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L’Europa ha bisogno di investire sulla sicurezza ma anche di rileggere Mann, Unamuno e Balzac

Questa Europa così fragile, schiacciata tra gli Usa di Trump che la umiliano, la Russia di Putin che la tiene sotto minaccia di guerra e la Cina di XI JinPing che la lusinga come partner commerciale ma di serie B… Questa Europa così carica di cultura e tradizioni eppur incerta e smarrita sull’attualità dei suoi valori… Questa Europa, che ha nutrito un vocabolario di parole solenni ma troppo spesso parla con la lingua di legno di una mediocre burocrazia… Come fare rivivere questa Europa che si dispera e non sa più fare sognare?

È necessario tornare alle radici. E, forti della memoria, ripensare l’attualità della nostra democrazia e progettarne un migliore, più solido futuro. Con il coraggio e l’accortezza di chi si muove e ingaggia battaglie, politiche e culturali, anche in partibus infidelium.

Avevano poco più di trent’anni, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni e poco più di quaranta Ernesto Rossi quando, nella durezza del confino su un’isola, nella stagione più buia del dominio violento del fascismo e del nazismo sull’Europa, scrissero quel “Manifesto di Ventotene” che avrebbe fatto da cardine della rinascita europea. Ed era appena finita la Seconda Guerra Mondiale, con il suo carico di orrori, quando Thomas Mann diede alle stampe “Moniti all’Europa”, un’antologia di saggi politici e civili in cui provava a ricostruire il senso di una civiltà che aveva il dovere di ispirare una nuova e migliore stagione di convivenza e democrazia.

Ecco, proprio in questo nostro tempo così incerto e drammatico, mentre camminiamo sull’orlo di un precipizio, lungo lo stretto e scivoloso crinale che separa la pace dalla guerra (ha ragione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando evoca, come pericolo da evitare, lo spettro del 1914) bisogna ritornare alle fondamenta del nostro essere “Europa nonostante tutto”, rileggere buoni libri come quel “Manifesto” e le pagine di Mann e pronunciare “parole che fanno vivere” (l’ispirazione di Paul Eluard, nel 1944; ne abbiamo parlato nel blog dell’8 settembre).

Parole come queste: “Vincerete perché avete forza bruta in abbondanza, ma non convincerete. Per convincere bisogna persuadere e per persuadere avreste bisogno di qualcosa che vi manca: ragione e diritto nella lotta”. Le aveva pronunciate Miguel de Unamuno, filosofo e scrittore, rettore dell’università di Salamanca, nel 1936, davanti a una platea ostile di falangisti, i seguaci di estrema destra del generale Francisco Franco, oramai quasi vincitore della guerra civile spagnola.

L’Europa oggi è convincente? Persuade innanzitutto i suoi cittadini sull’importanza e la necessità di difendere e rilanciare i suoi valori, di fronte alle insidie dei suoi potenti e prepotenti avversari?

La frattura dell’idea forte di “Occidente” e di “democrazia”, con il nuovo corso di governo alla Casa Bianca, incrina profondamente il senso di fiducia sulla solidità e le prospettive di un’alleanza che ha segnato, anche sulla comunanza dei valori di democrazia e libertà e sulla sintonia degli interessi, tutto il corso della storia contemporanea, dal 1945 a oggi. E i sistemi autoritari e le “democrazie illiberali” trovano facili consensi (grazie anche alle capacità di inquinamento dei social media e alla disinformazione come atto di “guerra ibrida”) in settori crescenti delle opinioni pubbliche europee, nell’illusione delle scorciatoie facili e irresponsabili. Una situazione difficile, pericolosa. “Trump divide, Putin minaccia: la doppia trappola per l’Europa”, sintetizza La Stampa (23 settembre).

La crisi ha purtroppo radici profonde. Oramai da tempo, siamo di fronte a “La democrazia stanca”, come recita il titolo di un interessante libro di Michael J. Sandel, Feltrinelli. Sandel insegna Teoria del governo ad Harvard. E sostiene che viviamo “un pericoloso momento politico” anche per gli errori fatti proprio dalle democrazie occidentali nello sposare acriticamente “una globalizzazione guidata dalla finanza” e carica di conseguenze negative per lavoratori e ceti medi e cioè per i gruppi sociali e culturali che della democrazia liberale sono assi portanti. Non tutto, però, è perduto: “Per dare nuova vita alla democrazia dobbiamo riconfigurare l’economia e dare potere ai cittadini come protagonisti di una vita pubblica condivisa”.

Una economia “giusta”, ma anche circolare, sostenibile, coesiva, capace di coniugare produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà (torna d’attualità la lezione di John M. Keynes e dei suoi più recenti studiosi e rielaboratori: in Italia Federico Caffè, il maestro universitario di Mario Draghi, che oggi auspica un’Europa non rinunciataria e marginale ma “protagonista” della storia). Una economia “civile”, riprendendo in mano anche le indicazioni di chi, nella stagione più fertile e lungimirante dell’Illuminismo, da Napoli (Antonio Genovesi, teorico appunto dell’economia civile) a Milano (il “buon governo” analizzato e proposto dai fratelli Verri) aveva provato a indicare originali sintesi di riforme politiche e sviluppo economico.

Ecco, l’Illuminismo: uno dei frutti migliori della grande cultura europea, una straordinaria e attualissima lezione di civiltà. Da non dimenticare. Come ammonisce il cardinale di Torino Roberto Repole: “Oggi l’Europa conosce una certa secolarizzazione spirituale, ma ha tradito anche l’Illuminismo nella sua intuizione di fondo: che la libertà comporti l’assunzione di una responsabilità etica” (La Stampa, 24 settembre). Insiste Repole: “Abbiamo dato per scontate le acquisizioni del Novecento: la pace, il welfare, la salute. Abbiamo tramandato la memoria delle guerre ma non abbiamo più sentito il bisogno di riflettere sulle radici della pace che nasceva dalla coscienza etica delle generazioni che ci hanno preceduto. Rischiamo di perdere quello che abbiamo perché non abbiamo fatto manutenzione, non abbiamo considerato che la pace e il benessere non sono definitivi. Sono un processo dinamico”.

Gli illuministi ne erano consapevoli. Il primato della ragione. E la sua possibile crisi. Cui dare risposte. Lo sapeva bene pure Leonardo Sciascia, il nostro scrittore contemporaneo più sensibile alla loro lezione, aggiornata ai tempi: “A futura memoria”, era il titolo del suo ultimo libro (Bompiani, 1989), sintesi dei doveri della letteratura come lavoro creativo e responsabilità civile. Aggiungendo, però, come monito: “Se la memoria ha un futuro”.

L’illuminismo è la cultura di ieri che si riflette sull’oggi. E oggi, guardando al futuro, cosa è necessario che dica l’Europa?

Siamo l’unico territorio, nel mondo, ancora capace di tenere insieme, in una straordinaria e originale sintesi, la democrazia liberale, l’economia di mercato e il welfare e cioè le libertà, l’innovazione economica e sociale e la solidarietà. Un complesso sistema di valori forti, una sofisticata pratica di governo e di convivenza civica tra diversità. Ed è qui che bisogna insistere, anche con riforme coraggiose, sia istituzionali (la fine dell’unanimità per le decisioni dei 27 paesi della Ue, una tendenza comunque già in corso) sia politiche: gli investimenti comuni e la spesa pubblica efficiente ed efficace sui temi della sicurezza, dello sviluppo sostenibile, della conoscenza.

Fare rapidamente e bene. E anche far sapere, rendere gli europei consapevoli delle scelte da fare (e delle conseguenze) e memori dei valori di riferimento.

Ricostruire un convincente, persuasivo racconto dei valori, della forza e della necessità dell’Europa. Come democrazia. Paradigma di sviluppo equilibrato. Destino. Persuadere, appunto, come diceva Unamuno e come i migliori politici europei (dai “padri fondatori” a Kohl, Delors e Mitterrand) hanno fatto sino a ieri. E rilanciare culture e regole, come altra strada rispetto al primato della forza che nega civiltà e relazioni ispirate allo Stato di diritto.

Come? Ecco un altro punto di riflessione sulla crisi: la lingua dell’Europa. Certo non quella burocratica, fredda, distante e complicata di verbosi trattati e astrusi regolamenti. Né quella prolissa, formale e gelida di una Costituzione Ue (approvata dal Parlamento europeo nel 2004 ma mai entrata in vigore perché non ratificata da alcuni Stati membri) che conta 448 articoli, un’enormità, anche a confronto con i 139 articoli (più 18 articoli di “disposizioni transitorie e finali”) della Costituzione italiana, i 146 della Costituzione tedesca e gli 89 (più un Preambolo) della Costituzione francese.

La lingua della letteratura e dell’arte, semmai. Come spiega Antonio Spadaro su la Repubblica (24 settembre): “L’Europa è un grande romanzo. Al di là dei trattati, che non bastano, serve viverla come una narrazione epica, seguendo Mann e Musil, Balzac e Flaubert, Cervantes e, nell’attualità, Javier Cercas” e tutti gli altri, romanzieri e poeti, filosofi e storici, che ne hanno rappresentato, nel corso del tempo, controversie e legami. Perché “raccontarla così, come un romanzo, significa anche attraversarne i conflitti e farceli vivere, non negarli. Abitare le contraddizioni, non eluderle. Ricordare le ferite, non occultarle e dunque cominciare a farle guarire. Non cancellare lo scontro, ma attraversarlo”.

L’Europa come vita e destino, consapevolezza di radici e di visione di futuro, appunto. Non come territorio cui imporre un pensiero autoritario, troppo violento e infinitamente povero, rispetto alla ricca complessità della nostra storia, che merita di avere un domani.

Una dimensione così, declinata in coraggiose scelte politiche e in fermezza nel confrontarsi con il nostro alleato necessario, gli Usa e nel fare fronte efficacemente alle pressioni di chi detesta l’Europa e la sua ricchezza, non solo economica ma soprattutto spirituale, culturale e morale, può provare a far riappassionare all’Europa non solo i suoi cittadini ma anche e soprattutto le nuove generazioni.

Un’Europa in cui avere fiducia. Rafforzando quella che comunque già c’è. Come conferma lo European Sentiment Compass del 2025, elaborato in collaborazione con lo European Council on Foreign Relations e citato da due studiosi europei, Andre Wilkens e Pawel Zerka su Il Foglio (26 settembre). Il sentimento europeo – sostiene lo studio – si è rafforzato, plasmato dalla pandemia (l’Europa ha affrontato la crisi e il dopo crisi con spirito di collaborazione per i vaccini e le risposte sanitarie e con intelligenza economica e progettuale, con i finanziamenti Next Generation Europe) e poi dalla solidarietà concreta e attiva con l’Ucraina aggredita dalla Russia. E la fiducia nella Ue è al massimo dal 2007: “In quasi tutti gli Stati membri la maggioranza dei cittadini si sente legata all’Europa, si identifica come cittadino dell’Ue ed è ottimista sul futuro dell’Unione. E sempre più persone vedono l’Europa non solo come un progetto economico ma come una comunità di sicurezza e di destino comune”.

A leggere le cronache dei media e i resoconti delle posizioni politiche diffuse, non sembra proprio così. È necessario indagare e capire meglio. Ma di sicuro, sulla costruzione o ricostruzione o rafforzamento della fiducia bisogna muoversi con decisione. La sfida è politica, soprattutto oggi sul tema della sicurezza. Ma anche e soprattutto culturale, etica, civile. E su questi terreni l’Europa ha ancora buone carte da giocare.

(Photo Getty Images)

Questa Europa così fragile, schiacciata tra gli Usa di Trump che la umiliano, la Russia di Putin che la tiene sotto minaccia di guerra e la Cina di XI JinPing che la lusinga come partner commerciale ma di serie B… Questa Europa così carica di cultura e tradizioni eppur incerta e smarrita sull’attualità dei suoi valori… Questa Europa, che ha nutrito un vocabolario di parole solenni ma troppo spesso parla con la lingua di legno di una mediocre burocrazia… Come fare rivivere questa Europa che si dispera e non sa più fare sognare?

È necessario tornare alle radici. E, forti della memoria, ripensare l’attualità della nostra democrazia e progettarne un migliore, più solido futuro. Con il coraggio e l’accortezza di chi si muove e ingaggia battaglie, politiche e culturali, anche in partibus infidelium.

Avevano poco più di trent’anni, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni e poco più di quaranta Ernesto Rossi quando, nella durezza del confino su un’isola, nella stagione più buia del dominio violento del fascismo e del nazismo sull’Europa, scrissero quel “Manifesto di Ventotene” che avrebbe fatto da cardine della rinascita europea. Ed era appena finita la Seconda Guerra Mondiale, con il suo carico di orrori, quando Thomas Mann diede alle stampe “Moniti all’Europa”, un’antologia di saggi politici e civili in cui provava a ricostruire il senso di una civiltà che aveva il dovere di ispirare una nuova e migliore stagione di convivenza e democrazia.

Ecco, proprio in questo nostro tempo così incerto e drammatico, mentre camminiamo sull’orlo di un precipizio, lungo lo stretto e scivoloso crinale che separa la pace dalla guerra (ha ragione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando evoca, come pericolo da evitare, lo spettro del 1914) bisogna ritornare alle fondamenta del nostro essere “Europa nonostante tutto”, rileggere buoni libri come quel “Manifesto” e le pagine di Mann e pronunciare “parole che fanno vivere” (l’ispirazione di Paul Eluard, nel 1944; ne abbiamo parlato nel blog dell’8 settembre).

Parole come queste: “Vincerete perché avete forza bruta in abbondanza, ma non convincerete. Per convincere bisogna persuadere e per persuadere avreste bisogno di qualcosa che vi manca: ragione e diritto nella lotta”. Le aveva pronunciate Miguel de Unamuno, filosofo e scrittore, rettore dell’università di Salamanca, nel 1936, davanti a una platea ostile di falangisti, i seguaci di estrema destra del generale Francisco Franco, oramai quasi vincitore della guerra civile spagnola.

L’Europa oggi è convincente? Persuade innanzitutto i suoi cittadini sull’importanza e la necessità di difendere e rilanciare i suoi valori, di fronte alle insidie dei suoi potenti e prepotenti avversari?

La frattura dell’idea forte di “Occidente” e di “democrazia”, con il nuovo corso di governo alla Casa Bianca, incrina profondamente il senso di fiducia sulla solidità e le prospettive di un’alleanza che ha segnato, anche sulla comunanza dei valori di democrazia e libertà e sulla sintonia degli interessi, tutto il corso della storia contemporanea, dal 1945 a oggi. E i sistemi autoritari e le “democrazie illiberali” trovano facili consensi (grazie anche alle capacità di inquinamento dei social media e alla disinformazione come atto di “guerra ibrida”) in settori crescenti delle opinioni pubbliche europee, nell’illusione delle scorciatoie facili e irresponsabili. Una situazione difficile, pericolosa. “Trump divide, Putin minaccia: la doppia trappola per l’Europa”, sintetizza La Stampa (23 settembre).

La crisi ha purtroppo radici profonde. Oramai da tempo, siamo di fronte a “La democrazia stanca”, come recita il titolo di un interessante libro di Michael J. Sandel, Feltrinelli. Sandel insegna Teoria del governo ad Harvard. E sostiene che viviamo “un pericoloso momento politico” anche per gli errori fatti proprio dalle democrazie occidentali nello sposare acriticamente “una globalizzazione guidata dalla finanza” e carica di conseguenze negative per lavoratori e ceti medi e cioè per i gruppi sociali e culturali che della democrazia liberale sono assi portanti. Non tutto, però, è perduto: “Per dare nuova vita alla democrazia dobbiamo riconfigurare l’economia e dare potere ai cittadini come protagonisti di una vita pubblica condivisa”.

Una economia “giusta”, ma anche circolare, sostenibile, coesiva, capace di coniugare produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà (torna d’attualità la lezione di John M. Keynes e dei suoi più recenti studiosi e rielaboratori: in Italia Federico Caffè, il maestro universitario di Mario Draghi, che oggi auspica un’Europa non rinunciataria e marginale ma “protagonista” della storia). Una economia “civile”, riprendendo in mano anche le indicazioni di chi, nella stagione più fertile e lungimirante dell’Illuminismo, da Napoli (Antonio Genovesi, teorico appunto dell’economia civile) a Milano (il “buon governo” analizzato e proposto dai fratelli Verri) aveva provato a indicare originali sintesi di riforme politiche e sviluppo economico.

Ecco, l’Illuminismo: uno dei frutti migliori della grande cultura europea, una straordinaria e attualissima lezione di civiltà. Da non dimenticare. Come ammonisce il cardinale di Torino Roberto Repole: “Oggi l’Europa conosce una certa secolarizzazione spirituale, ma ha tradito anche l’Illuminismo nella sua intuizione di fondo: che la libertà comporti l’assunzione di una responsabilità etica” (La Stampa, 24 settembre). Insiste Repole: “Abbiamo dato per scontate le acquisizioni del Novecento: la pace, il welfare, la salute. Abbiamo tramandato la memoria delle guerre ma non abbiamo più sentito il bisogno di riflettere sulle radici della pace che nasceva dalla coscienza etica delle generazioni che ci hanno preceduto. Rischiamo di perdere quello che abbiamo perché non abbiamo fatto manutenzione, non abbiamo considerato che la pace e il benessere non sono definitivi. Sono un processo dinamico”.

Gli illuministi ne erano consapevoli. Il primato della ragione. E la sua possibile crisi. Cui dare risposte. Lo sapeva bene pure Leonardo Sciascia, il nostro scrittore contemporaneo più sensibile alla loro lezione, aggiornata ai tempi: “A futura memoria”, era il titolo del suo ultimo libro (Bompiani, 1989), sintesi dei doveri della letteratura come lavoro creativo e responsabilità civile. Aggiungendo, però, come monito: “Se la memoria ha un futuro”.

L’illuminismo è la cultura di ieri che si riflette sull’oggi. E oggi, guardando al futuro, cosa è necessario che dica l’Europa?

Siamo l’unico territorio, nel mondo, ancora capace di tenere insieme, in una straordinaria e originale sintesi, la democrazia liberale, l’economia di mercato e il welfare e cioè le libertà, l’innovazione economica e sociale e la solidarietà. Un complesso sistema di valori forti, una sofisticata pratica di governo e di convivenza civica tra diversità. Ed è qui che bisogna insistere, anche con riforme coraggiose, sia istituzionali (la fine dell’unanimità per le decisioni dei 27 paesi della Ue, una tendenza comunque già in corso) sia politiche: gli investimenti comuni e la spesa pubblica efficiente ed efficace sui temi della sicurezza, dello sviluppo sostenibile, della conoscenza.

Fare rapidamente e bene. E anche far sapere, rendere gli europei consapevoli delle scelte da fare (e delle conseguenze) e memori dei valori di riferimento.

Ricostruire un convincente, persuasivo racconto dei valori, della forza e della necessità dell’Europa. Come democrazia. Paradigma di sviluppo equilibrato. Destino. Persuadere, appunto, come diceva Unamuno e come i migliori politici europei (dai “padri fondatori” a Kohl, Delors e Mitterrand) hanno fatto sino a ieri. E rilanciare culture e regole, come altra strada rispetto al primato della forza che nega civiltà e relazioni ispirate allo Stato di diritto.

Come? Ecco un altro punto di riflessione sulla crisi: la lingua dell’Europa. Certo non quella burocratica, fredda, distante e complicata di verbosi trattati e astrusi regolamenti. Né quella prolissa, formale e gelida di una Costituzione Ue (approvata dal Parlamento europeo nel 2004 ma mai entrata in vigore perché non ratificata da alcuni Stati membri) che conta 448 articoli, un’enormità, anche a confronto con i 139 articoli (più 18 articoli di “disposizioni transitorie e finali”) della Costituzione italiana, i 146 della Costituzione tedesca e gli 89 (più un Preambolo) della Costituzione francese.

La lingua della letteratura e dell’arte, semmai. Come spiega Antonio Spadaro su la Repubblica (24 settembre): “L’Europa è un grande romanzo. Al di là dei trattati, che non bastano, serve viverla come una narrazione epica, seguendo Mann e Musil, Balzac e Flaubert, Cervantes e, nell’attualità, Javier Cercas” e tutti gli altri, romanzieri e poeti, filosofi e storici, che ne hanno rappresentato, nel corso del tempo, controversie e legami. Perché “raccontarla così, come un romanzo, significa anche attraversarne i conflitti e farceli vivere, non negarli. Abitare le contraddizioni, non eluderle. Ricordare le ferite, non occultarle e dunque cominciare a farle guarire. Non cancellare lo scontro, ma attraversarlo”.

L’Europa come vita e destino, consapevolezza di radici e di visione di futuro, appunto. Non come territorio cui imporre un pensiero autoritario, troppo violento e infinitamente povero, rispetto alla ricca complessità della nostra storia, che merita di avere un domani.

Una dimensione così, declinata in coraggiose scelte politiche e in fermezza nel confrontarsi con il nostro alleato necessario, gli Usa e nel fare fronte efficacemente alle pressioni di chi detesta l’Europa e la sua ricchezza, non solo economica ma soprattutto spirituale, culturale e morale, può provare a far riappassionare all’Europa non solo i suoi cittadini ma anche e soprattutto le nuove generazioni.

Un’Europa in cui avere fiducia. Rafforzando quella che comunque già c’è. Come conferma lo European Sentiment Compass del 2025, elaborato in collaborazione con lo European Council on Foreign Relations e citato da due studiosi europei, Andre Wilkens e Pawel Zerka su Il Foglio (26 settembre). Il sentimento europeo – sostiene lo studio – si è rafforzato, plasmato dalla pandemia (l’Europa ha affrontato la crisi e il dopo crisi con spirito di collaborazione per i vaccini e le risposte sanitarie e con intelligenza economica e progettuale, con i finanziamenti Next Generation Europe) e poi dalla solidarietà concreta e attiva con l’Ucraina aggredita dalla Russia. E la fiducia nella Ue è al massimo dal 2007: “In quasi tutti gli Stati membri la maggioranza dei cittadini si sente legata all’Europa, si identifica come cittadino dell’Ue ed è ottimista sul futuro dell’Unione. E sempre più persone vedono l’Europa non solo come un progetto economico ma come una comunità di sicurezza e di destino comune”.

A leggere le cronache dei media e i resoconti delle posizioni politiche diffuse, non sembra proprio così. È necessario indagare e capire meglio. Ma di sicuro, sulla costruzione o ricostruzione o rafforzamento della fiducia bisogna muoversi con decisione. La sfida è politica, soprattutto oggi sul tema della sicurezza. Ma anche e soprattutto culturale, etica, civile. E su questi terreni l’Europa ha ancora buone carte da giocare.

(Photo Getty Images)

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