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Nuove imprese all’orizzonte

Una serie di interviste a imprenditori e manager delineano un modo diverso (e positivo) di produrre

E’ possibile che dalle enormi difficoltà dell’oggi nasca qualcosa di positivo e di nuovo? Molti lo credono fattibile e molti ineluttabile. E’ comunque una prospettiva da coltivare. Anche per il sistema delle imprese e dell’economia in generale. Una prospettiva per la quale vale la pena lavorare.
Attorno a questo nucleo di pensieri hanno ragionato Maurizio Decastri, Emanuela Ferro e Massimo Quizielvu mettendo insieme “Verso un nuovo rinascimento. L’impresa di valore”, un’antologia di conversazioni con imprenditori e manager uniti dall’indagine e dalla ricerca pratica sulle nuove prospettive della loro attività d’impresa.
Cosa accade oggi. E’, come si è detto, da questa condizione che il libro prende le mosse. Una condizione vista in positivo. L’accelerazione apportata dalla crisi pandemica di inizio 2020 – viene spiegato -, si è insinuata nelle imprese, ergendosi a momento di rara opportunità per ridisegnare in corsa nuovi modelli manageriali, culturali e organizzativi, la cui essenza immaginiamo possa perdurare nel tempo.
Immaginazione positiva (e concreta). Che delinea quanto dà poi il titolo alla raccolta stessa – un nuovo Rinascimento -, oltre che comporre una sorta di dizionario che racconta tratti nuovi del produrre. In questo vocabolario, viene ancora spiegato, si trovano alcune parole, insolite in molti casi per un vocabolario d’impresa, ma la cui etimologia ci porta alla riscoperta del senso profondo da cui ognuna trae origine, apportando valore all’organizzazione che la accoglie a proprio pilastro culturale e organizzativo. Si parla quindi di sostenibilità, tecnologia, ma anche di emozioni, di tempo ritrovato, fiducia, equilibrio armonico, oltre che naturalmente del più vasto rapporto tra impresa e società. Su tutto, poi, il ragionamento sul concetto di “valore” – nella società e nel sistema delle imprese -, che non viene ridotto solo ad espressione materiale di qualcosa ma a qualcosa di molto più importante.
Nelle pagine si ritrovano quindi i pensieri di imprenditori e manager attivi in imprese di vario genere e dimensioni dei settori della chimica, della logistica, dell’alta tecnologia, dell’energia e di altro ancora. Tutti, delineano in modi diversi quanto i curatori indicano con grande chiarezza in un passaggio del libro: “La fase di incertezza e tensione che stiamo vivendo ci suggerisce sottovoce di costruire imprese di valore, ossia imprese sobrie, temperanti e armoniche”.
“Verso un nuovo rinascimento. L’impresa di valore” è un libro tutto da leggere. E magari da rileggere tra qualche tempo per verificare quanto si sta avverando delle prospettive delineate.

Verso un nuovo rinascimento. L’impresa di valore
Maurizio Decastri, Emanuela Ferro e Massimo Quizielvu (a cura di)
Guerini Next, 2021

Una serie di interviste a imprenditori e manager delineano un modo diverso (e positivo) di produrre

E’ possibile che dalle enormi difficoltà dell’oggi nasca qualcosa di positivo e di nuovo? Molti lo credono fattibile e molti ineluttabile. E’ comunque una prospettiva da coltivare. Anche per il sistema delle imprese e dell’economia in generale. Una prospettiva per la quale vale la pena lavorare.
Attorno a questo nucleo di pensieri hanno ragionato Maurizio Decastri, Emanuela Ferro e Massimo Quizielvu mettendo insieme “Verso un nuovo rinascimento. L’impresa di valore”, un’antologia di conversazioni con imprenditori e manager uniti dall’indagine e dalla ricerca pratica sulle nuove prospettive della loro attività d’impresa.
Cosa accade oggi. E’, come si è detto, da questa condizione che il libro prende le mosse. Una condizione vista in positivo. L’accelerazione apportata dalla crisi pandemica di inizio 2020 – viene spiegato -, si è insinuata nelle imprese, ergendosi a momento di rara opportunità per ridisegnare in corsa nuovi modelli manageriali, culturali e organizzativi, la cui essenza immaginiamo possa perdurare nel tempo.
Immaginazione positiva (e concreta). Che delinea quanto dà poi il titolo alla raccolta stessa – un nuovo Rinascimento -, oltre che comporre una sorta di dizionario che racconta tratti nuovi del produrre. In questo vocabolario, viene ancora spiegato, si trovano alcune parole, insolite in molti casi per un vocabolario d’impresa, ma la cui etimologia ci porta alla riscoperta del senso profondo da cui ognuna trae origine, apportando valore all’organizzazione che la accoglie a proprio pilastro culturale e organizzativo. Si parla quindi di sostenibilità, tecnologia, ma anche di emozioni, di tempo ritrovato, fiducia, equilibrio armonico, oltre che naturalmente del più vasto rapporto tra impresa e società. Su tutto, poi, il ragionamento sul concetto di “valore” – nella società e nel sistema delle imprese -, che non viene ridotto solo ad espressione materiale di qualcosa ma a qualcosa di molto più importante.
Nelle pagine si ritrovano quindi i pensieri di imprenditori e manager attivi in imprese di vario genere e dimensioni dei settori della chimica, della logistica, dell’alta tecnologia, dell’energia e di altro ancora. Tutti, delineano in modi diversi quanto i curatori indicano con grande chiarezza in un passaggio del libro: “La fase di incertezza e tensione che stiamo vivendo ci suggerisce sottovoce di costruire imprese di valore, ossia imprese sobrie, temperanti e armoniche”.
“Verso un nuovo rinascimento. L’impresa di valore” è un libro tutto da leggere. E magari da rileggere tra qualche tempo per verificare quanto si sta avverando delle prospettive delineate.

Verso un nuovo rinascimento. L’impresa di valore
Maurizio Decastri, Emanuela Ferro e Massimo Quizielvu (a cura di)
Guerini Next, 2021

L’impresa vera

Un intervento apparso sul Dizionario di dottrina sociale della Chiesa approfondisce con chiarezza un’interpretazione alternativa delle organizzazioni della produzione

Creatività e quindi impresa. Volontà di fare e costruire e quindi impresa. Ingegno e quindi impresa. Si potrebbe continuare per molto con parallelismi di questo genere. Che hanno comunque tutti un elemento in comune: la nascita e la crescita di un’organizzazione della produzione condotta da una figura chiave nello sviluppo quale è l’imprenditore. Senza dover cadere nell’impresa buonista (aberrazione di quella buona impresa che si esplicita poi in una cultura del produrre attenta non solo al profitto), il ragionamento attorno alla “buona impresa” deve essere sempre rinnovato e coltivato. Ed è quello che fa Giovanni Marseguerra (dell’Università Cattolica del Sacro Cuore) con il suo “Intraprendere: una questione di relazioni” apparso nel secondo fascicolo del 2021 del Dizionario di dottrina sociale della Chiesa.

“Alla base di ogni attività imprenditoriale vi è sempre una persona con il suo desiderio di fare qualcosa di grande e importante”, scrive l’autore proprio nell’incipit del suo intervento,  che poi prosegue: “È questo desiderio la molla che guida e consente di dare concretezza ad ogni specifica attività economica, che non garantisce il successo, ma sempre anima l’agire di chi intraprende. Le fortune dell’iniziativa dipenderanno poi, in misura sostanziale, dall’impegno e dalle competenze di chi la promuove e, in parte, anche dalle circostanze, dal caso favorevole o avverso”.  E’ quindi partendo da questa affermazione che Marseguerra sviluppo il suo ragionamento.  Che si propone di identificare i principi e i valori fondamentali alla base della nascita e dello sviluppo di un’attività imprenditoriale. In particolare, l’articolo ha l’obiettivo di dimostrare come ogni impresa, vera e concreta, nasca sempre dall’iniziativa personale, dalla libera e responsabile creatività umana e definisca nel tempo un capitale umano e sociale che acquista le caratteristiche di un vero e proprio bene sociale. E’ quindi una “comunità di persone” ciò che nasce “attorno a un’idea, a un progetto, costituisce e si identifica con l’impresa, la cui vita si nutre poi di relazioni di collaborazione e cooperazione, sia interne sia esterne”.

Per sviluppare le sue argomentazioni, Giovanni Marseguerra prende quindi in considerazione prima la teoria economica neoclassica e quindi approfondisce “un’altra teoria basata sulla persona” per arrivare ad una interpretazione basata sulla dottrina sociale della chiesa. Marseguerra quindi cerca di guardare più da vicino aspetti particolari che derivano da questi assunti: la responsabilità dell’imprenditore, la famiglia-impresa, la libertà, l’attenzione “all’uomo reale e concreto”, il ruolo delle imprese nella “costruzione di un’economia più umana”.

Come sempre accade di fronte ad un ragionamento onesto e chiaro, con quanto argomentato da Giovanni Marseguerra non tutti i lettori si troveranno d’accordo, ma certamente tutti (se anche loro onesti) ne riconosceranno l’importanza e la chiarezza.

Intraprendere: una questione di relazioni

Giovanni Marseguerra

Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Fascicolo 2021, 2 – Aprile-Giugno 2021

Un intervento apparso sul Dizionario di dottrina sociale della Chiesa approfondisce con chiarezza un’interpretazione alternativa delle organizzazioni della produzione

Creatività e quindi impresa. Volontà di fare e costruire e quindi impresa. Ingegno e quindi impresa. Si potrebbe continuare per molto con parallelismi di questo genere. Che hanno comunque tutti un elemento in comune: la nascita e la crescita di un’organizzazione della produzione condotta da una figura chiave nello sviluppo quale è l’imprenditore. Senza dover cadere nell’impresa buonista (aberrazione di quella buona impresa che si esplicita poi in una cultura del produrre attenta non solo al profitto), il ragionamento attorno alla “buona impresa” deve essere sempre rinnovato e coltivato. Ed è quello che fa Giovanni Marseguerra (dell’Università Cattolica del Sacro Cuore) con il suo “Intraprendere: una questione di relazioni” apparso nel secondo fascicolo del 2021 del Dizionario di dottrina sociale della Chiesa.

“Alla base di ogni attività imprenditoriale vi è sempre una persona con il suo desiderio di fare qualcosa di grande e importante”, scrive l’autore proprio nell’incipit del suo intervento,  che poi prosegue: “È questo desiderio la molla che guida e consente di dare concretezza ad ogni specifica attività economica, che non garantisce il successo, ma sempre anima l’agire di chi intraprende. Le fortune dell’iniziativa dipenderanno poi, in misura sostanziale, dall’impegno e dalle competenze di chi la promuove e, in parte, anche dalle circostanze, dal caso favorevole o avverso”.  E’ quindi partendo da questa affermazione che Marseguerra sviluppo il suo ragionamento.  Che si propone di identificare i principi e i valori fondamentali alla base della nascita e dello sviluppo di un’attività imprenditoriale. In particolare, l’articolo ha l’obiettivo di dimostrare come ogni impresa, vera e concreta, nasca sempre dall’iniziativa personale, dalla libera e responsabile creatività umana e definisca nel tempo un capitale umano e sociale che acquista le caratteristiche di un vero e proprio bene sociale. E’ quindi una “comunità di persone” ciò che nasce “attorno a un’idea, a un progetto, costituisce e si identifica con l’impresa, la cui vita si nutre poi di relazioni di collaborazione e cooperazione, sia interne sia esterne”.

Per sviluppare le sue argomentazioni, Giovanni Marseguerra prende quindi in considerazione prima la teoria economica neoclassica e quindi approfondisce “un’altra teoria basata sulla persona” per arrivare ad una interpretazione basata sulla dottrina sociale della chiesa. Marseguerra quindi cerca di guardare più da vicino aspetti particolari che derivano da questi assunti: la responsabilità dell’imprenditore, la famiglia-impresa, la libertà, l’attenzione “all’uomo reale e concreto”, il ruolo delle imprese nella “costruzione di un’economia più umana”.

Come sempre accade di fronte ad un ragionamento onesto e chiaro, con quanto argomentato da Giovanni Marseguerra non tutti i lettori si troveranno d’accordo, ma certamente tutti (se anche loro onesti) ne riconosceranno l’importanza e la chiarezza.

Intraprendere: una questione di relazioni

Giovanni Marseguerra

Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Fascicolo 2021, 2 – Aprile-Giugno 2021

La risposta alla “società irrazionale” è ricostruire fiducia e bloccare il degrado

“Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. Vale la pena riprendere in mano i “Pensieri” di Blaise Pascal, per riflettere sul senso profondo delle opinioni di quella “società irrazionale” appena fotografata dal Censis nel suo 55° Rapporto sulla situazione sociale dell’Italia. Perché proprio quel giudizio di Pascal, al di là del suo riferimento specifico alla relazione dell’uomo con la Verità e dunque con Dio, ci porta ad andare oltre la tendenza a stigmatizzare il cosiddetto “pensiero magico” e a porre una serie di domande sui motivi dell’irrazionalità così diffusa.
E’ necessario, infatti, articolare risposte che cerchino di recuperare alla sfera del pensiero razionale, della conoscenza scientifica e della consapevolezza della “verità dei fatti” e dei dati (e cioè anche alla dialettica del discorso pubblico critico e al pensiero della democrazia liberale) quote rilevanti di opinione pubblica che non possono essere lasciate in balia di credenze bizzarre sulla “terra piatta”, il “grande reset” delle coscienze, i complotti del potere, le manovre dei “nemici”.
Al di là dei violenti che si fanno scudo delle credenze No Vax, degli estremisti e dei provocatori e degli esibizionisti spregiudicati in cerca di facile notorietà, si tratta di fare i conti con pur minoritarie correnti di opinione e di lavorare per ricostruire un tessuto di “fiducia” fondato su pensieri di razionalità critica positiva. E la fiducia è proprio la dimensione in cui si compongono aspettative e sentimenti, passioni e calcoli, interessi e valori, quelle “ragioni del cuore” che si muovono su piani diversi dalla razionalità del progresso, dell’efficienza, della finalizzazione tecnico-scientifica delle scelte. Della ragione razionale.

La “ragione del cuore” è una ragione poetica, letteraria, capace di esprimere le emozioni profonde dell’inquietudine umana. Ed è una ragione politica, se il collante di una comunità, di una polis, è una miscela, pur instabile, di sentimenti e scelte ideali, di spinte emotive e calcoli di interesse, di “simpatia” (sun e pathos, una condivisione di tensioni e sofferenze) e di valori di comunità.
Ecco perché, dopo aver messo giustamente in rilievo i dati della “società irrazionale”, con gli strumenti dell’indagine e della critica sociale di cui il Censis è maestro (per il 5,9% degli italiani il Covid non esiste, il 10,9% è convinto che il vaccino sia inutile, il 12,7% dichiara che la scienza produce più danni che benefici, il 19,9% ritiene che il 5G sia uno “strumento sofisticato per controllare le persone”, il 5,8% dichiara che “la terra è piatta”), è necessario, per gli attori sociali e politici e per tutti coloro che hanno responsabilità di professioni intellettuali, capire come affrontare le radici di disagi e lacerazioni sociali che producono marginalità. E indicare prospettive possibili di migliori condizioni di lavoro e di vita.
Perché proprio nelle aree delle marginalità sociali e del degrado culturale mettono più facilmente radici le credenze del “pensiero magico”. Lì si alimentano sovranismi e populismi, anche con caratteristiche eversive. E lì hanno presa le spregiudicate operazioni di diffusione di fake news, attraverso cui passano tentativi di forze politiche internazionali di lacerare il tessuto delle opinioni pubbliche dei paesi europei e occidentali.

Il declino italiano e i diffusi disagi hanno antiche radici, naturalmente. Gli italiani erano “sciapi e infelici”, secondo il Rapporto Censis del 2013, attento comunque a indicare condizioni in cui si coglieva “il fervore del sale”. Poi è arrivata, nel 2017, la “società del rancore” e, nel 2018, “la cattiveria”, con fenomeni di “sovranismo psichico” che indicavano isolamento e rottura della fiducia e del senso di appartenenza civica. Nel 2020, come reazione a caldo alla pandemia, si è parlato di “fervore”. Adesso, è la volta della “società irrazionale”. L’Italia, è vero, ha una identità complessa. Vive di tensioni molteplici e spesso contrastanti. Di certo, rimangono evidenti le tracce di crisi, di spaesamento, di dolorose incertezze. E nel lungo periodo, con la caduta dell’idea (dell’illusione?) del progresso continuo e del benessere crescente e diffuso, piuttosto che affrontare con realismo le luci e le ombre di una difficile realtà, quote rilevanti di popolazione si lasciano andare al pessimismo, a quel “pensiero magico” che vede complotti, nemici, persecuzioni. E che spregiudicate e poco responsabili forze politiche e gruppi sociali forti sui social media strumentalizzano, con messaggi carichi di ostilità.

Come reagire? Stigmatizzare il “pensiero magico” e “l’irrazionale” è necessario, naturalmente. Così come ricordarsi che, nella costruzione dell’informazione, “non puoi mettere sullo stesso piano uno scienziato e il primo sciamano che passa per strada” e che quindi “deve tornare a contare la competenza” perché “non tutte le opinioni hanno lo stesso valore”, come sostiene giustamente Monica Maggioni, direttrice del Tg1 (“la Repubblica”, 5 dicembre).
Ma non basta. E’ vero, la stragrande maggioranza degli italiani adulti, l’85%, si è vaccinata, con ammirevole senso di responsabilità e intelligente comprensione dei doveri etici e civili verso se stessi e gli altri cittadini. E’ vero anche che imprese e lavoratori, con scarse eccezioni, hanno saputo affrontare bene la crisi da pandemia e recessione, investendo, innovando, lavorando, producendo e determinando un’ammirevole ripresa economica del 6,3%. E’ vero infine che stiamo assistendo a straordinarie conferme dell’esistenza di un solido spirito civico e di un robusto capitale sociale positivo (a cominciare dalle esperienze del volontariato).
Ma tutto questo non ci esime dal farci carico del disagio oramai di lungo periodo, fondato sul divario tra aspettative crescenti di benessere e basso livello di sviluppo economico soprattutto nelle società occidentali, sulle rotture dell’ascensore sociale con un forte annebbiamento delle prospettive delle giovani generazioni, sui nuovi divari tecnologici, culturali, geografici con un peggioramento delle condizioni di vita del ceto medio.

La pandemia e la recessione conseguente hanno aggravato il quadro. Il disagio è cresciuto. Un dato per tutti: i nuclei di famiglie in povertà assoluta in un anno sono raddoppiati, toccando quota 2 milioni. Il lavoro continua a mancare, soprattutto per giovani e donne. E proprio sul tema del lavoro si evidenzia un clamoroso contrasto: le aziende assumerebbero volentieri 400mila persone, che però non trovano, ma altre centinaia di migliaia di persone dichiarano che lavorerebbero volentieri, se ne avessero l’occasione. La ragione sta da entrambe le parti. E servirebbe una seria politica del lavoro legata a formazione e canali di incontro più efficaci tra offerta e domanda.
Ecco il punto: servirebbe una politica, che a lungo è mancata e che in parecchie situazioni, soprattutto negli enti locali e nel Mezzogiorno, continua a mancare. Servirebbe un “rammendo” sociale. Una ricostruzione di fiducia in un progetto comune.
Dal febbraio scorso abbiamo un buon governo, guidato da Mario Draghi, personalità autorevole e prestigiosa anche a livello internazionale. E grazie a questo governo (dopo le gravi carenze delle compagini precedenti) e grazie alla affidabilità e alla credibilità del Quirinale e del presidente Mattarella, abbiamo finalmente affrontato bene la pandemia, definito le scelte per poter usare i fondi europei del Recovery Plan, rimesso in moto la macchina dell’economia, incoraggiando le imprese a investire ed espandersi.
Ma adesso bisogna andare avanti, con chiarezza e lungimirante senso di responsabilità. Le manovre e le schermaglie di questi ultimi giorni, su Finanziaria e prospettive per il Quirinale, non sono però, purtroppo, incoraggianti.

La fiducia da riconquistare e rafforzare resta l’obiettivo, per ridare vigore all’Italia e consolidare la ripresa, cominciando a sanare degrado, disillusioni, rancori, ferite sociali.
Bisogna, insomma, fare riavvicinare cuore e razionalità. E fare il modo, tornando a Pascal, che le ragioni del cuore e quelle della ragione si incontrino e si capiscano. Nella vita, il lavoro più importante è progettare futuro. E costruire ponti. Di idee e di parole. Con pensieri veri, tutt’altro che “magici”.

“Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. Vale la pena riprendere in mano i “Pensieri” di Blaise Pascal, per riflettere sul senso profondo delle opinioni di quella “società irrazionale” appena fotografata dal Censis nel suo 55° Rapporto sulla situazione sociale dell’Italia. Perché proprio quel giudizio di Pascal, al di là del suo riferimento specifico alla relazione dell’uomo con la Verità e dunque con Dio, ci porta ad andare oltre la tendenza a stigmatizzare il cosiddetto “pensiero magico” e a porre una serie di domande sui motivi dell’irrazionalità così diffusa.
E’ necessario, infatti, articolare risposte che cerchino di recuperare alla sfera del pensiero razionale, della conoscenza scientifica e della consapevolezza della “verità dei fatti” e dei dati (e cioè anche alla dialettica del discorso pubblico critico e al pensiero della democrazia liberale) quote rilevanti di opinione pubblica che non possono essere lasciate in balia di credenze bizzarre sulla “terra piatta”, il “grande reset” delle coscienze, i complotti del potere, le manovre dei “nemici”.
Al di là dei violenti che si fanno scudo delle credenze No Vax, degli estremisti e dei provocatori e degli esibizionisti spregiudicati in cerca di facile notorietà, si tratta di fare i conti con pur minoritarie correnti di opinione e di lavorare per ricostruire un tessuto di “fiducia” fondato su pensieri di razionalità critica positiva. E la fiducia è proprio la dimensione in cui si compongono aspettative e sentimenti, passioni e calcoli, interessi e valori, quelle “ragioni del cuore” che si muovono su piani diversi dalla razionalità del progresso, dell’efficienza, della finalizzazione tecnico-scientifica delle scelte. Della ragione razionale.

La “ragione del cuore” è una ragione poetica, letteraria, capace di esprimere le emozioni profonde dell’inquietudine umana. Ed è una ragione politica, se il collante di una comunità, di una polis, è una miscela, pur instabile, di sentimenti e scelte ideali, di spinte emotive e calcoli di interesse, di “simpatia” (sun e pathos, una condivisione di tensioni e sofferenze) e di valori di comunità.
Ecco perché, dopo aver messo giustamente in rilievo i dati della “società irrazionale”, con gli strumenti dell’indagine e della critica sociale di cui il Censis è maestro (per il 5,9% degli italiani il Covid non esiste, il 10,9% è convinto che il vaccino sia inutile, il 12,7% dichiara che la scienza produce più danni che benefici, il 19,9% ritiene che il 5G sia uno “strumento sofisticato per controllare le persone”, il 5,8% dichiara che “la terra è piatta”), è necessario, per gli attori sociali e politici e per tutti coloro che hanno responsabilità di professioni intellettuali, capire come affrontare le radici di disagi e lacerazioni sociali che producono marginalità. E indicare prospettive possibili di migliori condizioni di lavoro e di vita.
Perché proprio nelle aree delle marginalità sociali e del degrado culturale mettono più facilmente radici le credenze del “pensiero magico”. Lì si alimentano sovranismi e populismi, anche con caratteristiche eversive. E lì hanno presa le spregiudicate operazioni di diffusione di fake news, attraverso cui passano tentativi di forze politiche internazionali di lacerare il tessuto delle opinioni pubbliche dei paesi europei e occidentali.

Il declino italiano e i diffusi disagi hanno antiche radici, naturalmente. Gli italiani erano “sciapi e infelici”, secondo il Rapporto Censis del 2013, attento comunque a indicare condizioni in cui si coglieva “il fervore del sale”. Poi è arrivata, nel 2017, la “società del rancore” e, nel 2018, “la cattiveria”, con fenomeni di “sovranismo psichico” che indicavano isolamento e rottura della fiducia e del senso di appartenenza civica. Nel 2020, come reazione a caldo alla pandemia, si è parlato di “fervore”. Adesso, è la volta della “società irrazionale”. L’Italia, è vero, ha una identità complessa. Vive di tensioni molteplici e spesso contrastanti. Di certo, rimangono evidenti le tracce di crisi, di spaesamento, di dolorose incertezze. E nel lungo periodo, con la caduta dell’idea (dell’illusione?) del progresso continuo e del benessere crescente e diffuso, piuttosto che affrontare con realismo le luci e le ombre di una difficile realtà, quote rilevanti di popolazione si lasciano andare al pessimismo, a quel “pensiero magico” che vede complotti, nemici, persecuzioni. E che spregiudicate e poco responsabili forze politiche e gruppi sociali forti sui social media strumentalizzano, con messaggi carichi di ostilità.

Come reagire? Stigmatizzare il “pensiero magico” e “l’irrazionale” è necessario, naturalmente. Così come ricordarsi che, nella costruzione dell’informazione, “non puoi mettere sullo stesso piano uno scienziato e il primo sciamano che passa per strada” e che quindi “deve tornare a contare la competenza” perché “non tutte le opinioni hanno lo stesso valore”, come sostiene giustamente Monica Maggioni, direttrice del Tg1 (“la Repubblica”, 5 dicembre).
Ma non basta. E’ vero, la stragrande maggioranza degli italiani adulti, l’85%, si è vaccinata, con ammirevole senso di responsabilità e intelligente comprensione dei doveri etici e civili verso se stessi e gli altri cittadini. E’ vero anche che imprese e lavoratori, con scarse eccezioni, hanno saputo affrontare bene la crisi da pandemia e recessione, investendo, innovando, lavorando, producendo e determinando un’ammirevole ripresa economica del 6,3%. E’ vero infine che stiamo assistendo a straordinarie conferme dell’esistenza di un solido spirito civico e di un robusto capitale sociale positivo (a cominciare dalle esperienze del volontariato).
Ma tutto questo non ci esime dal farci carico del disagio oramai di lungo periodo, fondato sul divario tra aspettative crescenti di benessere e basso livello di sviluppo economico soprattutto nelle società occidentali, sulle rotture dell’ascensore sociale con un forte annebbiamento delle prospettive delle giovani generazioni, sui nuovi divari tecnologici, culturali, geografici con un peggioramento delle condizioni di vita del ceto medio.

La pandemia e la recessione conseguente hanno aggravato il quadro. Il disagio è cresciuto. Un dato per tutti: i nuclei di famiglie in povertà assoluta in un anno sono raddoppiati, toccando quota 2 milioni. Il lavoro continua a mancare, soprattutto per giovani e donne. E proprio sul tema del lavoro si evidenzia un clamoroso contrasto: le aziende assumerebbero volentieri 400mila persone, che però non trovano, ma altre centinaia di migliaia di persone dichiarano che lavorerebbero volentieri, se ne avessero l’occasione. La ragione sta da entrambe le parti. E servirebbe una seria politica del lavoro legata a formazione e canali di incontro più efficaci tra offerta e domanda.
Ecco il punto: servirebbe una politica, che a lungo è mancata e che in parecchie situazioni, soprattutto negli enti locali e nel Mezzogiorno, continua a mancare. Servirebbe un “rammendo” sociale. Una ricostruzione di fiducia in un progetto comune.
Dal febbraio scorso abbiamo un buon governo, guidato da Mario Draghi, personalità autorevole e prestigiosa anche a livello internazionale. E grazie a questo governo (dopo le gravi carenze delle compagini precedenti) e grazie alla affidabilità e alla credibilità del Quirinale e del presidente Mattarella, abbiamo finalmente affrontato bene la pandemia, definito le scelte per poter usare i fondi europei del Recovery Plan, rimesso in moto la macchina dell’economia, incoraggiando le imprese a investire ed espandersi.
Ma adesso bisogna andare avanti, con chiarezza e lungimirante senso di responsabilità. Le manovre e le schermaglie di questi ultimi giorni, su Finanziaria e prospettive per il Quirinale, non sono però, purtroppo, incoraggianti.

La fiducia da riconquistare e rafforzare resta l’obiettivo, per ridare vigore all’Italia e consolidare la ripresa, cominciando a sanare degrado, disillusioni, rancori, ferite sociali.
Bisogna, insomma, fare riavvicinare cuore e razionalità. E fare il modo, tornando a Pascal, che le ragioni del cuore e quelle della ragione si incontrino e si capiscano. Nella vita, il lavoro più importante è progettare futuro. E costruire ponti. Di idee e di parole. Con pensieri veri, tutt’altro che “magici”.

Bellezza per imparare e per produrre meglio

Uno studio scientifico ha dimostrato che è più facile apprendere in luoghi belli e con sensazioni piacevoli

La bellezza aiuta ad imparare di più e meglio. Affermazione solo in apparenza banale, che va di pari passo con un’osservazione: la bellezza aiuta a lavorare meglio, ad apprendere di più e con più efficacia e completezza. E’ qualcosa che la buona cultura d’impresa ha appreso da tempo, ma che non sempre viene ancora compresa dai più. Adesso tuttavia, oltre all’esperienza della pratica quotidiana, a dimostrare quanto la bellezza dei luoghi e dei modi sia importante, è uno studio che mostra la presenza di un legame profondo fra apprezzamento estetico e meccanismi di apprendimento. La ricerca è stata pubblicata dal Journal of Experimental Psychology: General dell’American Psychological Association.

“Nice and easy: mismatch negativity responses reveal a significant correlation between aesthetic appreciation and perceptual learning” è frutto dell’intelligente lavoro del BraIn Plasticity and behavior changes Research Group (BIP) del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, in collaborazione con il Department of Economics di Harvard. Attraverso una tecnica di neuroimmagine non invasiva, l’elettroencefalografia, i ricercatori hanno dimostrato che le cose che soggettivamente riteniamo più belle sono anche quelle che il nostro sistema nervoso sa elaborare meglio. La bellezza si può considerare come un “sintomo consapevole” di processi automatici di acquisizione di informazioni dall’ambiente che ci circonda. Più questi processi sono efficaci, maggiore sarà l’apprezzamento estetico che ne deriva.  Pietro Sarasso, Marco Neppi Modona, Nicola Rosaia, Pasqualina Perna, Paolo Barbieri, Elena Del Fante, Raffaella Ricci, Katiuscia Sacco, Irene Ronga  – gli autori dell’indagine -, arrivano a parlare di “emozioni estetiche”. Che non sono qualcosa di futile e astratto, ma ciò che potrebbe rappresentare la ricompensa che il nostro sistema nervoso ci offre in risposta a interazioni profittevoli, in termini di conoscenza acquisita.

Detto in altro modo, secondo gli autori, l’emozione positiva che proviamo quando siamo esposti a qualcosa che ci piace, potrebbe essere il segnale che il nostro cervello produce in risposta all’acquisizione di nuove informazioni dall’ambiente sensoriale che ci circonda. In altri termini, la bellezza potrebbe essere la ricompensa per aver ottenuto nuova conoscenza.

La ricerca condotta tra le due università ha ovviamente ricadute vaste e importanti e non solo nel generico campo dell’apprendimento e del lavoro (basta pensare all’impostazione dei percorsi educativi, specialmente quelli riabilitativi). Ma costituisce non solo una suggestione ma ben di più anche per la crescita della buona cultura d’impresa.

Nice and easy: mismatch negativity responses reveal a significant correlation between aesthetic appreciation and perceptual learning

Sarasso, P., Neppi-Modona, M., Rosaia, N., Perna, P., Barbieri, P., Del Fante, E., Ricci, R., Sacco, K., & Ronga, I.

Journal of Experimental Psychology: General (2021).

Uno studio scientifico ha dimostrato che è più facile apprendere in luoghi belli e con sensazioni piacevoli

La bellezza aiuta ad imparare di più e meglio. Affermazione solo in apparenza banale, che va di pari passo con un’osservazione: la bellezza aiuta a lavorare meglio, ad apprendere di più e con più efficacia e completezza. E’ qualcosa che la buona cultura d’impresa ha appreso da tempo, ma che non sempre viene ancora compresa dai più. Adesso tuttavia, oltre all’esperienza della pratica quotidiana, a dimostrare quanto la bellezza dei luoghi e dei modi sia importante, è uno studio che mostra la presenza di un legame profondo fra apprezzamento estetico e meccanismi di apprendimento. La ricerca è stata pubblicata dal Journal of Experimental Psychology: General dell’American Psychological Association.

“Nice and easy: mismatch negativity responses reveal a significant correlation between aesthetic appreciation and perceptual learning” è frutto dell’intelligente lavoro del BraIn Plasticity and behavior changes Research Group (BIP) del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, in collaborazione con il Department of Economics di Harvard. Attraverso una tecnica di neuroimmagine non invasiva, l’elettroencefalografia, i ricercatori hanno dimostrato che le cose che soggettivamente riteniamo più belle sono anche quelle che il nostro sistema nervoso sa elaborare meglio. La bellezza si può considerare come un “sintomo consapevole” di processi automatici di acquisizione di informazioni dall’ambiente che ci circonda. Più questi processi sono efficaci, maggiore sarà l’apprezzamento estetico che ne deriva.  Pietro Sarasso, Marco Neppi Modona, Nicola Rosaia, Pasqualina Perna, Paolo Barbieri, Elena Del Fante, Raffaella Ricci, Katiuscia Sacco, Irene Ronga  – gli autori dell’indagine -, arrivano a parlare di “emozioni estetiche”. Che non sono qualcosa di futile e astratto, ma ciò che potrebbe rappresentare la ricompensa che il nostro sistema nervoso ci offre in risposta a interazioni profittevoli, in termini di conoscenza acquisita.

Detto in altro modo, secondo gli autori, l’emozione positiva che proviamo quando siamo esposti a qualcosa che ci piace, potrebbe essere il segnale che il nostro cervello produce in risposta all’acquisizione di nuove informazioni dall’ambiente sensoriale che ci circonda. In altri termini, la bellezza potrebbe essere la ricompensa per aver ottenuto nuova conoscenza.

La ricerca condotta tra le due università ha ovviamente ricadute vaste e importanti e non solo nel generico campo dell’apprendimento e del lavoro (basta pensare all’impostazione dei percorsi educativi, specialmente quelli riabilitativi). Ma costituisce non solo una suggestione ma ben di più anche per la crescita della buona cultura d’impresa.

Nice and easy: mismatch negativity responses reveal a significant correlation between aesthetic appreciation and perceptual learning

Sarasso, P., Neppi-Modona, M., Rosaia, N., Perna, P., Barbieri, P., Del Fante, E., Ricci, R., Sacco, K., & Ronga, I.

Journal of Experimental Psychology: General (2021).

Lavorare insieme virtualmente

Appena pubblicato un libro che affronta il tema del lavoro di gruppo con gli strumenti della digitalizzazione e del web

 

Lavorare insieme. Facile a dirsi, quasi ovvio. Difficilissimo a farsi, spesso quasi impossibile. Quando poi il lavoro di gruppo deve essere condotto con i nuovi metodi legati al web e alla digitalizzazione dei processi, tutto si complica ancora di più. Constatazioni, queste, che da qualche tempo sono diventate ancora più pressanti e importanti. Quanto accaduto a seguito della pandemia di Covid-19 è lì a dimostrare che non solo è necessario imparare a lavorare di più e meglio, ma che occorre farlo in un “gruppo digitale” e ancora meglio. E’ attorno a questo nodo di questioni che ruota “Virtual team. Nuove sfide manageriali fra libertà e regole” scritto da Andrea Martone e Massimo Ramponi.

Il libro, tuttavia, precisa subito una condizione importante: se è vero che da marzo 2020 ad oggi le nostre abitudini si sono trasformate con la velocità che solo un’emergenza di tale portata ha potuto consentire, e che tali abitudini hanno molto riguardato l’utilizzo di tecnologie che consentissero attività a distanza, prima di tutte lo smart working, è anche vero che i gruppi di lavoro virtuali non sono una realtà nata con la pandemia, soprattutto in ambito internazionale. Che però occorra apprendere come fare a lavorare nei gruppi virtuali, è cosa davvero importante e urgente.

“Se non si adottano adeguati accorgimenti è molto facile che la relazione tra membri del team declini verso la freddezza, la burocrazia, quando non la conflittualità (…)”, scrivo gli autori che aggiungono: “Queste difficoltà possono essere gestite grazie a una leadership forte che aiuti a sviluppare team virtuali coesi e a costruire relazioni di fiducia (…). Lo ‘strabismo di Venere’ della gestione virtuale, e quindi della sua leadership, consiste nella capacità di tenere sotto controllo due aspetti in apparente conflitto: emozioni e rigore”.

Secondo Martone e Ramponi, quindi, occorre applicare il contenuto di alcune parole chiave come “fiducia”, ma anche “responsabilizzazione”, “condivisione” degli obiettivi, “apprendimento”. Ma non solo. Chi deve governare il lavoro nei gruppi virtuali deve anche avere una grande intelligenza emotiva così come una buona abilità tecnica e forti attitudini comunicative, di autoconsapevolezza, di autoregolazione, motivazione, empatia.

I due autori accompagnano quindi chi legge lungo un percorso non sempre facile e che parte dall’individuazione di cosa sia davvero un gruppo (team) virtuale e che passa poi per tutti gli aspetti collegati al tema per arrivare ad indicare le regole per la creazione di un buon gruppo di lavoro virtuale.

Il libro di Andrea Martone e Massimo Ramponi è una buona guida per percorrere l’evoluzione del lavoro nelle imprese. Da leggere e applicare.

Virtual team. Nuove sfide manageriali fra libertà e regole

Andrea Martone, Massimo Ramponi.

Franco Angeli, 2021

Appena pubblicato un libro che affronta il tema del lavoro di gruppo con gli strumenti della digitalizzazione e del web

 

Lavorare insieme. Facile a dirsi, quasi ovvio. Difficilissimo a farsi, spesso quasi impossibile. Quando poi il lavoro di gruppo deve essere condotto con i nuovi metodi legati al web e alla digitalizzazione dei processi, tutto si complica ancora di più. Constatazioni, queste, che da qualche tempo sono diventate ancora più pressanti e importanti. Quanto accaduto a seguito della pandemia di Covid-19 è lì a dimostrare che non solo è necessario imparare a lavorare di più e meglio, ma che occorre farlo in un “gruppo digitale” e ancora meglio. E’ attorno a questo nodo di questioni che ruota “Virtual team. Nuove sfide manageriali fra libertà e regole” scritto da Andrea Martone e Massimo Ramponi.

Il libro, tuttavia, precisa subito una condizione importante: se è vero che da marzo 2020 ad oggi le nostre abitudini si sono trasformate con la velocità che solo un’emergenza di tale portata ha potuto consentire, e che tali abitudini hanno molto riguardato l’utilizzo di tecnologie che consentissero attività a distanza, prima di tutte lo smart working, è anche vero che i gruppi di lavoro virtuali non sono una realtà nata con la pandemia, soprattutto in ambito internazionale. Che però occorra apprendere come fare a lavorare nei gruppi virtuali, è cosa davvero importante e urgente.

“Se non si adottano adeguati accorgimenti è molto facile che la relazione tra membri del team declini verso la freddezza, la burocrazia, quando non la conflittualità (…)”, scrivo gli autori che aggiungono: “Queste difficoltà possono essere gestite grazie a una leadership forte che aiuti a sviluppare team virtuali coesi e a costruire relazioni di fiducia (…). Lo ‘strabismo di Venere’ della gestione virtuale, e quindi della sua leadership, consiste nella capacità di tenere sotto controllo due aspetti in apparente conflitto: emozioni e rigore”.

Secondo Martone e Ramponi, quindi, occorre applicare il contenuto di alcune parole chiave come “fiducia”, ma anche “responsabilizzazione”, “condivisione” degli obiettivi, “apprendimento”. Ma non solo. Chi deve governare il lavoro nei gruppi virtuali deve anche avere una grande intelligenza emotiva così come una buona abilità tecnica e forti attitudini comunicative, di autoconsapevolezza, di autoregolazione, motivazione, empatia.

I due autori accompagnano quindi chi legge lungo un percorso non sempre facile e che parte dall’individuazione di cosa sia davvero un gruppo (team) virtuale e che passa poi per tutti gli aspetti collegati al tema per arrivare ad indicare le regole per la creazione di un buon gruppo di lavoro virtuale.

Il libro di Andrea Martone e Massimo Ramponi è una buona guida per percorrere l’evoluzione del lavoro nelle imprese. Da leggere e applicare.

Virtual team. Nuove sfide manageriali fra libertà e regole

Andrea Martone, Massimo Ramponi.

Franco Angeli, 2021

Le fragilità e i costi delle transizioni e la “seduzione del futuro” di Popper

Transizioni. Viviamo tempi controversi di profonde, radicali modifiche. La transizione ambientale, tra opportunità della green economy e sconvolgimenti carichi di costi economici e sociali. La transizione digitale, con le straordinarie possibilità e le inquietudini legate allo sviluppo pervasivo dell’intelligenza artificiale. La zoppicante transizione generazionale, con le fragilità degli anziani ma anche con la potenza della silver economy e con lo smarrimento dei giovani, in un’Italia che invecchia e si spopola, rivelando una preoccupante decrescita demografica (“In 50 anni saremo 12 milioni in meno”, calcola l’Istat – “Il Sole24Ore”, 27 novembre).

Non sono mai facili, le transizioni. Si sta nel mezzo del guado, con il rischio d’essere travolti dalla corrente, si subiscono tutte le tensioni del vecchio mondo che non è tramontato e del nuovo che deve ancora sorgere.

La lezione intellettuale di Antonio Gramsci ricorda che “in questo chiaroscuro nascono mostri”. E pur storicizzando quella sua cupa preoccupazione (gli anni Venti europei, tra crollo degli entusiasmi della Belle Époque, movimenti rivoluzionari e allarmanti ombre d’arrivo del fascismo), l’avvertimento sui “mostri” non va sottovalutato.

La fragilità della nostra stagione storica è evidente. La pandemia da Covid19, con tutte le sue inquietanti varianti, come l’ultima contagiosissima “Omicron”, ha dimostrato la forza travolgente di un’infezione letale che supera i confini e investe un elemento fondamentale della condizione umana, la salute (“In futuro arriveranno altre mutazioni e non è detto che questa sia la peggiore”, sostiene Ilaria Capua, autorevole virologa – “La Stampa”, 28 novembre). E proprio questa pandemia diventa metafora di un “mondo malato” da squilibri che dalla salute delle persone si allarga a quella dell’ambiente e delle condizioni sociali.

Altri e pesanti fattori di tensione sono le pressioni del Cyber crime su istituzioni e imprese ma anche gli inquinamenti pilotati delle fake news per stravolgere e fratturare le opinioni pubbliche dell’Europa e degli altri paesi democratici, che rivelano quanto siano a rischio mercati, politica e corpi sociali.

Le incompiutezze e le contraddizioni della globalizzazione mettono in crisi ambiente, commerci internazionali, benessere. E i conflitti politiche derivanti da un multilateralismo privo di efficace governance di interessi e valori contrastanti sottopongono a stress durissimi le volontà di pace e di costruzione di nuovi e migliori equilibri economici e sociali.

Stanno proprio in queste condizioni generale di incertezza, i “mostri”. E stanno invece nella volontà diffusa di ripresa le opportunità di ripartenza, di ricominciamento e, per usare una parola ricorrente, di “rigenerazione”. O, meglio ancora, di costruzione di un “nuovo inizio”, come consigliano i messaggi di Papa Francesco.

Vale la pena riprendere un mano, allora, un libro cardine del Novecento, “La peste” di Albert Camus, per ritrovare un possibile viatico del futuro: “Sulla terra ci sono flagelli e vittime e, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello”. Non è ottimismo, ma consapevolezza critica della fragilità. E, contemporaneamente, scelta per un avvenire meno incerto.

Tutta la grande letteratura europea, d’altronde, ne propone luminose testimonianze. Come questa, di sir Thomas More, uomo di Stato, persona di profonda fedeltà ai suoi principi morali: “Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare. Che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare. Che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”.

In questa stagione della storia e dell’anima così nuvolosa eppur altrettanto ricca di lampi di luce, ecco una virtù cui affidarsi: la lucidità della distinzione. Riportando alla memoria le parole scritte e lette che siano d’aiuto.

Parole come queste, per continuare a giocare con i buoni libri: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”. Sono parole di Martin Heidegger, uno dei più controversi filosofi del Novecento (ricordate da Umberto Galimberti in un libro scritto con Paolo Iacci, “Dialogo sul lavoro e la felicità” Egea). Insistono sulle potenzialità necessarie del pensiero critico, di fronte alle innovazioni scientifiche e alle conseguenze tecnologiche, con quei pericoli del “dominio della tecnica”. Evidenziano le possibilità purtroppo inespresse di comprensione e dunque di governo dei fenomeni complessi della contemporaneità. Sono quanto mai opportune di fronte alle sfide dell’Intelligenza Artificiale e alle ipotesi di autosufficienza del machine learning seguendo lo sviluppo di algoritmi fuori controllo. E ci dicono che, tutto sommato, anche per Heidegger, c’è una speranza.

Le transizioni digitali, ambientali e sociali, insomma, pretendono un maggiore impegno di ricerca, studio, comprensione, grazie anche al rafforzamento di una “cultura politecnica” che tenga insieme sapienza umanistica e conoscenze scientifiche e stimoli il pensiero critico degli “ingegneri-filosofi”. La scienza impone lo sviluppo di una consapevolezza dei criteri di fondo dell’andamento per trials and errors, seguendo la lezione di Karl Popper. La potenza che si esprime chiede controllo. Serve costruire capitale sociale positivo (le imprese, come attori responsabili, tra competitività e inclusione sociale, ne sono protagonisti fondamentali). E riscrivere mappe aggiornate per navigare, appunto, nella transizione contemporanea. L’orizzonte necessario è quello di una economia a misura d’uomo, in cui la costruzione di valore economico sia fondato sui valori umani, sociali, civili.

Serve, insomma, quel “pensiero meditante” di Heidegger. E il recupero della fiducia di fondo che ispira la scienza, rileggendo Popper: “E’ la seduzione del futuro che ci fa vivere”. Nonostante tutto.

Transizioni. Viviamo tempi controversi di profonde, radicali modifiche. La transizione ambientale, tra opportunità della green economy e sconvolgimenti carichi di costi economici e sociali. La transizione digitale, con le straordinarie possibilità e le inquietudini legate allo sviluppo pervasivo dell’intelligenza artificiale. La zoppicante transizione generazionale, con le fragilità degli anziani ma anche con la potenza della silver economy e con lo smarrimento dei giovani, in un’Italia che invecchia e si spopola, rivelando una preoccupante decrescita demografica (“In 50 anni saremo 12 milioni in meno”, calcola l’Istat – “Il Sole24Ore”, 27 novembre).

Non sono mai facili, le transizioni. Si sta nel mezzo del guado, con il rischio d’essere travolti dalla corrente, si subiscono tutte le tensioni del vecchio mondo che non è tramontato e del nuovo che deve ancora sorgere.

La lezione intellettuale di Antonio Gramsci ricorda che “in questo chiaroscuro nascono mostri”. E pur storicizzando quella sua cupa preoccupazione (gli anni Venti europei, tra crollo degli entusiasmi della Belle Époque, movimenti rivoluzionari e allarmanti ombre d’arrivo del fascismo), l’avvertimento sui “mostri” non va sottovalutato.

La fragilità della nostra stagione storica è evidente. La pandemia da Covid19, con tutte le sue inquietanti varianti, come l’ultima contagiosissima “Omicron”, ha dimostrato la forza travolgente di un’infezione letale che supera i confini e investe un elemento fondamentale della condizione umana, la salute (“In futuro arriveranno altre mutazioni e non è detto che questa sia la peggiore”, sostiene Ilaria Capua, autorevole virologa – “La Stampa”, 28 novembre). E proprio questa pandemia diventa metafora di un “mondo malato” da squilibri che dalla salute delle persone si allarga a quella dell’ambiente e delle condizioni sociali.

Altri e pesanti fattori di tensione sono le pressioni del Cyber crime su istituzioni e imprese ma anche gli inquinamenti pilotati delle fake news per stravolgere e fratturare le opinioni pubbliche dell’Europa e degli altri paesi democratici, che rivelano quanto siano a rischio mercati, politica e corpi sociali.

Le incompiutezze e le contraddizioni della globalizzazione mettono in crisi ambiente, commerci internazionali, benessere. E i conflitti politiche derivanti da un multilateralismo privo di efficace governance di interessi e valori contrastanti sottopongono a stress durissimi le volontà di pace e di costruzione di nuovi e migliori equilibri economici e sociali.

Stanno proprio in queste condizioni generale di incertezza, i “mostri”. E stanno invece nella volontà diffusa di ripresa le opportunità di ripartenza, di ricominciamento e, per usare una parola ricorrente, di “rigenerazione”. O, meglio ancora, di costruzione di un “nuovo inizio”, come consigliano i messaggi di Papa Francesco.

Vale la pena riprendere un mano, allora, un libro cardine del Novecento, “La peste” di Albert Camus, per ritrovare un possibile viatico del futuro: “Sulla terra ci sono flagelli e vittime e, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello”. Non è ottimismo, ma consapevolezza critica della fragilità. E, contemporaneamente, scelta per un avvenire meno incerto.

Tutta la grande letteratura europea, d’altronde, ne propone luminose testimonianze. Come questa, di sir Thomas More, uomo di Stato, persona di profonda fedeltà ai suoi principi morali: “Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare. Che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare. Che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”.

In questa stagione della storia e dell’anima così nuvolosa eppur altrettanto ricca di lampi di luce, ecco una virtù cui affidarsi: la lucidità della distinzione. Riportando alla memoria le parole scritte e lette che siano d’aiuto.

Parole come queste, per continuare a giocare con i buoni libri: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”. Sono parole di Martin Heidegger, uno dei più controversi filosofi del Novecento (ricordate da Umberto Galimberti in un libro scritto con Paolo Iacci, “Dialogo sul lavoro e la felicità” Egea). Insistono sulle potenzialità necessarie del pensiero critico, di fronte alle innovazioni scientifiche e alle conseguenze tecnologiche, con quei pericoli del “dominio della tecnica”. Evidenziano le possibilità purtroppo inespresse di comprensione e dunque di governo dei fenomeni complessi della contemporaneità. Sono quanto mai opportune di fronte alle sfide dell’Intelligenza Artificiale e alle ipotesi di autosufficienza del machine learning seguendo lo sviluppo di algoritmi fuori controllo. E ci dicono che, tutto sommato, anche per Heidegger, c’è una speranza.

Le transizioni digitali, ambientali e sociali, insomma, pretendono un maggiore impegno di ricerca, studio, comprensione, grazie anche al rafforzamento di una “cultura politecnica” che tenga insieme sapienza umanistica e conoscenze scientifiche e stimoli il pensiero critico degli “ingegneri-filosofi”. La scienza impone lo sviluppo di una consapevolezza dei criteri di fondo dell’andamento per trials and errors, seguendo la lezione di Karl Popper. La potenza che si esprime chiede controllo. Serve costruire capitale sociale positivo (le imprese, come attori responsabili, tra competitività e inclusione sociale, ne sono protagonisti fondamentali). E riscrivere mappe aggiornate per navigare, appunto, nella transizione contemporanea. L’orizzonte necessario è quello di una economia a misura d’uomo, in cui la costruzione di valore economico sia fondato sui valori umani, sociali, civili.

Serve, insomma, quel “pensiero meditante” di Heidegger. E il recupero della fiducia di fondo che ispira la scienza, rileggendo Popper: “E’ la seduzione del futuro che ci fa vivere”. Nonostante tutto.

Scopri i tre finalisti del Premio Campiello Junior:
segui la diretta streaming

Fondazione Pirelli e Premio Campiello hanno il piacere di invitarvi alla Cerimonia di Selezione della Terna finalista del Premio Campiello Junior, che si svolgerà venerdì 10 dicembre 2021 alle ore 11.30, in diretta streaming sulla pagina Facebook di Fondazione Pirelli e sui canali social del Premio Campiello.

La scelta sarà operata da una Giuria di Letterati presieduta dallo scrittore Roberto Piumini e composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Martino Negri, docente di didattica della letteratura e letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro della giuria Campiello Giovani e David Tolin, libraio e presidente di ALIR.

Durante l’incontro, moderato da Giancarlo Leone interverranno anche Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli ed Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Il Campiello

Determinata la terna dei finalisti, nelle settimane successive una giuria composta da 160 ragazzi dell’ultimo anno delle scuole primarie e del triennio delle scuole secondarie di primo grado sarà chiamata a scegliere il vincitore, che sarà annunciato nel maggio 2022 e celebrato a settembre durante la Cerimonia di Premiazione del Campiello 2022.

Fondazione Pirelli insieme al Premio Campiello organizzerà inoltre, durante la primavera 2022, una serie di iniziative dedicate al mondo del libro e dell’editoria per ragazzi, rivolte alla giuria dei ragazzi, alle scuole e ai giovani lettori di tutta Italia, che vedranno anche la partecipazione degli autori dei libri finalisti.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Segui qui la diretta

Fondazione Pirelli e Premio Campiello hanno il piacere di invitarvi alla Cerimonia di Selezione della Terna finalista del Premio Campiello Junior, che si svolgerà venerdì 10 dicembre 2021 alle ore 11.30, in diretta streaming sulla pagina Facebook di Fondazione Pirelli e sui canali social del Premio Campiello.

La scelta sarà operata da una Giuria di Letterati presieduta dallo scrittore Roberto Piumini e composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Martino Negri, docente di didattica della letteratura e letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro della giuria Campiello Giovani e David Tolin, libraio e presidente di ALIR.

Durante l’incontro, moderato da Giancarlo Leone interverranno anche Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli ed Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Il Campiello

Determinata la terna dei finalisti, nelle settimane successive una giuria composta da 160 ragazzi dell’ultimo anno delle scuole primarie e del triennio delle scuole secondarie di primo grado sarà chiamata a scegliere il vincitore, che sarà annunciato nel maggio 2022 e celebrato a settembre durante la Cerimonia di Premiazione del Campiello 2022.

Fondazione Pirelli insieme al Premio Campiello organizzerà inoltre, durante la primavera 2022, una serie di iniziative dedicate al mondo del libro e dell’editoria per ragazzi, rivolte alla giuria dei ragazzi, alle scuole e ai giovani lettori di tutta Italia, che vedranno anche la partecipazione degli autori dei libri finalisti.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

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Conoscere ciò che c’è fuori dalla fabbrica

L’ultimo rapporto di Banca d’Italia sulla situazione dell’industria è uno strumento di cultura e di crescita d’impresa

La buona impresa è attenta a tutto ciò che accade al di fuori delle mura delle proprie fabbriche. Questione di cultura, ma anche di consapevolezza che quanto avviene oltre gli stabilimenti influenza anche (e spesso molto) i risultati della produzione. Per questo, i veri imprenditori e i buoni manager leggono i giornali al di là delle rassegne stampa. Ed è per questo che tra le letture devono anche esserci i resoconti che gli uffici di Banca d’Italia effettuano periodicamente sullo stato dell’economia e della produzione nazionale. Ricerche che devono costituire il bagaglio conoscitivo (e culturale) di ogni organizzazione della produzione.

E’ il caso del Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi, appena reso noto dall’Istituto Centrale, che rappresenta la fotografia fedele dello stato di salute e delle aspettative della produzione industriale italiana. La sintesi di Banca d’Italia, in altre parole, delinea il contesto entro il quale ogni singola azienda agisce.

Ed è anche da questi documenti che si deduce la vitalità della cultura d’impresa italiana. Così, Banca d’Italia fa notare che “i giudizi delle imprese dell’industria in senso stretto e dei servizi con almeno 20 addetti indicano una decisa crescita delle vendite nei primi nove mesi dell’anno, sia nel mercato interno sia in quello estero. Circa il 70 per cento delle imprese industriali e il 60 per cento di quelle dei servizi si attendono di recuperare o superare i livelli precedenti la pandemia entro l’anno”. Resilienza e resistenza, dunque. Che servono per sottrarsi non solo dagli effetti di medio periodo di una pandemia, ma anche da quelli di situazioni contingenti come il costo delle materie prime. Ma, nonostante tutto, “circa metà delle imprese si attende un’espansione delle vendite nei prossimi sei mesi”. Mentre “i piani di investimento formulati alla fine dello scorso anno, mediamente espansivi, sono stati realizzati da due terzi delle imprese; le restanti hanno in larga parte effettuato una spesa superiore alle previsioni iniziali, sostenuta principalmente dall’evoluzione positiva della domanda”.

Economia che riparte, cultura del produrre che la sostiene. Lavoro che riprende, benessere che, seppur lentamente, trona a crescere. Certo, non basta un rapporto a dissipare tutti i problemi, così come non basta qualche giorno a costruire cuna consapevolezza d’impresa che sia davvero tale. Ma vale quanto detto all’inizio: la conoscenza serve per crescere e svilupparsi. Anche per le imprese. Ecco perché leggere il “Sondaggio” di Banca d’Italia fa bene a tutti.

Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi

AA.VV.

Banca d’Italia, Statistiche, 8 novembre 2021

L’ultimo rapporto di Banca d’Italia sulla situazione dell’industria è uno strumento di cultura e di crescita d’impresa

La buona impresa è attenta a tutto ciò che accade al di fuori delle mura delle proprie fabbriche. Questione di cultura, ma anche di consapevolezza che quanto avviene oltre gli stabilimenti influenza anche (e spesso molto) i risultati della produzione. Per questo, i veri imprenditori e i buoni manager leggono i giornali al di là delle rassegne stampa. Ed è per questo che tra le letture devono anche esserci i resoconti che gli uffici di Banca d’Italia effettuano periodicamente sullo stato dell’economia e della produzione nazionale. Ricerche che devono costituire il bagaglio conoscitivo (e culturale) di ogni organizzazione della produzione.

E’ il caso del Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi, appena reso noto dall’Istituto Centrale, che rappresenta la fotografia fedele dello stato di salute e delle aspettative della produzione industriale italiana. La sintesi di Banca d’Italia, in altre parole, delinea il contesto entro il quale ogni singola azienda agisce.

Ed è anche da questi documenti che si deduce la vitalità della cultura d’impresa italiana. Così, Banca d’Italia fa notare che “i giudizi delle imprese dell’industria in senso stretto e dei servizi con almeno 20 addetti indicano una decisa crescita delle vendite nei primi nove mesi dell’anno, sia nel mercato interno sia in quello estero. Circa il 70 per cento delle imprese industriali e il 60 per cento di quelle dei servizi si attendono di recuperare o superare i livelli precedenti la pandemia entro l’anno”. Resilienza e resistenza, dunque. Che servono per sottrarsi non solo dagli effetti di medio periodo di una pandemia, ma anche da quelli di situazioni contingenti come il costo delle materie prime. Ma, nonostante tutto, “circa metà delle imprese si attende un’espansione delle vendite nei prossimi sei mesi”. Mentre “i piani di investimento formulati alla fine dello scorso anno, mediamente espansivi, sono stati realizzati da due terzi delle imprese; le restanti hanno in larga parte effettuato una spesa superiore alle previsioni iniziali, sostenuta principalmente dall’evoluzione positiva della domanda”.

Economia che riparte, cultura del produrre che la sostiene. Lavoro che riprende, benessere che, seppur lentamente, trona a crescere. Certo, non basta un rapporto a dissipare tutti i problemi, così come non basta qualche giorno a costruire cuna consapevolezza d’impresa che sia davvero tale. Ma vale quanto detto all’inizio: la conoscenza serve per crescere e svilupparsi. Anche per le imprese. Ecco perché leggere il “Sondaggio” di Banca d’Italia fa bene a tutti.

Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi

AA.VV.

Banca d’Italia, Statistiche, 8 novembre 2021

Non solo profitto

La storia della INAZ, raccontata da Vera Zamagni che delinea un modello ma anche le nuove prospettive della buona cultura d’impresa

Resilienza e non semplice resistenza. Ma anche capacità di evolversi, senza dimenticare del tutto le proprie origini. Usare le nuove tecnologie, ma non trascurare l’importanza delle persone. Radici familiari che affondano però nella consapevolezza che la modernità esige aperture e non chiusure. C’è tutto questo nella storia che Vera Zamagni (storica dell’economia e attenta conoscitrice delle imprese italiane), ha scritto della INAZ un’azienda fondata nel 1948 per offrire alle imprese un nuovo metodo di gestione dell’ufficio paghe. “INAZ. Innovazione aziendale. Un’azienda di persone per le persone”, è un libro che si fa leggere da cima a fondo e che, soprattutto, è racconto un’azienda le cui vicende possono insegnare molto ad altre aziende.

L’idea d’impresa è di Valerio Gilli – uno dei pionieri nell’organizzazione scientifica degli uffici paghe, che la sviluppa con l’apporto fondamentale della moglie Clara Calissano -, che riesce ad iniziare l’attività nel momento giusto e a seguire così tutto il boom economico e sociale del Paese. Negli anni Ottanta, poi, l’azienda inizia contemporaneamente il primo passaggio generazionale con la figlia Linda Gilli e la transizione verso l’uso dello strumento elettronico. A cavallo del XXI° secolo si completa il passaggio generazionale e si allarga il campo d’azione aziendale dal classico “ufficio paghe” alla gestione delle risorse umane prima e del capitale umano poi. Oggi, racconta sempre il libro, è in corso il secondo passaggio generazionale verso i figli di Linda e il completo riposizionamento dei programmi nel cloud.

Dopo oltre settant’anni di vita, INAZ, spiega Zamagni, è diventata una media impresa di “Quarto capitalismo” cioè di quello stadio evolutivo dell’economia e della produzione che è riuscito ad evolversi dai paradigmi precedenti (le corporation, le aziende di Stato e le classiche PMI dei distretti tradizionali), per arrivare ad una idea di imprenditorialità e di produzione che accanto al profitto pone anche altro. Così, appunto, è la INAZ che, con oltre 50 milioni di euro di fatturato e più di 500 addetti, si presenta come un esempio virtuoso di azienda familiare, capace di mantenere ferma la sua ispirazione valoriale e di esercitare una fattiva responsabilità civile d’impresa. INAZ come esempio, dunque, dal quale Vera Zamagni trae però spunto non solo per tracciare un “modello d’impresa” ma anche per ragionare sul cambio della cultura d’impresa che è in corso in questi ultimi tempi e che manifesta sempre di più tutte le sue potenzialità.

“L’imprenditore – è un passo del libro nel quale parla Linda Gilli -, io ritengo, ha il dovere morale di creare le migliori condizioni per il lavoro e la crescita delle persone che lavorano con lui. Deve aiutarle a mettere a frutto i loro talenti, deve privilegiare la condivisione, lo stare insieme; deve dare spazio a coloro che collaborano con lui, ascoltarli, offrire e chiedere cooperazione, accettare le idee degli altri, creare sempre l’armonia per favorire la creatività e l’innovazione. Rispettare, valorizzare e responsabilizzare le persone, formarle e aiutarle a crescere è una funzione che l’imprenditore deve svolgere all’interno dell’azienda con continuità e impegno”. Senza, naturalmente, dimenticare la necessità di far quadrare i conti con efficacia.

INAZ. Innovazione aziendale. Un’azienda di persone per le persone

Vera Zamagni

il Mulino, 2021

La storia della INAZ, raccontata da Vera Zamagni che delinea un modello ma anche le nuove prospettive della buona cultura d’impresa

Resilienza e non semplice resistenza. Ma anche capacità di evolversi, senza dimenticare del tutto le proprie origini. Usare le nuove tecnologie, ma non trascurare l’importanza delle persone. Radici familiari che affondano però nella consapevolezza che la modernità esige aperture e non chiusure. C’è tutto questo nella storia che Vera Zamagni (storica dell’economia e attenta conoscitrice delle imprese italiane), ha scritto della INAZ un’azienda fondata nel 1948 per offrire alle imprese un nuovo metodo di gestione dell’ufficio paghe. “INAZ. Innovazione aziendale. Un’azienda di persone per le persone”, è un libro che si fa leggere da cima a fondo e che, soprattutto, è racconto un’azienda le cui vicende possono insegnare molto ad altre aziende.

L’idea d’impresa è di Valerio Gilli – uno dei pionieri nell’organizzazione scientifica degli uffici paghe, che la sviluppa con l’apporto fondamentale della moglie Clara Calissano -, che riesce ad iniziare l’attività nel momento giusto e a seguire così tutto il boom economico e sociale del Paese. Negli anni Ottanta, poi, l’azienda inizia contemporaneamente il primo passaggio generazionale con la figlia Linda Gilli e la transizione verso l’uso dello strumento elettronico. A cavallo del XXI° secolo si completa il passaggio generazionale e si allarga il campo d’azione aziendale dal classico “ufficio paghe” alla gestione delle risorse umane prima e del capitale umano poi. Oggi, racconta sempre il libro, è in corso il secondo passaggio generazionale verso i figli di Linda e il completo riposizionamento dei programmi nel cloud.

Dopo oltre settant’anni di vita, INAZ, spiega Zamagni, è diventata una media impresa di “Quarto capitalismo” cioè di quello stadio evolutivo dell’economia e della produzione che è riuscito ad evolversi dai paradigmi precedenti (le corporation, le aziende di Stato e le classiche PMI dei distretti tradizionali), per arrivare ad una idea di imprenditorialità e di produzione che accanto al profitto pone anche altro. Così, appunto, è la INAZ che, con oltre 50 milioni di euro di fatturato e più di 500 addetti, si presenta come un esempio virtuoso di azienda familiare, capace di mantenere ferma la sua ispirazione valoriale e di esercitare una fattiva responsabilità civile d’impresa. INAZ come esempio, dunque, dal quale Vera Zamagni trae però spunto non solo per tracciare un “modello d’impresa” ma anche per ragionare sul cambio della cultura d’impresa che è in corso in questi ultimi tempi e che manifesta sempre di più tutte le sue potenzialità.

“L’imprenditore – è un passo del libro nel quale parla Linda Gilli -, io ritengo, ha il dovere morale di creare le migliori condizioni per il lavoro e la crescita delle persone che lavorano con lui. Deve aiutarle a mettere a frutto i loro talenti, deve privilegiare la condivisione, lo stare insieme; deve dare spazio a coloro che collaborano con lui, ascoltarli, offrire e chiedere cooperazione, accettare le idee degli altri, creare sempre l’armonia per favorire la creatività e l’innovazione. Rispettare, valorizzare e responsabilizzare le persone, formarle e aiutarle a crescere è una funzione che l’imprenditore deve svolgere all’interno dell’azienda con continuità e impegno”. Senza, naturalmente, dimenticare la necessità di far quadrare i conti con efficacia.

INAZ. Innovazione aziendale. Un’azienda di persone per le persone

Vera Zamagni

il Mulino, 2021

Industria in ripresa, è tempo di reshoring. Si torna a produrre a casa, in Europa

“Industria, la locomotiva italiana traina la ripresa europea”, sostiene il Centro Studi Confindustria, nel recente rapporto sugli Scenari Industriali (“Il Sole24Ore”, 21 novembre). La nostra manifattura, infatti, ha recuperato i livelli di attività precedenti alla pandemia (il suo valore aggiunto in dollari correnti è di nuovo al 2,2% del totale mondiale) e va meglio della Germania (una produzione del 10% inferiore al pre-Covid) e della Francia (giù del 5%).

L’industria italiana, insomma, rafforza l’export, conquista nuovi spazi sul mercato interno (grazie anche ai sostegni del governo Draghi per edilizia e consumi), investe sull’innovazione digitale ma anche sulla sostenibilità ambientale e sociale (le industrie coesive, attente ai valori della comunità, all’inclusione e alla solidarietà sono più competitive, confermano i più recenti sudi di Symbola sulla Green Italy). E se non subisse la grave e diffusa carenza di mano d’opera specializzata e gli aumenti clamorosi dei prezzi dell’energia e della componentistica, a cominciare dai microchip, potrebbe crescere ancora di più.

Di certo, continua il Centro Studi Confindustria, la crescita del Pil italiano nel ‘21 di oltre il 6% dipende in gran parte dall’impegno produttivo della manifattura del Paese. E, mentre ci si aspetta un altro aumento del 4,4% nel ‘22, molti dati confermano che questa ripresa economica non è solo un rimbalzo dopo il crollo del 2020, ma mostra alcuni elementi forti di crescita strutturale, in parecchi settori (meccanica strumentale, apparecchiature elettriche, elettronica, gomma plastica, legno, etc.).

Un momento positivo, dunque. Da non sprecare. Per ricostruire benessere e lavoro stabile. Ma anche per cumulare risorse che ci permettano di pagare gli interessi del debito pubblico cresciuto per fare fronte alla crisi pandemica e alla recessione e continuare a investire. Il buon uso dei fondi della Ue secondo le indicazioni del Pnrr (transizione digitale e ambientale, ricerca e formazione, riforme della pubblica amministrazione e della giustizia, grandi infrastrutture strategiche) è fondamentale per rafforzare il percorso di crescita. Una sfida politica ed economica rilevante. Che coinvolge istituzioni, forze politiche e sociali, imprese.

Il Centro Studi Confindustria sostiene inoltre che aumenta il numero di aziende che stanno radicalmente modificando le loro catene di produzione del valore, le supply chain, le reti delle forniture. Cambiando strada rispetto a scelte diffuse degli anni scorsi (si andava a produrre là dove c’erano costi minori e condizioni di produzione migliori, dal Far East a certe aree dell’Europa orientale) per tornare a produrre vicino casa.

Va avanti il backshoring o reshoring che dir si voglia, il ritorno delle fabbriche dall’estero. Le catene di fornitura, insomma, si accorciano. Le filiere lunghe ed estese, come volevano le strategie internazionali negli anni d’oro della globalizzazione e della Cina e dell’India “fabbriche del mondo”, hanno mostrato, infatti, una estrema fragilità. Subiscono fratture per fattori sociali ed economici locali. Possono essere bloccate da carenze di materie prime, da strozzature nel sistema dei trasporti e da tensioni di ogni tipo. Oppure interrotte da crisi legate al cybercrime. Meglio provare a produrre in sicurezza. E dunque riportare le filiere produttive, le forniture in ambienti più rassicuranti e opportunamente gestiti, sotto controllo.

Un backshoring che, naturalmente, non può essere pensato principalmente nei singoli paesi europei. Ma che deve saper considerare tutta Europa come mercato interno, come comune piattaforma produttiva, da rendere più competitiva a livello internazionale.

Rimarranno, certo, le tendenze globali. E si continuerà a produrre nel Far East. Ma guardando più a logiche local for local, alla produzione al servizio dei mercati interni che non alle strategie d’un tempo basate sui grandi volumi di esportazioni e scambi. Non è certo una svolta protezionista. Ma una modifica delle ragioni di competitività, proprio perché le imprese possano fare valere la loro capacità produttiva e la loro qualità sui mercati del mondo, in condizioni di maggiore autonomia e sicurezza.

Sostiene Maurizio Marchesini, vicepresidente di Confindustria per le filiere e le medie imprese: “Ci troviamo in una fase di transizione molto complessa. Digitalizzazione, sostenibilità, nuovi assetti delle catene globali del valore pongono sfide impegnative, che non coinvolgono solo i sistemi produttivi ma la società in generale”. E “istituzioni e industria devono collaborare per definire una road map” della transizione.

Il cambio di paradigma, il profondo rinnovamento della cultura d’impresa, sono importanti. Il ritorno della manifattura in Europa e nei suoi paesi a maggiore vocazione industriale (Germania e Italia, appunto, ma anche Francia e Spagna) ha bisogno di essere stimolato e rafforzato proprio da una vera e propria nuova politica industriale della Ue (se ne trovano per fortuna tracce in alcune indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue). E le caratteristiche di qualità e sostenibilità, che connotano l’industria europea con maggior forza che non quella degli Usa, della Cina e dell’India, vanno valorizzate, appunto, come asset fondamentali di competitività. Il settore automotive, nella difficile e socialmente costosa transizione verso l’auto elettrica, è uno dei settori principali su cui sia la Commissione di Bruxelles che i grandi paesi dell’industria automobilistica (Germania, Italia e Francia, appunto) devono saper investire e innovare.

“Industria, la locomotiva italiana traina la ripresa europea”, sostiene il Centro Studi Confindustria, nel recente rapporto sugli Scenari Industriali (“Il Sole24Ore”, 21 novembre). La nostra manifattura, infatti, ha recuperato i livelli di attività precedenti alla pandemia (il suo valore aggiunto in dollari correnti è di nuovo al 2,2% del totale mondiale) e va meglio della Germania (una produzione del 10% inferiore al pre-Covid) e della Francia (giù del 5%).

L’industria italiana, insomma, rafforza l’export, conquista nuovi spazi sul mercato interno (grazie anche ai sostegni del governo Draghi per edilizia e consumi), investe sull’innovazione digitale ma anche sulla sostenibilità ambientale e sociale (le industrie coesive, attente ai valori della comunità, all’inclusione e alla solidarietà sono più competitive, confermano i più recenti sudi di Symbola sulla Green Italy). E se non subisse la grave e diffusa carenza di mano d’opera specializzata e gli aumenti clamorosi dei prezzi dell’energia e della componentistica, a cominciare dai microchip, potrebbe crescere ancora di più.

Di certo, continua il Centro Studi Confindustria, la crescita del Pil italiano nel ‘21 di oltre il 6% dipende in gran parte dall’impegno produttivo della manifattura del Paese. E, mentre ci si aspetta un altro aumento del 4,4% nel ‘22, molti dati confermano che questa ripresa economica non è solo un rimbalzo dopo il crollo del 2020, ma mostra alcuni elementi forti di crescita strutturale, in parecchi settori (meccanica strumentale, apparecchiature elettriche, elettronica, gomma plastica, legno, etc.).

Un momento positivo, dunque. Da non sprecare. Per ricostruire benessere e lavoro stabile. Ma anche per cumulare risorse che ci permettano di pagare gli interessi del debito pubblico cresciuto per fare fronte alla crisi pandemica e alla recessione e continuare a investire. Il buon uso dei fondi della Ue secondo le indicazioni del Pnrr (transizione digitale e ambientale, ricerca e formazione, riforme della pubblica amministrazione e della giustizia, grandi infrastrutture strategiche) è fondamentale per rafforzare il percorso di crescita. Una sfida politica ed economica rilevante. Che coinvolge istituzioni, forze politiche e sociali, imprese.

Il Centro Studi Confindustria sostiene inoltre che aumenta il numero di aziende che stanno radicalmente modificando le loro catene di produzione del valore, le supply chain, le reti delle forniture. Cambiando strada rispetto a scelte diffuse degli anni scorsi (si andava a produrre là dove c’erano costi minori e condizioni di produzione migliori, dal Far East a certe aree dell’Europa orientale) per tornare a produrre vicino casa.

Va avanti il backshoring o reshoring che dir si voglia, il ritorno delle fabbriche dall’estero. Le catene di fornitura, insomma, si accorciano. Le filiere lunghe ed estese, come volevano le strategie internazionali negli anni d’oro della globalizzazione e della Cina e dell’India “fabbriche del mondo”, hanno mostrato, infatti, una estrema fragilità. Subiscono fratture per fattori sociali ed economici locali. Possono essere bloccate da carenze di materie prime, da strozzature nel sistema dei trasporti e da tensioni di ogni tipo. Oppure interrotte da crisi legate al cybercrime. Meglio provare a produrre in sicurezza. E dunque riportare le filiere produttive, le forniture in ambienti più rassicuranti e opportunamente gestiti, sotto controllo.

Un backshoring che, naturalmente, non può essere pensato principalmente nei singoli paesi europei. Ma che deve saper considerare tutta Europa come mercato interno, come comune piattaforma produttiva, da rendere più competitiva a livello internazionale.

Rimarranno, certo, le tendenze globali. E si continuerà a produrre nel Far East. Ma guardando più a logiche local for local, alla produzione al servizio dei mercati interni che non alle strategie d’un tempo basate sui grandi volumi di esportazioni e scambi. Non è certo una svolta protezionista. Ma una modifica delle ragioni di competitività, proprio perché le imprese possano fare valere la loro capacità produttiva e la loro qualità sui mercati del mondo, in condizioni di maggiore autonomia e sicurezza.

Sostiene Maurizio Marchesini, vicepresidente di Confindustria per le filiere e le medie imprese: “Ci troviamo in una fase di transizione molto complessa. Digitalizzazione, sostenibilità, nuovi assetti delle catene globali del valore pongono sfide impegnative, che non coinvolgono solo i sistemi produttivi ma la società in generale”. E “istituzioni e industria devono collaborare per definire una road map” della transizione.

Il cambio di paradigma, il profondo rinnovamento della cultura d’impresa, sono importanti. Il ritorno della manifattura in Europa e nei suoi paesi a maggiore vocazione industriale (Germania e Italia, appunto, ma anche Francia e Spagna) ha bisogno di essere stimolato e rafforzato proprio da una vera e propria nuova politica industriale della Ue (se ne trovano per fortuna tracce in alcune indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue). E le caratteristiche di qualità e sostenibilità, che connotano l’industria europea con maggior forza che non quella degli Usa, della Cina e dell’India, vanno valorizzate, appunto, come asset fondamentali di competitività. Il settore automotive, nella difficile e socialmente costosa transizione verso l’auto elettrica, è uno dei settori principali su cui sia la Commissione di Bruxelles che i grandi paesi dell’industria automobilistica (Germania, Italia e Francia, appunto) devono saper investire e innovare.

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