L’Italia delle imprese che investono e innovano è tutt’altro che la retorica stanca dell’Italietta
Parlare male dell’Italia. Vezzo e vizio diffuso, soprattutto tra gli italiani. L’Italietta, si diceva ai primi del Novecento, con un vocabolo dispregiativo per indicare una mentalità grezza e provinciale comune alla piccola borghesia dello “strapaese”. “La terra dei cachi”, si cantava al Festival di Sanremo nel 1996 (Elio e le Storie Tese: “Appalti truccati, trapianti truccati… papaveri e papi…”). E così via continuando, in un’ampia antologia di giudizi critici e sentenze taglienti, che portano anche le firme di grandi letterati, da Dante a Leopardi e Manzoni. “Non amo l’Italia, ma gli italiani”, è la sintesi del pensiero di Cesare Pavese, uno dei maggiori intellettuali del nostro Novecento (nelle pagine de “Il mestiere di vivere”).
Siamo un paese difficile, complesso, denso di contrasti e contraddizioni. Assolutamente restio alle semplificazioni e ai giudizi apodittici (“In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”, ironizzava Ennio Flaiano). Eppure, nonostante tutto, siamo un paese vivo e vitale, spesso sorprendente.
E così non può non fare effetto quel ruvido “L’Italia sta scomparendo” sentenziato da Elon Musk sulla sua piattaforma X, con l’immagine choc d’una bandiera tricolore che brucia (La Stampa, 14 novembre, il quotidiano che gli ha dato maggiori risalto). Il pretesto della critica: la denatalità. Ma quel giudizio, così drammaticamente illustrato, finisce per avere caratteri più generali. E dunque, anche al di là delle intenzioni di Musk (ce l’aveva con il governo dell’un tempo amica Meloni? sta giocando una partita sul dominio delle telecomunicazioni? conferma la sua ossessione per i rischi di “sostituzione etnica”?), l’allarme va preso sul serio. E messo in evidenza sul tavolo del discorso pubblico anche in relazione con altri dati e giudizi emersi sui media negli stessi giorni.
L’allarme della Bce sulla crescita, in un’Europa a due velocità, con le buone performances di Spagna e Olanda per l’andamento del Pil nel terzo trimestre e la situazione piatta di Italia e Germania (la Repubblica, 14 novembre). E soprattutto l’analisi del Rapporto Istat sul Bes, l’indice del Benessere Equo e Sostenibile: “L’Italia è longeva ma povera. Avanza lentamente in economia, arretra nei rapporti sociali. Bisogna sanare le crescenti disuguaglianze”, sostiene Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro (governi Letta e Draghi) e statistico autorevole, autore, appunto, dell’Indice Bes così apprezzato anche dall’Onu (intervista su QN/ Il Giorno, 14 novembre).
Come stiamo veramente, allora? Male, non c’è dubbio. A cominciare proprio dalla denatalità e dalla condizione via via sempre peggiore d’un paese che invecchia e non fa figli (ne abbiamo parlato nel blog del 28 ottobre): il tasso di fertilità è di appena 1,18 figli per donna, il più basso in Europa e tende a diminuire, tanto da fare parlare gli economisti più attenti (Luca Paolazzi, per esempio) non di “crisi demografica” (le crisi passano), né di “inverno” (come se fosse possibile una prossima primavera), ma di “glaciazione demografica”: uno stato che è proprio difficile invertire.
Gli ottimisti sulle sorti italiane (soprattutto negli ambienti di governo) citano i dati positivi sul boom dell’occupazione. Giovannini, sempre su QN/Il Giorno, nota che “la definizione statistica di occupato individua una persona che ha lavorato in modo retribuito almeno un’ora nella settimana di riferimento. In Italia abbiamo tanto part time involontario, soprattutto femminile, molto lavoro povero e 3 milioni di ‘irregolari’. Il dato ufficiale va dunque analizzato con attenzione e non corrisponde sempre a lavori di qualità, ben retribuiti e corrispondenti alle aspettative”.
La crescita del numero dei giovani italiani che, spesso con una laurea in tasca, cercano altrove, in Europa e nel mondo, migliori condizioni di lavoro e di vita, conferma i limiti e le distorsioni del nostro mercato del lavoro.
Eppure, nonostante tutto, l’Italia sta in piedi. Esporta (resta tra i primi cinque paesi al mondo). E ha un settore industriale che continua a manifestare elementi positivi di sviluppo, innovazione, sostenibilità.
Ecco il punto cardine di ogni riflessione che non sia propagandistica, preconcetta, di parte. Sapere quali sono i nostri punti di forza. E fare leva su di loro per risalire la china. Esiste, infatti, un’Italia fragile e che cede alla malinconia del declino. Ma la malinconia può pur essere un’elegante, ironica manifestazione d’una condizione umana, personale. Di certo, non può diventare una postura del Paese. Che invece ha l’obbligo della storia e soprattutto del futuro.
“Così si può tornare a crescere”, scrive Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 14 novembre), parlando di necessità di investimenti sulla formazione, l’innovazione, il miglioramento culturale (anche della classe politica) e insistendo sulle riforme necessarie (a cominciare dalla pubblica amministrazione) per “sbloccare lo sviluppo” e liberare le energie creative e l’intraprendenza che, nonostante tutto, è ancora diffusa in Italia.
Una conferma emerge nei tanti incontri in corso, proprio in questi giorni, per la “Settimana della cultura d’impresa” (una settimana lunga: dal 14 al 28 di novembre), organizzata da Confindustria e Museimpresa, ispirata dal tema “Raccontare l’intraprendenza” e impegnata a fare emergere in modo originale la condizione di “imprese aperte e connesse”. Imprese che investono, utilizzano sapientemente l’Artificial Intelligence, fanno acquisizioni internazionali e comunque conquistano nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati globali, sono testimoni di eccellenza del peso del made in Italy, in settori di alto livello, profittabilità e qualità: meccatronica e meccanica, robotica, aerospazio, chimica, farmaceutica, cantieristica navale, gomma e plastica, automotive, oltre che nei tradizionali comparti di arredamento, abbigliamento e agroalimentare. È questa la leva della crescita: puntare sull’industria, con politiche industriali di respiro europeo (tutto il contrario dei limiti e dei freni di governo a Industria 5.0 e 4.0), investire su ricerca e formazione di alto livello, fare decrescere il peso della mano pubblica come attore di mercato e ridurre i gravami dell’eccesso burocratico di regolazione.
Le imprese sono attori economici e culturali di primo piano, motore di crescita. Ma anche raro esempio di ascensore sociale, in un’Italia intorpidita e restia al cambiamento. Occasione di realizzazione per le nuove generazioni. Lievito di miglioramento per i territori e le comunità. Il loro rafforzamento è un cardine per la ripresa del sistema Paese. E la loro migliore rappresentazione è un buon racconto dell’Italia. Tutt’altro rispetto alla narrazione stanca sull’Italietta.
(foto Getty Images)
Parlare male dell’Italia. Vezzo e vizio diffuso, soprattutto tra gli italiani. L’Italietta, si diceva ai primi del Novecento, con un vocabolo dispregiativo per indicare una mentalità grezza e provinciale comune alla piccola borghesia dello “strapaese”. “La terra dei cachi”, si cantava al Festival di Sanremo nel 1996 (Elio e le Storie Tese: “Appalti truccati, trapianti truccati… papaveri e papi…”). E così via continuando, in un’ampia antologia di giudizi critici e sentenze taglienti, che portano anche le firme di grandi letterati, da Dante a Leopardi e Manzoni. “Non amo l’Italia, ma gli italiani”, è la sintesi del pensiero di Cesare Pavese, uno dei maggiori intellettuali del nostro Novecento (nelle pagine de “Il mestiere di vivere”).
Siamo un paese difficile, complesso, denso di contrasti e contraddizioni. Assolutamente restio alle semplificazioni e ai giudizi apodittici (“In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”, ironizzava Ennio Flaiano). Eppure, nonostante tutto, siamo un paese vivo e vitale, spesso sorprendente.
E così non può non fare effetto quel ruvido “L’Italia sta scomparendo” sentenziato da Elon Musk sulla sua piattaforma X, con l’immagine choc d’una bandiera tricolore che brucia (La Stampa, 14 novembre, il quotidiano che gli ha dato maggiori risalto). Il pretesto della critica: la denatalità. Ma quel giudizio, così drammaticamente illustrato, finisce per avere caratteri più generali. E dunque, anche al di là delle intenzioni di Musk (ce l’aveva con il governo dell’un tempo amica Meloni? sta giocando una partita sul dominio delle telecomunicazioni? conferma la sua ossessione per i rischi di “sostituzione etnica”?), l’allarme va preso sul serio. E messo in evidenza sul tavolo del discorso pubblico anche in relazione con altri dati e giudizi emersi sui media negli stessi giorni.
L’allarme della Bce sulla crescita, in un’Europa a due velocità, con le buone performances di Spagna e Olanda per l’andamento del Pil nel terzo trimestre e la situazione piatta di Italia e Germania (la Repubblica, 14 novembre). E soprattutto l’analisi del Rapporto Istat sul Bes, l’indice del Benessere Equo e Sostenibile: “L’Italia è longeva ma povera. Avanza lentamente in economia, arretra nei rapporti sociali. Bisogna sanare le crescenti disuguaglianze”, sostiene Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro (governi Letta e Draghi) e statistico autorevole, autore, appunto, dell’Indice Bes così apprezzato anche dall’Onu (intervista su QN/ Il Giorno, 14 novembre).
Come stiamo veramente, allora? Male, non c’è dubbio. A cominciare proprio dalla denatalità e dalla condizione via via sempre peggiore d’un paese che invecchia e non fa figli (ne abbiamo parlato nel blog del 28 ottobre): il tasso di fertilità è di appena 1,18 figli per donna, il più basso in Europa e tende a diminuire, tanto da fare parlare gli economisti più attenti (Luca Paolazzi, per esempio) non di “crisi demografica” (le crisi passano), né di “inverno” (come se fosse possibile una prossima primavera), ma di “glaciazione demografica”: uno stato che è proprio difficile invertire.
Gli ottimisti sulle sorti italiane (soprattutto negli ambienti di governo) citano i dati positivi sul boom dell’occupazione. Giovannini, sempre su QN/Il Giorno, nota che “la definizione statistica di occupato individua una persona che ha lavorato in modo retribuito almeno un’ora nella settimana di riferimento. In Italia abbiamo tanto part time involontario, soprattutto femminile, molto lavoro povero e 3 milioni di ‘irregolari’. Il dato ufficiale va dunque analizzato con attenzione e non corrisponde sempre a lavori di qualità, ben retribuiti e corrispondenti alle aspettative”.
La crescita del numero dei giovani italiani che, spesso con una laurea in tasca, cercano altrove, in Europa e nel mondo, migliori condizioni di lavoro e di vita, conferma i limiti e le distorsioni del nostro mercato del lavoro.
Eppure, nonostante tutto, l’Italia sta in piedi. Esporta (resta tra i primi cinque paesi al mondo). E ha un settore industriale che continua a manifestare elementi positivi di sviluppo, innovazione, sostenibilità.
Ecco il punto cardine di ogni riflessione che non sia propagandistica, preconcetta, di parte. Sapere quali sono i nostri punti di forza. E fare leva su di loro per risalire la china. Esiste, infatti, un’Italia fragile e che cede alla malinconia del declino. Ma la malinconia può pur essere un’elegante, ironica manifestazione d’una condizione umana, personale. Di certo, non può diventare una postura del Paese. Che invece ha l’obbligo della storia e soprattutto del futuro.
“Così si può tornare a crescere”, scrive Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 14 novembre), parlando di necessità di investimenti sulla formazione, l’innovazione, il miglioramento culturale (anche della classe politica) e insistendo sulle riforme necessarie (a cominciare dalla pubblica amministrazione) per “sbloccare lo sviluppo” e liberare le energie creative e l’intraprendenza che, nonostante tutto, è ancora diffusa in Italia.
Una conferma emerge nei tanti incontri in corso, proprio in questi giorni, per la “Settimana della cultura d’impresa” (una settimana lunga: dal 14 al 28 di novembre), organizzata da Confindustria e Museimpresa, ispirata dal tema “Raccontare l’intraprendenza” e impegnata a fare emergere in modo originale la condizione di “imprese aperte e connesse”. Imprese che investono, utilizzano sapientemente l’Artificial Intelligence, fanno acquisizioni internazionali e comunque conquistano nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati globali, sono testimoni di eccellenza del peso del made in Italy, in settori di alto livello, profittabilità e qualità: meccatronica e meccanica, robotica, aerospazio, chimica, farmaceutica, cantieristica navale, gomma e plastica, automotive, oltre che nei tradizionali comparti di arredamento, abbigliamento e agroalimentare. È questa la leva della crescita: puntare sull’industria, con politiche industriali di respiro europeo (tutto il contrario dei limiti e dei freni di governo a Industria 5.0 e 4.0), investire su ricerca e formazione di alto livello, fare decrescere il peso della mano pubblica come attore di mercato e ridurre i gravami dell’eccesso burocratico di regolazione.
Le imprese sono attori economici e culturali di primo piano, motore di crescita. Ma anche raro esempio di ascensore sociale, in un’Italia intorpidita e restia al cambiamento. Occasione di realizzazione per le nuove generazioni. Lievito di miglioramento per i territori e le comunità. Il loro rafforzamento è un cardine per la ripresa del sistema Paese. E la loro migliore rappresentazione è un buon racconto dell’Italia. Tutt’altro rispetto alla narrazione stanca sull’Italietta.
(foto Getty Images)