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L’Italia è in crisi di fiducia, tra astensione elettorale, squilibri fiscali e scarsi livelli di formazione e cultura

Proviamo a guardare dentro la società italiana, in questa stagione controversa di ruvide incertezze e scarsa fiducia diffusa, fra timori crescenti di crisi e di guerre e taglienti disagi economici e sociali. E facciamolo sulla scorta di alcuni dati esemplari: quelli di chi vota e chi no, di chi paga le tasse e chi invece, in un modo o nell’altro, ne scansa il peso (colpevolmente e irresponsabilmente, spesso), tra chi ha prospettive sicure di trovare e mantenere un lavoro e di chi, invece (tra i giovani soprattutto) se ne va via, “vota con i piedi”, cioè e sceglie di cercare altrove migliori condizioni di vita e professione (quasi 200mila gli italiani emigrati nel ‘24, il 20% in più dell’anno precedente e molti di loro con una laurea in tasca).

“La disaffezione per la politica”, titola “Il Foglio” (3 ottobre) per una pagina intera, firmata autorevolmente da Sabino Cassese (uno dei nostri migliori studiosi di istituzioni e movimenti politici) e attenta a ragionare su “sfiducia e disinteresse” manifestate dai comportamenti del corpo elettorale: “In Italia non è in calo soltanto l’affluenza alle urne, ma è diminuita anche la ‘partecipazione invisibile’ fatta di informazione e discussione”, la partecipazione cioè ai processi politici e sociali di un’opinione pubblica capace di un discorso critico e dunque di un giudizio ben informato (secondo la lezione di Jurgen Habermas sulla costruzione del consenso nella democrazia liberale).

I recenti dati sull’affluenza alle urne per le elezioni regionali nelle Marche (50,01% degli elettori) la settimana scorsa e in Calabria, ieri (43%) confermano una tendenza oramai ripetuta nel tempo secondo cui va a votare mediamente appena un elettore su due: una percentuale già diffusa da tempo in altre democrazie occidentali ma comunque segno di una grande fragilità nel rapporto tra politica e  persone che si sentono sempre meno “cittadini”, nel senso di cives, responsabili partecipi della civitas, comunità coesa e consapevole.

Dove nasce la sfiducia rispetto alla politica, il disincanto sulle possibilità che le forze politiche, sia al governo (che comunque ha la maggioranza dei votanti) che all’opposizione possano fare cose concrete per migliorare la qualità della vita e affrontare i grandi temi del lavoro, dei redditi, della sicurezza, della sanità e della scuola, insomma di un migliore futuro?

Sarebbe utilissimo, un “cantiere” di riflessioni critiche e autocritiche, in grado di suggerire azioni per riportare al voto almeno una parte dei così tanti, troppi astenuti. La speranza è che qualcuno avvii un serio, sincero dibattito e soprattutto sia pronto all’ascolto dei cittadini.

C’è una seconda serie di dati, su cui fermare l’attenzione. E riguardano il fisco. Il 43% degli italiani non paga l’Irpef (non ha redditi o non li dichiara). E il 12% versa appena 26 euro all’anno. L’effetto è che il carico fiscale grava sul 45% degli italiani. A guardare meglio all’interno dei numeri, si scopre un ulteriore elemento di squilibrio: il 76,8% dell’intera Irpef è pagato da circa 11,6 milioni di contribuenti (sui 42 milioni che fanno la dichiarazione dei redditi e i 33,5 milioni di contribuenti effettivi e cioè che versano almeno 1 euro).

I dati (dichiarazione dei redditi 2024 e dunque relativi al 2023) sono forniti da Itinerari Previdenziali, con il sostegno del Cida (l’associazione dei dirigenti d’azienda). E confermano anche stavolta una situazione già nota da anni e, con il passare del tempo, sempre più intollerabile: tutto il peso delle tasse sul reddito (con cui si pagano scuola, sicurezza, sanità, servizi pubblici, etc. di tutti i cittadini) grava sul ceto medio e soprattutto medio-alto, sui lavoratori dipendenti e su quella parte, minoritaria, di ceti produttivi e professionali autonomi che sono in regola con il fisco. “Pensionati, dipendenti e grandi imprese, ecco chi paga le tasse”, sintetizza La Stampa (6 ottobre).

Il fisco, nella sua complessità di entrate e uscite (tasse e spesa pubblica), è parte fondamentale del patto di cittadinanza, del legame tra le persone e lo Stato. Il permanere e anzi il peggiorare degli squilibri, tra chi paga e chi no, chi rispetta la legge e che evade, incrina quel patto. Mette in crisi la fiducia. Mina le basi della convivenza civile e dunque della democrazia. Un altro tema di riflessione, essenziale, dunque, soprattutto in una stagione di “democrazia stanca” (il titolo dell’ottimo libro di Michael J. Sandel, professore ad Harvard, che avevamo citato nel blog della scorsa settimana) e di necessità di dare nuova energia alla politica democratica, sotto attacco da parte di tentazioni autoritarie e populiste.

La terza serie di dati riguarda lo spessore culturale. Un italiano su tre (dati della Survey of Adult Skills elaborata dall’Ocse) è un “analfabeta funzionale”: non capisce un testo scritto di pur minima complessità, non sa affrontare operazioni matematiche semplici. Siamo da un decennio in coda alle classifiche dei paesi più industrializzati. E abbiamo pessimi punteggi anche in altre classifiche che riguardano gli investimenti in istruzione e ricerca scientifica, il numero dei laureati, la lettura di libri, etc.

L’ignoranza, la scarsa comprensione dei problemi generali ma anche professionali, la distanza dai fattori culturali generali sono cause di altre fratture nello spirito di comunità e nella percezione di sé come cittadini.

C’è un nesso, insomma, tra crollo della partecipazione politica, disagio per gli squilibri fiscali e analfabetismo funzionale e bassa qualità culturale. Tutto concorre alla caduta dello spirito civile. E dunque anche alla crisi della capacità di affrontare consapevolmente i grandi temi della vita pubblica, a cominciare dalla costruzione delle possibilità di un più equilibrato sviluppo economico e sociale e di un reale miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita.

Una risposta possibile? Investire massicciamente, con risorse pubbliche e private, sulla conoscenza. Sulla scuola, cioè. Sulla diffusione e la lettura dei libri. Sulla partecipazione attiva e critica alle attività culturali. Sull’idea forte del legame tra libertà responsabile e comprensione dei fenomeni che ci riguardano nella vita quotidiana e nella costruzione del futuro.

“Più libri più liberi” era lo slogan, quanto mai efficace, di una fortunata iniziativa sulla lettura di qualche anno fa, una fiera della piccola e media editoria. Libro come metafora di conoscenza, naturalmente. Di conoscenza critica. E dunque di migliore condizione umana in grado di pensare bene al futuro.

Foto Getty Images

Proviamo a guardare dentro la società italiana, in questa stagione controversa di ruvide incertezze e scarsa fiducia diffusa, fra timori crescenti di crisi e di guerre e taglienti disagi economici e sociali. E facciamolo sulla scorta di alcuni dati esemplari: quelli di chi vota e chi no, di chi paga le tasse e chi invece, in un modo o nell’altro, ne scansa il peso (colpevolmente e irresponsabilmente, spesso), tra chi ha prospettive sicure di trovare e mantenere un lavoro e di chi, invece (tra i giovani soprattutto) se ne va via, “vota con i piedi”, cioè e sceglie di cercare altrove migliori condizioni di vita e professione (quasi 200mila gli italiani emigrati nel ‘24, il 20% in più dell’anno precedente e molti di loro con una laurea in tasca).

“La disaffezione per la politica”, titola “Il Foglio” (3 ottobre) per una pagina intera, firmata autorevolmente da Sabino Cassese (uno dei nostri migliori studiosi di istituzioni e movimenti politici) e attenta a ragionare su “sfiducia e disinteresse” manifestate dai comportamenti del corpo elettorale: “In Italia non è in calo soltanto l’affluenza alle urne, ma è diminuita anche la ‘partecipazione invisibile’ fatta di informazione e discussione”, la partecipazione cioè ai processi politici e sociali di un’opinione pubblica capace di un discorso critico e dunque di un giudizio ben informato (secondo la lezione di Jurgen Habermas sulla costruzione del consenso nella democrazia liberale).

I recenti dati sull’affluenza alle urne per le elezioni regionali nelle Marche (50,01% degli elettori) la settimana scorsa e in Calabria, ieri (43%) confermano una tendenza oramai ripetuta nel tempo secondo cui va a votare mediamente appena un elettore su due: una percentuale già diffusa da tempo in altre democrazie occidentali ma comunque segno di una grande fragilità nel rapporto tra politica e  persone che si sentono sempre meno “cittadini”, nel senso di cives, responsabili partecipi della civitas, comunità coesa e consapevole.

Dove nasce la sfiducia rispetto alla politica, il disincanto sulle possibilità che le forze politiche, sia al governo (che comunque ha la maggioranza dei votanti) che all’opposizione possano fare cose concrete per migliorare la qualità della vita e affrontare i grandi temi del lavoro, dei redditi, della sicurezza, della sanità e della scuola, insomma di un migliore futuro?

Sarebbe utilissimo, un “cantiere” di riflessioni critiche e autocritiche, in grado di suggerire azioni per riportare al voto almeno una parte dei così tanti, troppi astenuti. La speranza è che qualcuno avvii un serio, sincero dibattito e soprattutto sia pronto all’ascolto dei cittadini.

C’è una seconda serie di dati, su cui fermare l’attenzione. E riguardano il fisco. Il 43% degli italiani non paga l’Irpef (non ha redditi o non li dichiara). E il 12% versa appena 26 euro all’anno. L’effetto è che il carico fiscale grava sul 45% degli italiani. A guardare meglio all’interno dei numeri, si scopre un ulteriore elemento di squilibrio: il 76,8% dell’intera Irpef è pagato da circa 11,6 milioni di contribuenti (sui 42 milioni che fanno la dichiarazione dei redditi e i 33,5 milioni di contribuenti effettivi e cioè che versano almeno 1 euro).

I dati (dichiarazione dei redditi 2024 e dunque relativi al 2023) sono forniti da Itinerari Previdenziali, con il sostegno del Cida (l’associazione dei dirigenti d’azienda). E confermano anche stavolta una situazione già nota da anni e, con il passare del tempo, sempre più intollerabile: tutto il peso delle tasse sul reddito (con cui si pagano scuola, sicurezza, sanità, servizi pubblici, etc. di tutti i cittadini) grava sul ceto medio e soprattutto medio-alto, sui lavoratori dipendenti e su quella parte, minoritaria, di ceti produttivi e professionali autonomi che sono in regola con il fisco. “Pensionati, dipendenti e grandi imprese, ecco chi paga le tasse”, sintetizza La Stampa (6 ottobre).

Il fisco, nella sua complessità di entrate e uscite (tasse e spesa pubblica), è parte fondamentale del patto di cittadinanza, del legame tra le persone e lo Stato. Il permanere e anzi il peggiorare degli squilibri, tra chi paga e chi no, chi rispetta la legge e che evade, incrina quel patto. Mette in crisi la fiducia. Mina le basi della convivenza civile e dunque della democrazia. Un altro tema di riflessione, essenziale, dunque, soprattutto in una stagione di “democrazia stanca” (il titolo dell’ottimo libro di Michael J. Sandel, professore ad Harvard, che avevamo citato nel blog della scorsa settimana) e di necessità di dare nuova energia alla politica democratica, sotto attacco da parte di tentazioni autoritarie e populiste.

La terza serie di dati riguarda lo spessore culturale. Un italiano su tre (dati della Survey of Adult Skills elaborata dall’Ocse) è un “analfabeta funzionale”: non capisce un testo scritto di pur minima complessità, non sa affrontare operazioni matematiche semplici. Siamo da un decennio in coda alle classifiche dei paesi più industrializzati. E abbiamo pessimi punteggi anche in altre classifiche che riguardano gli investimenti in istruzione e ricerca scientifica, il numero dei laureati, la lettura di libri, etc.

L’ignoranza, la scarsa comprensione dei problemi generali ma anche professionali, la distanza dai fattori culturali generali sono cause di altre fratture nello spirito di comunità e nella percezione di sé come cittadini.

C’è un nesso, insomma, tra crollo della partecipazione politica, disagio per gli squilibri fiscali e analfabetismo funzionale e bassa qualità culturale. Tutto concorre alla caduta dello spirito civile. E dunque anche alla crisi della capacità di affrontare consapevolmente i grandi temi della vita pubblica, a cominciare dalla costruzione delle possibilità di un più equilibrato sviluppo economico e sociale e di un reale miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita.

Una risposta possibile? Investire massicciamente, con risorse pubbliche e private, sulla conoscenza. Sulla scuola, cioè. Sulla diffusione e la lettura dei libri. Sulla partecipazione attiva e critica alle attività culturali. Sull’idea forte del legame tra libertà responsabile e comprensione dei fenomeni che ci riguardano nella vita quotidiana e nella costruzione del futuro.

“Più libri più liberi” era lo slogan, quanto mai efficace, di una fortunata iniziativa sulla lettura di qualche anno fa, una fiera della piccola e media editoria. Libro come metafora di conoscenza, naturalmente. Di conoscenza critica. E dunque di migliore condizione umana in grado di pensare bene al futuro.

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