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Seguire la pista dei soldi: la lezione di Falcone è ancora valida per combattere la mafia che aggredisce economia e imprese

Per combattere la mafia e contrastarne il potere, bisogna seguire la traccia dei soldi. Ricordando Giovanni Falcone, a ventotto anni dalla sua morte, è proprio questa una delle lezioni principali che vengono in mente, scrivendo di storia e rilanciando l’attualità di una lezione giudiziaria e politica.

Seguire i soldi, provare cioè a ricostruire la trama dei legami tra le famiglie mafiose documentando i pagamenti, gli scambi di denaro, gli investimenti. E definire così la mappa degli interessi criminali comuni. Era stata l’intuizione di Gaetano Costa, Procuratore della Repubblica di Palermo, nelle indagini del 1979 sui clan Spatola, Inzerillo e Gambino, costruttori di appalti truccati e trafficanti di droga tra Palermo e New York, amici e protettori di Michele Sindona, il banchiere della mafia (il magistrato aveva pagato con la vita la sua intelligenza investigativa, nell’agosto del 1980). Un’idea forte, lucida, ben fondata, ripresa poi dal Consigliere istruttore Rocco Chinnici (assassinato anche lui da un’autobomba nel luglio del 1983, “Palermo come Beirut”, titolò il quotidiano “L’Ora”, dando conto di orrore e sgomento). E seguita da Giovanni Falcone e dal pool antimafia della Procura e dell’Ufficio Istruzione, con indagini e accertamenti minuziosi in banche, finanziarie e imprese, suscitando un vespaio di polemiche e di pressioni, anche dentro Palazzo di Giustizia, per “finirla con tante inchieste che stanno danneggiando l’economia siciliana”.

Nonostante tutto, Falcone e gli altri magistrati erano andati avanti, facendo degli accertamenti economici e delle prove bancarie uno dei pilastri del maxiprocesso cominciato nel febbraio 1986 e concluso con una lunga serie di condanne dei boss, confermate in Cassazione. Un processo esemplare, in cui lo Stato ha vinto e la mafia ha perso.

Seguire la traccia dei soldi. Dimostrare, cioè, che Cosa Nostra e le altre organizzazioni criminali, la ‘ndrangheta, la camorra, la Sacra Corona Unita, erano e sono strutture interconnesse (anche se non senza conflitti) e si muovono con l’obiettivo di accumulare potere e denaro. Potere per fare denaro. E denaro per rafforzare il potere, in un circuito perverso, tra illegalità e riciclaggio per immettere soldi nei circuiti dell’economia legale, devastando economia, società, politica, pubblica amministrazione, istituzioni.

Fuori dalle commemorazioni retoriche, ragionare adesso sull’impegno di Giovanni Falcone e, con lui, su quello degli altri magistrati, dei poliziotti e dei carabinieri e delle altre persone uccise per bloccare le loro azioni sugli affari criminali e i delitti mafiosi (tra cui politici, giornalisti e quella straordinaria persona perbene che è stata Giorgio Ambrosoli, un “eroe borghese” assassinato per ordine di Sindona) significa non solo rendere viva, per le nuove generazioni, la loro testimonianza morale e civile, ma anche rilanciare la consapevolezza della forza attuale del fenomeno mafioso: la sua potenza economica.

Le tracce c’erano già nella prima grande inchiesta de “L’Ora” sui clan mafiosi, in quel titolo essenziale ed esemplare del 1958: “La mafia dà pane e morte”. Il pane dell’economia criminale. La morte della sanzione per chiunque ostacoli gli affari. Soldi, appunto. Solo soldi. E violenza. Senza l’ombra di quei valori che i boss vantavano d’avere: l’onore, il rispetto, una certa idea di giustizia popolare, come ombre ideologiche d’una subcultura del potere.

Che appunto il denaro fosse il collante delle famiglie di Cosa Nostra lo sapeva bene Pio La Torre, dirigente del Pci, promotore d’una legge che puntava a colpire la mafia in ciò che aveva di più caro: il patrimonio, con i sequestri e le confische dei proventi economici delle attività criminali. Sarebbe stata purtroppo necessaria l’uccisione di La Torre e poi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa perché quella proposta diventasse legge. Adesso, con modifiche e miglioramenti, quella legge è ancora uno strumento fondamentale in mano allo Stato per mettere in crisi i poteri criminali.

Seguendo i soldi, Falcone, Borsellino e altri magistrati (con il contributo dei “pentiti”) hanno messo in luce i traffici di Vito Ciancimino e di Sindona, di Roberto Calvi e di altri protagonisti di quell’area “grigia” dei complici dei boss, anche nel passaggio della maggior parte dei loro affari dalle regioni del Mezzogiorno alla Lombardia e al Piemonte, al Veneto e all’Emilia, nelle città del potere economico dove soprattutto la ‘ndrangheta ha messo radici robuste, inquinando pericolosamente economia, mercati, ambienti politici.

Sosteneva infatti Falcone, nel suo libro “Cose di Cosa Nostra”: “La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli, maestri cantori, gente intimidita e ricattata che appartiene a tutti gli strati della società”. Un tumore. Che vive di complicità.

Quell’indicazione dei magistrati di Palermo va tenuta in gran conto proprio oggi, in tempi di crisi da Covid 19 e conseguente recessione economica: il ministro degli Interni Luciana Lamorgese, il capo della Polizia Gabrielli, il Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho e parecchi inquirenti sostengono che le cosche mafiose stanno approfittando della debolezza finanziaria di centinaia di imprese per acquisirne il controllo e rafforzare la loro presenza nell’economia, soprattutto nelle città e nelle province del Nord. E’ un allarme serio. Va ascoltato, traendone tutte le conseguenze necessarie per un maggiore impegno dello Stato contro la mafia. D’altronde, anche questo vuol dire rimemorare Falcone: dimostrare concretamente che il suo impegno di uomo dello Stato non è stato affatto vano.

Per combattere la mafia e contrastarne il potere, bisogna seguire la traccia dei soldi. Ricordando Giovanni Falcone, a ventotto anni dalla sua morte, è proprio questa una delle lezioni principali che vengono in mente, scrivendo di storia e rilanciando l’attualità di una lezione giudiziaria e politica.

Seguire i soldi, provare cioè a ricostruire la trama dei legami tra le famiglie mafiose documentando i pagamenti, gli scambi di denaro, gli investimenti. E definire così la mappa degli interessi criminali comuni. Era stata l’intuizione di Gaetano Costa, Procuratore della Repubblica di Palermo, nelle indagini del 1979 sui clan Spatola, Inzerillo e Gambino, costruttori di appalti truccati e trafficanti di droga tra Palermo e New York, amici e protettori di Michele Sindona, il banchiere della mafia (il magistrato aveva pagato con la vita la sua intelligenza investigativa, nell’agosto del 1980). Un’idea forte, lucida, ben fondata, ripresa poi dal Consigliere istruttore Rocco Chinnici (assassinato anche lui da un’autobomba nel luglio del 1983, “Palermo come Beirut”, titolò il quotidiano “L’Ora”, dando conto di orrore e sgomento). E seguita da Giovanni Falcone e dal pool antimafia della Procura e dell’Ufficio Istruzione, con indagini e accertamenti minuziosi in banche, finanziarie e imprese, suscitando un vespaio di polemiche e di pressioni, anche dentro Palazzo di Giustizia, per “finirla con tante inchieste che stanno danneggiando l’economia siciliana”.

Nonostante tutto, Falcone e gli altri magistrati erano andati avanti, facendo degli accertamenti economici e delle prove bancarie uno dei pilastri del maxiprocesso cominciato nel febbraio 1986 e concluso con una lunga serie di condanne dei boss, confermate in Cassazione. Un processo esemplare, in cui lo Stato ha vinto e la mafia ha perso.

Seguire la traccia dei soldi. Dimostrare, cioè, che Cosa Nostra e le altre organizzazioni criminali, la ‘ndrangheta, la camorra, la Sacra Corona Unita, erano e sono strutture interconnesse (anche se non senza conflitti) e si muovono con l’obiettivo di accumulare potere e denaro. Potere per fare denaro. E denaro per rafforzare il potere, in un circuito perverso, tra illegalità e riciclaggio per immettere soldi nei circuiti dell’economia legale, devastando economia, società, politica, pubblica amministrazione, istituzioni.

Fuori dalle commemorazioni retoriche, ragionare adesso sull’impegno di Giovanni Falcone e, con lui, su quello degli altri magistrati, dei poliziotti e dei carabinieri e delle altre persone uccise per bloccare le loro azioni sugli affari criminali e i delitti mafiosi (tra cui politici, giornalisti e quella straordinaria persona perbene che è stata Giorgio Ambrosoli, un “eroe borghese” assassinato per ordine di Sindona) significa non solo rendere viva, per le nuove generazioni, la loro testimonianza morale e civile, ma anche rilanciare la consapevolezza della forza attuale del fenomeno mafioso: la sua potenza economica.

Le tracce c’erano già nella prima grande inchiesta de “L’Ora” sui clan mafiosi, in quel titolo essenziale ed esemplare del 1958: “La mafia dà pane e morte”. Il pane dell’economia criminale. La morte della sanzione per chiunque ostacoli gli affari. Soldi, appunto. Solo soldi. E violenza. Senza l’ombra di quei valori che i boss vantavano d’avere: l’onore, il rispetto, una certa idea di giustizia popolare, come ombre ideologiche d’una subcultura del potere.

Che appunto il denaro fosse il collante delle famiglie di Cosa Nostra lo sapeva bene Pio La Torre, dirigente del Pci, promotore d’una legge che puntava a colpire la mafia in ciò che aveva di più caro: il patrimonio, con i sequestri e le confische dei proventi economici delle attività criminali. Sarebbe stata purtroppo necessaria l’uccisione di La Torre e poi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa perché quella proposta diventasse legge. Adesso, con modifiche e miglioramenti, quella legge è ancora uno strumento fondamentale in mano allo Stato per mettere in crisi i poteri criminali.

Seguendo i soldi, Falcone, Borsellino e altri magistrati (con il contributo dei “pentiti”) hanno messo in luce i traffici di Vito Ciancimino e di Sindona, di Roberto Calvi e di altri protagonisti di quell’area “grigia” dei complici dei boss, anche nel passaggio della maggior parte dei loro affari dalle regioni del Mezzogiorno alla Lombardia e al Piemonte, al Veneto e all’Emilia, nelle città del potere economico dove soprattutto la ‘ndrangheta ha messo radici robuste, inquinando pericolosamente economia, mercati, ambienti politici.

Sosteneva infatti Falcone, nel suo libro “Cose di Cosa Nostra”: “La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli, maestri cantori, gente intimidita e ricattata che appartiene a tutti gli strati della società”. Un tumore. Che vive di complicità.

Quell’indicazione dei magistrati di Palermo va tenuta in gran conto proprio oggi, in tempi di crisi da Covid 19 e conseguente recessione economica: il ministro degli Interni Luciana Lamorgese, il capo della Polizia Gabrielli, il Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho e parecchi inquirenti sostengono che le cosche mafiose stanno approfittando della debolezza finanziaria di centinaia di imprese per acquisirne il controllo e rafforzare la loro presenza nell’economia, soprattutto nelle città e nelle province del Nord. E’ un allarme serio. Va ascoltato, traendone tutte le conseguenze necessarie per un maggiore impegno dello Stato contro la mafia. D’altronde, anche questo vuol dire rimemorare Falcone: dimostrare concretamente che il suo impegno di uomo dello Stato non è stato affatto vano.

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