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Il giornalismo alla prova dell’AI: stimolare la conoscenza contro le fake news che stravolgono democrazia e società

“Se la foto non è venuta bene, significa che non eri abbastanza vicino”. Sono parole di Robert Capa, uno dei migliori fotoreporter del Novecento. Per fare il suo lavoro, non aveva mai evitato i rischi. Durante la guerra civile spagnola. E nel D Day dello sbarco in Normandia, nel giugno del 1944. Nella guerra arabo-israeliana del 1948. E in Indocina, nel 1954. Lì, nella provincia di Thai Bin, andò troppo vicino. A una mina. Aveva 41 anni.

Ne aveva 26 Gerda Taro, la sua compagna di lavoro e di vita. Travolta da un carro armato, nel luglio del ‘37, alle porte di Madrid.

Vivere per raccontare. Testimoniare. Fare capire. Con un’immagine, una serie di parole, una ripresa Tv. Il giornalismo è un lavoro. Ma anche una scelta di vita. Che talvolta ha un prezzo terribile: la morte.

Essere “abbastanza vicino”, appunto, diceva Capa. Vicino a quella dimensione della verità dei fatti che il lavoro di cronaca, analisi e inchiesta consente di vedere e di rappresentare.

Queste parole sono risuonate, alla fine di settembre, in apertura della cerimonia di premiazione dei vincitori de “Il Premiolino” (uno dei più antichi premi giornalistici italiani, fondato nel 1960 da Enzo Biagi, Indro Montanelli, Orio Vergani e altre “grandi firme” dei quotidiani), al Piccolo Teatro di Milano, mentre la voce di un’attrice, fuori campo, ricordava tanti altri nomi, Mauro De Mauro e Mario Francese, Mauro Rostagno, Pippo Fava e Giancarlo Siani, che scrivevano sugli intrecci mafiosi tra crimini, affari e potere. E Carlo Casalegno e Walter Tobagi, impegnati a disvelare i nodi dell’orrore del terrorismo negli anni Settanta. E, ancora, Maria Grazia Cutuli in Afghanistan e Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio. Anna Politkovskaja in Russia. E tanti altri, in Europa e nel mondo.

A loro è stata dedicare la serata, in cui si è “premiato il buon giornalismo, serio e severo interprete di verità e civiltà, di umanità e senso della democrazia”. Ricordando, ancora, i reporter morti a Gaza, sino a pochissimi giorni fa. E un’altra donna, esemplare e coraggiosa, Victoria Roshchyna, in Ucraina.

Tutti questi nomi, “pronunciati con solidarietà e con rispetto, dicono, drammaticamente, il senso e il valore del mestiere di giornalista”. Un mestiere con una forte connotazione morale e civile, “adatto alle donne e agli uomini che amano libertà e responsabilità. Inadatto, invece, ‘ai cinici’, come ha insegnato quello straordinario maestro che si chiamava Ryszard Kapuścinski”.

Memoria dei morti che va oltre il pur doveroso ricordo. Perché una cerimonia che, anno dopo anno, dà valore alle parole dette e scritte sui giornali, in rete, in radio e in Tv, racconta contemporaneità e futuro, insistendo sulla buona informazione come pilastro della nostra convivenza civile e democratica e dell’impegno per le nuove generazioni.

La giuria del Premiolino (presieduto da Chiara Beria di Argentine e sostenuto da Pirelli), quest’anno ha premiato Paolo Giordano (Corriere della Sera), Anna Zafesova (La Stampa), Luigi Manconi (la Repubblica), Siegmund Ginzberg (Il Foglio), Thomas Mackinson (Il Fatto Quotidiano), Sabrina Giannini (Rai3) e Gianna Fregonara e Orsola Riva (Corriere della Sera) per il Premio Pirelli per l’informazione sulla scuola: un panorama ampio dei temi su cui l’informazione, proprio in una stagione così difficile e controversa, offre prove costanti di valore culturale e sociale.

Ecco il punto: questi non sono tempi facili, per i giornalisti. Sono messi in crisi dal generale discredito che da troppo tempo oramai colpisce le élite, gli intellettuali, gli scienziati, le persone competenti (l’espansione prepotente dei sociali media sul web ha aiutato la diffusione del pregiudizio secondo cui “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”). Colpiti dalle radicali trasformazioni tecnologiche e culturali che investono il sistema mediatico, senza che ci siano ancora risposte editoriali e politiche all’altezza della sfida. Maltollerati da poteri politici ed economici che detestano le critiche e preferiscono coltivare fake news e post-verità. E considerati marginali da un’opinione pubblica diffusa che non ritiene l’informazione un patrimonio fondamentale della comunità e si affida ai fattoidi invece di fare i conti con i fatti, i dati, le verità, anche quando sono scomode e non convenienti per un gruppo sociale, una congrega di interessi, una corporazione.

Come in tutte le crisi, anche i mondi della cultura, della scienza e dell’informazione hanno le loro dosi di responsabilità. Ma un fatto è comunque chiaro: senza l’informazione di qualità avremmo comunque un mondo peggiore, più ingiusto e squilibrato. E ne soffrirebbero la democrazia, l’economia di mercato, i sistemi di welfare e solidarietà sociale e, in generale, tutti i meccanismi di conoscenza che incidono sulla qualità della vita, del lavoro, delle relazioni.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da sempre attento ai temi della democrazia e delle relazioni tra poteri e culture che costruiscono la trama della partecipazione e della cittadinanza, nel giorni scorsi, durante un discorso a Tallin, in Estonia, ha ricordato che “le sfide poste dall’Intelligenza Artificiale sono complesse, ma le democrazie non possono permettersi di rimanere indietro… Sta a noi realizzare una IA che protegga i nostri cittadini e i nostri valori, senza insidiarli”.

Ecco un punto chiave: l’insidia al sistema dell’informazione: “La tecnologia e la sicurezza – insiste Mattarella – sono tematiche strettamente interconnesse e sempre più centrali per le nostre comunità democratiche. Assistiamo a un crescente uso dell’IA per fini di disinformazione e per condizionare le pubbliche opinioni, attraverso un uso spregiudicato della profilazione degli utenti sui social media e della diffusione, altrettanto spregiudicata, di notizie false”.

Servono dunque “standard globali vincolanti” per governare i processi messi in moto dall’IA. E una consapevolezza diffusa non solo delle opportunità legate alle nuove tecnologie, ma pure, lucidamente, dei loro rischi.

L’antidoto? Investire sulla conoscenza, sui saperi umanistici e scientifici, su un più profondo senso di responsabilità delle opinioni pubbliche. Sarà difficile farcela. Ma è indispensabile provare, con convinzione.

Sono temi essenziali, al centro anche della riflessione di Papa Leone. “L’informazione libera è un pilastro che sorregge la costruzione delle nostre società e, per questo, siamo chiamati a difenderla e garantirla”, ha detto nei giorni scorsi in un messaggio a Minds, l’associazione delle principali agenzie di stampa. Contro “l’informazione spazzatura” servono “competenza, coraggio e senso etico”: i giornalisti possono “essere un argine a chi, attraverso l’arte antica della menzogna, punta a creare contrapposizioni per comandare dividendo; un baluardo di civiltà rispetto alle sabbie mobili dell’approssimazione e della post-verità”.

Il giornalismo – insiste Papa Leone – “non è un crimine”. E bisogna ringraziare “i reporter che rischiano personalmente perché la gente possa sapere come stanno le cose”.

Il Papa ha chiesto ai giornalisti di “liberare la comunicazione dall’inquinamento cognitivo che la corrompe, dalla concorrenza sleale, dal degrado del cosiddetto click bait”. Insomma, “non siamo destinati a vivere in un mondo dove la verità non è più distinguibile dalla finzione”. Secondo il Papa, “gli algoritmi generano contenuti e dati in una dimensione e con una velocità che non si era mai vista prima. Ma chi li governa? L’intelligenza artificiale sta cambiando il modo con cui ci informiamo e comunichiamo, ma chi la guida e a quali fini?”. In sintesi: “Dobbiamo vigilare perché la tecnologia non si sostituisca all’uomo, e perché l’informazione e gli algoritmi che oggi la governano non siano nelle mani di pochi”.

Sono temi su cui, per fortuna, cresce l’attenzione del mondo giornalistico ed editoriale. Come conferma anche il dibattito dei giorni scorsi al convegno de “Il Sole24Ore” sull’evoluzione dei media. Lo testimoniano due degli interventi principali. Innanzitutto quello di Agnese Pini, direttrice di QN/ La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno: “L’informazione è il canale terzo tra il potere e il cittadino: se viene meno questo filtro, il potere parla direttamente con i cittadini in maniera verticale e si perde una garanzia fondamentale per la democrazia”. C’è infatti una relazione perversa tra la diffusione dei social media e il crollo degli indici di lettura, dal biennio 2011-2012 a oggi. E bisogna affrontare la sfida di un miglioramento dei processi di conoscenza e di buona informazione.

Aggiunge Giuseppe De Bellis, direttore editoriale di SkyTg24: “Nel grande panorama dell’informazione, spesso approssimativa, eccessivamente urlata e spinta ai limiti della disinformazione tutte le testate figlie di un’eredità storica che vivono nell’ecosistema digitale con siti internet e profili social devono spingere i consumatori e i lettori a frequentare le proprie piattaforme puntando su autorevolezza e credibilità”.

La sfida della conoscenza e della buona informazione, insomma, è difficile ma non è persa.

C’è una interessante opportunità di riflessione, nell’anno che verrà. Un anno di anniversari simbolici, proprio per il mondo dei giornali. I 159 anni dalla fondazione del “Corriere della Sera”. E i 70 anni de “Il Giorno”. Ma anche i 50 anni de “la Repubblica”. E una ricorrenza meno fausta, quella della chiusura, l’8 marzo del 1966, de “Il Mondo”, il settimanale diretto da Mario Pannunzio, scuola di formazione d’un solido giornalismo di qualità ma soprattutto d’un intenso sentire civile, laico, liberale e sensibile ai temi sociali.

Le ricorrenze sono talvolta a rischio di retorica celebrativa e di nostalgico amarcord. Stavolta varrebbe la pena che il mondo dell’informazione, ma anche quello della politica, dell’economia e della cultura approfittassero dell’occasione per ragionare seriamente, approfonditamente, spregiudicatamente, delle relazioni imprescindibili tra giornalismo e democrazia, del bisogno di fare crescere i livelli di informazione e di conoscenza, di una svolta dell’editoria come impresa economica, sì, ma con una forte, radicata connotazione civile.

Le parole sono pietre”, ha insegnato Carlo Levi. Indispensabili, per rafforzare gli edifici delle nostre libertà.

(photo Ippi Studio)

“Se la foto non è venuta bene, significa che non eri abbastanza vicino”. Sono parole di Robert Capa, uno dei migliori fotoreporter del Novecento. Per fare il suo lavoro, non aveva mai evitato i rischi. Durante la guerra civile spagnola. E nel D Day dello sbarco in Normandia, nel giugno del 1944. Nella guerra arabo-israeliana del 1948. E in Indocina, nel 1954. Lì, nella provincia di Thai Bin, andò troppo vicino. A una mina. Aveva 41 anni.

Ne aveva 26 Gerda Taro, la sua compagna di lavoro e di vita. Travolta da un carro armato, nel luglio del ‘37, alle porte di Madrid.

Vivere per raccontare. Testimoniare. Fare capire. Con un’immagine, una serie di parole, una ripresa Tv. Il giornalismo è un lavoro. Ma anche una scelta di vita. Che talvolta ha un prezzo terribile: la morte.

Essere “abbastanza vicino”, appunto, diceva Capa. Vicino a quella dimensione della verità dei fatti che il lavoro di cronaca, analisi e inchiesta consente di vedere e di rappresentare.

Queste parole sono risuonate, alla fine di settembre, in apertura della cerimonia di premiazione dei vincitori de “Il Premiolino” (uno dei più antichi premi giornalistici italiani, fondato nel 1960 da Enzo Biagi, Indro Montanelli, Orio Vergani e altre “grandi firme” dei quotidiani), al Piccolo Teatro di Milano, mentre la voce di un’attrice, fuori campo, ricordava tanti altri nomi, Mauro De Mauro e Mario Francese, Mauro Rostagno, Pippo Fava e Giancarlo Siani, che scrivevano sugli intrecci mafiosi tra crimini, affari e potere. E Carlo Casalegno e Walter Tobagi, impegnati a disvelare i nodi dell’orrore del terrorismo negli anni Settanta. E, ancora, Maria Grazia Cutuli in Afghanistan e Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio. Anna Politkovskaja in Russia. E tanti altri, in Europa e nel mondo.

A loro è stata dedicare la serata, in cui si è “premiato il buon giornalismo, serio e severo interprete di verità e civiltà, di umanità e senso della democrazia”. Ricordando, ancora, i reporter morti a Gaza, sino a pochissimi giorni fa. E un’altra donna, esemplare e coraggiosa, Victoria Roshchyna, in Ucraina.

Tutti questi nomi, “pronunciati con solidarietà e con rispetto, dicono, drammaticamente, il senso e il valore del mestiere di giornalista”. Un mestiere con una forte connotazione morale e civile, “adatto alle donne e agli uomini che amano libertà e responsabilità. Inadatto, invece, ‘ai cinici’, come ha insegnato quello straordinario maestro che si chiamava Ryszard Kapuścinski”.

Memoria dei morti che va oltre il pur doveroso ricordo. Perché una cerimonia che, anno dopo anno, dà valore alle parole dette e scritte sui giornali, in rete, in radio e in Tv, racconta contemporaneità e futuro, insistendo sulla buona informazione come pilastro della nostra convivenza civile e democratica e dell’impegno per le nuove generazioni.

La giuria del Premiolino (presieduto da Chiara Beria di Argentine e sostenuto da Pirelli), quest’anno ha premiato Paolo Giordano (Corriere della Sera), Anna Zafesova (La Stampa), Luigi Manconi (la Repubblica), Siegmund Ginzberg (Il Foglio), Thomas Mackinson (Il Fatto Quotidiano), Sabrina Giannini (Rai3) e Gianna Fregonara e Orsola Riva (Corriere della Sera) per il Premio Pirelli per l’informazione sulla scuola: un panorama ampio dei temi su cui l’informazione, proprio in una stagione così difficile e controversa, offre prove costanti di valore culturale e sociale.

Ecco il punto: questi non sono tempi facili, per i giornalisti. Sono messi in crisi dal generale discredito che da troppo tempo oramai colpisce le élite, gli intellettuali, gli scienziati, le persone competenti (l’espansione prepotente dei sociali media sul web ha aiutato la diffusione del pregiudizio secondo cui “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”). Colpiti dalle radicali trasformazioni tecnologiche e culturali che investono il sistema mediatico, senza che ci siano ancora risposte editoriali e politiche all’altezza della sfida. Maltollerati da poteri politici ed economici che detestano le critiche e preferiscono coltivare fake news e post-verità. E considerati marginali da un’opinione pubblica diffusa che non ritiene l’informazione un patrimonio fondamentale della comunità e si affida ai fattoidi invece di fare i conti con i fatti, i dati, le verità, anche quando sono scomode e non convenienti per un gruppo sociale, una congrega di interessi, una corporazione.

Come in tutte le crisi, anche i mondi della cultura, della scienza e dell’informazione hanno le loro dosi di responsabilità. Ma un fatto è comunque chiaro: senza l’informazione di qualità avremmo comunque un mondo peggiore, più ingiusto e squilibrato. E ne soffrirebbero la democrazia, l’economia di mercato, i sistemi di welfare e solidarietà sociale e, in generale, tutti i meccanismi di conoscenza che incidono sulla qualità della vita, del lavoro, delle relazioni.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da sempre attento ai temi della democrazia e delle relazioni tra poteri e culture che costruiscono la trama della partecipazione e della cittadinanza, nel giorni scorsi, durante un discorso a Tallin, in Estonia, ha ricordato che “le sfide poste dall’Intelligenza Artificiale sono complesse, ma le democrazie non possono permettersi di rimanere indietro… Sta a noi realizzare una IA che protegga i nostri cittadini e i nostri valori, senza insidiarli”.

Ecco un punto chiave: l’insidia al sistema dell’informazione: “La tecnologia e la sicurezza – insiste Mattarella – sono tematiche strettamente interconnesse e sempre più centrali per le nostre comunità democratiche. Assistiamo a un crescente uso dell’IA per fini di disinformazione e per condizionare le pubbliche opinioni, attraverso un uso spregiudicato della profilazione degli utenti sui social media e della diffusione, altrettanto spregiudicata, di notizie false”.

Servono dunque “standard globali vincolanti” per governare i processi messi in moto dall’IA. E una consapevolezza diffusa non solo delle opportunità legate alle nuove tecnologie, ma pure, lucidamente, dei loro rischi.

L’antidoto? Investire sulla conoscenza, sui saperi umanistici e scientifici, su un più profondo senso di responsabilità delle opinioni pubbliche. Sarà difficile farcela. Ma è indispensabile provare, con convinzione.

Sono temi essenziali, al centro anche della riflessione di Papa Leone. “L’informazione libera è un pilastro che sorregge la costruzione delle nostre società e, per questo, siamo chiamati a difenderla e garantirla”, ha detto nei giorni scorsi in un messaggio a Minds, l’associazione delle principali agenzie di stampa. Contro “l’informazione spazzatura” servono “competenza, coraggio e senso etico”: i giornalisti possono “essere un argine a chi, attraverso l’arte antica della menzogna, punta a creare contrapposizioni per comandare dividendo; un baluardo di civiltà rispetto alle sabbie mobili dell’approssimazione e della post-verità”.

Il giornalismo – insiste Papa Leone – “non è un crimine”. E bisogna ringraziare “i reporter che rischiano personalmente perché la gente possa sapere come stanno le cose”.

Il Papa ha chiesto ai giornalisti di “liberare la comunicazione dall’inquinamento cognitivo che la corrompe, dalla concorrenza sleale, dal degrado del cosiddetto click bait”. Insomma, “non siamo destinati a vivere in un mondo dove la verità non è più distinguibile dalla finzione”. Secondo il Papa, “gli algoritmi generano contenuti e dati in una dimensione e con una velocità che non si era mai vista prima. Ma chi li governa? L’intelligenza artificiale sta cambiando il modo con cui ci informiamo e comunichiamo, ma chi la guida e a quali fini?”. In sintesi: “Dobbiamo vigilare perché la tecnologia non si sostituisca all’uomo, e perché l’informazione e gli algoritmi che oggi la governano non siano nelle mani di pochi”.

Sono temi su cui, per fortuna, cresce l’attenzione del mondo giornalistico ed editoriale. Come conferma anche il dibattito dei giorni scorsi al convegno de “Il Sole24Ore” sull’evoluzione dei media. Lo testimoniano due degli interventi principali. Innanzitutto quello di Agnese Pini, direttrice di QN/ La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno: “L’informazione è il canale terzo tra il potere e il cittadino: se viene meno questo filtro, il potere parla direttamente con i cittadini in maniera verticale e si perde una garanzia fondamentale per la democrazia”. C’è infatti una relazione perversa tra la diffusione dei social media e il crollo degli indici di lettura, dal biennio 2011-2012 a oggi. E bisogna affrontare la sfida di un miglioramento dei processi di conoscenza e di buona informazione.

Aggiunge Giuseppe De Bellis, direttore editoriale di SkyTg24: “Nel grande panorama dell’informazione, spesso approssimativa, eccessivamente urlata e spinta ai limiti della disinformazione tutte le testate figlie di un’eredità storica che vivono nell’ecosistema digitale con siti internet e profili social devono spingere i consumatori e i lettori a frequentare le proprie piattaforme puntando su autorevolezza e credibilità”.

La sfida della conoscenza e della buona informazione, insomma, è difficile ma non è persa.

C’è una interessante opportunità di riflessione, nell’anno che verrà. Un anno di anniversari simbolici, proprio per il mondo dei giornali. I 159 anni dalla fondazione del “Corriere della Sera”. E i 70 anni de “Il Giorno”. Ma anche i 50 anni de “la Repubblica”. E una ricorrenza meno fausta, quella della chiusura, l’8 marzo del 1966, de “Il Mondo”, il settimanale diretto da Mario Pannunzio, scuola di formazione d’un solido giornalismo di qualità ma soprattutto d’un intenso sentire civile, laico, liberale e sensibile ai temi sociali.

Le ricorrenze sono talvolta a rischio di retorica celebrativa e di nostalgico amarcord. Stavolta varrebbe la pena che il mondo dell’informazione, ma anche quello della politica, dell’economia e della cultura approfittassero dell’occasione per ragionare seriamente, approfonditamente, spregiudicatamente, delle relazioni imprescindibili tra giornalismo e democrazia, del bisogno di fare crescere i livelli di informazione e di conoscenza, di una svolta dell’editoria come impresa economica, sì, ma con una forte, radicata connotazione civile.

Le parole sono pietre”, ha insegnato Carlo Levi. Indispensabili, per rafforzare gli edifici delle nostre libertà.

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