Contro la violenza sulle donne serve un lessico familiare e civile per educare ai sentimenti e al rispetto
“Educare al linguaggio del rispetto”, sostiene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, insistendo sull’impegno delle istituzioni, della cultura, della scuola, delle famiglie e di tutta la civitas, per cercare di bloccare la crescente violenza di cui le donne, purtroppo, continuano a essere vittime. E pone quest’impegno politico e morale come strategia di lungo periodo, cioè come una delle condizioni di fondo della convivenza civile e, dunque, d’una piena democrazia fondata sul binomio di libertà e responsabilità.
Sono fondamentali, le ricorrenze da onorare, come le celebrazioni del 25 novembre, “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”: aiutano a rimemorare e a stimolare le sensibilità dell’opinione pubblica. E sono dunque opportune e benvenute le iniziative in questo senso, a cominciare dal “minuto di rumore”, organizzato in piazza della Signoria a Firenze dal “Quotidiano Nazionale/ La Nazione”: tutto il contrario, cioè, del silenzio impaurito delle vittime e di quello spesso complice di tanti altri. Oppure “l’onda rossa” delle diecimila donne in piazza a Milano (moltissimi anche gli uomini), tanto per fare solo due dei parecchi esempi di avvenimenti nelle città d’Italia. O, ancora, nello scorso fine settimana, le sacrosante proteste contro la “lista dello stupri” ritrovata, proprio all’indomani della ricorrenza del 25 novembre, sui muri del bagno maschile del liceo “Giulio Cesare” di Roma.
Bisogna però andare oltre la necessaria simbologia dei giorni dedicati. E insistere su scelte di fondo, che blocchino e poi invertano un clima che si sta facendo via via più pesante, drammatico, intollerabile, tra violenze e stupri (sino all’orrore dei femminicidi, 77 nel 2025, secondo l’Osservatorio NonUnaDiMeno), molestie, insulti verbali e hate speech sul web, manipolazioni, discriminazioni, etc. Serve lavorare, cioè, sull’educazione, la cultura e le norme. “Educare al linguaggio del rispetto”, appunto. E alla cura dei sentimenti.
Il Parlamento se n’è occupato, con una legge approvata all’unanimità alla Camera dei deputati, che introduce il reato di femminicidio e definisce il consenso nell’atto sessuale come “libero e attuale”, evidente cioè in ogni momento di quell’atto (“Solo sì è sì”, sintetizza bene Il Sole24Ore, 25 novembre). Ma al Senato tutto si è bloccato, proprio nel giorno della ricorrenza delle proteste sulla violenza contro le donne, per resistenza della Lega, che ha frenato il centro-destra e il governo. “Occasione mancata”, ha titolato “La Stampa” (26 novembre). La maggioranza assicura che se ne riparlerà. A gennaio.
Manovre politiche a parte, vale la pena seguire le indicazioni del presidente Mattarella e alzare lo sguardo. La legge è importante, naturalmente. Ma la repressione, necessaria, non basta. Continuiamo a essere di fronte a una pesante divaricazione, che attraversa la società, sulla parità uomo-donna (c’è perfino chi sostiene, da ruoli istituzionali, che “nel Dna dell’uomo c’è una resistenza alla parità dei sessi”). E dunque sui diritti, sul lavoro, sui salari e sui redditi, sui valori che connotano un consesso sociale e permettono di definirlo civile. L’obiettivo: insistere sull’indipendenza femminile. Anche su quella economica.
Parliamo del linguaggio, allora. “La violenza delle parole”, titola “La Stampa” (25 novembre) per un articolo di Massimiliano Panarari che documenta come “l’odio scorra ogni giorno, specialmente contro le donne. Dalla politica allo sport, anche il linguaggio diventa un’arma per schiacciare chi viene percepito come più debole”. Le parole sono pietre, e non per la loro solida, incisiva importanza (nel senso della bella sintesi letteraria di Carlo Levi) ma perché capaci di colpire, ferire, stravolgere. La lapidazione, nelle società maschiliste e patriarcali, d’altronde, è diretta appunto contro le donne.
Il contesto è di degrado. Siamo di fronte, da anni, a un crescente impoverimento del linguaggio, a un rinsecchimento del vocabolario delle parole usate (tutto è “carino” oppure “figo”, “straordinario” o “fantastico”), a una riduzione delle emozioni agli stilemi poveri dei like e delle faccine da emoticon sui social media. Dunque a espressioni rozze, che aprono la porta proprio agli schematismi odio/ amore. Alle logiche tribali e di clan (amici/nemici). E alla violenza.
Ma i sentimenti, anche quelli che riguardano l’affettività, sono una complessità di emozioni, spesso contrastanti. E la loro rappresentazione chiede parole e immagini capaci di darne conto, nella ricchezza delle loro articolazioni. Come testimoniano i versi del Cantico dei Cantici e dei lirici greci, quelli contrastati di Catullo e di Ovidio (“nec tecum nec sine te vivere possum”) e poi di Prevert (“I ragazzi che si amano si baciano in piedi sulle porte della notte”), per arrivare alle mille canzoni che quasi tutte parlano d’amore (“…vuota è la città, se non ci sei tu”, della struggente Mina).
Educare all’amore e ai sentimenti, in sostanza, è educare al linguaggio. Alla ricchezza, alla varietà e alla forza delle parole.
Rileggere Shakespeare (dai Sonetti al “Don Giovanni” con le incertezze sentimentali di Zerlina e il tormento e il riscatto di Donna Elvira e poi al “Mercante di Venezia” con il trucco legale e amoroso di Porzia che ribalta le sorti del debitore Antonio: una fila di donne straordinarie che meritano attenzione e rispetto). Leopardi con la sua Silvia. La Szimborska di “Amore a prima vista” (“Ogni inizio infatti/ è solo un seguito/ e il libro degli eventi/ è sempre aperto a metà”). E Alda Merini (“Ieri sera era amore/ io e te nella vita/ fuggitivi e fuggiaschi…”). Riascoltare le musiche di Schubert e quelle dedicate da Brahms all’amatissima Clara Schumann. E riguardare le opere d’arte. Come la raffigurazione del volto dell’Annunciata di Antonello da Messina, con la mano protesa in avanti per chiedere con dolce fermezza all’Angelo di fermare il tempo e permetterle così di capire cosa fosse quell’atto d’amore, quel concepimento, di cui era stata appena messa a conoscenza (modella di quella Madonna era la donna intensamente amata dal pittore).
Lavorare sulle parole, appunto, e sui racconti per immagini più intensi per evocazioni e valori. Insistere sul peso e sulla necessità dei sentimenti, anche nell’alternanza ineliminabile tra amore e dolore, angoscia dell’attesa e felicità dell’incontro, estasi e lutto. Nella presa d’atto che ogni amore è imperfetto, proprio come imperfetti, perché umani, siamo tutti noi, uomini e donne. E che, nell’intreccio dei sentimenti, la verità è un fuoco, che brucia le scorie dei silenzi e delle incomprensioni e può aprire nuove strade, sino ad allora inesplorate.
Una lezione tra letteratura, arte e vita quotidiana, dunque. Un’inedita, sorprendente scelta di vita, che ribalta gli apparenti ossimori: “Pure il rovo ebbe le sue piegature/ di dolcezza, anche il pruno il suo candore”, scriveva Lucio Piccolo, l’elegante malinconico poeta cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Imparare a guardare oltre la banalità delle apparenze. E sapere che anche nei momenti peggiori c’è la speranza d’un cambiamento: la “dolcezza del rovo”, appunto.
L’educazione sentimentale, sessuale e affettiva che si chiede alle scuole di fare è proprio questa, tutt’altro che uno schematico manuale sui generi. Ma è anche e soprattutto la lettura ragionata dei classici e dell’attualità (le ragioni del cuore, lo scandaglio persino nei recessi del “cuore di tenebra”). La formazione culturale. E civile. L’insistenza sulle parole che indicano qualità delle relazioni: la gentilezza, per esempio, l’ascolto, la delicatezza, l’attitudine a “farsi carico”, la capacità di riconoscere “lo sguardo dell’altro” e dunque di riconoscervisi. L’abitudine a usare, nelle storie d’amore, il “noi”, invece che l’ossessione egocentrica dell’ “io”.
Stare dunque alla larga dal mito infelice e luttuoso di Narciso (oggi purtroppo tanto di moda, soprattutto tra gli uomini, specie se potenti). E riflettere invece su quello di Ulisse, persona capace comunque d’amore, per la conoscenza, per una donna. E di Penelope. E delle altre donne preziose che hanno dato segno e senso alla nostra vita. La mia nonna paziente maestra, per fare solo un esempio.
Eccola, l’educazione al linguaggio dei sentimenti. E alla stessa capacità di fare i conti con le proprie emozioni, a capirle, elaborarle, rinnovarle, mantenerle vive. Evitare l’ebbrezza del successo e accettare, come in ogni storia umana, pure la pesantezza della sconfitta e la notte della solitudine. Andare “oltre la fragilità” e prendere esempio dall’arte giapponese del kintsugi, riparare con un filo d’oro le cose preziose, e ridare loro vita. E cercare di ritrovare sincronie, nella nostra vita, nei rapporti d’amore, d’amicizia e d’affetto. Con pazienza e perseveranza. L’amore è impeto e passione, certo. Ma anche accurato lavorio dei sentimenti e dei legami.
La vita, pure quella amorosa, è senso del limite. Della caduta. Della ripresa. “Le discese ardite/ e le risalite”, cantava un poeta musicale amoroso come Lucio Battisti.
Sta qui, in questa complessa ricchezza di valori, il “lessico famigliare” che ci tocca costruire e rafforzare, per fare fronte, con lungimiranza, anche alla violenza contro le donne. Per fare capire profondamente il senso di un amore fatto non di dominio, prevaricazione, manipolazione, violenza, potere. Ma di attenzione e rispetto.
La buona educazione. In famiglia, fin dai tempi dell’infanzia. A scuola. Negli ambienti di lavoro. Nel corpo sociale.
È questo, appunto, il “linguaggio del rispetto” di cui parla il presidente della Repubblica Mattarella. È proprio ciò che tocca costruire e rafforzare ad ognuno di noi, ognuno di noi uomini innanzitutto, proprio come dovere e responsabilità, sociale, culturale e civile.
(foto Getty Images)
“Educare al linguaggio del rispetto”, sostiene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, insistendo sull’impegno delle istituzioni, della cultura, della scuola, delle famiglie e di tutta la civitas, per cercare di bloccare la crescente violenza di cui le donne, purtroppo, continuano a essere vittime. E pone quest’impegno politico e morale come strategia di lungo periodo, cioè come una delle condizioni di fondo della convivenza civile e, dunque, d’una piena democrazia fondata sul binomio di libertà e responsabilità.
Sono fondamentali, le ricorrenze da onorare, come le celebrazioni del 25 novembre, “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”: aiutano a rimemorare e a stimolare le sensibilità dell’opinione pubblica. E sono dunque opportune e benvenute le iniziative in questo senso, a cominciare dal “minuto di rumore”, organizzato in piazza della Signoria a Firenze dal “Quotidiano Nazionale/ La Nazione”: tutto il contrario, cioè, del silenzio impaurito delle vittime e di quello spesso complice di tanti altri. Oppure “l’onda rossa” delle diecimila donne in piazza a Milano (moltissimi anche gli uomini), tanto per fare solo due dei parecchi esempi di avvenimenti nelle città d’Italia. O, ancora, nello scorso fine settimana, le sacrosante proteste contro la “lista dello stupri” ritrovata, proprio all’indomani della ricorrenza del 25 novembre, sui muri del bagno maschile del liceo “Giulio Cesare” di Roma.
Bisogna però andare oltre la necessaria simbologia dei giorni dedicati. E insistere su scelte di fondo, che blocchino e poi invertano un clima che si sta facendo via via più pesante, drammatico, intollerabile, tra violenze e stupri (sino all’orrore dei femminicidi, 77 nel 2025, secondo l’Osservatorio NonUnaDiMeno), molestie, insulti verbali e hate speech sul web, manipolazioni, discriminazioni, etc. Serve lavorare, cioè, sull’educazione, la cultura e le norme. “Educare al linguaggio del rispetto”, appunto. E alla cura dei sentimenti.
Il Parlamento se n’è occupato, con una legge approvata all’unanimità alla Camera dei deputati, che introduce il reato di femminicidio e definisce il consenso nell’atto sessuale come “libero e attuale”, evidente cioè in ogni momento di quell’atto (“Solo sì è sì”, sintetizza bene Il Sole24Ore, 25 novembre). Ma al Senato tutto si è bloccato, proprio nel giorno della ricorrenza delle proteste sulla violenza contro le donne, per resistenza della Lega, che ha frenato il centro-destra e il governo. “Occasione mancata”, ha titolato “La Stampa” (26 novembre). La maggioranza assicura che se ne riparlerà. A gennaio.
Manovre politiche a parte, vale la pena seguire le indicazioni del presidente Mattarella e alzare lo sguardo. La legge è importante, naturalmente. Ma la repressione, necessaria, non basta. Continuiamo a essere di fronte a una pesante divaricazione, che attraversa la società, sulla parità uomo-donna (c’è perfino chi sostiene, da ruoli istituzionali, che “nel Dna dell’uomo c’è una resistenza alla parità dei sessi”). E dunque sui diritti, sul lavoro, sui salari e sui redditi, sui valori che connotano un consesso sociale e permettono di definirlo civile. L’obiettivo: insistere sull’indipendenza femminile. Anche su quella economica.
Parliamo del linguaggio, allora. “La violenza delle parole”, titola “La Stampa” (25 novembre) per un articolo di Massimiliano Panarari che documenta come “l’odio scorra ogni giorno, specialmente contro le donne. Dalla politica allo sport, anche il linguaggio diventa un’arma per schiacciare chi viene percepito come più debole”. Le parole sono pietre, e non per la loro solida, incisiva importanza (nel senso della bella sintesi letteraria di Carlo Levi) ma perché capaci di colpire, ferire, stravolgere. La lapidazione, nelle società maschiliste e patriarcali, d’altronde, è diretta appunto contro le donne.
Il contesto è di degrado. Siamo di fronte, da anni, a un crescente impoverimento del linguaggio, a un rinsecchimento del vocabolario delle parole usate (tutto è “carino” oppure “figo”, “straordinario” o “fantastico”), a una riduzione delle emozioni agli stilemi poveri dei like e delle faccine da emoticon sui social media. Dunque a espressioni rozze, che aprono la porta proprio agli schematismi odio/ amore. Alle logiche tribali e di clan (amici/nemici). E alla violenza.
Ma i sentimenti, anche quelli che riguardano l’affettività, sono una complessità di emozioni, spesso contrastanti. E la loro rappresentazione chiede parole e immagini capaci di darne conto, nella ricchezza delle loro articolazioni. Come testimoniano i versi del Cantico dei Cantici e dei lirici greci, quelli contrastati di Catullo e di Ovidio (“nec tecum nec sine te vivere possum”) e poi di Prevert (“I ragazzi che si amano si baciano in piedi sulle porte della notte”), per arrivare alle mille canzoni che quasi tutte parlano d’amore (“…vuota è la città, se non ci sei tu”, della struggente Mina).
Educare all’amore e ai sentimenti, in sostanza, è educare al linguaggio. Alla ricchezza, alla varietà e alla forza delle parole.
Rileggere Shakespeare (dai Sonetti al “Don Giovanni” con le incertezze sentimentali di Zerlina e il tormento e il riscatto di Donna Elvira e poi al “Mercante di Venezia” con il trucco legale e amoroso di Porzia che ribalta le sorti del debitore Antonio: una fila di donne straordinarie che meritano attenzione e rispetto). Leopardi con la sua Silvia. La Szimborska di “Amore a prima vista” (“Ogni inizio infatti/ è solo un seguito/ e il libro degli eventi/ è sempre aperto a metà”). E Alda Merini (“Ieri sera era amore/ io e te nella vita/ fuggitivi e fuggiaschi…”). Riascoltare le musiche di Schubert e quelle dedicate da Brahms all’amatissima Clara Schumann. E riguardare le opere d’arte. Come la raffigurazione del volto dell’Annunciata di Antonello da Messina, con la mano protesa in avanti per chiedere con dolce fermezza all’Angelo di fermare il tempo e permetterle così di capire cosa fosse quell’atto d’amore, quel concepimento, di cui era stata appena messa a conoscenza (modella di quella Madonna era la donna intensamente amata dal pittore).
Lavorare sulle parole, appunto, e sui racconti per immagini più intensi per evocazioni e valori. Insistere sul peso e sulla necessità dei sentimenti, anche nell’alternanza ineliminabile tra amore e dolore, angoscia dell’attesa e felicità dell’incontro, estasi e lutto. Nella presa d’atto che ogni amore è imperfetto, proprio come imperfetti, perché umani, siamo tutti noi, uomini e donne. E che, nell’intreccio dei sentimenti, la verità è un fuoco, che brucia le scorie dei silenzi e delle incomprensioni e può aprire nuove strade, sino ad allora inesplorate.
Una lezione tra letteratura, arte e vita quotidiana, dunque. Un’inedita, sorprendente scelta di vita, che ribalta gli apparenti ossimori: “Pure il rovo ebbe le sue piegature/ di dolcezza, anche il pruno il suo candore”, scriveva Lucio Piccolo, l’elegante malinconico poeta cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Imparare a guardare oltre la banalità delle apparenze. E sapere che anche nei momenti peggiori c’è la speranza d’un cambiamento: la “dolcezza del rovo”, appunto.
L’educazione sentimentale, sessuale e affettiva che si chiede alle scuole di fare è proprio questa, tutt’altro che uno schematico manuale sui generi. Ma è anche e soprattutto la lettura ragionata dei classici e dell’attualità (le ragioni del cuore, lo scandaglio persino nei recessi del “cuore di tenebra”). La formazione culturale. E civile. L’insistenza sulle parole che indicano qualità delle relazioni: la gentilezza, per esempio, l’ascolto, la delicatezza, l’attitudine a “farsi carico”, la capacità di riconoscere “lo sguardo dell’altro” e dunque di riconoscervisi. L’abitudine a usare, nelle storie d’amore, il “noi”, invece che l’ossessione egocentrica dell’ “io”.
Stare dunque alla larga dal mito infelice e luttuoso di Narciso (oggi purtroppo tanto di moda, soprattutto tra gli uomini, specie se potenti). E riflettere invece su quello di Ulisse, persona capace comunque d’amore, per la conoscenza, per una donna. E di Penelope. E delle altre donne preziose che hanno dato segno e senso alla nostra vita. La mia nonna paziente maestra, per fare solo un esempio.
Eccola, l’educazione al linguaggio dei sentimenti. E alla stessa capacità di fare i conti con le proprie emozioni, a capirle, elaborarle, rinnovarle, mantenerle vive. Evitare l’ebbrezza del successo e accettare, come in ogni storia umana, pure la pesantezza della sconfitta e la notte della solitudine. Andare “oltre la fragilità” e prendere esempio dall’arte giapponese del kintsugi, riparare con un filo d’oro le cose preziose, e ridare loro vita. E cercare di ritrovare sincronie, nella nostra vita, nei rapporti d’amore, d’amicizia e d’affetto. Con pazienza e perseveranza. L’amore è impeto e passione, certo. Ma anche accurato lavorio dei sentimenti e dei legami.
La vita, pure quella amorosa, è senso del limite. Della caduta. Della ripresa. “Le discese ardite/ e le risalite”, cantava un poeta musicale amoroso come Lucio Battisti.
Sta qui, in questa complessa ricchezza di valori, il “lessico famigliare” che ci tocca costruire e rafforzare, per fare fronte, con lungimiranza, anche alla violenza contro le donne. Per fare capire profondamente il senso di un amore fatto non di dominio, prevaricazione, manipolazione, violenza, potere. Ma di attenzione e rispetto.
La buona educazione. In famiglia, fin dai tempi dell’infanzia. A scuola. Negli ambienti di lavoro. Nel corpo sociale.
È questo, appunto, il “linguaggio del rispetto” di cui parla il presidente della Repubblica Mattarella. È proprio ciò che tocca costruire e rafforzare ad ognuno di noi, ognuno di noi uomini innanzitutto, proprio come dovere e responsabilità, sociale, culturale e civile.
(foto Getty Images)