Vite senza fine
Raccontare il lavoro. E l’impresa. I valori dell’intraprendere e del creare con l’immaginazione e con le mani. La fatica e il piacere del fare bene. E l’importanza di inventare, costruire, cambiare. C’è tutto un mondo che sollecita parole e pagine e vuole, giustamente, finire in un libro. Un libro come “Vite senza fine”, per esempio. L’ha scritto, benissimo, Ernesto Franco, per Einaudi. Il romanzo Racconta di Giò Magnaschi che, all’inizio del Novecento, ancora bambino, gioca con un chiodo cavallottino e una rondella e, appena adulto, fonda quella che diventerà la più grande ditta di ferramenta dei suoi tempi: una sorta di eroe della manifattura. Tra ricordi di famiglia, documenti, testimonianze ritrovate un po’ per caso, Franco ricostruisce la storia di quel suo zio che, tra Genova e il mondo, sa tenere insieme fabbrica e sogni, la concretezza dei bulloni e la leggerezza dei viaggi e delle passioni d’amore. “Mi piace mettere insieme le cose. E che ci restino”, diceva. Parlava dei nodi e degli incastri a coda di rondine, di chiavi e serrature, delle navi che solcano il mare e un po’ gli appartengono. E amava quell’oggetto speciale che è, appunto, la vite senza fine, senza la quale poco si tiene. Ma che, da sola, non basta a tenere insieme tutta una vita. Meno male che, per far continuare una vita intensamente e ben spesa, ci sono le parole che danno forma e spessore ai ricordi.
Vite senza fine
Ernesto Franco
Einaudi, 2020 (prima edizione 1999)