Tornare ai buoni libri, nel nostro “inverno dello spirito” per costruire nuove strade di conoscenza e libertà
“Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?”. Le domande di Thomas Stearns Eliot nei versi di “The Rock” (un’opera poetica messa in scena a Londra nel 1934) risuonano di estrema attualità, proprio in una stagione difficile in cui temiamo di dover fare nuovamente i conti con lo smarrimento culturale e morale di una “waste land”, una terra desolata.
Le nostalgie per la perdita della sapienza e dunque le paure dell’ignoto sono un’ossessione costante, nel pensiero occidentale. E durante tutto il corso del Novecento abbiamo visto la messa in discussione di certezze, etiche e scientifiche, ritenute granitiche: la teoria della relatività e la fisica quantistica con il “principio di indeterminazione” sconvolgono le conoscenze, la psicanalisi mostra gli abissi dell’inconscio, le rappresentazioni della realtà attraverso la musica, le arti figurative, la letteratura e il teatro ribaltano le tradizionali forme e armonie, una tempesta di innovazioni stravolge filosofia e storia, economia e società civile. Precipitiamo nel “cuore di tenebra” che Joseph Conrad aveva intravvisto già nel 1899 (Hollywood lo avrebbe trasformato in capolavoro del cinema con “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola nel 1979).
Il Novecento è l’età delle incertezze. E però, nella seconda metà del secolo, intravvediamo la bellezza di una lunga stagione di prosperità e di progresso, nell’illusione del “migliore dei mondi possibili”, tra democrazia, mercato e welfare, innovazione dinamica e sempre migliore qualità della vita.
Restano, comunque, le incertezze e le paure (vale la pena rileggere le pagine ironiche di Giacomo Leopardi sulle “magnifiche sorti e progressive”). E oggi che, nel drammatico inizio di millennio tutte le luci del Novecento sono diventate più fioche e cedono il passo al buio dei conflitti armati e degli sconvolgimenti degli equilibri geopolitici ed economici, siamo qui a ragionare criticamente sull’errore di aver creduto alla “fine della Storia”, sui limiti della forza espansiva dell’Occidente e sulla necessità di imparare a fare i conti con i nuovi problemi dell’ambiente, delle guerre, degli interessi che mortificano la nostra così controversa umanità.
Ecco perché tornare a Eliot. E senza cedere alle nostalgie per la sapienza perduta, provare a capire cosa fare per ridare spazio e peso alla conoscenza e come difenderci dal degrado in corso dell’informazione, messa in crisi da una “marmellata mediatica” di fake news, manipolazioni di post-verità e “fattoidi” spacciati sui social media come fatti e in condizione di stravolgere e travolgere quell’opinione pubblica ben informata, indispensabile alla democrazia.
Serve più conoscenza, dunque. Una conoscenza critica sempre più sofisticata. Una relazione originale tra saperi umanistici e scientifici, anche e soprattutto per capire, guidare, governare i processi messi in moto dall’Artificial Intelligence che occupa spazio crescente in economia, nella società, nelle nostre vite, tra sconvolgenti e positive innovazioni (per la salute, le ricerca, l’industria, etc.) e inquietanti ombre (le conseguenze politiche, sociali e morali del dominio delle Big Tech, con assetti di poteri concentrati e privi di adeguato controllo democratico).
Che conoscenza? Può tornare utile proprio la cultura del Novecento, proprio quella cui abbiamo fatto cenno, la cultura del senso del limite, della necessità del pensiero critico e del dubbio metodologico, della conseguente responsabilità. Una cultura da mettere alla prova delle nuove frontiere del pensiero e della scienza.
Serve tornare a investire sulla scuola, la formazione, la profondità dei pensieri. E dunque riprendere in mano i libri.
“Non tutti i nostri libri periranno”, si augura l’imperatore Adriano, nelle pagine luminose delle “Memorie” scritte da Marguerite Yourcenar. E si impegna a leggerli, farli scrivere, salvarli, consapevole che “fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Un inverno dello spirito che connota la nostra quotidianità.
Nei libri si concentrano i racconti dei viaggi e i pensieri critici, la cognizione del dolore e la forza delle speranze, i dubbi più profondi e le illuminazioni più intense. Come sapeva bene un “uomo di libri” come Stéphane Mallarmé: “Il mondo, alla fine, è fatto per finire in un bel libro”.
Libri, biblioteche pubbliche e private (nelle case, nelle scuole, nelle imprese, negli spazi della socialità anche dolente, come gli ospedali; ne abbiamo parlato in un blog del 12 maggio scorso), festival letterari, scientifici e filosofici, gruppi di lettura, manifestazioni come Pordenonelegge (con le sue 160mila presenze; blog del 22 settembre) e come “Ioleggoperché” (organizzato dall’Associazione degli Editori e sostenuto da Pirelli, per donare libri alle scuole) e Book City, entrambe in programma a novembre. E quant’altro si muove nel mondo del libro. Un mondo essenziale.
Conforta un parere di fonte autorevole, quello di Marina Berlusconi, presidentessa della maggiore casa editrice italiana, la Mondadori, in una “provocazione” contenuta in una lettera mandata al Corriere della Sera. “E se proprio nell’era del ‘Muoviti veloce e rompi tutto’, il motto di Zuckerberg, ci trovassimo a riscoprire la forza lenta, ma costruttiva dei cari vecchi libri? I libri sono da sempre efficaci anticorpi contro barbarie e totalitarismo, ma oggi assumono anche una funzione nuova: quella di anticorpi contro l’assottigliamento del pensiero imposto dallo smartphone, veri e propri strumenti di resistenza contro l’omologazione digitale”. Per “continuare ad ascoltare le voci della libertà e della democrazia”.
Il guaio è che in Italia si continua a leggere poco, anzi sempre meno. I “lettori forti” (coloro che leggono almeno 12libri all’anno) sono appena il 6,4% della popolazione. Diminuisce il numero di persone che hanno letto un libro nell’ultimo anno (dal 74% del ‘23 al 73% del ‘24). E si riduce anche il tempo dedicato alla lettura, appena 2 ore e 47 minuti settimanali, contro le 3 ore e 22 minuti del ‘22. Lettura, naturalmente, di qualsiasi tipo, libri dozzinali di barzellette o di ricette di cucina compresi.
È indispensabile, dunque, ricominciare a educare alla lettura, al piacere e al valore della consuetudine con i buoni libri. A cominciare dalle prime classi della scuola dell’obbligo. E se una legge ben fatta, per promuovere il libro e la lettura, è quantomai necessaria, serve molto di più: una solida e lungimirante battaglia culturale e civile, un impegno trasversale a tutta la società, che investa non solo la politica e la cultura, ma anche l’economia e le imprese, la scuola, il “terzo settore”, le organizzazioni sociali. Perché un libro è conoscenza, bellezza, fantasia. Piacere. Libertà e qualità della vita. Autonomia di pensiero e senso di responsabilità. Costruzione d’identità aperta e dialogante. Innesco e strumento d’una migliore, più compiuta condizione umana.
Tornare ai libri è fondamentale anche per recuperare e rafforzare le risorse, intellettuali e morali, necessarie a fare i conti con un altro fenomeno che cresce, in questi tempi inquieti e sfiduciati: la crisi della democrazia, lo sgretolarsi dell’opinione pubblica. La letteratura in merito è sconfinata (e qualcosa s’è sbagliato, se di fronte a tale e tanta analisi teorica, ricostruzione storica e proposta programmatica oggi parliamo, appunto, di “crisi”). E dunque possiamo provare a rileggere solo una delle pagine fondamentali. È di Hans Kelsen, uno dei maggiori giuristi liberali del Novecento, tratta dal suo saggio di “Teoria generale del diritto e dello Stato” (pubblicato in Italia nel 1952): “In una democrazia, la volontà della comunità è sempre creata attraverso una continua discussione tra maggioranza e minoranza, attraverso un libero esame di argomenti pro e contro una data regolamentazione di una materia. Questa discussione ha luogo non soltanto in parlamento ma anche, e soprattutto, in riunioni politiche, sui giornali, sui libri e in altri mezzi di diffusione dell’opinione pubblica. Una democrazia senza opinione pubblica è una contraddizione in termini. In quanto l’opinione pubblica può sorgere dove sono garantite la libertà di pensiero, la libertà di parola, di stampa e di religione, la democrazia coincide con il liberalismo politico, sebbene non coincida necessariamente con quello economico”.
Rieccoci, così, alla necessità della conoscenza. E della centralità dell’opinione pubblica. “Discorsiva”, direbbe Jurgen Habermas: capace cioè di un “discorso pubblico”. Cioè un discorso critico.
(Photo Getty Images)
“Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?”. Le domande di Thomas Stearns Eliot nei versi di “The Rock” (un’opera poetica messa in scena a Londra nel 1934) risuonano di estrema attualità, proprio in una stagione difficile in cui temiamo di dover fare nuovamente i conti con lo smarrimento culturale e morale di una “waste land”, una terra desolata.
Le nostalgie per la perdita della sapienza e dunque le paure dell’ignoto sono un’ossessione costante, nel pensiero occidentale. E durante tutto il corso del Novecento abbiamo visto la messa in discussione di certezze, etiche e scientifiche, ritenute granitiche: la teoria della relatività e la fisica quantistica con il “principio di indeterminazione” sconvolgono le conoscenze, la psicanalisi mostra gli abissi dell’inconscio, le rappresentazioni della realtà attraverso la musica, le arti figurative, la letteratura e il teatro ribaltano le tradizionali forme e armonie, una tempesta di innovazioni stravolge filosofia e storia, economia e società civile. Precipitiamo nel “cuore di tenebra” che Joseph Conrad aveva intravvisto già nel 1899 (Hollywood lo avrebbe trasformato in capolavoro del cinema con “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola nel 1979).
Il Novecento è l’età delle incertezze. E però, nella seconda metà del secolo, intravvediamo la bellezza di una lunga stagione di prosperità e di progresso, nell’illusione del “migliore dei mondi possibili”, tra democrazia, mercato e welfare, innovazione dinamica e sempre migliore qualità della vita.
Restano, comunque, le incertezze e le paure (vale la pena rileggere le pagine ironiche di Giacomo Leopardi sulle “magnifiche sorti e progressive”). E oggi che, nel drammatico inizio di millennio tutte le luci del Novecento sono diventate più fioche e cedono il passo al buio dei conflitti armati e degli sconvolgimenti degli equilibri geopolitici ed economici, siamo qui a ragionare criticamente sull’errore di aver creduto alla “fine della Storia”, sui limiti della forza espansiva dell’Occidente e sulla necessità di imparare a fare i conti con i nuovi problemi dell’ambiente, delle guerre, degli interessi che mortificano la nostra così controversa umanità.
Ecco perché tornare a Eliot. E senza cedere alle nostalgie per la sapienza perduta, provare a capire cosa fare per ridare spazio e peso alla conoscenza e come difenderci dal degrado in corso dell’informazione, messa in crisi da una “marmellata mediatica” di fake news, manipolazioni di post-verità e “fattoidi” spacciati sui social media come fatti e in condizione di stravolgere e travolgere quell’opinione pubblica ben informata, indispensabile alla democrazia.
Serve più conoscenza, dunque. Una conoscenza critica sempre più sofisticata. Una relazione originale tra saperi umanistici e scientifici, anche e soprattutto per capire, guidare, governare i processi messi in moto dall’Artificial Intelligence che occupa spazio crescente in economia, nella società, nelle nostre vite, tra sconvolgenti e positive innovazioni (per la salute, le ricerca, l’industria, etc.) e inquietanti ombre (le conseguenze politiche, sociali e morali del dominio delle Big Tech, con assetti di poteri concentrati e privi di adeguato controllo democratico).
Che conoscenza? Può tornare utile proprio la cultura del Novecento, proprio quella cui abbiamo fatto cenno, la cultura del senso del limite, della necessità del pensiero critico e del dubbio metodologico, della conseguente responsabilità. Una cultura da mettere alla prova delle nuove frontiere del pensiero e della scienza.
Serve tornare a investire sulla scuola, la formazione, la profondità dei pensieri. E dunque riprendere in mano i libri.
“Non tutti i nostri libri periranno”, si augura l’imperatore Adriano, nelle pagine luminose delle “Memorie” scritte da Marguerite Yourcenar. E si impegna a leggerli, farli scrivere, salvarli, consapevole che “fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Un inverno dello spirito che connota la nostra quotidianità.
Nei libri si concentrano i racconti dei viaggi e i pensieri critici, la cognizione del dolore e la forza delle speranze, i dubbi più profondi e le illuminazioni più intense. Come sapeva bene un “uomo di libri” come Stéphane Mallarmé: “Il mondo, alla fine, è fatto per finire in un bel libro”.
Libri, biblioteche pubbliche e private (nelle case, nelle scuole, nelle imprese, negli spazi della socialità anche dolente, come gli ospedali; ne abbiamo parlato in un blog del 12 maggio scorso), festival letterari, scientifici e filosofici, gruppi di lettura, manifestazioni come Pordenonelegge (con le sue 160mila presenze; blog del 22 settembre) e come “Ioleggoperché” (organizzato dall’Associazione degli Editori e sostenuto da Pirelli, per donare libri alle scuole) e Book City, entrambe in programma a novembre. E quant’altro si muove nel mondo del libro. Un mondo essenziale.
Conforta un parere di fonte autorevole, quello di Marina Berlusconi, presidentessa della maggiore casa editrice italiana, la Mondadori, in una “provocazione” contenuta in una lettera mandata al Corriere della Sera. “E se proprio nell’era del ‘Muoviti veloce e rompi tutto’, il motto di Zuckerberg, ci trovassimo a riscoprire la forza lenta, ma costruttiva dei cari vecchi libri? I libri sono da sempre efficaci anticorpi contro barbarie e totalitarismo, ma oggi assumono anche una funzione nuova: quella di anticorpi contro l’assottigliamento del pensiero imposto dallo smartphone, veri e propri strumenti di resistenza contro l’omologazione digitale”. Per “continuare ad ascoltare le voci della libertà e della democrazia”.
Il guaio è che in Italia si continua a leggere poco, anzi sempre meno. I “lettori forti” (coloro che leggono almeno 12libri all’anno) sono appena il 6,4% della popolazione. Diminuisce il numero di persone che hanno letto un libro nell’ultimo anno (dal 74% del ‘23 al 73% del ‘24). E si riduce anche il tempo dedicato alla lettura, appena 2 ore e 47 minuti settimanali, contro le 3 ore e 22 minuti del ‘22. Lettura, naturalmente, di qualsiasi tipo, libri dozzinali di barzellette o di ricette di cucina compresi.
È indispensabile, dunque, ricominciare a educare alla lettura, al piacere e al valore della consuetudine con i buoni libri. A cominciare dalle prime classi della scuola dell’obbligo. E se una legge ben fatta, per promuovere il libro e la lettura, è quantomai necessaria, serve molto di più: una solida e lungimirante battaglia culturale e civile, un impegno trasversale a tutta la società, che investa non solo la politica e la cultura, ma anche l’economia e le imprese, la scuola, il “terzo settore”, le organizzazioni sociali. Perché un libro è conoscenza, bellezza, fantasia. Piacere. Libertà e qualità della vita. Autonomia di pensiero e senso di responsabilità. Costruzione d’identità aperta e dialogante. Innesco e strumento d’una migliore, più compiuta condizione umana.
Tornare ai libri è fondamentale anche per recuperare e rafforzare le risorse, intellettuali e morali, necessarie a fare i conti con un altro fenomeno che cresce, in questi tempi inquieti e sfiduciati: la crisi della democrazia, lo sgretolarsi dell’opinione pubblica. La letteratura in merito è sconfinata (e qualcosa s’è sbagliato, se di fronte a tale e tanta analisi teorica, ricostruzione storica e proposta programmatica oggi parliamo, appunto, di “crisi”). E dunque possiamo provare a rileggere solo una delle pagine fondamentali. È di Hans Kelsen, uno dei maggiori giuristi liberali del Novecento, tratta dal suo saggio di “Teoria generale del diritto e dello Stato” (pubblicato in Italia nel 1952): “In una democrazia, la volontà della comunità è sempre creata attraverso una continua discussione tra maggioranza e minoranza, attraverso un libero esame di argomenti pro e contro una data regolamentazione di una materia. Questa discussione ha luogo non soltanto in parlamento ma anche, e soprattutto, in riunioni politiche, sui giornali, sui libri e in altri mezzi di diffusione dell’opinione pubblica. Una democrazia senza opinione pubblica è una contraddizione in termini. In quanto l’opinione pubblica può sorgere dove sono garantite la libertà di pensiero, la libertà di parola, di stampa e di religione, la democrazia coincide con il liberalismo politico, sebbene non coincida necessariamente con quello economico”.
Rieccoci, così, alla necessità della conoscenza. E della centralità dell’opinione pubblica. “Discorsiva”, direbbe Jurgen Habermas: capace cioè di un “discorso pubblico”. Cioè un discorso critico.
(Photo Getty Images)