostro discorrere sono tratti dalla cronaca dei quotidiani (segno che leggere i giornali ben scritti e redatti consente di avere notizie e indicazioni di stile e cultura civile che fanno ben sperare, nonostante il disprezzo e gli insulti rivolti ai giornalisti da odiatori seriali sui social media ma anche da politici importanti). Minima moralia, si potrebbe pur dire, citando con deferenza e rispetto, senza alcuna velleità di paragone, ben più illustri precedenti.

Una persona è le avventure, le felicità e i dolori che ha vissuto, i libri che ha letto, le donne o gli uomini che ha amato, gli amici che ha scelto, i maestri che ha avuto.

Ecco, riflettiamo sulla parola “maestro” (senza esagerare, però, ad attribuirla, a sproposito, un po’ a tanti, a troppi). E usiamo, come uno degli strumenti possibili, il nuovo libro di Massimo Recalcati, giusto dieci anni dopo l’appassionante “L’ora di lezione”: è “La luce e l’onda”, Einaudi, con un sottotitolo essenziale: “Cosa significa insegnare?”. La parola maestro viene dal latino magis, che significa “più”. Più conoscenza da acquisire, più domande da fare, più risposte da cercare, più punti di vista da considerare. Non è il relativismo nichilista. Ma un’attitudine a trasmettere il sapere anche come capacità critica e come abitudine a guardare il mondo con “lo sguardo dell’altro”.

Recalcati, nelle sue pagine, parla di maestri del Novecento come Jacques Lacan, Gilles Deleuze e Pier Paolo Pasolini. E ognuno di noi può scrivere un suo elenco ulteriore. Jorge Luis Borges, tra “i giusti… che stanno salvando il mondo”, enumera “un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire” e “chi scopre con piacere un’etimologia”. Qualcuno, attento alla cultura siciliana e dunque al mondo, indicherebbe Pirandello e Vittorini, Sciascia e Camilleri (di cui tanto si discute adesso, per i cent’anni dalla nascita). A Milano, vale la pena rileggere Manzoni e Testori, oltre che Gadda. E ricordare l’ironia di Alberto Arbasino, ripresa da Edmondo Berselli: “In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro”.

Pochi fortunati e capaci, appunto. E ha proprio ragione Giuliano Ferrara quando ragiona sull’eccesso di paginate di ricordi ed elogi per le scomparse, anche recenti, di illustri personaggi e celebrità: “Esagerare stanca anche la memoria” (Il Foglio, 6 settembre). Bellezza, stile ed eleganza (ecco altre parole su cui insistere) sono il risultato di un sobrio e sofisticato senso della misura.

Maestri nell’alto dei cieli della grande cultura. E maestri, fondamentali, nella vita e nella scuola quotidiana.

Era maestra la mia nonna paterna, la maestra Lucia che, a cavallo tra la fine dell’Ottocento  e i primi quarant’anni del Novecento, aveva insegnato a leggere e fare di conto a centinaia di bambini a Caronia, un paese normanno sulla costa tirrenica della Sicilia. Scoprii, nel tempo, che in tanti avevano serbato di lei un grato ricordo. Insegnava a imparare. E ad avere un’idea delle parole, dei numeri e dunque del mondo. A diventare persone. Ieri. Come i maestri e le maestre fanno oggi e poi ancora domani. Insiste Recalcati: “È solo il contagio con il desiderio del maestro che produce il desiderio dell’allievo. Il compito del maestro è quello di accendere il desiderio di sapere”.

C’è un’altra parola cardine che si lega a maestro, pensando alla vita degli altri. Ed è rispetto. L’ha pronunciata, ancora una volta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Solo in un mondo fondato sul rispetto è possibile realizzare progresso”, ha detto in un messaggio al Forum European House Ambrosetti a Cernobbio (Corriere della Sera, 7 settembre), spronando l’Europa a “ricostruire la centralità del diritto internazionale” e a “non cedere ai regimi autocratici” e criticando pure “lo straripante peso delle corporazioni globali” ovvero le Big Tech: “Sono le nuove Compagnie delle Indie”. Rispetto umano, contro le prepotenti tecnocrazie. Rispetto delle regole e dei valori. Rispetto di un migliore equilibrio economico e sociale.

Ecco un’altra parola essenziale: equilibrio. Che vuol dire cercare, con insistenza e ragionevolezza, nuove dimensioni di compatibilità tra le necessità di crescita economica e quelle di giustizia sociale, tra produttività e sostenibilità, tra competitività e solidarietà, secondo i canoni di una “impresa riformista” che può fare da protagonista di una nuova e migliore stagione di sviluppo e non solo di crescita. Un progresso economico e civile da misurare non soltanto con i parametri del Pil (il Prodotto interno lordo, la ricchezza creata) ma soprattutto con quelli del Bes (il Benessere equo e sostenibile, un autorevole indicatore elaborato già anni fa dall’Istat), quelli dell’Isu (l’Indice di sviluppo umano introdotto dall’Onu già negli anni Novanta del Novecento per misurare il benessere e la qualità della vita, e cioè salute e istruzione, oltre che il solo reddito) e quelli del Knowledge Economic Index, messi a punto dal World Bank Institute per valutare la posizione di un Paese nell’economia globale della conoscenza, dato che proprio la diffusione della conoscenza e dunque del pensiero critico è strettamente legata alla libertà, alla responsabilità e alla qualità dello sviluppo.

C’è una teoria di fondo, con cui fare i conti: quella elaborata da Martha Nussbaum sull’idea di Capability Approach, che valuta appunto il benessere e la qualità della vita in termini di reali opportunità che una persona ha di vivere una vita che desidera e ritiene degna di essere vissuta. Ecco un’altra “parola che fa vivere”: dignità.

Tutto ciò, per insistere su uno solo di tanti esempi, significa farsi carico, da parte della politica e delle classi dirigenti in generale, delle risposte da dare a quel milione e 400mila giovani, tra i 15 e i 24 anni, “neet”, che cioè non studiano e non lavorano, un vero e proprio “capitale umano disperso” (Chiara Saraceno, La Stampa, 6 settembre) che esprime un drammatico disagio personale e sociale e determina inaccettabili squilibri nella struttura del Paese. Tutto il contrario dell’inclusività su cui si basa una solida democrazia. E della dignità personale e sociale.

Ha dunque ragione Laura Linda Sabbadini quanto sostiene, nel suo nuovo libro, “Il Paese che conta”, Marsilio, che bisogna saper ragionare su dati e fatti e non su “fattoidi”, post verità e statistiche di comodo e che misurare le disuguaglianze significa anche contribuire a salvare la democrazia.

Volendo, sull’equilibrio, potrebbe valere la pena di fare anche un altro piccolo ma significativo esempio. Sul rapporto tra vita e lavoro. Ricordando la scelta di una delle più famose trattorie milanesi, “Trippa”, a Porta Romana (tanto di successo, grazie al buon cibo, da dover aspettare mesi per avere una prenotazione) di chiudere sabato e domenica. “Meno soldi, ma più felici. E una vita migliore”, dice Pietro Caroli, il fondatore, insieme allo chef Diego Rossi (Corriere della Sera, 4 settembre). Ecco, nella Milano frenetica e luccicosa, preferire la qualità della vita e del lavoro al fare soldi è indice di una tendenza che, per quanto minoritaria, va fatta vivere e valere.

C’è un’altra parola, da legare all’idea di economia giusta e sostenibile. Ed è probità. L’ha usata Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli, per ricordare Leopoldo Pirelli per i cento anni dalla sua nascita: “Un imprenditore, tra i più lungimiranti della sua generazione. Un uomo probo, come si sarebbe detto in passato, sensibile ai temi sociali e culturali e dotato d’un grande senso di responsabilità, verso l’azienda che guidava e verso le istituzioni del Paese” (Corriere della Sera, 25 agosto: “Un illuminista in azienda. È l’etica a sostenere la missione di un imprenditore”).

Valori e passioni, nel mondo difficile e competitivo dell’economia di mercato. Quanto mai importanti per poter parlare, nel luogo periodo, di innovazione, lavoro, redditività. E migliore futuro.

Etica del fare, etica del lavoro ben fatto, si è detto, anche nei giorni scorsi, parlando di un’altra persona dell’economia e della cultura appena scomparsa, Giorgio Armani. Legando quella dimensione morale a un’idea che va oltre la moda e investe il senso più profondo dell’eleganza, come uno stile di lavoro e di vita. Anche con misura. Con buon gusto. E con gentilezza. Rieccoci alle parole “che fanno vivere”.

Sono parole impegnative, appunto, tutte quelle di cui stiamo ragionando. Ultime utopie, potrebbe pur dire qualcuno. E ben a ragione. Eppure, a rafforzare il convincimento che, nonostante i tempi corrivi e grevi vadano in tutt’altra direzione, sia necessario insistere sulle parole fertili di buoni sentimenti e comportamenti, arriva il conforto di pagine classiche, sapienti e severe. Come quelle di Lewis Mumford che invita a distinguere “l’utopia della fuga” (vaneggiare obiettivi impossibili, costruire castelli in aria) dall’ “utopia della ricostruzione” (provare a rendere in mondo un po’ migliore – ne abbiamo già parlato, in questo blog).

O quelle con cui Italo Calvino conclude “Le città invisibili”, invitando a “cercare e saper riconoscere, chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Val la pena, dunque, continuarlo, l’elenco delle “parole che fanno vivere”, delle “parole innocenti” di Eluard. Ognuno a suo modo.

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Emilio Isgrò, Libro cancellato, 1964, Museo del Novecento Milano

Getty Images

Ci sono parole che fanno vivere. Paul Eluard, uno dei più intensi poeti francesi del Novecento, le enumerava così: “La parola calore la parola fiducia/ Giustizia amore e la parola libertà/ la parola figlio e la parola gentilezza/ la parola coraggio la parola scoprire/ E la parola fratello e la parola compagno…”. “Parole innocenti”, le chiamava, anche per ricordare “certi nomi di luoghi e paesi/ e certi nomi di donne e di amici”. Come Gabriel Péri, eroe della Resistenza, cui la poesia era dedicata.

Possiamo provare a continuarlo, oggi, quest’elenco, anche come antidoto ai tempi difficili che ci tocca vivere. Tempi di violenza e volgarità, narcisismi e politica “con molti incubi e pochi sogni” (Il Foglio, 6 settembre), menzogne e sortilegi che rendono sempre più difficili le possibilità di scrivere storie a misura d’umanità.

Scriviamo la parola maestro, per esempio. E la parola probità. La parola lavoro, la parola rispetto e la parola equilibrio. La parola grazie e la parola scusa. La parola altrui. E, dopo Eluard, potremmo ripetere in modo nuovo la parola giustizia e la parola gentilezza.

Gli esempi di riferimento di questo nostro discorrere sono tratti dalla cronaca dei quotidiani (segno che leggere i giornali ben scritti e redatti consente di avere notizie e indicazioni di stile e cultura civile che fanno ben sperare, nonostante il disprezzo e gli insulti rivolti ai giornalisti da odiatori seriali sui social media ma anche da politici importanti). Minima moralia, si potrebbe pur dire, citando con deferenza e rispetto, senza alcuna velleità di paragone, ben più illustri precedenti.

Una persona è le avventure, le felicità e i dolori che ha vissuto, i libri che ha letto, le donne o gli uomini che ha amato, gli amici che ha scelto, i maestri che ha avuto.

Ecco, riflettiamo sulla parola “maestro” (senza esagerare, però, ad attribuirla, a sproposito, un po’ a tanti, a troppi). E usiamo, come uno degli strumenti possibili, il nuovo libro di Massimo Recalcati, giusto dieci anni dopo l’appassionante “L’ora di lezione”: è “La luce e l’onda”, Einaudi, con un sottotitolo essenziale: “Cosa significa insegnare?”. La parola maestro viene dal latino magis, che significa “più”. Più conoscenza da acquisire, più domande da fare, più risposte da cercare, più punti di vista da considerare. Non è il relativismo nichilista. Ma un’attitudine a trasmettere il sapere anche come capacità critica e come abitudine a guardare il mondo con “lo sguardo dell’altro”.

Recalcati, nelle sue pagine, parla di maestri del Novecento come Jacques Lacan, Gilles Deleuze e Pier Paolo Pasolini. E ognuno di noi può scrivere un suo elenco ulteriore. Jorge Luis Borges, tra “i giusti… che stanno salvando il mondo”, enumera “un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire” e “chi scopre con piacere un’etimologia”. Qualcuno, attento alla cultura siciliana e dunque al mondo, indicherebbe Pirandello e Vittorini, Sciascia e Camilleri (di cui tanto si discute adesso, per i cent’anni dalla nascita). A Milano, vale la pena rileggere Manzoni e Testori, oltre che Gadda. E ricordare l’ironia di Alberto Arbasino, ripresa da Edmondo Berselli: “In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro”.

Pochi fortunati e capaci, appunto. E ha proprio ragione Giuliano Ferrara quando ragiona sull’eccesso di paginate di ricordi ed elogi per le scomparse, anche recenti, di illustri personaggi e celebrità: “Esagerare stanca anche la memoria” (Il Foglio, 6 settembre). Bellezza, stile ed eleganza (ecco altre parole su cui insistere) sono il risultato di un sobrio e sofisticato senso della misura.

Maestri nell’alto dei cieli della grande cultura. E maestri, fondamentali, nella vita e nella scuola quotidiana.

Era maestra la mia nonna paterna, la maestra Lucia che, a cavallo tra la fine dell’Ottocento  e i primi quarant’anni del Novecento, aveva insegnato a leggere e fare di conto a centinaia di bambini a Caronia, un paese normanno sulla costa tirrenica della Sicilia. Scoprii, nel tempo, che in tanti avevano serbato di lei un grato ricordo. Insegnava a imparare. E ad avere un’idea delle parole, dei numeri e dunque del mondo. A diventare persone. Ieri. Come i maestri e le maestre fanno oggi e poi ancora domani. Insiste Recalcati: “È solo il contagio con il desiderio del maestro che produce il desiderio dell’allievo. Il compito del maestro è quello di accendere il desiderio di sapere”.

C’è un’altra parola cardine che si lega a maestro, pensando alla vita degli altri. Ed è rispetto. L’ha pronunciata, ancora una volta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Solo in un mondo fondato sul rispetto è possibile realizzare progresso”, ha detto in un messaggio al Forum European House Ambrosetti a Cernobbio (Corriere della Sera, 7 settembre), spronando l’Europa a “ricostruire la centralità del diritto internazionale” e a “non cedere ai regimi autocratici” e criticando pure “lo straripante peso delle corporazioni globali” ovvero le Big Tech: “Sono le nuove Compagnie delle Indie”. Rispetto umano, contro le prepotenti tecnocrazie. Rispetto delle regole e dei valori. Rispetto di un migliore equilibrio economico e sociale.

Ecco un’altra parola essenziale: equilibrio. Che vuol dire cercare, con insistenza e ragionevolezza, nuove dimensioni di compatibilità tra le necessità di crescita economica e quelle di giustizia sociale, tra produttività e sostenibilità, tra competitività e solidarietà, secondo i canoni di una “impresa riformista” che può fare da protagonista di una nuova e migliore stagione di sviluppo e non solo di crescita. Un progresso economico e civile da misurare non soltanto con i parametri del Pil (il Prodotto interno lordo, la ricchezza creata) ma soprattutto con quelli del Bes (il Benessere equo e sostenibile, un autorevole indicatore elaborato già anni fa dall’Istat), quelli dell’Isu (l’Indice di sviluppo umano introdotto dall’Onu già negli anni Novanta del Novecento per misurare il benessere e la qualità della vita, e cioè salute e istruzione, oltre che il solo reddito) e quelli del Knowledge Economic Index, messi a punto dal World Bank Institute per valutare la posizione di un Paese nell’economia globale della conoscenza, dato che proprio la diffusione della conoscenza e dunque del pensiero critico è strettamente legata alla libertà, alla responsabilità e alla qualità dello sviluppo.

C’è una teoria di fondo, con cui fare i conti: quella elaborata da Martha Nussbaum sull’idea di Capability Approach, che valuta appunto il benessere e la qualità della vita in termini di reali opportunità che una persona ha di vivere una vita che desidera e ritiene degna di essere vissuta. Ecco un’altra “parola che fa vivere”: dignità.

Tutto ciò, per insistere su uno solo di tanti esempi, significa farsi carico, da parte della politica e delle classi dirigenti in generale, delle risposte da dare a quel milione e 400mila giovani, tra i 15 e i 24 anni, “neet”, che cioè non studiano e non lavorano, un vero e proprio “capitale umano disperso” (Chiara Saraceno, La Stampa, 6 settembre) che esprime un drammatico disagio personale e sociale e determina inaccettabili squilibri nella struttura del Paese. Tutto il contrario dell’inclusività su cui si basa una solida democrazia. E della dignità personale e sociale.

Ha dunque ragione Laura Linda Sabbadini quanto sostiene, nel suo nuovo libro, “Il Paese che conta”, Marsilio, che bisogna saper ragionare su dati e fatti e non su “fattoidi”, post verità e statistiche di comodo e che misurare le disuguaglianze significa anche contribuire a salvare la democrazia.

Volendo, sull’equilibrio, potrebbe valere la pena di fare anche un altro piccolo ma significativo esempio. Sul rapporto tra vita e lavoro. Ricordando la scelta di una delle più famose trattorie milanesi, “Trippa”, a Porta Romana (tanto di successo, grazie al buon cibo, da dover aspettare mesi per avere una prenotazione) di chiudere sabato e domenica. “Meno soldi, ma più felici. E una vita migliore”, dice Pietro Caroli, il fondatore, insieme allo chef Diego Rossi (Corriere della Sera, 4 settembre). Ecco, nella Milano frenetica e luccicosa, preferire la qualità della vita e del lavoro al fare soldi è indice di una tendenza che, per quanto minoritaria, va fatta vivere e valere.

C’è un’altra parola, da legare all’idea di economia giusta e sostenibile. Ed è probità. L’ha usata Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli, per ricordare Leopoldo Pirelli per i cento anni dalla sua nascita: “Un imprenditore, tra i più lungimiranti della sua generazione. Un uomo probo, come si sarebbe detto in passato, sensibile ai temi sociali e culturali e dotato d’un grande senso di responsabilità, verso l’azienda che guidava e verso le istituzioni del Paese” (Corriere della Sera, 25 agosto: “Un illuminista in azienda. È l’etica a sostenere la missione di un imprenditore”).

Valori e passioni, nel mondo difficile e competitivo dell’economia di mercato. Quanto mai importanti per poter parlare, nel luogo periodo, di innovazione, lavoro, redditività. E migliore futuro.

Etica del fare, etica del lavoro ben fatto, si è detto, anche nei giorni scorsi, parlando di un’altra persona dell’economia e della cultura appena scomparsa, Giorgio Armani. Legando quella dimensione morale a un’idea che va oltre la moda e investe il senso più profondo dell’eleganza, come uno stile di lavoro e di vita. Anche con misura. Con buon gusto. E con gentilezza. Rieccoci alle parole “che fanno vivere”.

Sono parole impegnative, appunto, tutte quelle di cui stiamo ragionando. Ultime utopie, potrebbe pur dire qualcuno. E ben a ragione. Eppure, a rafforzare il convincimento che, nonostante i tempi corrivi e grevi vadano in tutt’altra direzione, sia necessario insistere sulle parole fertili di buoni sentimenti e comportamenti, arriva il conforto di pagine classiche, sapienti e severe. Come quelle di Lewis Mumford che invita a distinguere “l’utopia della fuga” (vaneggiare obiettivi impossibili, costruire castelli in aria) dall’ “utopia della ricostruzione” (provare a rendere in mondo un po’ migliore – ne abbiamo già parlato, in questo blog).

O quelle con cui Italo Calvino conclude “Le città invisibili”, invitando a “cercare e saper riconoscere, chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Val la pena, dunque, continuarlo, l’elenco delle “parole che fanno vivere”, delle “parole innocenti” di Eluard. Ognuno a suo modo.

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Emilio Isgrò, Libro cancellato, 1964, Museo del Novecento Milano

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