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Lo skándalon di Milano e la necessità di un Piano Casa per ceti medi e studenti

Necesse est enim ut veniant scandala, si legge nel Vangelo secondo Matteo. Una frase così densa di intelligenza e senso storico viene oggi in mente pensando, pur nel piccolo della nostra storia, alla lezione da trarre dalle attuali vicende giudiziarie e politiche che investono Milano, la sua amministrazione, i suoi progetti di sviluppo. Ed è proprio l’etimologia della parola, dal greco antico skándalon e cioè inciampo oppure ostacolo, a metterci sulla buona strada.

Al di là degli esiti delle inchieste della Procura della Repubblica (la giustizia faccia il suo corso, no?) e senza farsi distrarre dal clamore mediatico e dalla foga giustizialista dei “processi sommari” via social media, è proprio “l’inciampo” sulla strada della retorica del successo di Milano come metropoli attrattiva e mai ferma, a costringere tutti a una riflessione approfondita sulle nuove caratteristiche della città, sul suo essere o meno “un modello” e sui paradigmi di uno sviluppo che ancora una volta dovrà essere capace di tenere insieme produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà. Perché tutto può fare Milano tranne che ridursi a essere (secondo il ruvido ma pertinente giudizio di Alberto Mattioli, La Stampa, 17 luglio) “bella senz’anima, sempre più scintillante e sempre meno autentica”.

Milano, d’altronde, non è solo Milano, ma Italia. E la nostra città più internazionale. Economicamente, un motore di peso europeo. Culturalmente e socialmente, un cardine per l’innovazione (in tutti gli aspetti, anche quelli negativi, da governare e limitare). “Milano è un asset, serve difenderla e proporre una visione”, scrivono in un editoriale su Il Sole24Ore (25 luglio), Emanuele Orsini, presidente di Confindustria e Alvise Biffi, presidente di Assolombarda. Una scelta politica e comunicativa rilevante, di respiro nazionale: l’imprenditoria non sta a guardare e, ancora una volta, è pronta a fare la sua parte per la ripresa e il rilancio della metropoli e del Paese, “lavorando congiuntamente tra istituzioni, aziende, università, società civile”. D’altronde, la declinazione delle sintonie tra produttività e solidarietà, tra radici locali e sguardo globale, è ben salda nella cultura di Assolombarda. “Insieme”, è il titolo del volume, curato dalla Fondazione Assolombarda ed edito da Marsilio, che ne celebra gli ottant’anni di storia. E “Far volare Milano per far volare l’Italia” era l’indicazione strategica di una delle presidenze più visionarie e ambiziose, quella di Gianfelice Rocca (2013-2017). Un’idea ancora attuale.

Proviamo, dunque, a ragionare meglio sullo skándalon. E partire dal ricordo di una data: 1942. Il 17 agosto di quell’anno (stagione di guerra, tensioni militari e preoccupazioni sociali), il governo Mussolini, subito dopo l’approvazione del Codice Civile, emana la legge n. 1150, per definire una disciplina urbanistica generale e uniforme su tutto il territorio nazionale, innovando i “piani regolatori edilizi” e introducendo i “piani regolatori generali” e i “piani territoriali di coordinamento”. Più di ottant’anni dopo, quella legge è ancora in vigore, facendo sempre da architrave della legislazione urbanistica nazionale. Con numerose modifiche, integrazioni e variazioni, naturalmente. Ma con un effetto di complessità e confusione, nella sua applicazione. Anche perché nel frattempo sono cambiate le città, si sono evoluti gli stili di vita e le abitudini dell’abitare, si sono radicalmente trasformati i processi produttivi, economici e sociali e modificati i business models degli investitori finanziari e dei costruttori edili. Tutto un altro mondo, insomma. Con norme che sempre più faticosamente inquadrano e disciplinano efficacemente le tensioni e le tendenze che riguardano lo sviluppo delle città e un bene primario degli italiani: la casa.

Chi conosce la storia politica italiana ricorda il “Piano casa” che, dal 1949 al 1963, portò a robusti interventi per l’edilizia residenziale pubblica, agevolando una profonda trasformazione di città e paesi (il “Piano Fanfani”, dal nome del suo ideatore, ministro del Lavoro). E un altro intervento nel 1962, con una legge, la numero 167, voluta dall’allora ministro dei Lavori Pubblici Fiorentino Sullo, democristiano, stimolò la costruzione di nuovi insediamenti di edilizia residenziale pubblica per oltre 5 milioni di abitanti.

Erano i tempi del boom economico. L’impetuosa forza della ricostruzione e poi della ripresa aveva spostato milioni di persone dal Sud al Nord delle fabbriche, dai paesi contadini alle più dinamiche aree industriali in cui cercare nuove e migliori condizioni di lavoro e di vita. A Milano e a Torino, innanzitutto. E la politica e l’intervento pubblico cercavano di rispondere ai nuovi bisogni sociali.

In un contesto così stravolgente, a Sullo, però, nel 1963, non riuscì la riforma chiave, quella urbanistica, avversata duramente dai grandi proprietari fondiari, dalle destre e alla fine rinnegata dalla stessa Dc, con effetti di crisi sul primo governo di centro sinistra, presieduto da Aldo Moro (il Partito socialista italiano entrava finalmente nella “stanza dei bottoni” ma il suo slancio riformista veniva nettamente rallentato). Niente riforma di modernizzazione e semplificazione, per cercare di dare casa agli italiani ma anche per frenare le pretese di chi, allora, stava mettendo “le mani sulla città” (secondo l’efficace titolo di un film di Francesco Rosi sulle speculazioni edilizie, soprattutto a Roma e nelle città del Sud). Compito arduo, in questo Paese, fare riforme incisive.

In sintesi: per quel che riguarda l’edilizia, l’Italia cambia ma le leggi no, tranne aggiustamenti e caute eppur confuse modernizzazioni. Come si sa da gran tempo e come rilevano anche adesso, nei commenti subito dopo lo skándalon di Milano, quattro personaggi molto diversi tra loro. Innanzitutto, uno studioso di grande acume come Piero Bassetti, ex presidente della Regione Lombardia: “Il pacchetto normativo, anche nel campo delle costruzioni, dell’edilizia e dello sviluppo urbanistico è antico e inadeguato” e siamo di fronte a “una dialettica non semplice tra nuovi interessi e normative arretrate” (la Repubblica, 17 luglio e Il Foglio, 22 luglio). Poi, ecco un ex sindaco di Milano come Gabriele Albertini, centro destra, che durante i suoi due mandati, dal 1997 al 2006, aveva avviato la rigenerazione urbana su 11 milioni di metri quadrati lasciati liberi dalle dismissioni industriali: “Una norma mai abrogata, ancorché scritta nel 1942: da questo nodo politico derivano tutti i problemi” (Il Sole24Ore, 26 luglio). E ancora, la presidentessa dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili Federica Brancaccio: “A Milano c’è un problema di interpretazione della legge regionale lombarda e delle delibere comunali che a essa fanno riferimento e di omogeneizzazione di questa interpretazione con la normativa nazionale che data al 1942. Un paradosso”, Il Foglio 24 luglio). E, per finire, Carlo Ratti, architetto e urbanista, professore al Mit di Boston: “Chiunque abbia avuto a che fare con i permessi edilizi conosce bene i meandri della burocrazia italiana. La normativa è un labirinto opaco che ostacola tanto l’efficienza quanto la trasparenza” (Il Sole24Ore, 27 luglio).

Vicenda giudiziaria milanese a parte, lo skándalon, dunque, ci dice che c’è un problema giuridico-amministrativo da affrontare: norme da riscrivere (una responsabilità non dei sindaci, ma del governo nazionale e del Parlamento), procedure da chiarire e semplificare, buon governo da incentivare con una legislazione all’altezza dei nuovi tempi (con tanto di interessi legittimi da soddisfare e nuove tecniche finanziarie e tecnologie costruttive  di cui tenere conto). E una governance del territorio che si basi sul fatto che “a livello amministrativo e decisionale Milano non può fermarsi al perimetro comunale. Dobbiamo dare poteri alla città metropolitana”, come sostiene Francesco Billari, demografo, rettore dell’università Bocconi (Corriere della Sera, 23 luglio). Milano da governare anche nelle interconnessioni tra servizi e movimenti di persone, idee, capitali. Nella mappa ideale di una “Grande Milano”, nelle relazioni con le altre città vicine.

Necesse est enim ut veniant scandala una questione di efficienza. Di efficacia delle scelte economiche, urbanistiche, sociali. Ed è una questione di legalità, nel senso più ampio e pieno del termine.

C’è, appunto, anche una domanda sociale da soddisfare: dare case a ceti sociali in cambiamento  e, naturalmente, agli studenti che scelgono sempre più numerosi Milano per frequentare l’università e costruirsi un orizzonte professionale di qualità. Perché, come sostiene Carlo Cottarelli, economista di vaste competenze internazionali, “il problema di Milano non è che si costruiscono grattacieli, ma che non si costruiscono abbastanza case per il ceto medio” (Corriere della Sera, 23 luglio).

Che fare? Trovare un equilibrio tra le costruzioni per i ceti benestanti, anche internazionali, attratti da Milano e quelle per i ceti medi e medio-bassi, con una remunerazione dell’investimento in un tempo più lungo di quello delle più esigenti dinamiche di profitto, con una leva di vantaggio fiscale e un uso accorto degli oneri di urbanizzazione a carico dei grandi fondi immobiliari. Un insieme di scelte politiche, insomma.

Ecco il punto. La Procura fa il suo mestiere, si muove secondo le leggi in vigore. Ma anche chi amministra una città in continua trasformazione fa il suo, cercando di dare risposte a chi investe, ai giovani che scelgono Milano prefigurando un migliore futuro, a chi avverte ancora il fascino di lavorare, creare, progettare, produrre. Vogliono fare il loro mestiere gli imprenditori. E i cittadini, che ancora coltivano i valori di Milano civitas, competitiva ma anche  inclusiva.

Sono tutte questioni che investono Milano. Ma vanno oltre Milano. “Le leggi urbanistiche le scrive la politica, i magistrati devono limitarsi a combattere i reati”, sintetizza Claudio Martelli, una vita spesa da politico socialista e da ministro (pure della Giustizia), un’attenzione speciale per Milano, la sua città (La Stampa, 22 luglio). Il guaio, però, è che la politica, sulle leggi urbanistiche, come abbiamo visto, non è stata finora all’altezza delle sue responsabilità.

“Milano, è ora di pensare al secondo atto”, sintetizza l’architetto Ratti, ben consapevole del valore economico e dei valori etici che non possono non ispirare una smart city.

Come? Si riparla di Piano Casa, memori (con tutte le debite differenze) di quel ministro Fanfani di cui abbiamo parlato: risorse pubbliche per edilizia residenziale privata.

Il Comune di Milano ha lanciato un suo “Piano casa”, per la costruzione di 10mila alloggi a prezzo calmierato in dieci anni (canone di locazione attorno ai 600 euro al mese per un appartamento di 100 metri quadri), “a settembre pubblicheremo il primo bando”, annuncia Emmanuel Conte, assessore al Bilancio, al Demanio e, appunto, al Piano Casa (Corriere della Sera, 26 luglio).

Federica Brancaccio, Ance, guarda, oltre che a Milano, a esigenze più generali: “Serve un Piano Casa da 15 miliardi”, sostiene (Il Sole24Ore, 23 luglio), da finanziare con risorse statali e della Ue da usare come leva anche per robusti investimenti privati. Valutando pure quali meritino agevolazioni normative e fiscali: “Immaginiamo un rating di impatto sociale, una griglia di requisiti per garantire la possibilità di mettere sul mercato case a prezzi accessibili e riportare la città a ciò che dovrebbe essere per i cittadini: una fucina di stimolo e di crescita, dove possano vivere giovani, anziani e famiglie e dove l’ascensore sociale funzioni” (se ne parlerà ad ottobre al convegno “Città nel futuro 2030-2050”, sotto la guida di Francesco Rutelli).

Milano, anche in questo skándalon, sta mostrando una qualità forte del suo carattere, costruito nel corso di una lunga storia (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana): l’attitudine alla discussione, critica e anche profondamente autocritica. E alla indicazione di soluzioni per i problemi, anche i più difficili. In questi giorni controversi, si va avanti così.

Necesse est enim ut veniant scandala, si legge nel Vangelo secondo Matteo. Una frase così densa di intelligenza e senso storico viene oggi in mente pensando, pur nel piccolo della nostra storia, alla lezione da trarre dalle attuali vicende giudiziarie e politiche che investono Milano, la sua amministrazione, i suoi progetti di sviluppo. Ed è proprio l’etimologia della parola, dal greco antico skándalon e cioè inciampo oppure ostacolo, a metterci sulla buona strada.

Al di là degli esiti delle inchieste della Procura della Repubblica (la giustizia faccia il suo corso, no?) e senza farsi distrarre dal clamore mediatico e dalla foga giustizialista dei “processi sommari” via social media, è proprio “l’inciampo” sulla strada della retorica del successo di Milano come metropoli attrattiva e mai ferma, a costringere tutti a una riflessione approfondita sulle nuove caratteristiche della città, sul suo essere o meno “un modello” e sui paradigmi di uno sviluppo che ancora una volta dovrà essere capace di tenere insieme produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà. Perché tutto può fare Milano tranne che ridursi a essere (secondo il ruvido ma pertinente giudizio di Alberto Mattioli, La Stampa, 17 luglio) “bella senz’anima, sempre più scintillante e sempre meno autentica”.

Milano, d’altronde, non è solo Milano, ma Italia. E la nostra città più internazionale. Economicamente, un motore di peso europeo. Culturalmente e socialmente, un cardine per l’innovazione (in tutti gli aspetti, anche quelli negativi, da governare e limitare). “Milano è un asset, serve difenderla e proporre una visione”, scrivono in un editoriale su Il Sole24Ore (25 luglio), Emanuele Orsini, presidente di Confindustria e Alvise Biffi, presidente di Assolombarda. Una scelta politica e comunicativa rilevante, di respiro nazionale: l’imprenditoria non sta a guardare e, ancora una volta, è pronta a fare la sua parte per la ripresa e il rilancio della metropoli e del Paese, “lavorando congiuntamente tra istituzioni, aziende, università, società civile”. D’altronde, la declinazione delle sintonie tra produttività e solidarietà, tra radici locali e sguardo globale, è ben salda nella cultura di Assolombarda. “Insieme”, è il titolo del volume, curato dalla Fondazione Assolombarda ed edito da Marsilio, che ne celebra gli ottant’anni di storia. E “Far volare Milano per far volare l’Italia” era l’indicazione strategica di una delle presidenze più visionarie e ambiziose, quella di Gianfelice Rocca (2013-2017). Un’idea ancora attuale.

Proviamo, dunque, a ragionare meglio sullo skándalon. E partire dal ricordo di una data: 1942. Il 17 agosto di quell’anno (stagione di guerra, tensioni militari e preoccupazioni sociali), il governo Mussolini, subito dopo l’approvazione del Codice Civile, emana la legge n. 1150, per definire una disciplina urbanistica generale e uniforme su tutto il territorio nazionale, innovando i “piani regolatori edilizi” e introducendo i “piani regolatori generali” e i “piani territoriali di coordinamento”. Più di ottant’anni dopo, quella legge è ancora in vigore, facendo sempre da architrave della legislazione urbanistica nazionale. Con numerose modifiche, integrazioni e variazioni, naturalmente. Ma con un effetto di complessità e confusione, nella sua applicazione. Anche perché nel frattempo sono cambiate le città, si sono evoluti gli stili di vita e le abitudini dell’abitare, si sono radicalmente trasformati i processi produttivi, economici e sociali e modificati i business models degli investitori finanziari e dei costruttori edili. Tutto un altro mondo, insomma. Con norme che sempre più faticosamente inquadrano e disciplinano efficacemente le tensioni e le tendenze che riguardano lo sviluppo delle città e un bene primario degli italiani: la casa.

Chi conosce la storia politica italiana ricorda il “Piano casa” che, dal 1949 al 1963, portò a robusti interventi per l’edilizia residenziale pubblica, agevolando una profonda trasformazione di città e paesi (il “Piano Fanfani”, dal nome del suo ideatore, ministro del Lavoro). E un altro intervento nel 1962, con una legge, la numero 167, voluta dall’allora ministro dei Lavori Pubblici Fiorentino Sullo, democristiano, stimolò la costruzione di nuovi insediamenti di edilizia residenziale pubblica per oltre 5 milioni di abitanti.

Erano i tempi del boom economico. L’impetuosa forza della ricostruzione e poi della ripresa aveva spostato milioni di persone dal Sud al Nord delle fabbriche, dai paesi contadini alle più dinamiche aree industriali in cui cercare nuove e migliori condizioni di lavoro e di vita. A Milano e a Torino, innanzitutto. E la politica e l’intervento pubblico cercavano di rispondere ai nuovi bisogni sociali.

In un contesto così stravolgente, a Sullo, però, nel 1963, non riuscì la riforma chiave, quella urbanistica, avversata duramente dai grandi proprietari fondiari, dalle destre e alla fine rinnegata dalla stessa Dc, con effetti di crisi sul primo governo di centro sinistra, presieduto da Aldo Moro (il Partito socialista italiano entrava finalmente nella “stanza dei bottoni” ma il suo slancio riformista veniva nettamente rallentato). Niente riforma di modernizzazione e semplificazione, per cercare di dare casa agli italiani ma anche per frenare le pretese di chi, allora, stava mettendo “le mani sulla città” (secondo l’efficace titolo di un film di Francesco Rosi sulle speculazioni edilizie, soprattutto a Roma e nelle città del Sud). Compito arduo, in questo Paese, fare riforme incisive.

In sintesi: per quel che riguarda l’edilizia, l’Italia cambia ma le leggi no, tranne aggiustamenti e caute eppur confuse modernizzazioni. Come si sa da gran tempo e come rilevano anche adesso, nei commenti subito dopo lo skándalon di Milano, quattro personaggi molto diversi tra loro. Innanzitutto, uno studioso di grande acume come Piero Bassetti, ex presidente della Regione Lombardia: “Il pacchetto normativo, anche nel campo delle costruzioni, dell’edilizia e dello sviluppo urbanistico è antico e inadeguato” e siamo di fronte a “una dialettica non semplice tra nuovi interessi e normative arretrate” (la Repubblica, 17 luglio e Il Foglio, 22 luglio). Poi, ecco un ex sindaco di Milano come Gabriele Albertini, centro destra, che durante i suoi due mandati, dal 1997 al 2006, aveva avviato la rigenerazione urbana su 11 milioni di metri quadrati lasciati liberi dalle dismissioni industriali: “Una norma mai abrogata, ancorché scritta nel 1942: da questo nodo politico derivano tutti i problemi” (Il Sole24Ore, 26 luglio). E ancora, la presidentessa dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili Federica Brancaccio: “A Milano c’è un problema di interpretazione della legge regionale lombarda e delle delibere comunali che a essa fanno riferimento e di omogeneizzazione di questa interpretazione con la normativa nazionale che data al 1942. Un paradosso”, Il Foglio 24 luglio). E, per finire, Carlo Ratti, architetto e urbanista, professore al Mit di Boston: “Chiunque abbia avuto a che fare con i permessi edilizi conosce bene i meandri della burocrazia italiana. La normativa è un labirinto opaco che ostacola tanto l’efficienza quanto la trasparenza” (Il Sole24Ore, 27 luglio).

Vicenda giudiziaria milanese a parte, lo skándalon, dunque, ci dice che c’è un problema giuridico-amministrativo da affrontare: norme da riscrivere (una responsabilità non dei sindaci, ma del governo nazionale e del Parlamento), procedure da chiarire e semplificare, buon governo da incentivare con una legislazione all’altezza dei nuovi tempi (con tanto di interessi legittimi da soddisfare e nuove tecniche finanziarie e tecnologie costruttive  di cui tenere conto). E una governance del territorio che si basi sul fatto che “a livello amministrativo e decisionale Milano non può fermarsi al perimetro comunale. Dobbiamo dare poteri alla città metropolitana”, come sostiene Francesco Billari, demografo, rettore dell’università Bocconi (Corriere della Sera, 23 luglio). Milano da governare anche nelle interconnessioni tra servizi e movimenti di persone, idee, capitali. Nella mappa ideale di una “Grande Milano”, nelle relazioni con le altre città vicine.

Necesse est enim ut veniant scandala una questione di efficienza. Di efficacia delle scelte economiche, urbanistiche, sociali. Ed è una questione di legalità, nel senso più ampio e pieno del termine.

C’è, appunto, anche una domanda sociale da soddisfare: dare case a ceti sociali in cambiamento  e, naturalmente, agli studenti che scelgono sempre più numerosi Milano per frequentare l’università e costruirsi un orizzonte professionale di qualità. Perché, come sostiene Carlo Cottarelli, economista di vaste competenze internazionali, “il problema di Milano non è che si costruiscono grattacieli, ma che non si costruiscono abbastanza case per il ceto medio” (Corriere della Sera, 23 luglio).

Che fare? Trovare un equilibrio tra le costruzioni per i ceti benestanti, anche internazionali, attratti da Milano e quelle per i ceti medi e medio-bassi, con una remunerazione dell’investimento in un tempo più lungo di quello delle più esigenti dinamiche di profitto, con una leva di vantaggio fiscale e un uso accorto degli oneri di urbanizzazione a carico dei grandi fondi immobiliari. Un insieme di scelte politiche, insomma.

Ecco il punto. La Procura fa il suo mestiere, si muove secondo le leggi in vigore. Ma anche chi amministra una città in continua trasformazione fa il suo, cercando di dare risposte a chi investe, ai giovani che scelgono Milano prefigurando un migliore futuro, a chi avverte ancora il fascino di lavorare, creare, progettare, produrre. Vogliono fare il loro mestiere gli imprenditori. E i cittadini, che ancora coltivano i valori di Milano civitas, competitiva ma anche  inclusiva.

Sono tutte questioni che investono Milano. Ma vanno oltre Milano. “Le leggi urbanistiche le scrive la politica, i magistrati devono limitarsi a combattere i reati”, sintetizza Claudio Martelli, una vita spesa da politico socialista e da ministro (pure della Giustizia), un’attenzione speciale per Milano, la sua città (La Stampa, 22 luglio). Il guaio, però, è che la politica, sulle leggi urbanistiche, come abbiamo visto, non è stata finora all’altezza delle sue responsabilità.

“Milano, è ora di pensare al secondo atto”, sintetizza l’architetto Ratti, ben consapevole del valore economico e dei valori etici che non possono non ispirare una smart city.

Come? Si riparla di Piano Casa, memori (con tutte le debite differenze) di quel ministro Fanfani di cui abbiamo parlato: risorse pubbliche per edilizia residenziale privata.

Il Comune di Milano ha lanciato un suo “Piano casa”, per la costruzione di 10mila alloggi a prezzo calmierato in dieci anni (canone di locazione attorno ai 600 euro al mese per un appartamento di 100 metri quadri), “a settembre pubblicheremo il primo bando”, annuncia Emmanuel Conte, assessore al Bilancio, al Demanio e, appunto, al Piano Casa (Corriere della Sera, 26 luglio).

Federica Brancaccio, Ance, guarda, oltre che a Milano, a esigenze più generali: “Serve un Piano Casa da 15 miliardi”, sostiene (Il Sole24Ore, 23 luglio), da finanziare con risorse statali e della Ue da usare come leva anche per robusti investimenti privati. Valutando pure quali meritino agevolazioni normative e fiscali: “Immaginiamo un rating di impatto sociale, una griglia di requisiti per garantire la possibilità di mettere sul mercato case a prezzi accessibili e riportare la città a ciò che dovrebbe essere per i cittadini: una fucina di stimolo e di crescita, dove possano vivere giovani, anziani e famiglie e dove l’ascensore sociale funzioni” (se ne parlerà ad ottobre al convegno “Città nel futuro 2030-2050”, sotto la guida di Francesco Rutelli).

Milano, anche in questo skándalon, sta mostrando una qualità forte del suo carattere, costruito nel corso di una lunga storia (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana): l’attitudine alla discussione, critica e anche profondamente autocritica. E alla indicazione di soluzioni per i problemi, anche i più difficili. In questi giorni controversi, si va avanti così.

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