Nella notte dell’Europa c’è ancora spazio per investire sulla sicurezza e i nostri valori
“Sentinella, quanto resta della notte?”. La domanda che anima il Libro del profeta Isaia (21, 11-12) ricorre, nel corso del tempo, tutte le volte in cui è necessario cercare una risposta alla paura, all’incertezza che accompagna una condizione umana e sociale quanto mai difficile, ai tornanti drammatici della vita. Ed è un disperato appello contro l’angoscia, la solitudine, il cuore di tenebra dell’ignoto.
Già, “quanto resta della notte?”. La risposta della sentinella è ambigua: “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite”.
Arriverà alla fine, insomma, questo nostro viaggio al termine della notte. Ma come? Non è affatto detto che l’alba porti tempi migliori. C’è la speranza. E la sconfitta. Resta fermo un punto: è necessario “domandare” e cioè darsi da fare, scegliere, conoscere il senso di ciò che si è fatto, provare a cambiare il corso del tempo. Vengono in mente le parole di Shakespeare affidate a Ofelia, nell’Amleto: “Vi lascio il rosmarino per i ricordi, le viole per i pensieri…”.
Quanto resta allora della notte, per l’Europa stretta tra l’abbandono teorizzato dal Documento sulla sicurezza nazionale della Casa Bianca di Trump e l’aggressività di Putin, la pesante concorrenza strategica sull’economia di Pechino e le tensioni interne tra egoismi nazionalisti, stupidità burocratiche e scarsa cultura politica sul futuro?
Il rosmarino per i ricordi racconta di una lunga stagione in cui l’Europa era fiera della sua potenza economica e, al riparo della sicurezza garantita, a basso costo, dalla Nato e dunque soprattutto dagli Usa, poteva rafforzare i suoi ordinamenti democratici ed espandere gli investimenti per il benessere, la qualità della vita, i sistemi di welfare. L’Europa come area tutto sommato felice del mondo, spazio colto e civile dell’Occidente, in cui fiorivano democrazia, libertà d’impresa, sofisticata cultura e solidarietà sociale. E l’Europa manifatturiera, il successo della technè, del saper fare, il prodigio della tecnologia, la bellezza del design memore della lezione del Bauhaus, un soft power che si presumeva invidiato nel mondo (la buona cultura stimola spesso arroganza) e l’attitudine sofisticata del pensiero critico della Scuola di Francoforte. Cosa pretendere di meglio e di più? Quasi nessuno pensava più alla “sentinella della notte”.
Poi, è successo di tutto, e non nel modo migliore. E le viole per i pensieri adesso dicono di un’angoscia profonda, perché la globalizzazione “positiva” e “integrata” è crollata, il free trade scomposto e prepotente ha preso il posto del fair trade (le regole ben scritte e osservate, gli accordi commerciali, la ricerca della comune convenienza, gli accordi di sostenibilità, i “patti tra gentiluomini” attenti al comune interesse ma anche ai valori, per costruire valore economico). E oggi Joseph Nye con la prevalenza del soft power (diplomazia culturale, capacità di relazioni positive, attrattività multilaterale, empatia fondata sulla leva degli interessi e dei valori condivisi, ruolo autorevole degli organismi internazionali) è studiato, ricordato, elogiato e rimpianto, soprattutto a pochi mesi dalla morte (nel maggio di quest’anno), ma anche messo da canto nella biblioteca dei nuovi potenti, amanti dell’hard power, soprattutto se high tech.
Rieccoci nel momento più buio della notte. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, tre anni fa, ha rotto l’incanto delle convenienze nelle relazioni positive tra Ue e Mosca e messo fine alla comodità dell’energia a basso costo (una condizione favorevole soprattutto per l’industria tedesca, grande consumatrice di metano russo). Le tensioni in Medio Oriente (l’aggressione micidiale di Hamas e la durissima reazione militare israeliana con decine di migliaia di vittime tra la popolazione civile di Gaza, compreso lo strazio di migliaia di bambini) hanno aggravato il clima delle ostilità. E l’Europa, dopo ottant’anni di pace, si è ritrovata nel centro di una serie di conflitti (avevamo peraltro fatto di tutto per non capire bene la lezione di morte che c’era già arrivata dalle guerre e dalle stragi nel Balcani, negli anni Novanta).
Adesso il quadro, per noi europei, si fa sempre più cupo. L’Occidente sembra non esserci più, con gli Usa da una parte e l’Europa dall’altra. “L’Occidente è ancora una comunità di destino?”, si chiede preoccupato Andrea Malaguti (La Stampa, 14 dicembre). Anzi, più esattamente, la Casa Bianca sembra pronta a parlare di Europa, ma considerando i singoli Stati con i quali fare cherry picking per accordi e affari, senza però mai tenere conto, nel documento strategico di cui abbiamo parlato all’inizio, della Ue.
Una scelta anti Europa unita che, peraltro, ha vecchie, autorevoli radici: “Che numero di telefono ha l’Europa?”, amava fare ironia Henry Kissinger, Segretario di Stato degli Usa negli anni Settanta del Novecento.
“La Ue sbaglia direzione”, è uno dei più recenti e duri giudizi critici di Trump, a proposito della posizione europea a sostegno dell’Ucraina. E autorevoli commentatori ricordano che Trump giudica “l’Europa nemica” (Nathalie Tocci, La Stampa, 12 dicembre) e considera “alcuni partiti europei come veri nemici di civiltà” (Yascha Mounk, sempre su La Stampa), mentre Giuliano Da Empoli, sullo stesse pagine, scrive: “Siamo alla fine dell’Occidente e l’Europa se ne sta a fischiettare. Così rinasce la logica imperiale”. E Germano Dottori, analista di “Limes”, sostiene: “Donald vuole indebolire l’Europa, può accordarsi con Mosca e andare verso una nuova Yalta” (Quotidiano Nazionale/ Il Resto del Carlino 12 dicembre).
Tensioni, dialettiche, cambi di passo. Di sicuro, incertezze, su cui Putin fa leva per rafforzare le sue posizioni in una complessa diplomazia.
Giovanni Orsina, storico dell’Università Luiss, è tutto sommato fiducioso: “Usa e Ue, legame profondo. Rompere non è possibile” (Quotidiano Nazionale/ Il Resto del Carlino, 12 dicembre). E di certo anche il governo italiano, per dichiarazione del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è convinto che “per una pace giusta in Ucraina è cruciale l’unità tra Ue e Washington” (Corriere della Sera, 9 dicembre).
Ecco il punto. Come si sta muovendo l’Europa? Cosa sta facendo la Ue? È davvero consapevole della gravissima crisi che stiamo attraversando e che richiede scelte forti, strategiche, politicamente impegnative?
Anche da questo punto di vista, l’attenta lettura dei giornali aiuta a capire. “Viviamo ore drammatiche, è in gioco la democrazia. L’Europa si svegli e reagisca”, sostiene Michael Ignatieff, professore di Storia ad Harvard (la Repubblica, 9 dicembre). E Giampiero Massolo, ex Segretario Generale della Farnesina, è convinto che “la Ue non è ai margini, ci sono Paesi capaci di cooperare” (Quotidiano Nazionale/ Il Resto del Carlino, 9 dicembre). E ancora Mounk aggiunge: “La Ue riparta dal piano Draghi” e cioè dall’ambizioso progetto della costruzione del mercato unico e da un investimento da mille miliardi all’anno per dieci anni per rafforzare l’autonomia strategica europea, la sicurezza (compresa l’energia), l’innovazione, l’industria. Chiarisce Bernard Guetta: “L’Europa è una potenza economica forte e avanzata. Per questo è il bersaglio di Trump. Ma deve recuperare un distacco enorme e attirare le democrazie che non vogliono più assoggettarsi o a Usa e Cina” (La Stampa, 14 dicembre).
La Ue, in altri termini, non è affatto ai margini, anche se è parecchio in difficoltà, debole, lacerata al suo interno, ancora sotto shock per le posizioni polemiche del suo principale alleato storico, gli Usa.
Ha ragione Ferruccio de Bortoli quando scrive “Noi europei educati e deboli” (Corriere della Sera, 9 dicembre). E soprattutto quando poi ricorda i nostri punti di forza: lo Stato di diritto, le conquiste dell’economia di mercato, i valori civili. E insiste perché chi governa a Bruxelles e nelle capitali dei grandi Paesi europei non abdichi alle proprie responsabilità e difenda democrazia, autonomia, sicurezza strategica. A cominciare dalla libertà e dalla sicurezza in Ucraina. Anche se è chiaro – sostiene Massolo – che “nel settore securitario la difesa dell’Europa passa più dalle collaborazioni tra governi volenterosi (fino a britannici e partner asiatici) che dalle istituzioni della Ue. E che degli Usa non si può fare a meno, per il futuro prevedibile” (Corriere della Sera, 14 dicembre).
In recenti dibattiti, personalità come Mario Monti e Romano Prodi hanno ribadito l’urgenza di una scelta europea, sulla propria sicurezza, in un necessario dialogo con gli Usa, ma con la piena consapevolezza della propria forza, anche etica e culturale, oltre che economica. Marcello Messori, economista di grande spessore, si augura “più cooperazione Ue per contrastare il piano Trump contro l’integrazione (IlSole24Ore, 12 dicembre). E una serie di personalità europee (Jacques Attali. Pascal Lamy, Enrico Letta, Paolo Gentiloni, Josep Borrell, Javier Cercas, etc) hanno firmato un manifesto per ribadire l’urgenza di scelte sulla “indipendenza europea”.
Partita difficile. Su cui essere molto lucidi (un pessimista – si usa dire – è un ottimista ben informato). Eppure, l’esperienza storica insegna che proprio in tempi difficili succede talvolta che emergano perfino inaspettatamente personalità da classe dirigente in grado di farsi carico delle proprie responsabilità e del proprio buon diritto.
Il cinema, è vero, è fabbrica di illusioni. Ma capita che apra squarci di verità e di possibilità di futuro su cui riflettere. “L’ora più buia” è un ottimo film del 2017, diretto da Joe Wright e interpretato magistralmente da Gary Oldman. E racconta come, nelle ore tragiche della disfatta di Dunkirk, Winston Churchill sia di fronte a una drammatica decisione: se ascoltare le pressioni di larghi settori del suo partito e negoziare una pace con Hitler o se resistere. Affronta un Parlamento impaurito, confuso, diffidente. E, alla fine, lo trascina sulla linea della continuazione della guerra contro i nazisti. Il Parlamento approva con convinzione profonda. E il suo principale avversario, Lord Halifax, è costretto ad ammettere: “Churchill ha mobilitato la lingua inglese e l’ha spedita in battaglia”.
Non era stata una vittoria della sapiente retorica. Ma dei valori democratici, politici, civili. Un vero e proprio “monito all’Europa”, per dirla con Thomas Mann.
Siamo in tempi di questa portata. E la notte della vigile sentinella di Isaia non può certo portare alla sconfitta europea.
(foto Getty Images)
“Sentinella, quanto resta della notte?”. La domanda che anima il Libro del profeta Isaia (21, 11-12) ricorre, nel corso del tempo, tutte le volte in cui è necessario cercare una risposta alla paura, all’incertezza che accompagna una condizione umana e sociale quanto mai difficile, ai tornanti drammatici della vita. Ed è un disperato appello contro l’angoscia, la solitudine, il cuore di tenebra dell’ignoto.
Già, “quanto resta della notte?”. La risposta della sentinella è ambigua: “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite”.
Arriverà alla fine, insomma, questo nostro viaggio al termine della notte. Ma come? Non è affatto detto che l’alba porti tempi migliori. C’è la speranza. E la sconfitta. Resta fermo un punto: è necessario “domandare” e cioè darsi da fare, scegliere, conoscere il senso di ciò che si è fatto, provare a cambiare il corso del tempo. Vengono in mente le parole di Shakespeare affidate a Ofelia, nell’Amleto: “Vi lascio il rosmarino per i ricordi, le viole per i pensieri…”.
Quanto resta allora della notte, per l’Europa stretta tra l’abbandono teorizzato dal Documento sulla sicurezza nazionale della Casa Bianca di Trump e l’aggressività di Putin, la pesante concorrenza strategica sull’economia di Pechino e le tensioni interne tra egoismi nazionalisti, stupidità burocratiche e scarsa cultura politica sul futuro?
Il rosmarino per i ricordi racconta di una lunga stagione in cui l’Europa era fiera della sua potenza economica e, al riparo della sicurezza garantita, a basso costo, dalla Nato e dunque soprattutto dagli Usa, poteva rafforzare i suoi ordinamenti democratici ed espandere gli investimenti per il benessere, la qualità della vita, i sistemi di welfare. L’Europa come area tutto sommato felice del mondo, spazio colto e civile dell’Occidente, in cui fiorivano democrazia, libertà d’impresa, sofisticata cultura e solidarietà sociale. E l’Europa manifatturiera, il successo della technè, del saper fare, il prodigio della tecnologia, la bellezza del design memore della lezione del Bauhaus, un soft power che si presumeva invidiato nel mondo (la buona cultura stimola spesso arroganza) e l’attitudine sofisticata del pensiero critico della Scuola di Francoforte. Cosa pretendere di meglio e di più? Quasi nessuno pensava più alla “sentinella della notte”.
Poi, è successo di tutto, e non nel modo migliore. E le viole per i pensieri adesso dicono di un’angoscia profonda, perché la globalizzazione “positiva” e “integrata” è crollata, il free trade scomposto e prepotente ha preso il posto del fair trade (le regole ben scritte e osservate, gli accordi commerciali, la ricerca della comune convenienza, gli accordi di sostenibilità, i “patti tra gentiluomini” attenti al comune interesse ma anche ai valori, per costruire valore economico). E oggi Joseph Nye con la prevalenza del soft power (diplomazia culturale, capacità di relazioni positive, attrattività multilaterale, empatia fondata sulla leva degli interessi e dei valori condivisi, ruolo autorevole degli organismi internazionali) è studiato, ricordato, elogiato e rimpianto, soprattutto a pochi mesi dalla morte (nel maggio di quest’anno), ma anche messo da canto nella biblioteca dei nuovi potenti, amanti dell’hard power, soprattutto se high tech.
Rieccoci nel momento più buio della notte. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, tre anni fa, ha rotto l’incanto delle convenienze nelle relazioni positive tra Ue e Mosca e messo fine alla comodità dell’energia a basso costo (una condizione favorevole soprattutto per l’industria tedesca, grande consumatrice di metano russo). Le tensioni in Medio Oriente (l’aggressione micidiale di Hamas e la durissima reazione militare israeliana con decine di migliaia di vittime tra la popolazione civile di Gaza, compreso lo strazio di migliaia di bambini) hanno aggravato il clima delle ostilità. E l’Europa, dopo ottant’anni di pace, si è ritrovata nel centro di una serie di conflitti (avevamo peraltro fatto di tutto per non capire bene la lezione di morte che c’era già arrivata dalle guerre e dalle stragi nel Balcani, negli anni Novanta).
Adesso il quadro, per noi europei, si fa sempre più cupo. L’Occidente sembra non esserci più, con gli Usa da una parte e l’Europa dall’altra. “L’Occidente è ancora una comunità di destino?”, si chiede preoccupato Andrea Malaguti (La Stampa, 14 dicembre). Anzi, più esattamente, la Casa Bianca sembra pronta a parlare di Europa, ma considerando i singoli Stati con i quali fare cherry picking per accordi e affari, senza però mai tenere conto, nel documento strategico di cui abbiamo parlato all’inizio, della Ue.
Una scelta anti Europa unita che, peraltro, ha vecchie, autorevoli radici: “Che numero di telefono ha l’Europa?”, amava fare ironia Henry Kissinger, Segretario di Stato degli Usa negli anni Settanta del Novecento.
“La Ue sbaglia direzione”, è uno dei più recenti e duri giudizi critici di Trump, a proposito della posizione europea a sostegno dell’Ucraina. E autorevoli commentatori ricordano che Trump giudica “l’Europa nemica” (Nathalie Tocci, La Stampa, 12 dicembre) e considera “alcuni partiti europei come veri nemici di civiltà” (Yascha Mounk, sempre su La Stampa), mentre Giuliano Da Empoli, sullo stesse pagine, scrive: “Siamo alla fine dell’Occidente e l’Europa se ne sta a fischiettare. Così rinasce la logica imperiale”. E Germano Dottori, analista di “Limes”, sostiene: “Donald vuole indebolire l’Europa, può accordarsi con Mosca e andare verso una nuova Yalta” (Quotidiano Nazionale/ Il Resto del Carlino 12 dicembre).
Tensioni, dialettiche, cambi di passo. Di sicuro, incertezze, su cui Putin fa leva per rafforzare le sue posizioni in una complessa diplomazia.
Giovanni Orsina, storico dell’Università Luiss, è tutto sommato fiducioso: “Usa e Ue, legame profondo. Rompere non è possibile” (Quotidiano Nazionale/ Il Resto del Carlino, 12 dicembre). E di certo anche il governo italiano, per dichiarazione del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è convinto che “per una pace giusta in Ucraina è cruciale l’unità tra Ue e Washington” (Corriere della Sera, 9 dicembre).
Ecco il punto. Come si sta muovendo l’Europa? Cosa sta facendo la Ue? È davvero consapevole della gravissima crisi che stiamo attraversando e che richiede scelte forti, strategiche, politicamente impegnative?
Anche da questo punto di vista, l’attenta lettura dei giornali aiuta a capire. “Viviamo ore drammatiche, è in gioco la democrazia. L’Europa si svegli e reagisca”, sostiene Michael Ignatieff, professore di Storia ad Harvard (la Repubblica, 9 dicembre). E Giampiero Massolo, ex Segretario Generale della Farnesina, è convinto che “la Ue non è ai margini, ci sono Paesi capaci di cooperare” (Quotidiano Nazionale/ Il Resto del Carlino, 9 dicembre). E ancora Mounk aggiunge: “La Ue riparta dal piano Draghi” e cioè dall’ambizioso progetto della costruzione del mercato unico e da un investimento da mille miliardi all’anno per dieci anni per rafforzare l’autonomia strategica europea, la sicurezza (compresa l’energia), l’innovazione, l’industria. Chiarisce Bernard Guetta: “L’Europa è una potenza economica forte e avanzata. Per questo è il bersaglio di Trump. Ma deve recuperare un distacco enorme e attirare le democrazie che non vogliono più assoggettarsi o a Usa e Cina” (La Stampa, 14 dicembre).
La Ue, in altri termini, non è affatto ai margini, anche se è parecchio in difficoltà, debole, lacerata al suo interno, ancora sotto shock per le posizioni polemiche del suo principale alleato storico, gli Usa.
Ha ragione Ferruccio de Bortoli quando scrive “Noi europei educati e deboli” (Corriere della Sera, 9 dicembre). E soprattutto quando poi ricorda i nostri punti di forza: lo Stato di diritto, le conquiste dell’economia di mercato, i valori civili. E insiste perché chi governa a Bruxelles e nelle capitali dei grandi Paesi europei non abdichi alle proprie responsabilità e difenda democrazia, autonomia, sicurezza strategica. A cominciare dalla libertà e dalla sicurezza in Ucraina. Anche se è chiaro – sostiene Massolo – che “nel settore securitario la difesa dell’Europa passa più dalle collaborazioni tra governi volenterosi (fino a britannici e partner asiatici) che dalle istituzioni della Ue. E che degli Usa non si può fare a meno, per il futuro prevedibile” (Corriere della Sera, 14 dicembre).
In recenti dibattiti, personalità come Mario Monti e Romano Prodi hanno ribadito l’urgenza di una scelta europea, sulla propria sicurezza, in un necessario dialogo con gli Usa, ma con la piena consapevolezza della propria forza, anche etica e culturale, oltre che economica. Marcello Messori, economista di grande spessore, si augura “più cooperazione Ue per contrastare il piano Trump contro l’integrazione (IlSole24Ore, 12 dicembre). E una serie di personalità europee (Jacques Attali. Pascal Lamy, Enrico Letta, Paolo Gentiloni, Josep Borrell, Javier Cercas, etc) hanno firmato un manifesto per ribadire l’urgenza di scelte sulla “indipendenza europea”.
Partita difficile. Su cui essere molto lucidi (un pessimista – si usa dire – è un ottimista ben informato). Eppure, l’esperienza storica insegna che proprio in tempi difficili succede talvolta che emergano perfino inaspettatamente personalità da classe dirigente in grado di farsi carico delle proprie responsabilità e del proprio buon diritto.
Il cinema, è vero, è fabbrica di illusioni. Ma capita che apra squarci di verità e di possibilità di futuro su cui riflettere. “L’ora più buia” è un ottimo film del 2017, diretto da Joe Wright e interpretato magistralmente da Gary Oldman. E racconta come, nelle ore tragiche della disfatta di Dunkirk, Winston Churchill sia di fronte a una drammatica decisione: se ascoltare le pressioni di larghi settori del suo partito e negoziare una pace con Hitler o se resistere. Affronta un Parlamento impaurito, confuso, diffidente. E, alla fine, lo trascina sulla linea della continuazione della guerra contro i nazisti. Il Parlamento approva con convinzione profonda. E il suo principale avversario, Lord Halifax, è costretto ad ammettere: “Churchill ha mobilitato la lingua inglese e l’ha spedita in battaglia”.
Non era stata una vittoria della sapiente retorica. Ma dei valori democratici, politici, civili. Un vero e proprio “monito all’Europa”, per dirla con Thomas Mann.
Siamo in tempi di questa portata. E la notte della vigile sentinella di Isaia non può certo portare alla sconfitta europea.
(foto Getty Images)