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Evitare le trappole di una “Europa Peter Pan” e costruire strategie migliori su democrazia, sicurezza e sviluppo

“Un’Europa Peter Pan, immobile nella sua adolescenza politica, oscillante tra nostalgia e distrazione, mentre il mondo riscrive la geopolitica alla velocità della luce”, scrive Gabriele Segre su “La Stampa” (29 ottobre). È “immobile”, l’Europa, anche per Agnese Pini, direttrice di “QN” (La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno, 2 novembre) mentre “i giganti” e cioè la Cina e gli Usa siglano “una pace gelida” e precaria in un “nuovo mondo bipolare in cui manca la voce del Vecchio Continente”, incapace di “fare scelte politiche e non contabili” (come dimostrano le discussioni sui bilanci striminziti della Ue e dei singoli Stati). Un’Europa in difficoltà, “nell’era dei nuovi imperi” secondo Lucrezia Reichlin sul ”Corriere della Sera” (1 novembre), con assetti tali per cui “a livello politico sta nascendo un sistema ibrido, dominato da Stati nazionali con connotati imperiali” mentre a livello economico “il sistema continua a essere caratterizzato da una globalizzazione che ignora le frontiere” e dove – va aggiunto – dominano, molto più che in passato, poche Big Tech potenti, spregiudicate, determinate a immaginare un mondo in cui la democrazia si separa dai sistemi di libertà e le nuove tecnologie ridisegnano radicalmente poteri, interessi, valori.
Quelle di Segre, Pini e Reichlin sono tre voci, documentate e autorevoli, tra le tante che oramai da gran tempo insistono sull’aggravarsi di una vera e propria crisi politica e strategica dell’Europa, colosso economico ma nano politico, incapace di fare valere il peso dei propri interessi e dei propri valori, d’una pur nobile tradizione su cui si basa l’originale sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e sistemi di welfare. Un’Europa che adesso sembra afona, impaurita, malcerta, divisa.
Eppure, proprio adesso, si può intravvedere una via di ripresa europea, una scelta politica di valore storico che, nonostante tutto, rimetta l’Europa, con autorevolezza e incisività, sul palcoscenico di un mondo in rapido, travolgente e drammatico cambiamento?
Una ricetta facile non c’è. Ma sulle soluzioni alla crisi c’è comunque una sterminata letteratura, politica, economica, sociale. Compresi quei due documenti essenziali che sono i Rapporti commissionati da Bruxelles e firmati da Mario Draghi ed Enrico Letta, sulle scelte per la competitività e sulla formazione, finalmente, del Mercato Unico europeo (con attenzione per le transizioni ambientali e digitali e il mondo delle banche e della finanza). Rapporti sapienti e lungimiranti, lucidi e ricchi di analisi complesse e proposte responsabili. Lodati da tutti, ai vertici della Ue. Eppur lasciati a dormire, da oltre un anno, nei cassetti della Commissione e dei governi dei paesi europei.
Il nostro destino, dunque, è la paralisi? Un’Europa colta e sofisticata ma impotente, buona a fare solo da Grand Hotel per i nuovi potenti “imperatori del mondo”. Il rischio è reale.
Eppure, la strada delle cose da fare è tutt’altro che lastricata di idee e proposte improbabili. Sfogliando i quotidiani delle ultime settimane (utilissimi, ancora una volta, i buoni giornali) ci si imbatte in idee che meritano attenzione e impegno politico. Come quella di Giulio Tremonti, presidente della Commissione Esteri del Senato, ex ministro dell’Economia e soprattutto presidente dell’Aspen Institute Italia (autorevole think tank, capace di analisi ben informate e politicamente trasversali): “Unirsi per un commercio globale”, scrive Tremonti sul “Corriere della Sera” (2 novembre), documentando come sia necessario “tornare allo spirito di Bretton Woods, con un accordo tra Cina, Usa ed Europa” (quell’intesa, nel 1944, a guerra mondiale ancora in corso, regolava, nell’interesse comune, le relazioni tra le monete) e seguire oggi una strada analoga per il commercio mondiale. E il commercio internazionale, come tutti sanno, è competenza della Ue, non dei singoli Stati.
Ecco il punto: il rilancio della Ue. Fuori dalla trappola dell’unanimità delle decisioni e dall’illusione di un federalismo ai minimi termini in cui i singoli Stati siano la colonna portante dell’Europa, i detentori dell’ultima parola. Serve più Europa, nonostante tutto. E un’Europa migliore, finendola di pagare oramai intollerabili prezzi alle burocrazie di Bruxelles e ai miopi sovranismi. Il voto olandese della scorsa settimana, a favore delle forze politiche europeiste, per quanto sia un piccolo, debole segnale, può fare riflettere.
Già adesso, d’altronde, l’Europa si muove con maggioranze qualificate e prova ad aggirare veti e unanimismi paralizzanti. Una strada da seguire e rafforzare. Una strada “politica”. In attesa che maturino i tempi per una profonda riforma istituzionale.
I temi su cui muoversi sono chiari: la sicurezza e la difesa (“La Ue deve ridiscutere il contratto con gli Usa, coinvolgendo anche Regno Unito, Norvegia, Turchia e Canada“, sostiene Mircea Geoana, ex vicesegretario della Nato; La Stampa, 30 ottobre), l’energia, l’ambiente, le nuove tecnologie, la ricerca scientifica, la formazione e tutto ciò che riguarda potenzialità, costi sociali e governance dell’Artificial Intelligence, per la quale va costruita rapidamente una “via europea” che ci sottragga al dominio di Usa e Cina.
Agenda impegnativa. Politicamente ardua. Ma essenziale. Ancora Agnese Pini: “Oggi più che mai servono scelte politiche, non contabili. Capacità militare credibile in tempi rapidi con acquisti davvero congiunti. Leve economiche comuni su energia e tecnologie critiche per non restare in ostaggio della prossima ‘tregua’ tra Washington e Pechino. Una linea negoziale europea sull’Ucraina che affianchi – o addirittura bilanci – quella americana”. Altrimenti, “se l’Europa continuerà a parlare solo la lingua dei bilanci, non quella del potere, la pace – quando arriverà – non avrà la nostra firma”.
Uno dei grandi padri dell’Europa, Jean Monnet, ha sempre sostenuto che l’Europa fa passi avanti e si costruisce nelle difficoltà. Mai come adesso il suo monito va ascoltato e tradotto in scelte politiche, tempestive e lungimiranti.
C’è una indicazione politica strategica, su cui fare leva per lasciare un’Europa migliore alle nuove generazioni: il vincolo di quell’impegnativo documento di politica economica, culturale e sociale che è “Next Generation Ue”, il piano da oltre 750 miliardi di investimenti (in buona parte con risorse raccolte sul mercato finanziario internazionale, “debito buono”, dunque, per usare un’espressione cara a Mario Draghi) varato con intelligenza progettuale per fare fronte alle drammatiche conseguenze della pandemia Covid (e prima o poi sarà necessario discutere che uso ne abbiamo fatto noi italiani con il Pnrr e cioè se davvero, come e quanto ne abbiamo rispettato le indicazioni per lo sviluppo).
Responsabilità dei governanti europei, se davvero vogliono essere statisti, è occuparsi appunto delle prossime generazioni e non solo dei prossimi bilanci e delle prossime elezioni. Ed è responsabilità anche di noi anziani, che camminiamo sul viale di una stagione del tramonto che speriamo duri il più a lungo possibile. Una responsabilità da spendere bene, forti anche d’una robusta memoria storica, per intrecciare passato e futuro e dare finalmente forma compiuta a quella “Europa come destino” in cui siamo vissuti, in una lunga stagione di prosperità e di pace ma su cui oggi si allungano cupe ombre di crisi.
Europa fragile? Sì. Politicamente, economicamente, socialmente. Nelle relazioni interne ai singoli stati e allo spazio comune di Bruxelles. E nelle relazioni internazionali. Eppure, proprio l’assunzione della fragilità come elemento fondante è un punto di forza nella politica, nella democrazia, nell’impresa, nelle tecnologie, nei rapporti personali e sociali. Nei progetti per il futuro. La forza, con coscienza critica e autocritica, sta “oltre la fragilità”.
Ce lo ricorda anche un “grande vecchio” della letteratura, Ian McEwan, britannico, classe 1948, nel suo ultimo libro, “Quello che possiamo sapere”, Einaudi, un romanzo inquietante su come potremmo essere visti nel prossimo futuro, nel ventunesimo secolo, in una terra stravolta dal disastro climatico e dalla stupidità politica e intellettuale (ne scrive acutamente Caterina Soffici su “La Stampa”, 2 novembre: “Cosa resterà di quello che siamo”).
Un disastro da evitare, con umiltà, conoscenza, intelligenza, capacità di farsi carico degli interessi e dei valori dell’ “altro”. Un mondo da difendere e, contemporaneamente, correggere, ricostruire. Riformare.
Le parole sapienti, come quelle di McEwan, sono dunque adatte, benvenute. E tutti sappiamo bene quanto anche e soprattutto oggi la politica (e l’economia, e la scienza) abbiano un fondamentale bisogno di buona letteratura.

(foto Getty Images)

“Un’Europa Peter Pan, immobile nella sua adolescenza politica, oscillante tra nostalgia e distrazione, mentre il mondo riscrive la geopolitica alla velocità della luce”, scrive Gabriele Segre su “La Stampa” (29 ottobre). È “immobile”, l’Europa, anche per Agnese Pini, direttrice di “QN” (La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno, 2 novembre) mentre “i giganti” e cioè la Cina e gli Usa siglano “una pace gelida” e precaria in un “nuovo mondo bipolare in cui manca la voce del Vecchio Continente”, incapace di “fare scelte politiche e non contabili” (come dimostrano le discussioni sui bilanci striminziti della Ue e dei singoli Stati). Un’Europa in difficoltà, “nell’era dei nuovi imperi” secondo Lucrezia Reichlin sul ”Corriere della Sera” (1 novembre), con assetti tali per cui “a livello politico sta nascendo un sistema ibrido, dominato da Stati nazionali con connotati imperiali” mentre a livello economico “il sistema continua a essere caratterizzato da una globalizzazione che ignora le frontiere” e dove – va aggiunto – dominano, molto più che in passato, poche Big Tech potenti, spregiudicate, determinate a immaginare un mondo in cui la democrazia si separa dai sistemi di libertà e le nuove tecnologie ridisegnano radicalmente poteri, interessi, valori.
Quelle di Segre, Pini e Reichlin sono tre voci, documentate e autorevoli, tra le tante che oramai da gran tempo insistono sull’aggravarsi di una vera e propria crisi politica e strategica dell’Europa, colosso economico ma nano politico, incapace di fare valere il peso dei propri interessi e dei propri valori, d’una pur nobile tradizione su cui si basa l’originale sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e sistemi di welfare. Un’Europa che adesso sembra afona, impaurita, malcerta, divisa.
Eppure, proprio adesso, si può intravvedere una via di ripresa europea, una scelta politica di valore storico che, nonostante tutto, rimetta l’Europa, con autorevolezza e incisività, sul palcoscenico di un mondo in rapido, travolgente e drammatico cambiamento?
Una ricetta facile non c’è. Ma sulle soluzioni alla crisi c’è comunque una sterminata letteratura, politica, economica, sociale. Compresi quei due documenti essenziali che sono i Rapporti commissionati da Bruxelles e firmati da Mario Draghi ed Enrico Letta, sulle scelte per la competitività e sulla formazione, finalmente, del Mercato Unico europeo (con attenzione per le transizioni ambientali e digitali e il mondo delle banche e della finanza). Rapporti sapienti e lungimiranti, lucidi e ricchi di analisi complesse e proposte responsabili. Lodati da tutti, ai vertici della Ue. Eppur lasciati a dormire, da oltre un anno, nei cassetti della Commissione e dei governi dei paesi europei.
Il nostro destino, dunque, è la paralisi? Un’Europa colta e sofisticata ma impotente, buona a fare solo da Grand Hotel per i nuovi potenti “imperatori del mondo”. Il rischio è reale.
Eppure, la strada delle cose da fare è tutt’altro che lastricata di idee e proposte improbabili. Sfogliando i quotidiani delle ultime settimane (utilissimi, ancora una volta, i buoni giornali) ci si imbatte in idee che meritano attenzione e impegno politico. Come quella di Giulio Tremonti, presidente della Commissione Esteri del Senato, ex ministro dell’Economia e soprattutto presidente dell’Aspen Institute Italia (autorevole think tank, capace di analisi ben informate e politicamente trasversali): “Unirsi per un commercio globale”, scrive Tremonti sul “Corriere della Sera” (2 novembre), documentando come sia necessario “tornare allo spirito di Bretton Woods, con un accordo tra Cina, Usa ed Europa” (quell’intesa, nel 1944, a guerra mondiale ancora in corso, regolava, nell’interesse comune, le relazioni tra le monete) e seguire oggi una strada analoga per il commercio mondiale. E il commercio internazionale, come tutti sanno, è competenza della Ue, non dei singoli Stati.
Ecco il punto: il rilancio della Ue. Fuori dalla trappola dell’unanimità delle decisioni e dall’illusione di un federalismo ai minimi termini in cui i singoli Stati siano la colonna portante dell’Europa, i detentori dell’ultima parola. Serve più Europa, nonostante tutto. E un’Europa migliore, finendola di pagare oramai intollerabili prezzi alle burocrazie di Bruxelles e ai miopi sovranismi. Il voto olandese della scorsa settimana, a favore delle forze politiche europeiste, per quanto sia un piccolo, debole segnale, può fare riflettere.
Già adesso, d’altronde, l’Europa si muove con maggioranze qualificate e prova ad aggirare veti e unanimismi paralizzanti. Una strada da seguire e rafforzare. Una strada “politica”. In attesa che maturino i tempi per una profonda riforma istituzionale.
I temi su cui muoversi sono chiari: la sicurezza e la difesa (“La Ue deve ridiscutere il contratto con gli Usa, coinvolgendo anche Regno Unito, Norvegia, Turchia e Canada“, sostiene Mircea Geoana, ex vicesegretario della Nato; La Stampa, 30 ottobre), l’energia, l’ambiente, le nuove tecnologie, la ricerca scientifica, la formazione e tutto ciò che riguarda potenzialità, costi sociali e governance dell’Artificial Intelligence, per la quale va costruita rapidamente una “via europea” che ci sottragga al dominio di Usa e Cina.
Agenda impegnativa. Politicamente ardua. Ma essenziale. Ancora Agnese Pini: “Oggi più che mai servono scelte politiche, non contabili. Capacità militare credibile in tempi rapidi con acquisti davvero congiunti. Leve economiche comuni su energia e tecnologie critiche per non restare in ostaggio della prossima ‘tregua’ tra Washington e Pechino. Una linea negoziale europea sull’Ucraina che affianchi – o addirittura bilanci – quella americana”. Altrimenti, “se l’Europa continuerà a parlare solo la lingua dei bilanci, non quella del potere, la pace – quando arriverà – non avrà la nostra firma”.
Uno dei grandi padri dell’Europa, Jean Monnet, ha sempre sostenuto che l’Europa fa passi avanti e si costruisce nelle difficoltà. Mai come adesso il suo monito va ascoltato e tradotto in scelte politiche, tempestive e lungimiranti.
C’è una indicazione politica strategica, su cui fare leva per lasciare un’Europa migliore alle nuove generazioni: il vincolo di quell’impegnativo documento di politica economica, culturale e sociale che è “Next Generation Ue”, il piano da oltre 750 miliardi di investimenti (in buona parte con risorse raccolte sul mercato finanziario internazionale, “debito buono”, dunque, per usare un’espressione cara a Mario Draghi) varato con intelligenza progettuale per fare fronte alle drammatiche conseguenze della pandemia Covid (e prima o poi sarà necessario discutere che uso ne abbiamo fatto noi italiani con il Pnrr e cioè se davvero, come e quanto ne abbiamo rispettato le indicazioni per lo sviluppo).
Responsabilità dei governanti europei, se davvero vogliono essere statisti, è occuparsi appunto delle prossime generazioni e non solo dei prossimi bilanci e delle prossime elezioni. Ed è responsabilità anche di noi anziani, che camminiamo sul viale di una stagione del tramonto che speriamo duri il più a lungo possibile. Una responsabilità da spendere bene, forti anche d’una robusta memoria storica, per intrecciare passato e futuro e dare finalmente forma compiuta a quella “Europa come destino” in cui siamo vissuti, in una lunga stagione di prosperità e di pace ma su cui oggi si allungano cupe ombre di crisi.
Europa fragile? Sì. Politicamente, economicamente, socialmente. Nelle relazioni interne ai singoli stati e allo spazio comune di Bruxelles. E nelle relazioni internazionali. Eppure, proprio l’assunzione della fragilità come elemento fondante è un punto di forza nella politica, nella democrazia, nell’impresa, nelle tecnologie, nei rapporti personali e sociali. Nei progetti per il futuro. La forza, con coscienza critica e autocritica, sta “oltre la fragilità”.
Ce lo ricorda anche un “grande vecchio” della letteratura, Ian McEwan, britannico, classe 1948, nel suo ultimo libro, “Quello che possiamo sapere”, Einaudi, un romanzo inquietante su come potremmo essere visti nel prossimo futuro, nel ventunesimo secolo, in una terra stravolta dal disastro climatico e dalla stupidità politica e intellettuale (ne scrive acutamente Caterina Soffici su “La Stampa”, 2 novembre: “Cosa resterà di quello che siamo”).
Un disastro da evitare, con umiltà, conoscenza, intelligenza, capacità di farsi carico degli interessi e dei valori dell’ “altro”. Un mondo da difendere e, contemporaneamente, correggere, ricostruire. Riformare.
Le parole sapienti, come quelle di McEwan, sono dunque adatte, benvenute. E tutti sappiamo bene quanto anche e soprattutto oggi la politica (e l’economia, e la scienza) abbiano un fondamentale bisogno di buona letteratura.

(foto Getty Images)

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