Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Tra programmazione e Intelligenza Artificiale

Appena pubblicato un libro che aiuta a capire gli strumenti dell’innovazione

L’innovazione che corre più dell’innovazione. È quanto – in apparenza – vivono molte organizzazioni della produzione (e in fin dei conti un po’ tutte le società moderne). Non è solo una questione di tempi con i quali la ricerca va avanti, ma anche di calendario di accettazione e applicazione dei risultati della stessa. Occorrono, come sempre, guide attente per capire. Anche nel caso della Intelligenza Artificiale che pare aver preso il posto, in brevissimo tempo, delle capacità di programmazione fino ad oggi presenti nelle organizzazioni e nelle imprese.

È da queste considerazioni che inizia il ragionamento di Francesco Maria De Collibus con il suo “La macchina che si autoprogramma. In quali mani finirà l’innovazione?”, libro appena pubblicato che, in uno spazio limitato, cerca di chiarire le relazioni (e gli effetti) di due componenti importanti dell’innovazione: l’Intelligenza Artificiale da una parte e l’informatica e programmazione dell’altra.

Oggi – è la constatazione di De Collibus – è l’Intelligenza Artificiale a divorare il software. In pochi mesi siamo passati da un’epoca in cui programmare richiedeva anni di studio a una nuova realtà in cui basta descrivere quello che vogliamo nella nostra lingua di tutti i giorni per vedere il codice scriversi da solo. Cosa potrà accadere da qui in avanti? Chi legge viene quindi accompagnato in un percorso di conoscenza di questo passaggio tecnologico con un percorso in due tappe: prima la messa a fuoco di cosa siano i computer e la programmazione, poi l’approfondimento delle caratteristiche dell’Intelligenza Artificiale. De Collibus – che è filosofo ed informatico con una lunga esperienza nelle tecnologie dell’informazione – tocca quanto avvenuto nella Silicon Valley, l’agire di colossi come GitHub Copilot e l’azione di aziende emergenti come Cursor e Replit. Obiettivo è raccontare come si sta ridefinendo non solo il mestiere del programmatore, ma che cosa significhi oggi creare tecnologia.

Il libro non fornisce soluzioni per tutte le occasioni, ma strumenti per capire meglio e reagire meglio ad una serie di domande le cui risposte devono entrare  a fare parte della consapevolezza di tutto. Domande su come pensare il nostro tempo, come ragionare con strumenti totalmente nuovi, come fare ordine nella mole di informazioni e di suggestioni che ogni giorno vengono proposte.

La macchina che si autoprogramma. In quali mani finirà l’innovazione?

Francesco De Collibus

EGEA, 2025

Appena pubblicato un libro che aiuta a capire gli strumenti dell’innovazione

L’innovazione che corre più dell’innovazione. È quanto – in apparenza – vivono molte organizzazioni della produzione (e in fin dei conti un po’ tutte le società moderne). Non è solo una questione di tempi con i quali la ricerca va avanti, ma anche di calendario di accettazione e applicazione dei risultati della stessa. Occorrono, come sempre, guide attente per capire. Anche nel caso della Intelligenza Artificiale che pare aver preso il posto, in brevissimo tempo, delle capacità di programmazione fino ad oggi presenti nelle organizzazioni e nelle imprese.

È da queste considerazioni che inizia il ragionamento di Francesco Maria De Collibus con il suo “La macchina che si autoprogramma. In quali mani finirà l’innovazione?”, libro appena pubblicato che, in uno spazio limitato, cerca di chiarire le relazioni (e gli effetti) di due componenti importanti dell’innovazione: l’Intelligenza Artificiale da una parte e l’informatica e programmazione dell’altra.

Oggi – è la constatazione di De Collibus – è l’Intelligenza Artificiale a divorare il software. In pochi mesi siamo passati da un’epoca in cui programmare richiedeva anni di studio a una nuova realtà in cui basta descrivere quello che vogliamo nella nostra lingua di tutti i giorni per vedere il codice scriversi da solo. Cosa potrà accadere da qui in avanti? Chi legge viene quindi accompagnato in un percorso di conoscenza di questo passaggio tecnologico con un percorso in due tappe: prima la messa a fuoco di cosa siano i computer e la programmazione, poi l’approfondimento delle caratteristiche dell’Intelligenza Artificiale. De Collibus – che è filosofo ed informatico con una lunga esperienza nelle tecnologie dell’informazione – tocca quanto avvenuto nella Silicon Valley, l’agire di colossi come GitHub Copilot e l’azione di aziende emergenti come Cursor e Replit. Obiettivo è raccontare come si sta ridefinendo non solo il mestiere del programmatore, ma che cosa significhi oggi creare tecnologia.

Il libro non fornisce soluzioni per tutte le occasioni, ma strumenti per capire meglio e reagire meglio ad una serie di domande le cui risposte devono entrare  a fare parte della consapevolezza di tutto. Domande su come pensare il nostro tempo, come ragionare con strumenti totalmente nuovi, come fare ordine nella mole di informazioni e di suggestioni che ogni giorno vengono proposte.

La macchina che si autoprogramma. In quali mani finirà l’innovazione?

Francesco De Collibus

EGEA, 2025

La cultura della diversità che crea sviluppo

Una ricerca discussa presso l’Università di Padova mette a fuoco regole, strumenti e percorsi per l’inserimento nelle imprese delle persone immigrate

Diversity management, ovvero gestione della diversità. Per crescere mettendo a frutto culture diverse, arricchendosi condividendo e non separando. Nella società come nell’economia. Teoricamente l’approccio è giusto e facile, la realtà – spesso – indica tutt’altra cosa. Victoria Chitoroaga indaga uno degli aspetti forse più controversi del tema e ne sintetizza i risultati in un lavoro che ha preso forma di tesi discussa presso l’Università di Padova.

“Gestione interculturale delle risorse umane: inserimento e sviluppo del personale straniero in Italia”, questo il titolo dato al lavoro, affronta, viene spiegato nelle prime righe, “il tema della gestione interculturale delle risorse umane in Italia, focalizzandosi in particolare sulle strategie di inserimento e sviluppo del personale immigrato”. Tema di discussione più che importante perché si inserisce “in un dibattito attuale che coinvolge sfera aziendale, istituzioni, società civile e sistema formativo” e che offre spunti per riflettere sulle relazioni che si creano nei sistemi sociali e produttivi alle prese con le persone immigrate.

Chitoroaga, tuttavia, aggiunge un altro elemento nel suo ragionamento, e cioè la “rilevanza strategica della diversità in una società sempre più interconnessa” e quindi l’importanza delle risorse multiculturali come elementi per affrontare meglio i problemi e le opportunità del momento.

Obiettivo principale del lavoro è identificare e analizzare le strategie più efficaci per l’inserimento e la valorizzazione del personale immigrato nelle organizzazioni italiane. Un traguardo che Chitoroaga cerca di raggiungere individuando le pratiche in grado di promuovere realmente inclusione e sviluppo professionale nel lungo periodo.

Il lavoro inizia quindi con un quadro delle regole sull’immigrazione in Italia e passa subito dopo al tema centrale: la gestione interculturale delle risorse umane e quindi ai metodi di inserimento lavorativo deli immigrati e alle leve per favorire un loro sviluppo professionale.  Un’attenzione specifica è rivolta all’analisi delle barriere esistenti: dai pregiudizi culturali alle difficoltà linguistiche e ai limiti nel riconoscimento delle competenze e alla ricerca di soluzioni per il loro superamento.

 

 

Gestione interculturale delle risorse umane: inserimento e sviluppo del personale straniero in Italia

Victoria Chitoroaga

Tesi, Università degli Studi di Padova Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali Corso di Laurea Magistrale in Scienze del Governo e Politiche Pubbliche, 2025

Una ricerca discussa presso l’Università di Padova mette a fuoco regole, strumenti e percorsi per l’inserimento nelle imprese delle persone immigrate

Diversity management, ovvero gestione della diversità. Per crescere mettendo a frutto culture diverse, arricchendosi condividendo e non separando. Nella società come nell’economia. Teoricamente l’approccio è giusto e facile, la realtà – spesso – indica tutt’altra cosa. Victoria Chitoroaga indaga uno degli aspetti forse più controversi del tema e ne sintetizza i risultati in un lavoro che ha preso forma di tesi discussa presso l’Università di Padova.

“Gestione interculturale delle risorse umane: inserimento e sviluppo del personale straniero in Italia”, questo il titolo dato al lavoro, affronta, viene spiegato nelle prime righe, “il tema della gestione interculturale delle risorse umane in Italia, focalizzandosi in particolare sulle strategie di inserimento e sviluppo del personale immigrato”. Tema di discussione più che importante perché si inserisce “in un dibattito attuale che coinvolge sfera aziendale, istituzioni, società civile e sistema formativo” e che offre spunti per riflettere sulle relazioni che si creano nei sistemi sociali e produttivi alle prese con le persone immigrate.

Chitoroaga, tuttavia, aggiunge un altro elemento nel suo ragionamento, e cioè la “rilevanza strategica della diversità in una società sempre più interconnessa” e quindi l’importanza delle risorse multiculturali come elementi per affrontare meglio i problemi e le opportunità del momento.

Obiettivo principale del lavoro è identificare e analizzare le strategie più efficaci per l’inserimento e la valorizzazione del personale immigrato nelle organizzazioni italiane. Un traguardo che Chitoroaga cerca di raggiungere individuando le pratiche in grado di promuovere realmente inclusione e sviluppo professionale nel lungo periodo.

Il lavoro inizia quindi con un quadro delle regole sull’immigrazione in Italia e passa subito dopo al tema centrale: la gestione interculturale delle risorse umane e quindi ai metodi di inserimento lavorativo deli immigrati e alle leve per favorire un loro sviluppo professionale.  Un’attenzione specifica è rivolta all’analisi delle barriere esistenti: dai pregiudizi culturali alle difficoltà linguistiche e ai limiti nel riconoscimento delle competenze e alla ricerca di soluzioni per il loro superamento.

 

 

Gestione interculturale delle risorse umane: inserimento e sviluppo del personale straniero in Italia

Victoria Chitoroaga

Tesi, Università degli Studi di Padova Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali Corso di Laurea Magistrale in Scienze del Governo e Politiche Pubbliche, 2025

La qualità della vita è benessere e valori, e dunque Europa, sicurezza e sviluppo

Cos’è la qualità della vita? Benessere diffuso, lavoro qualificato e ben retribuito, casa accogliente, servizi efficaci per la salute, la scuola, la cultura e lo sport. E poi una condizione che stimoli l’intraprendenza e l’innovazione, un ambiente civile e rassicurante, la possibilità di progettare per sé e per i propri figli un futuro migliore. Una vita piacevole, in libertà e degna di essere vissuta, insomma. A pensarci bene, un po’ quello che generalmente offre l’Italia, nonostante ombre e contrasti. Anche se, proprio a questo nostro Paese, amiamo attribuire la definizione che Benedetto Croce dava di Napoli, sulla scorta dei viaggiatori europei del Grand Tour: “Un paradiso abitato da diavoli”.

Ma la qualità della vita, in una stagione di drammatiche crisi dei rapporti geopolitici, di fratture negli scambi commerciali internazionali e di clamorosi sconvolgimenti produttivi e sociali provocati dalle tecnologie digitali, non si può leggere solo nel microcosmo della comunità locale, nell’Italia “strapaese”, nella dimensione del “particolare”. Si lega ai grandi temi della libertà, della inclusione sociale e del rafforzamento della democrazia insidiata da demoni autoritari. E dunque al rilancio dell’Europa, territorio che nel corso della seconda metà del Novecento ha elaborato, sperimentato, fatto crescere il modello di un’originale sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e welfare, tra libertà, innovazione e solidarietà.

Qualità della vita, appunto. Per cui vale dunque la pena provare a ragionare non solo su “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma anche sui progetti politici e sociali che vale la pena pensare e realizzare. In nome di una migliore condizione umana e civile.

Riguardiamo l’Italia, allora, mettendo da canto stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni. Ci aiutano dati e analisi di indagini recenti, a cominciare dalla classifica annuale de “IlSole24Ore” appunto sulla qualità della vita (1 dicembre), dal Rapporto Censis sullo stato sociale del Paese (5 dicembre) e dai dati dell’Istat sull’economia, l’occupazione e i salari.

Guardiamo meglio, allora. Cominciando con le “mappe del benessere” de “IlSole24Ore” (la prima edizione del censimento risale al 1990). In testa, ci sono Trento, Bolzano e Udine, “il trionfo dell’arco alpino”, titola il quotidiano economico. Poi, Bologna, Bergamo, Treviso, Verona. Milano è ottava (recuperando quattro posizioni sull’anno precedente, anche se scende al penultimo posto per “la sicurezza”), seguita da Padova e Parma e via via continuando, per tutte le 107 province italiane.

Un dato da segnalare: Siena, in classifica generale al 21° posto, risulta invece prima per qualità della vita delle donne: una condizione particolare, su cui è utile che le forze politiche, economiche e sociali facciano un’attenta riflessione, dato che proprio il divario di genere, che si riduce troppo lentamente, è un punto quanto mai negativo della condizione italiana.

In coda all’elenco anche quest’anno c’é Reggio Calabria, preceduta da Siracusa, Crotone e Napoli. Il Sud, come sempre, va male: per trovare la città meridionale meglio collocata in classifica, bisogna arrivare al 39° posto con Cagliari, mentre Bari è al 67° e Palermo al 97°. Roma, la capitale, al 46° (13 posizioni guadagnate sullo scorso anno).

Gli indicatori usati sono 90. E tengono conto di ricchezza e consumi, affari e lavoro, demografia, società e salute, ambiente e servizi, giustizia e sicurezza, cultura e tempo libero, con approfondimenti per genere, età, condizione sociale, etc. Quest’anno le analisi indicano un paese sempre spaccato, sì, ma lentamente in movimento, anche se restano diseguaglianze forti, invecchiamento, gelata demografica, emigrazione dei giovani, bassi salari, disagi. E nelle aree metropolitane, le più dinamiche e attrattive, crescono i problemi sociali, a cominciare da quello della casa.

Nell’opinione europea diffusa, l’Italia è, tutto sommato, un paese in cui si vive bene, grazie anche a un welfare diffuso (soprattutto per la previdenza) e a un sistema sanitario nazionale che, grazie anche al rapporto pubblico-privato, funziona meglio che altrove.

Eppure, il malumore diffuso è ampio, “l’inverno del nostro scontento”, per dirla con il famoso inizio del “Riccardo III” di Shakespeare, trova sempre maggiori sostenitori, il disagio sociale si manifesta con punte di particolare acutezza, soprattutto nel corpo ampio e malcerto di un “ceto medio” che avverte una forte perdita del potere d’acquisto e dunque il peggioramento delle condizioni di vita. “Salari in picchiata: -8.8% rispetto al 2021”, scrive La Stampa (6 dicembre) sulla scorta dei dati dell’Istat: crescono un po’, quest’anno, anche grazie ai contratti di lavoro che si rinnovano, ma non tanto da colmare un gap che ci distanzia dal resto dell’Europa produttiva.

Di questi disagi fanno fede i giudizi dell’annuale Rapporto Censis, il 59°, che fotografa un’Italia sfiduciata, “selvaggia”, che ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese, mal sopporta la politica attuale, si astiene in misura crescente alle elezioni (alle ultime regionali sono andati alle urne meno di metà degli elettori) e – dato quanto mai inquietante – nel 30% dei casi dichiara di avere fiducia negli “autocrati”, da Putin a Orban, Erdogan, XI JinPing e a Trump. La democrazia, insomma, sta male. La percezione di una cattiva qualità della vita e la perdita di speranze ne mina le fondamenta.

Il leader internazionale preferito è Papa Leone XIV, con il 66,7% dei consensi.

Nel tempo libero, gli italiani fanno moltissimo sesso (il 62,5% dichiara rapporti molto frequenti, anche “virtuali”). Spendono parecchi soldi negli smartphone ma non nei libri. Si lamentano dei bassi redditi. E invecchiano male.

Che succede, insomma? “La politica non sa più ascoltare, guarda solo ai sondaggi. E trascura il ceto medio. Eppure sono proprio queste persone ad avere resistito a paure e declino, a muoversi e potere salvare l’Italia”, commenta Giuseppe De Rita, presidente del Censis, da sempre osservatore critico acutissimo delle evoluzioni e delle involuzioni della nostra situazione sociale (La Stampa, 7 dicembre). Varrebbe la pena che politici e sindacati gli dessero ascolto: è il ceto medio da lavoro dipendente, soprattutto quello industriale, a fare da tessuto connettivo delle nostre industrie e a fornire idee e forza lavoro alle imprese che fanno di tutto per crescere e venire fuori dalla crisi.

Una sintesi acuta è tentata da Chiara Saraceno, sofisticata sociologa, che sottolinea “la sfiducia nell’Europa e nel welfare (il 78,5% non ha fiducia nei servizi sanitari essenziali), in un Paese che vive alla giornata. Pesa la deindustrializzazione, mentre una fascia crescente si impoverisce”.

Cosa servirebbe? Ricostruire fiducia. Nel lavoro, soprattutto tra i giovani. Nella politica. Nella buona amministrazione. Nell’intraprendenza e nell’impresa. Nelle opportunità di costruire un futuro migliore. Anche per affrontare meglio la glaciazione demografica e la “fuga dei cervelli all’estero”. E per attirare capitali e investimenti. Per promuovere le intelligenze creative.

Ha dunque ragione l’Istituto Treccani quando indica in “fiducia” la parola dell’anno (calcolando i clic dei giovani sul suo sito).

Fiducia, come orizzonte personale. E soprattutto politico e professionale.

Fiducia nell’Italia che ce la fa. E soprattutto fiducia nell’Europa, proprio in un momento in cui la Ue vive una profondissima condizione di difficoltà e di crisi.

Ecco un altro punto su cui soffermarsi. Il futuro e le responsabilità dell’Europa. Partendo dal documento sulla National Security Strategy Usa che da alcuni giorni sta scuotendo le opinioni pubbliche internazionali e soprattutto quelle europee. Vi si afferma “il declino economico dell’Europa e la prospettiva reale e ancora più cupa di una cancellazione della civiltà”, messa in crisi “da governi di minoranza instabili che calpestano i principi della democrazia per reprimere l’opposizione” mentre la Ue “mina la libertà politica e la sovranità”. Una sovranità che va riportata agli Stati nazionali. Appunto con la fine della Ue.

È la frattura formalizzata (ma tutt’altro che inattesa) dell’Occidente come lo abbiamo conosciuto nel Novecento delle democrazie liberali. E la presa d’atto della solitudine dell’Europa, innanzitutto sulla propria sicurezza e sulla crisi di quella sintesi, di cui abbiamo parlato all’inizio, tra libertà e welfare, sotto l’ombrello militare protettivo degli Usa e della Nato.

Adesso, proprio per difendere e rilanciare quei valori europei, la Ue “balla da sola”. E deve imparare a sopravvivere. Di fronte a quello che il Corriere della Sera (8 dicembre) definisce “Asse Putin-Trump sull’Europa” (il Cremlino aveva dichiarato la sua piena sintonia con le posizioni del documento Usa), mentre La Stampa (8 dicembre) parla di “Divorzio Atlantico” e il Quotidiano Nazionale (Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno” titola su “L’Europa sotto assedio. Mosca: ‘Siamo con Trump”. E su “L’Europa sotto assedio” titola anche la Repubblica.

Che fare? I commenti dei principali quotidiani italiani, tra sabato e lunedì, sono già stati indicativi sia del disagio sia della necessità di una chiara reazione. Antonio Polito, sul Corriere della Sera, ricorda, citando Mark Twain, che “la notizia sulla morte dell’Europa ci pare grossolanamente esagerata”, anche se la crisi c’è e va affrontata con lungimiranza e senso di responsabilità, contrastando pure la sponda populista filo-Putin e filo-Maga interna all’Europa: una battaglia politica e culturale, difficile e controvento, per combattere la quale, però, l’Europa non è affatto disarmata.

Andrea Malaguti, su La Stampa, invita a “ripartire dalla ricerca di solidarietà dei Paesi che hanno dato vita all’Unione Europea”, senza ambiguità, in modo da pesare di più e in modo autonomo anche all’interno della Nato. E a rilanciare l’Europa, potenza economica e dunque possibile attore internazionale di primo piano, a partire dalla realizzazione del Piano Draghi. E Agnese Pini, sul Quotidiano Nazionale, rileva che è necessario “fare della trasparenza e dello Stato di diritto la nostra identità, perché la forza dell’Europa non è un passato mitico né l’omogeneità etnica, ma la promessa di diritti uguali per tutti, minoranze incluse”. Costruire insomma “un racconto alternativo di civiltà europea”. E “smettere di considerarci come un’appendice del mondo di qualcun altro”.

Europa da riformare. Da rafforzare. Da liberare da burocratismi. E da rilanciare. Senza rompere con gli Usa né pensare di gestire da soli la Nato (non ce lo possiamo permettere, non ne siano ancora tecnologicamente e militarmente in grado). Ma insistendo sulla nostra autonomia (e il rapporto tra Ue e Gran Bretagna in questa prospettiva è essenziale.) Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore, parla di “difesa europea nell’epoca post americana”, senza cadere nel militarismo ma continuando a legare sicurezza e democrazia, valori europei e dialogo con tutti gli altri attori internazionali interessati a un equilibrio del mondo diverso dal confronto ruvido tra Usa, Cina e Russia.

È, insomma, una questione di valori. E di libertà. Sicuramente di un nuovo corso della Ue. Ricordando la lezione di Jean Monnet sull’Europa che si rilancia proprio di fronte alle difficoltà.

Così, vale la pena di dare ascolto a uno dei più autorevoli filosofi politici tedeschi, Jurgen Habermas, uno dei padri del pensiero democratico del Novecento: l’Europa è sola, tra espansione cinese e democrazia svuotata da Trump e dunque “un’ulteriore integrazione politica almeno nel cuore dell’Unione Europea non è mai stata così vitale per la nostra sopravvivenza come lo è oggi è mai è sembrata così improbabile” (da una conferenza del 19 novembre alla Fondazione Siemens a Monaco di Baviera). Habermas ha ragione. Come ce l’ha un altro grande pensatore europeo, Michel Foucault: “La libertà non è qualcosa che si possiede, è qualcosa che si pratica”.  Una visione liberale e democratica. Una ricostruzione di fiducia.

(foto Getty Images)

Cos’è la qualità della vita? Benessere diffuso, lavoro qualificato e ben retribuito, casa accogliente, servizi efficaci per la salute, la scuola, la cultura e lo sport. E poi una condizione che stimoli l’intraprendenza e l’innovazione, un ambiente civile e rassicurante, la possibilità di progettare per sé e per i propri figli un futuro migliore. Una vita piacevole, in libertà e degna di essere vissuta, insomma. A pensarci bene, un po’ quello che generalmente offre l’Italia, nonostante ombre e contrasti. Anche se, proprio a questo nostro Paese, amiamo attribuire la definizione che Benedetto Croce dava di Napoli, sulla scorta dei viaggiatori europei del Grand Tour: “Un paradiso abitato da diavoli”.

Ma la qualità della vita, in una stagione di drammatiche crisi dei rapporti geopolitici, di fratture negli scambi commerciali internazionali e di clamorosi sconvolgimenti produttivi e sociali provocati dalle tecnologie digitali, non si può leggere solo nel microcosmo della comunità locale, nell’Italia “strapaese”, nella dimensione del “particolare”. Si lega ai grandi temi della libertà, della inclusione sociale e del rafforzamento della democrazia insidiata da demoni autoritari. E dunque al rilancio dell’Europa, territorio che nel corso della seconda metà del Novecento ha elaborato, sperimentato, fatto crescere il modello di un’originale sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e welfare, tra libertà, innovazione e solidarietà.

Qualità della vita, appunto. Per cui vale dunque la pena provare a ragionare non solo su “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma anche sui progetti politici e sociali che vale la pena pensare e realizzare. In nome di una migliore condizione umana e civile.

Riguardiamo l’Italia, allora, mettendo da canto stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni. Ci aiutano dati e analisi di indagini recenti, a cominciare dalla classifica annuale de “IlSole24Ore” appunto sulla qualità della vita (1 dicembre), dal Rapporto Censis sullo stato sociale del Paese (5 dicembre) e dai dati dell’Istat sull’economia, l’occupazione e i salari.

Guardiamo meglio, allora. Cominciando con le “mappe del benessere” de “IlSole24Ore” (la prima edizione del censimento risale al 1990). In testa, ci sono Trento, Bolzano e Udine, “il trionfo dell’arco alpino”, titola il quotidiano economico. Poi, Bologna, Bergamo, Treviso, Verona. Milano è ottava (recuperando quattro posizioni sull’anno precedente, anche se scende al penultimo posto per “la sicurezza”), seguita da Padova e Parma e via via continuando, per tutte le 107 province italiane.

Un dato da segnalare: Siena, in classifica generale al 21° posto, risulta invece prima per qualità della vita delle donne: una condizione particolare, su cui è utile che le forze politiche, economiche e sociali facciano un’attenta riflessione, dato che proprio il divario di genere, che si riduce troppo lentamente, è un punto quanto mai negativo della condizione italiana.

In coda all’elenco anche quest’anno c’é Reggio Calabria, preceduta da Siracusa, Crotone e Napoli. Il Sud, come sempre, va male: per trovare la città meridionale meglio collocata in classifica, bisogna arrivare al 39° posto con Cagliari, mentre Bari è al 67° e Palermo al 97°. Roma, la capitale, al 46° (13 posizioni guadagnate sullo scorso anno).

Gli indicatori usati sono 90. E tengono conto di ricchezza e consumi, affari e lavoro, demografia, società e salute, ambiente e servizi, giustizia e sicurezza, cultura e tempo libero, con approfondimenti per genere, età, condizione sociale, etc. Quest’anno le analisi indicano un paese sempre spaccato, sì, ma lentamente in movimento, anche se restano diseguaglianze forti, invecchiamento, gelata demografica, emigrazione dei giovani, bassi salari, disagi. E nelle aree metropolitane, le più dinamiche e attrattive, crescono i problemi sociali, a cominciare da quello della casa.

Nell’opinione europea diffusa, l’Italia è, tutto sommato, un paese in cui si vive bene, grazie anche a un welfare diffuso (soprattutto per la previdenza) e a un sistema sanitario nazionale che, grazie anche al rapporto pubblico-privato, funziona meglio che altrove.

Eppure, il malumore diffuso è ampio, “l’inverno del nostro scontento”, per dirla con il famoso inizio del “Riccardo III” di Shakespeare, trova sempre maggiori sostenitori, il disagio sociale si manifesta con punte di particolare acutezza, soprattutto nel corpo ampio e malcerto di un “ceto medio” che avverte una forte perdita del potere d’acquisto e dunque il peggioramento delle condizioni di vita. “Salari in picchiata: -8.8% rispetto al 2021”, scrive La Stampa (6 dicembre) sulla scorta dei dati dell’Istat: crescono un po’, quest’anno, anche grazie ai contratti di lavoro che si rinnovano, ma non tanto da colmare un gap che ci distanzia dal resto dell’Europa produttiva.

Di questi disagi fanno fede i giudizi dell’annuale Rapporto Censis, il 59°, che fotografa un’Italia sfiduciata, “selvaggia”, che ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese, mal sopporta la politica attuale, si astiene in misura crescente alle elezioni (alle ultime regionali sono andati alle urne meno di metà degli elettori) e – dato quanto mai inquietante – nel 30% dei casi dichiara di avere fiducia negli “autocrati”, da Putin a Orban, Erdogan, XI JinPing e a Trump. La democrazia, insomma, sta male. La percezione di una cattiva qualità della vita e la perdita di speranze ne mina le fondamenta.

Il leader internazionale preferito è Papa Leone XIV, con il 66,7% dei consensi.

Nel tempo libero, gli italiani fanno moltissimo sesso (il 62,5% dichiara rapporti molto frequenti, anche “virtuali”). Spendono parecchi soldi negli smartphone ma non nei libri. Si lamentano dei bassi redditi. E invecchiano male.

Che succede, insomma? “La politica non sa più ascoltare, guarda solo ai sondaggi. E trascura il ceto medio. Eppure sono proprio queste persone ad avere resistito a paure e declino, a muoversi e potere salvare l’Italia”, commenta Giuseppe De Rita, presidente del Censis, da sempre osservatore critico acutissimo delle evoluzioni e delle involuzioni della nostra situazione sociale (La Stampa, 7 dicembre). Varrebbe la pena che politici e sindacati gli dessero ascolto: è il ceto medio da lavoro dipendente, soprattutto quello industriale, a fare da tessuto connettivo delle nostre industrie e a fornire idee e forza lavoro alle imprese che fanno di tutto per crescere e venire fuori dalla crisi.

Una sintesi acuta è tentata da Chiara Saraceno, sofisticata sociologa, che sottolinea “la sfiducia nell’Europa e nel welfare (il 78,5% non ha fiducia nei servizi sanitari essenziali), in un Paese che vive alla giornata. Pesa la deindustrializzazione, mentre una fascia crescente si impoverisce”.

Cosa servirebbe? Ricostruire fiducia. Nel lavoro, soprattutto tra i giovani. Nella politica. Nella buona amministrazione. Nell’intraprendenza e nell’impresa. Nelle opportunità di costruire un futuro migliore. Anche per affrontare meglio la glaciazione demografica e la “fuga dei cervelli all’estero”. E per attirare capitali e investimenti. Per promuovere le intelligenze creative.

Ha dunque ragione l’Istituto Treccani quando indica in “fiducia” la parola dell’anno (calcolando i clic dei giovani sul suo sito).

Fiducia, come orizzonte personale. E soprattutto politico e professionale.

Fiducia nell’Italia che ce la fa. E soprattutto fiducia nell’Europa, proprio in un momento in cui la Ue vive una profondissima condizione di difficoltà e di crisi.

Ecco un altro punto su cui soffermarsi. Il futuro e le responsabilità dell’Europa. Partendo dal documento sulla National Security Strategy Usa che da alcuni giorni sta scuotendo le opinioni pubbliche internazionali e soprattutto quelle europee. Vi si afferma “il declino economico dell’Europa e la prospettiva reale e ancora più cupa di una cancellazione della civiltà”, messa in crisi “da governi di minoranza instabili che calpestano i principi della democrazia per reprimere l’opposizione” mentre la Ue “mina la libertà politica e la sovranità”. Una sovranità che va riportata agli Stati nazionali. Appunto con la fine della Ue.

È la frattura formalizzata (ma tutt’altro che inattesa) dell’Occidente come lo abbiamo conosciuto nel Novecento delle democrazie liberali. E la presa d’atto della solitudine dell’Europa, innanzitutto sulla propria sicurezza e sulla crisi di quella sintesi, di cui abbiamo parlato all’inizio, tra libertà e welfare, sotto l’ombrello militare protettivo degli Usa e della Nato.

Adesso, proprio per difendere e rilanciare quei valori europei, la Ue “balla da sola”. E deve imparare a sopravvivere. Di fronte a quello che il Corriere della Sera (8 dicembre) definisce “Asse Putin-Trump sull’Europa” (il Cremlino aveva dichiarato la sua piena sintonia con le posizioni del documento Usa), mentre La Stampa (8 dicembre) parla di “Divorzio Atlantico” e il Quotidiano Nazionale (Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno” titola su “L’Europa sotto assedio. Mosca: ‘Siamo con Trump”. E su “L’Europa sotto assedio” titola anche la Repubblica.

Che fare? I commenti dei principali quotidiani italiani, tra sabato e lunedì, sono già stati indicativi sia del disagio sia della necessità di una chiara reazione. Antonio Polito, sul Corriere della Sera, ricorda, citando Mark Twain, che “la notizia sulla morte dell’Europa ci pare grossolanamente esagerata”, anche se la crisi c’è e va affrontata con lungimiranza e senso di responsabilità, contrastando pure la sponda populista filo-Putin e filo-Maga interna all’Europa: una battaglia politica e culturale, difficile e controvento, per combattere la quale, però, l’Europa non è affatto disarmata.

Andrea Malaguti, su La Stampa, invita a “ripartire dalla ricerca di solidarietà dei Paesi che hanno dato vita all’Unione Europea”, senza ambiguità, in modo da pesare di più e in modo autonomo anche all’interno della Nato. E a rilanciare l’Europa, potenza economica e dunque possibile attore internazionale di primo piano, a partire dalla realizzazione del Piano Draghi. E Agnese Pini, sul Quotidiano Nazionale, rileva che è necessario “fare della trasparenza e dello Stato di diritto la nostra identità, perché la forza dell’Europa non è un passato mitico né l’omogeneità etnica, ma la promessa di diritti uguali per tutti, minoranze incluse”. Costruire insomma “un racconto alternativo di civiltà europea”. E “smettere di considerarci come un’appendice del mondo di qualcun altro”.

Europa da riformare. Da rafforzare. Da liberare da burocratismi. E da rilanciare. Senza rompere con gli Usa né pensare di gestire da soli la Nato (non ce lo possiamo permettere, non ne siano ancora tecnologicamente e militarmente in grado). Ma insistendo sulla nostra autonomia (e il rapporto tra Ue e Gran Bretagna in questa prospettiva è essenziale.) Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore, parla di “difesa europea nell’epoca post americana”, senza cadere nel militarismo ma continuando a legare sicurezza e democrazia, valori europei e dialogo con tutti gli altri attori internazionali interessati a un equilibrio del mondo diverso dal confronto ruvido tra Usa, Cina e Russia.

È, insomma, una questione di valori. E di libertà. Sicuramente di un nuovo corso della Ue. Ricordando la lezione di Jean Monnet sull’Europa che si rilancia proprio di fronte alle difficoltà.

Così, vale la pena di dare ascolto a uno dei più autorevoli filosofi politici tedeschi, Jurgen Habermas, uno dei padri del pensiero democratico del Novecento: l’Europa è sola, tra espansione cinese e democrazia svuotata da Trump e dunque “un’ulteriore integrazione politica almeno nel cuore dell’Unione Europea non è mai stata così vitale per la nostra sopravvivenza come lo è oggi è mai è sembrata così improbabile” (da una conferenza del 19 novembre alla Fondazione Siemens a Monaco di Baviera). Habermas ha ragione. Come ce l’ha un altro grande pensatore europeo, Michel Foucault: “La libertà non è qualcosa che si possiede, è qualcosa che si pratica”.  Una visione liberale e democratica. Una ricostruzione di fiducia.

(foto Getty Images)

Ecco le Terne Finaliste della quinta edizione del Campiello Junior

Il 4 dicembre 2025, nell’Headquarters Pirelli di Milano Bicocca, sono state selezionate le due Terne Finaliste della quinta edizione del Campiello Junior, il premio letterario frutto della sinergia tra Fondazione Il Campiello, Fondazione Pirelli e Pirelli, dedicato a opere di narrativa e poesia italiana che si rivolgono a bambine e bambini dai 7 ai 10 anni e a ragazze e ragazzi dagli 11 ai 14 anni.

La selezione dei titoli finalisti è stata affidata a una giuria qualificata, presieduta da Pino Boero, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura, e composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani, Emma Beseghi, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna e Lea Martina Forti Grazzini, autrice e sceneggiatrice di programmi radio e tv Rai.

Dopo un’attenta valutazione di quasi cento opere partecipanti, per la fascia 7-10 anni sono stati scelti come finalisti: “Album per pensare e non pensare” di Mariangela Gualtieri (Bompiani), “Il seminatore di storie e altri strani mestieri” di Michela Guidi (Giangiacomo Feltrinelli editore) e “Un fratellino. Storia di Nanni e Mario” di Rosella Postorino (Adriano Salani editore).

Per la categoria 11-14 anni si contenderanno il premio: “Il talento della rondine” di Matteo Bussola (Adriano Salani editore), “Segui la tigre” di Luisa Mattia (Piemme) e “Adelmo che voleva diventare Settimo” di Daniele Mencarelli (Mondadori).

Durante l’evento, presentato da Giancarlo Leone, sono intervenuti anche Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli e Stefania Zuccolotto, membro del Comitato di gestione del Premio Campiello.

Sono ora i 240 giovani lettori della Giuria popolare a prendere il testimone: avranno la possibilità di leggere i libri selezionati e votare quello che preferiscono, contribuendo così alla scelta dei vincitori, che saranno proclamati presso il Teatro Comunale di Vicenza giovedì 16 aprile 2026. L’evento sarà presentato da Armando Traverso di Rai Radio Kids, con la regia di Davide Stefanato, per partecipare clicca qui.

Grazie alla partnership tra il Campiello Junior e il Salone del Libro di Torino, durante l’edizione 2026 del Salone i ragazzi potranno conoscere i due vincitori.

Per restare aggiornati su tutte le attività legate al Campiello Junior è possibile consultare il sito www.fondazionepirelli.org oppure seguire i canali social di Fondazione Pirelli e del Premio Campiello.

Il 4 dicembre 2025, nell’Headquarters Pirelli di Milano Bicocca, sono state selezionate le due Terne Finaliste della quinta edizione del Campiello Junior, il premio letterario frutto della sinergia tra Fondazione Il Campiello, Fondazione Pirelli e Pirelli, dedicato a opere di narrativa e poesia italiana che si rivolgono a bambine e bambini dai 7 ai 10 anni e a ragazze e ragazzi dagli 11 ai 14 anni.

La selezione dei titoli finalisti è stata affidata a una giuria qualificata, presieduta da Pino Boero, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura, e composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani, Emma Beseghi, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna e Lea Martina Forti Grazzini, autrice e sceneggiatrice di programmi radio e tv Rai.

Dopo un’attenta valutazione di quasi cento opere partecipanti, per la fascia 7-10 anni sono stati scelti come finalisti: “Album per pensare e non pensare” di Mariangela Gualtieri (Bompiani), “Il seminatore di storie e altri strani mestieri” di Michela Guidi (Giangiacomo Feltrinelli editore) e “Un fratellino. Storia di Nanni e Mario” di Rosella Postorino (Adriano Salani editore).

Per la categoria 11-14 anni si contenderanno il premio: “Il talento della rondine” di Matteo Bussola (Adriano Salani editore), “Segui la tigre” di Luisa Mattia (Piemme) e “Adelmo che voleva diventare Settimo” di Daniele Mencarelli (Mondadori).

Durante l’evento, presentato da Giancarlo Leone, sono intervenuti anche Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli e Stefania Zuccolotto, membro del Comitato di gestione del Premio Campiello.

Sono ora i 240 giovani lettori della Giuria popolare a prendere il testimone: avranno la possibilità di leggere i libri selezionati e votare quello che preferiscono, contribuendo così alla scelta dei vincitori, che saranno proclamati presso il Teatro Comunale di Vicenza giovedì 16 aprile 2026. L’evento sarà presentato da Armando Traverso di Rai Radio Kids, con la regia di Davide Stefanato, per partecipare clicca qui.

Grazie alla partnership tra il Campiello Junior e il Salone del Libro di Torino, durante l’edizione 2026 del Salone i ragazzi potranno conoscere i due vincitori.

Per restare aggiornati su tutte le attività legate al Campiello Junior è possibile consultare il sito www.fondazionepirelli.org oppure seguire i canali social di Fondazione Pirelli e del Premio Campiello.

Multimedia

Images

Capire la democrazia per realizzarla meglio

Ripubblicato un libro fondamentale per comprendere di più l’agire sociale ed economico

Comprendere i concetti dietro ai vocaboli. Operazione necessaria – sempre – ancora più quando ne va dei sistemi sociali ed economici in cui ci si muove. Tornando anche ai classici di tutte le materie, come lo è “Democrazia e definizioni” di Giovanni Sartori, pubblicato nel 1957 e poi più volte fino ad oggi.

L’autore, poco più che trentenne, nel libro affronta con rigore logico i problemi di fondo, i temi essenziali e perenni della democrazia, ad iniziare – appunto – dall’esigenza di definire con precisione il significato dei termini linguistici usati.

Proseguendo nella lettura, tuttavia, ci si addentra in un esame della democrazia la cui dimensione descrittiva e quella normativa arrivano ad essere strettamente intrecciate. Di fatto, tutto il libro viene sintetizzato nelle prime righe della prima prefazione (correttamente riportata nell’edizione appena pubblicata). Scrive l’autore: il “libro non vuol essere tecnico, e perciò non vi si parla di «definizioni » nel senso tecnico del concetto. Per definire intendo semplicemente l’esigenza di stabilire con una certa chiarezza e precisione qual è, o quali sono, i significati di un termine linguistico: nel nostro caso quello di democrazia”. Ma perché? La risposta arriva immediatamente: le definizioni  sono “importanti perché i nostri giudizi e i nostri correlativi comportamenti dipendono dalle definizioni cui fanno capo: si è anti-democratici, democratici o iper-democratici in funzione della idea di democrazia che abbiamo in mente”. Ed è qui il passaggio dalla definizione ai comportamenti e quindi alle regole. “All’interno di un esperimento democratico si vuole una certa democrazia e se ne respinge un’altra, commisurando la realtà ad un metro che è costituito appunto dalle definizioni”, precisa Sartori. Sono questi i capisaldi dai quali Sartori muove nello scrivere e che chi legge incontra partendo, come ovvio, dal “definire la democrazia” (nella prima parte del libro) per arrivare alla storia della democrazia (nella seconda parte) attraverso l’analisi di diverse modalità (e quindi regole) con le quali nel tempo questo concetto è stato messo in pratica.

Pur tenendo conto di quanto scrive l’autore – “una indagine sulla democrazia finisce per essere democratica: voglio dire che non viene fatto di destinarla ad una cerchia specializzata di lettori” – libro di Giovanni Sartori è certamente denso e da affrontare con grande attenzione non perché sia ostico ai più, ma perché deve essere per chi legge strumento di conoscenza e di cultura. Uno strumento da usare in numerosi ambiti dell’agire sociale ed economico.

 

Democrazia e definizioni

Giovanni Sartori

il Mulino, 2025

Ripubblicato un libro fondamentale per comprendere di più l’agire sociale ed economico

Comprendere i concetti dietro ai vocaboli. Operazione necessaria – sempre – ancora più quando ne va dei sistemi sociali ed economici in cui ci si muove. Tornando anche ai classici di tutte le materie, come lo è “Democrazia e definizioni” di Giovanni Sartori, pubblicato nel 1957 e poi più volte fino ad oggi.

L’autore, poco più che trentenne, nel libro affronta con rigore logico i problemi di fondo, i temi essenziali e perenni della democrazia, ad iniziare – appunto – dall’esigenza di definire con precisione il significato dei termini linguistici usati.

Proseguendo nella lettura, tuttavia, ci si addentra in un esame della democrazia la cui dimensione descrittiva e quella normativa arrivano ad essere strettamente intrecciate. Di fatto, tutto il libro viene sintetizzato nelle prime righe della prima prefazione (correttamente riportata nell’edizione appena pubblicata). Scrive l’autore: il “libro non vuol essere tecnico, e perciò non vi si parla di «definizioni » nel senso tecnico del concetto. Per definire intendo semplicemente l’esigenza di stabilire con una certa chiarezza e precisione qual è, o quali sono, i significati di un termine linguistico: nel nostro caso quello di democrazia”. Ma perché? La risposta arriva immediatamente: le definizioni  sono “importanti perché i nostri giudizi e i nostri correlativi comportamenti dipendono dalle definizioni cui fanno capo: si è anti-democratici, democratici o iper-democratici in funzione della idea di democrazia che abbiamo in mente”. Ed è qui il passaggio dalla definizione ai comportamenti e quindi alle regole. “All’interno di un esperimento democratico si vuole una certa democrazia e se ne respinge un’altra, commisurando la realtà ad un metro che è costituito appunto dalle definizioni”, precisa Sartori. Sono questi i capisaldi dai quali Sartori muove nello scrivere e che chi legge incontra partendo, come ovvio, dal “definire la democrazia” (nella prima parte del libro) per arrivare alla storia della democrazia (nella seconda parte) attraverso l’analisi di diverse modalità (e quindi regole) con le quali nel tempo questo concetto è stato messo in pratica.

Pur tenendo conto di quanto scrive l’autore – “una indagine sulla democrazia finisce per essere democratica: voglio dire che non viene fatto di destinarla ad una cerchia specializzata di lettori” – libro di Giovanni Sartori è certamente denso e da affrontare con grande attenzione non perché sia ostico ai più, ma perché deve essere per chi legge strumento di conoscenza e di cultura. Uno strumento da usare in numerosi ambiti dell’agire sociale ed economico.

 

Democrazia e definizioni

Giovanni Sartori

il Mulino, 2025

Narrare la propria storia non solo per vendere meglio

Una ricerca presentata da poco, affronta un caso di applicazione dei nuovi strumenti di marketing collegati ai racconti d’impresa

Raccontarsi con il brand. Strategia di marketing d’impresa, ma anche strumento per narrare – spesso per davvero – la propria storia. Il tema è importante, perché nel contesto contemporaneo, i brand non si limitano più a promuovere prodotti attraverso forme pubblicitarie tradizionali, ma assumono un ruolo sempre più centrale all’interno delle narrazioni culturali e mediali. Capire l’uso del brand in queste direzioni, può quindi essere importante per comprendere la cultura del produrre di un’azienda. Ed è quello che prova a fare Carmine Palumbo con “La narrazione del brand nel contesto audiovisivo. Il caso E. Marinella”, ricerca trasformata poi in tesi presso l’Università Vanvitelli Corso di Laurea Magistrale in Economia e Management. Digital Marketing e Sostenibilità.

Palumbo ragiona partendo dalla constatazione che le moderne tecniche di marketing (in particolare il product placement e il brand storytelling) rappresentano oggi strumenti strategici capaci di costruire significati, trasmettere valori e attivare relazioni simboliche durature con il pubblico. Obiettivo della ricerca è quindi quello di provare ad analizzare questi strumenti nella loro dimensione teorica e applicativa, con un focus specifico sul ruolo dell’heritage e dell’identità mediterranea propri di una specifica azienda (E. Marinella) e inseriti nelle azioni di narrazione audiovisiva usati nelle campagne di comunicazione. La ricerca precisa prima i vocaboli e i concetti, poi approfondisce gli strumenti del brand storytelling e del product placement per arrivare quindi al “caso studio” d’impresa.

Il lavoro di Carmine Palumbo contribuisce, pur nella limitatezza di un solo caso esaminato, ad approfondire un tema diffuso e importante nella odierna gestione d’impresa.

La narrazione del brand nel contesto audiovisivo. Il caso E. Marinella

Carmine Palumbo

Tesi, Università degli studi della Campania, Dipartimento di economia, Corso di Laurea Magistrale in Economia e Management Digital Marketing e Sostenibilità, 2025

Una ricerca presentata da poco, affronta un caso di applicazione dei nuovi strumenti di marketing collegati ai racconti d’impresa

Raccontarsi con il brand. Strategia di marketing d’impresa, ma anche strumento per narrare – spesso per davvero – la propria storia. Il tema è importante, perché nel contesto contemporaneo, i brand non si limitano più a promuovere prodotti attraverso forme pubblicitarie tradizionali, ma assumono un ruolo sempre più centrale all’interno delle narrazioni culturali e mediali. Capire l’uso del brand in queste direzioni, può quindi essere importante per comprendere la cultura del produrre di un’azienda. Ed è quello che prova a fare Carmine Palumbo con “La narrazione del brand nel contesto audiovisivo. Il caso E. Marinella”, ricerca trasformata poi in tesi presso l’Università Vanvitelli Corso di Laurea Magistrale in Economia e Management. Digital Marketing e Sostenibilità.

Palumbo ragiona partendo dalla constatazione che le moderne tecniche di marketing (in particolare il product placement e il brand storytelling) rappresentano oggi strumenti strategici capaci di costruire significati, trasmettere valori e attivare relazioni simboliche durature con il pubblico. Obiettivo della ricerca è quindi quello di provare ad analizzare questi strumenti nella loro dimensione teorica e applicativa, con un focus specifico sul ruolo dell’heritage e dell’identità mediterranea propri di una specifica azienda (E. Marinella) e inseriti nelle azioni di narrazione audiovisiva usati nelle campagne di comunicazione. La ricerca precisa prima i vocaboli e i concetti, poi approfondisce gli strumenti del brand storytelling e del product placement per arrivare quindi al “caso studio” d’impresa.

Il lavoro di Carmine Palumbo contribuisce, pur nella limitatezza di un solo caso esaminato, ad approfondire un tema diffuso e importante nella odierna gestione d’impresa.

La narrazione del brand nel contesto audiovisivo. Il caso E. Marinella

Carmine Palumbo

Tesi, Università degli studi della Campania, Dipartimento di economia, Corso di Laurea Magistrale in Economia e Management Digital Marketing e Sostenibilità, 2025

Contro la violenza sulle donne serve un lessico familiare e civile per educare ai sentimenti e al rispetto

“Educare al linguaggio del rispetto”, sostiene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, insistendo sull’impegno delle istituzioni, della cultura, della scuola, delle famiglie e di tutta la civitas, per cercare di bloccare la crescente violenza di cui le donne, purtroppo, continuano a essere vittime. E pone quest’impegno politico e morale come strategia di lungo periodo, cioè come una delle condizioni di fondo della convivenza civile e, dunque, d’una piena democrazia fondata sul binomio di libertà e responsabilità.

Sono fondamentali, le ricorrenze da onorare, come le celebrazioni del 25 novembre, “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”: aiutano a rimemorare e a stimolare le sensibilità dell’opinione pubblica. E sono dunque opportune e benvenute le iniziative in questo senso, a cominciare dal “minuto di rumore”, organizzato in piazza della Signoria a Firenze dal “Quotidiano Nazionale/ La Nazione”: tutto il contrario, cioè, del silenzio impaurito delle vittime e di quello spesso complice di tanti altri. Oppure “l’onda rossa” delle diecimila donne in piazza a Milano (moltissimi anche gli uomini), tanto per fare solo due dei parecchi esempi di avvenimenti nelle città d’Italia. O, ancora, nello scorso fine settimana, le sacrosante proteste contro la “lista dello stupri” ritrovata, proprio all’indomani della ricorrenza del 25 novembre, sui muri del bagno maschile del liceo “Giulio Cesare” di Roma.

Bisogna però andare oltre la necessaria simbologia dei giorni dedicati. E insistere su scelte di fondo, che blocchino e poi invertano un clima che si sta facendo via via più pesante, drammatico, intollerabile, tra violenze e stupri (sino all’orrore dei femminicidi, 77 nel 2025, secondo l’Osservatorio NonUnaDiMeno), molestie, insulti verbali e hate speech sul web, manipolazioni, discriminazioni, etc. Serve lavorare, cioè, sull’educazione, la cultura e le norme. “Educare al linguaggio del rispetto”, appunto. E alla cura dei sentimenti.

Il Parlamento se n’è occupato, con una legge approvata all’unanimità alla Camera dei deputati, che introduce il reato di femminicidio e definisce il consenso nell’atto sessuale come “libero e attuale”, evidente cioè in ogni momento di quell’atto (“Solo sì è sì”, sintetizza bene Il Sole24Ore, 25 novembre). Ma al Senato tutto si è bloccato, proprio nel giorno della ricorrenza delle proteste sulla violenza contro le donne, per resistenza della Lega, che ha frenato il centro-destra e il governo. “Occasione mancata”, ha titolato “La Stampa” (26 novembre). La maggioranza assicura che se ne riparlerà. A gennaio.

Manovre politiche a parte, vale la pena seguire le indicazioni del presidente Mattarella e alzare lo sguardo. La legge è importante, naturalmente. Ma la repressione, necessaria, non basta. Continuiamo a essere di fronte a una pesante divaricazione, che attraversa la società, sulla parità uomo-donna (c’è perfino chi sostiene, da ruoli istituzionali, che “nel Dna dell’uomo c’è una resistenza alla parità dei sessi”). E dunque sui diritti, sul lavoro, sui salari e sui redditi, sui valori che connotano un consesso sociale e permettono di definirlo civile. L’obiettivo: insistere sull’indipendenza femminile. Anche su quella economica.

Parliamo del linguaggio, allora. “La violenza delle parole”, titola “La Stampa” (25 novembre) per un articolo di Massimiliano Panarari che documenta come “l’odio scorra ogni giorno, specialmente contro le donne. Dalla politica allo sport, anche il linguaggio diventa un’arma per schiacciare chi viene percepito come più debole”. Le parole sono pietre, e non per la loro solida, incisiva importanza (nel senso della bella sintesi letteraria di Carlo Levi) ma perché capaci di colpire, ferire, stravolgere. La lapidazione, nelle società maschiliste e patriarcali, d’altronde, è diretta appunto contro le donne.

Il contesto è di degrado. Siamo di fronte, da anni, a un crescente impoverimento del linguaggio, a un rinsecchimento del vocabolario delle parole usate (tutto è “carino” oppure “figo”, “straordinario” o “fantastico”), a una riduzione delle emozioni agli stilemi poveri dei like e delle faccine da emoticon sui social media. Dunque a espressioni rozze, che aprono la porta proprio agli schematismi odio/ amore. Alle logiche tribali e di clan (amici/nemici). E alla violenza.

Ma i sentimenti, anche quelli che riguardano l’affettività, sono una complessità di emozioni, spesso contrastanti. E la loro rappresentazione chiede parole e immagini capaci di darne conto, nella ricchezza delle loro articolazioni. Come testimoniano i versi del Cantico dei Cantici e dei lirici greci, quelli contrastati di Catullo e di Ovidio (“nec tecum nec sine te vivere possum”) e poi di Prevert (“I ragazzi che si amano si baciano in piedi sulle porte della notte”), per arrivare alle mille canzoni che quasi tutte parlano d’amore (“…vuota è la città, se non ci sei tu”, della struggente Mina).

Educare all’amore e ai sentimenti, in sostanza, è educare al linguaggio. Alla ricchezza, alla varietà e alla forza delle parole.

Rileggere Shakespeare (dai Sonetti al “Don Giovanni” con le incertezze sentimentali di Zerlina e il tormento e il riscatto di Donna Elvira e poi al “Mercante di Venezia” con il trucco legale e amoroso di Porzia che ribalta le sorti del debitore Antonio: una fila di donne straordinarie che meritano attenzione e rispetto). Leopardi con la sua Silvia. La Szimborska di “Amore a prima vista” (“Ogni inizio infatti/ è solo un seguito/ e il libro degli eventi/ è sempre aperto a metà”). E Alda Merini (“Ieri sera era amore/ io e te nella vita/ fuggitivi e fuggiaschi…”). Riascoltare le musiche di Schubert e quelle dedicate da Brahms all’amatissima Clara Schumann. E riguardare le opere d’arte. Come la raffigurazione del volto dell’Annunciata di Antonello da Messina, con la mano protesa in avanti per chiedere con dolce fermezza all’Angelo di fermare il tempo e permetterle così di capire cosa fosse quell’atto d’amore, quel concepimento, di cui era stata appena messa a conoscenza (modella di quella Madonna era la donna intensamente amata dal pittore).

Lavorare sulle parole, appunto, e sui racconti per immagini più intensi per evocazioni e valori. Insistere sul peso e sulla necessità dei sentimenti, anche nell’alternanza ineliminabile tra amore e dolore, angoscia dell’attesa e felicità dell’incontro, estasi e lutto. Nella presa d’atto che ogni amore è imperfetto, proprio come imperfetti, perché umani, siamo tutti noi, uomini e donne. E che, nell’intreccio dei sentimenti, la verità è un fuoco, che brucia le scorie dei silenzi e delle incomprensioni e può aprire nuove strade, sino ad allora inesplorate.

Una lezione tra letteratura, arte e vita quotidiana, dunque. Un’inedita, sorprendente scelta di vita, che ribalta gli apparenti ossimori: “Pure il rovo ebbe le sue piegature/ di dolcezza, anche il pruno il suo candore”, scriveva Lucio Piccolo, l’elegante malinconico poeta cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Imparare a guardare oltre la banalità delle apparenze. E sapere che anche nei momenti peggiori c’è la speranza d’un cambiamento: la “dolcezza del rovo”, appunto.

L’educazione sentimentale, sessuale e affettiva che si chiede alle scuole di fare è proprio questa, tutt’altro che uno schematico manuale sui generi. Ma è anche e soprattutto la lettura ragionata dei classici e dell’attualità (le ragioni del cuore, lo scandaglio persino nei recessi del “cuore di tenebra”). La formazione culturale. E civile. L’insistenza sulle parole che indicano qualità delle relazioni: la gentilezza, per esempio, l’ascolto, la delicatezza, l’attitudine a “farsi carico”, la capacità di riconoscere “lo sguardo dell’altro” e dunque di riconoscervisi. L’abitudine a usare, nelle storie d’amore, il “noi”, invece che l’ossessione egocentrica dell’ “io”.

Stare dunque alla larga dal mito infelice e luttuoso di Narciso (oggi purtroppo tanto di moda, soprattutto tra gli uomini, specie se potenti). E riflettere invece su quello di Ulisse, persona capace comunque d’amore, per la conoscenza, per una donna. E di Penelope. E delle altre donne preziose che hanno dato segno e senso alla nostra vita. La mia nonna paziente maestra, per fare solo un esempio.

Eccola, l’educazione al linguaggio dei sentimenti. E alla stessa capacità di fare i conti con le proprie emozioni, a capirle, elaborarle, rinnovarle, mantenerle vive. Evitare l’ebbrezza del successo e accettare, come in ogni storia umana, pure la pesantezza della sconfitta e la notte della solitudine. Andare “oltre la fragilità” e prendere esempio dall’arte giapponese del kintsugi, riparare con un filo d’oro le cose preziose, e ridare loro vita. E cercare di ritrovare sincronie, nella nostra vita, nei rapporti d’amore, d’amicizia e d’affetto. Con pazienza e perseveranza. L’amore è impeto e passione, certo. Ma anche accurato lavorio dei sentimenti e dei legami.

La vita, pure quella amorosa, è senso del limite. Della caduta. Della ripresa. “Le discese ardite/ e le risalite”, cantava un poeta musicale amoroso come Lucio Battisti.

Sta qui, in questa complessa ricchezza di valori, il “lessico famigliare” che ci tocca costruire e rafforzare, per fare fronte, con lungimiranza, anche alla violenza contro le donne. Per fare capire profondamente il senso di un amore fatto non di dominio, prevaricazione, manipolazione, violenza, potere. Ma di attenzione e rispetto.

La buona educazione. In famiglia, fin dai tempi dell’infanzia. A scuola. Negli ambienti di lavoro. Nel corpo sociale.

È questo, appunto, il “linguaggio del rispetto” di cui parla il presidente della Repubblica Mattarella. È proprio ciò che tocca costruire e rafforzare ad ognuno di noi, ognuno di noi uomini innanzitutto, proprio come dovere e responsabilità, sociale, culturale e civile.

(foto Getty Images)

“Educare al linguaggio del rispetto”, sostiene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, insistendo sull’impegno delle istituzioni, della cultura, della scuola, delle famiglie e di tutta la civitas, per cercare di bloccare la crescente violenza di cui le donne, purtroppo, continuano a essere vittime. E pone quest’impegno politico e morale come strategia di lungo periodo, cioè come una delle condizioni di fondo della convivenza civile e, dunque, d’una piena democrazia fondata sul binomio di libertà e responsabilità.

Sono fondamentali, le ricorrenze da onorare, come le celebrazioni del 25 novembre, “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”: aiutano a rimemorare e a stimolare le sensibilità dell’opinione pubblica. E sono dunque opportune e benvenute le iniziative in questo senso, a cominciare dal “minuto di rumore”, organizzato in piazza della Signoria a Firenze dal “Quotidiano Nazionale/ La Nazione”: tutto il contrario, cioè, del silenzio impaurito delle vittime e di quello spesso complice di tanti altri. Oppure “l’onda rossa” delle diecimila donne in piazza a Milano (moltissimi anche gli uomini), tanto per fare solo due dei parecchi esempi di avvenimenti nelle città d’Italia. O, ancora, nello scorso fine settimana, le sacrosante proteste contro la “lista dello stupri” ritrovata, proprio all’indomani della ricorrenza del 25 novembre, sui muri del bagno maschile del liceo “Giulio Cesare” di Roma.

Bisogna però andare oltre la necessaria simbologia dei giorni dedicati. E insistere su scelte di fondo, che blocchino e poi invertano un clima che si sta facendo via via più pesante, drammatico, intollerabile, tra violenze e stupri (sino all’orrore dei femminicidi, 77 nel 2025, secondo l’Osservatorio NonUnaDiMeno), molestie, insulti verbali e hate speech sul web, manipolazioni, discriminazioni, etc. Serve lavorare, cioè, sull’educazione, la cultura e le norme. “Educare al linguaggio del rispetto”, appunto. E alla cura dei sentimenti.

Il Parlamento se n’è occupato, con una legge approvata all’unanimità alla Camera dei deputati, che introduce il reato di femminicidio e definisce il consenso nell’atto sessuale come “libero e attuale”, evidente cioè in ogni momento di quell’atto (“Solo sì è sì”, sintetizza bene Il Sole24Ore, 25 novembre). Ma al Senato tutto si è bloccato, proprio nel giorno della ricorrenza delle proteste sulla violenza contro le donne, per resistenza della Lega, che ha frenato il centro-destra e il governo. “Occasione mancata”, ha titolato “La Stampa” (26 novembre). La maggioranza assicura che se ne riparlerà. A gennaio.

Manovre politiche a parte, vale la pena seguire le indicazioni del presidente Mattarella e alzare lo sguardo. La legge è importante, naturalmente. Ma la repressione, necessaria, non basta. Continuiamo a essere di fronte a una pesante divaricazione, che attraversa la società, sulla parità uomo-donna (c’è perfino chi sostiene, da ruoli istituzionali, che “nel Dna dell’uomo c’è una resistenza alla parità dei sessi”). E dunque sui diritti, sul lavoro, sui salari e sui redditi, sui valori che connotano un consesso sociale e permettono di definirlo civile. L’obiettivo: insistere sull’indipendenza femminile. Anche su quella economica.

Parliamo del linguaggio, allora. “La violenza delle parole”, titola “La Stampa” (25 novembre) per un articolo di Massimiliano Panarari che documenta come “l’odio scorra ogni giorno, specialmente contro le donne. Dalla politica allo sport, anche il linguaggio diventa un’arma per schiacciare chi viene percepito come più debole”. Le parole sono pietre, e non per la loro solida, incisiva importanza (nel senso della bella sintesi letteraria di Carlo Levi) ma perché capaci di colpire, ferire, stravolgere. La lapidazione, nelle società maschiliste e patriarcali, d’altronde, è diretta appunto contro le donne.

Il contesto è di degrado. Siamo di fronte, da anni, a un crescente impoverimento del linguaggio, a un rinsecchimento del vocabolario delle parole usate (tutto è “carino” oppure “figo”, “straordinario” o “fantastico”), a una riduzione delle emozioni agli stilemi poveri dei like e delle faccine da emoticon sui social media. Dunque a espressioni rozze, che aprono la porta proprio agli schematismi odio/ amore. Alle logiche tribali e di clan (amici/nemici). E alla violenza.

Ma i sentimenti, anche quelli che riguardano l’affettività, sono una complessità di emozioni, spesso contrastanti. E la loro rappresentazione chiede parole e immagini capaci di darne conto, nella ricchezza delle loro articolazioni. Come testimoniano i versi del Cantico dei Cantici e dei lirici greci, quelli contrastati di Catullo e di Ovidio (“nec tecum nec sine te vivere possum”) e poi di Prevert (“I ragazzi che si amano si baciano in piedi sulle porte della notte”), per arrivare alle mille canzoni che quasi tutte parlano d’amore (“…vuota è la città, se non ci sei tu”, della struggente Mina).

Educare all’amore e ai sentimenti, in sostanza, è educare al linguaggio. Alla ricchezza, alla varietà e alla forza delle parole.

Rileggere Shakespeare (dai Sonetti al “Don Giovanni” con le incertezze sentimentali di Zerlina e il tormento e il riscatto di Donna Elvira e poi al “Mercante di Venezia” con il trucco legale e amoroso di Porzia che ribalta le sorti del debitore Antonio: una fila di donne straordinarie che meritano attenzione e rispetto). Leopardi con la sua Silvia. La Szimborska di “Amore a prima vista” (“Ogni inizio infatti/ è solo un seguito/ e il libro degli eventi/ è sempre aperto a metà”). E Alda Merini (“Ieri sera era amore/ io e te nella vita/ fuggitivi e fuggiaschi…”). Riascoltare le musiche di Schubert e quelle dedicate da Brahms all’amatissima Clara Schumann. E riguardare le opere d’arte. Come la raffigurazione del volto dell’Annunciata di Antonello da Messina, con la mano protesa in avanti per chiedere con dolce fermezza all’Angelo di fermare il tempo e permetterle così di capire cosa fosse quell’atto d’amore, quel concepimento, di cui era stata appena messa a conoscenza (modella di quella Madonna era la donna intensamente amata dal pittore).

Lavorare sulle parole, appunto, e sui racconti per immagini più intensi per evocazioni e valori. Insistere sul peso e sulla necessità dei sentimenti, anche nell’alternanza ineliminabile tra amore e dolore, angoscia dell’attesa e felicità dell’incontro, estasi e lutto. Nella presa d’atto che ogni amore è imperfetto, proprio come imperfetti, perché umani, siamo tutti noi, uomini e donne. E che, nell’intreccio dei sentimenti, la verità è un fuoco, che brucia le scorie dei silenzi e delle incomprensioni e può aprire nuove strade, sino ad allora inesplorate.

Una lezione tra letteratura, arte e vita quotidiana, dunque. Un’inedita, sorprendente scelta di vita, che ribalta gli apparenti ossimori: “Pure il rovo ebbe le sue piegature/ di dolcezza, anche il pruno il suo candore”, scriveva Lucio Piccolo, l’elegante malinconico poeta cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Imparare a guardare oltre la banalità delle apparenze. E sapere che anche nei momenti peggiori c’è la speranza d’un cambiamento: la “dolcezza del rovo”, appunto.

L’educazione sentimentale, sessuale e affettiva che si chiede alle scuole di fare è proprio questa, tutt’altro che uno schematico manuale sui generi. Ma è anche e soprattutto la lettura ragionata dei classici e dell’attualità (le ragioni del cuore, lo scandaglio persino nei recessi del “cuore di tenebra”). La formazione culturale. E civile. L’insistenza sulle parole che indicano qualità delle relazioni: la gentilezza, per esempio, l’ascolto, la delicatezza, l’attitudine a “farsi carico”, la capacità di riconoscere “lo sguardo dell’altro” e dunque di riconoscervisi. L’abitudine a usare, nelle storie d’amore, il “noi”, invece che l’ossessione egocentrica dell’ “io”.

Stare dunque alla larga dal mito infelice e luttuoso di Narciso (oggi purtroppo tanto di moda, soprattutto tra gli uomini, specie se potenti). E riflettere invece su quello di Ulisse, persona capace comunque d’amore, per la conoscenza, per una donna. E di Penelope. E delle altre donne preziose che hanno dato segno e senso alla nostra vita. La mia nonna paziente maestra, per fare solo un esempio.

Eccola, l’educazione al linguaggio dei sentimenti. E alla stessa capacità di fare i conti con le proprie emozioni, a capirle, elaborarle, rinnovarle, mantenerle vive. Evitare l’ebbrezza del successo e accettare, come in ogni storia umana, pure la pesantezza della sconfitta e la notte della solitudine. Andare “oltre la fragilità” e prendere esempio dall’arte giapponese del kintsugi, riparare con un filo d’oro le cose preziose, e ridare loro vita. E cercare di ritrovare sincronie, nella nostra vita, nei rapporti d’amore, d’amicizia e d’affetto. Con pazienza e perseveranza. L’amore è impeto e passione, certo. Ma anche accurato lavorio dei sentimenti e dei legami.

La vita, pure quella amorosa, è senso del limite. Della caduta. Della ripresa. “Le discese ardite/ e le risalite”, cantava un poeta musicale amoroso come Lucio Battisti.

Sta qui, in questa complessa ricchezza di valori, il “lessico famigliare” che ci tocca costruire e rafforzare, per fare fronte, con lungimiranza, anche alla violenza contro le donne. Per fare capire profondamente il senso di un amore fatto non di dominio, prevaricazione, manipolazione, violenza, potere. Ma di attenzione e rispetto.

La buona educazione. In famiglia, fin dai tempi dell’infanzia. A scuola. Negli ambienti di lavoro. Nel corpo sociale.

È questo, appunto, il “linguaggio del rispetto” di cui parla il presidente della Repubblica Mattarella. È proprio ciò che tocca costruire e rafforzare ad ognuno di noi, ognuno di noi uomini innanzitutto, proprio come dovere e responsabilità, sociale, culturale e civile.

(foto Getty Images)

L’inverno, una stagione
da vivere

Pirelli e l’inverno, due mondi che si incontrano sotto il segno dell’innovazione. Attraverso i documenti del nostro Archivio Storico, con questo nuovo approfondimento scopriamo le invenzioni di prodotto, le campagne di comunicazione, le collaborazioni e i progetti che hanno contribuito a trasformare – in città come in montagna, sulle strade come sui campi da neve e anche in casa – la stagione fredda in una nuova stagione, da vivere, in sicurezza e con piacere.

La borsa per l’acqua calda è il primissimo prodotto Pirelli per l’inverno. Compare a catalogo già nel 1880 come uno dei primi prodotti “diversificati” (rispetto al settore industriale), con la scopo di offrire comfort e protezione dal freddo. Sarà un prodotto longevo, sempre più diffuso nelle case, protagonista negli anni Cinquanta di bozzetti e campagne pubblicitarie dalle firme famose, da Lora Lamm a Raymond Savignac fino ai fratelli Pagot, e di articoli che ne raccontano gli impagabili benefici. Per la Rivista Pirelli n. 5, 1949, la scrittrice e giornalista Marise Ferro scrive il pezzo “Quando l’anima è intirizzita”, vero e proprio “inno alla borsa dell’acqua calda, quella di gomma, soffice, elastica, duratura, accogliente” perché “una borsa per l’acqua calda addormenta la sofferenza morale come quella fisica.”

Al 1890 risalgono le prime suole Pirelli, “le specialità di gomma elastica per calzature”, insieme a galosce per proteggere le calzature per signora dalla pioggia. Le suole avranno un bel successo commerciale e si guadagneranno un ruolo degno di nota nella nostra storia dedicata a Pirelli e all’inverno, evidenziandosi nel secondo Dopoguerra, ancor più negli anni Cinquanta, fra gli articoli in gomma capaci di migliorare la vita dello sciatore. Insieme a giacche, manopole e rotelle dei bastoni da sci, cinghiette e cinturini per gli attacchi, cavigliere, materassini e arredi completi per campeggio, gli scarponi con suole in gomme vengono elogiati sulla Rivista Pirelli n. 1, 1949 nell’articolo “Gli accessori che fanno felici”, che dà conto di come “la gomma ha fatto il suo ingresso nei campi di neve per rendere più piacevoli le corse sugli sci”. Si legge: “Agli accessori dello sciatore si richiedono diverse qualità – praticità, durata, minimo ingombro – che li rendano piacevoli non al palato, ma all’uso. Sono tanti gli accessori che possono migliorare la vita dello sciatore. E sono tutti accessori in gomma Pirelli.”

La tradizione degli scarponi in gomma attraverserà gran parte della seconda metà del Novecento, con generazioni di suole alpine dai disegni diversificati e approdando negli anni Sessanta ai superspecializzati scarponi Superga G3, che parteciperanno a importanti spedizioni, in Afghanistan nel 1965 e sulle vette del Caucaso nel 1966. A documentarle, l’house organ Fatti e Notizie, n. 12, 1965 e n. 5, 1966.

Nel 1950, per rendere più facile e sereno il viaggio in automobile verso le località sciistiche – un’abitudine che negli anni Cinquanta si va diffondendo fra gli italiani e non solo – arrivano il “portabagagli brevetto Pirelli” e il “portasci brevetto Pirelli”, nati dall’idea di un ingegnere Pirelli – Carlo Barassi – e di un architetto – Roberto Menghi – ceduti successivamente da Pirelli a Kartell, che li commercializzerà.

“Viaggerete senza incognite” è la promessa della pubblicità che occupa la seconda di copertina del primo numero della Rivista Pirelli n. 1, 1948. Si parla delle crocere in gomma, prodotto Pirelli che ha l’obiettivo di garantire sicurezza al viaggio in auto verso le vette, rendendo “antisdrucciolevoli le catene”.

Il primo pneumatico invernale Pirelli con il battistrada a spina di pesce si chiama Inverno e arriva nel 1951, derivato dall’Artiglio degli anni Trenta. Vengono chiamati a pubblicizzarlo negli anni successivi i grandi nomi della pubblicità e del design, Bob Noorda, Ezio Bonini, Franco Grignani. “Senza catene per l’inverno” è il pay off che leggiamo sulla pagina pubblicitaria di Noorda pubblicata sulla Rivista Pirelli n. 6, 1952 e che sintetizza il vantaggio che Pirelli, con Inverno, procura all’automobilista, ripreso nella campagna di Bonini “Per l’inverno il pneumatico Inverno” del 1952-53, che dice “In piena sicurezza, sulle strade viscide e bagnate, sulla neve liscia e battuta, senza la perdita di potenza dovuta alle catene” e in quella di Grignani del 1955 “Buon viaggio d’inverno con Inverno Pirelli”, che esplicita “… senza la noia delle catene”.

Nel 1957 è il momento del nuovo Inverno: lo troviamo in copertina e doppia pagina interna su Fatti e Notizie n. 1, 1958. L’articolo inizia così: “Oggi l’inverno inteso come una stagione in cui ci si tappa in casa e la vita ristagna appartiene a un’immagine del passato. Come stagione attiva, densa di vita e di lavoro, l’inverno è una stagione della nostra epoca: una quinta stagione.” Il concetto di “quinta stagione” accompagna il lancio del nuovo pneumatico invernale ma è anche emblematica della visione che ha Pirelli dell’inverno: una stagione di opportunità, movimento e innovazione, cui dedicare prodotti capaci di migliorare la vita quotidiana e l’attività sportiva, alleviando le difficoltà e offrendo comfort, sicurezza e performance.

La storia continua con il Pirelli BS3, il “pneumatico con il cappotto” – il “Battistrada Separato 3” – costituito da una carcassa e un battistrada non vulcanizzati assieme, a rendere il battistrada facilmente intercambiabile. Una soluzione tecnologica innovativa, rimasta in produzione per alcuni anni, che ha anticipato il cambio stagionale dei pneumatici perché rendeva semplice il passaggio dalle prestazioni estive a quelle invernali, e viceversa (su Fatti e Notizie  1959, n. 10 un ampio servizio documenta questo pneumatico frutto del genio e dell’inventiva Pirelli). È proprio il BS3 che viene montato, durante il Rally di Montecarlo del 1961, da 28 equipaggi in gara, di cui 23 arrivati alla fine della competizione. Il BS3 sarà il precursore del primo vero invernale di Pirelli, il Cinturato MS35 Rally, che in alcune pubblicità televisive dell’epoca è in bella mostra accanto a Sandro Munari al volante della Lancia Fulvia su cui vince diverse gare, fra cui lo stesso Rally di Montecarlo nel 1972, e che in versione stradale dà vita a quella che oggi è l’estesa gamma Pirelli Winter, ad alta specializzazione, lanciata nel 1979, perfetta per la neve e per il ghiaccio, ma anche per l’asciutto. Dopo qualche anno la gamma si arricchisce con pneumatici ribassati e superribassati, aumentando così le possibilità di impiego – a raccontarcelo l’articolo “Una sicurezza che si chiama Winter” su Fatti e Notizie n. 9, 1985.  Negli anni Novanta le coperture invernali fanno un deciso passo avanti: più pollici, migliore efficacia su asciutto e bagnato, comfort acustico migliorato e nel 2004 il nuovo Winter Sottozero assicura prestazioni top anche in condizioni stradali normali, da ottobre ad aprile: è la prima copertura invernale bistagionale, come si legge su Fatti e Notizie n. 365, 2004.

Pirelli Winter arriva fino ai giorni nostri, con 8 pneumatici per auto, 7 per suv e 1 per van disponibili. L’ultimo è nato quest’anno, si chiama Cinturato WINTER 3 e la sua promessa – “Goditi il piacere dell’inverno…” – resta fedele alla visione che sin dalle origini ha caratterizzato la ricerca e i prodotti di Pirelli per la stagione fredda.

Pirelli e l’inverno, due mondi che si incontrano sotto il segno dell’innovazione. Attraverso i documenti del nostro Archivio Storico, con questo nuovo approfondimento scopriamo le invenzioni di prodotto, le campagne di comunicazione, le collaborazioni e i progetti che hanno contribuito a trasformare – in città come in montagna, sulle strade come sui campi da neve e anche in casa – la stagione fredda in una nuova stagione, da vivere, in sicurezza e con piacere.

La borsa per l’acqua calda è il primissimo prodotto Pirelli per l’inverno. Compare a catalogo già nel 1880 come uno dei primi prodotti “diversificati” (rispetto al settore industriale), con la scopo di offrire comfort e protezione dal freddo. Sarà un prodotto longevo, sempre più diffuso nelle case, protagonista negli anni Cinquanta di bozzetti e campagne pubblicitarie dalle firme famose, da Lora Lamm a Raymond Savignac fino ai fratelli Pagot, e di articoli che ne raccontano gli impagabili benefici. Per la Rivista Pirelli n. 5, 1949, la scrittrice e giornalista Marise Ferro scrive il pezzo “Quando l’anima è intirizzita”, vero e proprio “inno alla borsa dell’acqua calda, quella di gomma, soffice, elastica, duratura, accogliente” perché “una borsa per l’acqua calda addormenta la sofferenza morale come quella fisica.”

Al 1890 risalgono le prime suole Pirelli, “le specialità di gomma elastica per calzature”, insieme a galosce per proteggere le calzature per signora dalla pioggia. Le suole avranno un bel successo commerciale e si guadagneranno un ruolo degno di nota nella nostra storia dedicata a Pirelli e all’inverno, evidenziandosi nel secondo Dopoguerra, ancor più negli anni Cinquanta, fra gli articoli in gomma capaci di migliorare la vita dello sciatore. Insieme a giacche, manopole e rotelle dei bastoni da sci, cinghiette e cinturini per gli attacchi, cavigliere, materassini e arredi completi per campeggio, gli scarponi con suole in gomme vengono elogiati sulla Rivista Pirelli n. 1, 1949 nell’articolo “Gli accessori che fanno felici”, che dà conto di come “la gomma ha fatto il suo ingresso nei campi di neve per rendere più piacevoli le corse sugli sci”. Si legge: “Agli accessori dello sciatore si richiedono diverse qualità – praticità, durata, minimo ingombro – che li rendano piacevoli non al palato, ma all’uso. Sono tanti gli accessori che possono migliorare la vita dello sciatore. E sono tutti accessori in gomma Pirelli.”

La tradizione degli scarponi in gomma attraverserà gran parte della seconda metà del Novecento, con generazioni di suole alpine dai disegni diversificati e approdando negli anni Sessanta ai superspecializzati scarponi Superga G3, che parteciperanno a importanti spedizioni, in Afghanistan nel 1965 e sulle vette del Caucaso nel 1966. A documentarle, l’house organ Fatti e Notizie, n. 12, 1965 e n. 5, 1966.

Nel 1950, per rendere più facile e sereno il viaggio in automobile verso le località sciistiche – un’abitudine che negli anni Cinquanta si va diffondendo fra gli italiani e non solo – arrivano il “portabagagli brevetto Pirelli” e il “portasci brevetto Pirelli”, nati dall’idea di un ingegnere Pirelli – Carlo Barassi – e di un architetto – Roberto Menghi – ceduti successivamente da Pirelli a Kartell, che li commercializzerà.

“Viaggerete senza incognite” è la promessa della pubblicità che occupa la seconda di copertina del primo numero della Rivista Pirelli n. 1, 1948. Si parla delle crocere in gomma, prodotto Pirelli che ha l’obiettivo di garantire sicurezza al viaggio in auto verso le vette, rendendo “antisdrucciolevoli le catene”.

Il primo pneumatico invernale Pirelli con il battistrada a spina di pesce si chiama Inverno e arriva nel 1951, derivato dall’Artiglio degli anni Trenta. Vengono chiamati a pubblicizzarlo negli anni successivi i grandi nomi della pubblicità e del design, Bob Noorda, Ezio Bonini, Franco Grignani. “Senza catene per l’inverno” è il pay off che leggiamo sulla pagina pubblicitaria di Noorda pubblicata sulla Rivista Pirelli n. 6, 1952 e che sintetizza il vantaggio che Pirelli, con Inverno, procura all’automobilista, ripreso nella campagna di Bonini “Per l’inverno il pneumatico Inverno” del 1952-53, che dice “In piena sicurezza, sulle strade viscide e bagnate, sulla neve liscia e battuta, senza la perdita di potenza dovuta alle catene” e in quella di Grignani del 1955 “Buon viaggio d’inverno con Inverno Pirelli”, che esplicita “… senza la noia delle catene”.

Nel 1957 è il momento del nuovo Inverno: lo troviamo in copertina e doppia pagina interna su Fatti e Notizie n. 1, 1958. L’articolo inizia così: “Oggi l’inverno inteso come una stagione in cui ci si tappa in casa e la vita ristagna appartiene a un’immagine del passato. Come stagione attiva, densa di vita e di lavoro, l’inverno è una stagione della nostra epoca: una quinta stagione.” Il concetto di “quinta stagione” accompagna il lancio del nuovo pneumatico invernale ma è anche emblematica della visione che ha Pirelli dell’inverno: una stagione di opportunità, movimento e innovazione, cui dedicare prodotti capaci di migliorare la vita quotidiana e l’attività sportiva, alleviando le difficoltà e offrendo comfort, sicurezza e performance.

La storia continua con il Pirelli BS3, il “pneumatico con il cappotto” – il “Battistrada Separato 3” – costituito da una carcassa e un battistrada non vulcanizzati assieme, a rendere il battistrada facilmente intercambiabile. Una soluzione tecnologica innovativa, rimasta in produzione per alcuni anni, che ha anticipato il cambio stagionale dei pneumatici perché rendeva semplice il passaggio dalle prestazioni estive a quelle invernali, e viceversa (su Fatti e Notizie  1959, n. 10 un ampio servizio documenta questo pneumatico frutto del genio e dell’inventiva Pirelli). È proprio il BS3 che viene montato, durante il Rally di Montecarlo del 1961, da 28 equipaggi in gara, di cui 23 arrivati alla fine della competizione. Il BS3 sarà il precursore del primo vero invernale di Pirelli, il Cinturato MS35 Rally, che in alcune pubblicità televisive dell’epoca è in bella mostra accanto a Sandro Munari al volante della Lancia Fulvia su cui vince diverse gare, fra cui lo stesso Rally di Montecarlo nel 1972, e che in versione stradale dà vita a quella che oggi è l’estesa gamma Pirelli Winter, ad alta specializzazione, lanciata nel 1979, perfetta per la neve e per il ghiaccio, ma anche per l’asciutto. Dopo qualche anno la gamma si arricchisce con pneumatici ribassati e superribassati, aumentando così le possibilità di impiego – a raccontarcelo l’articolo “Una sicurezza che si chiama Winter” su Fatti e Notizie n. 9, 1985.  Negli anni Novanta le coperture invernali fanno un deciso passo avanti: più pollici, migliore efficacia su asciutto e bagnato, comfort acustico migliorato e nel 2004 il nuovo Winter Sottozero assicura prestazioni top anche in condizioni stradali normali, da ottobre ad aprile: è la prima copertura invernale bistagionale, come si legge su Fatti e Notizie n. 365, 2004.

Pirelli Winter arriva fino ai giorni nostri, con 8 pneumatici per auto, 7 per suv e 1 per van disponibili. L’ultimo è nato quest’anno, si chiama Cinturato WINTER 3 e la sua promessa – “Goditi il piacere dell’inverno…” – resta fedele alla visione che sin dalle origini ha caratterizzato la ricerca e i prodotti di Pirelli per la stagione fredda.

Multimedia

Images

Per non essere “macchine celibi”

Le relazioni tra tecnologie digitali, sviluppo e umanità

Il modello di sviluppo che ha dominato il passaggio di secolo è ormai tramontato. Come tenere insieme, allora, una società sempre più grande e frammentata, che si sbarazza dell’ordine morale tradizionale in nome della libertà personale? Si tratta di una domanda molto importante, alla quale bene o male tutti sono chiamati a rispondere con una intensità che cresce sulla base delle singole responsabilità all’interno dei sistemi sociali. A questa domanda cerca di rispondere – riuscendoci – “Macchine celibi. Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo?” libro scritto a quattro mani da Chiara Giaccardi (sociologa e antropologa dei media) e Mauro Magatti (sociologo).

Come fare dunque? La soluzione parrebbe essere riposta nelle tecnologie digitali che si propongono come antidoto alle spinte disgregatrici della nostra epoca, ma che allo stesso tempo si dimostrano essere un potente catalizzatore di nuovi problemi. Il risultato, osservano i due,  è paradossale perché si ottengono con il digitale la massima efficienza e il massimo caos comunicativo. E mentre le macchine intelligenti diventano sempre più simili all’uomo, l’uomo rischia di regredire a “macchina celibe”, cioè ad un “Io” isolato, performante, capace di grandi prestazioni, ma privo di legami e incapace di riconoscere l’altro. Detto in altro modo, e con le parole di Giaccardi e Magatti, “per andare avanti è necessario pensare la digitalizzazione non per uniformare e controllare, bensì per nutrire l’intelligenza vitale di persone e gruppi. La tecnologia non può guidarci da sola: serve un pensiero nuovo, che superi i limiti della ragione moderna”. Già, un “pensiero nuovo” che riporti però ad alcuni principi fondamentali dell’essere e della convivenza umana, a partire dalla riscoperta di una “politica dello spirito” capace di restituire senso, legami e futuro alle nostre società. La via d’uscita sta così nel recuperare ciò che la modernità ha emarginato: il dialogo, il pensiero, lo spirito. Perché la felicità non è celibe (e nemmeno la libertà).

Chi legge viene quindi accompagnato lungo una strada con alcune  tappe e un arrivo: prima viene chiarita quella che è la “razionalizzazione digitale”, poi si passa ad approfondire i molti aspetti che questa razionalizzazione determina (dal narcisismo all’aggressività) per arrivare quindi a delineare la via d’uscita fatta di pensiero, complessità, pluralità e dialogo.

Chiara Giaccardi e Mauro Magatti sottolineano il nostro stare come davanti ad un bivio: sta a noi scegliere la direzione per evitare di finire come Luigi Pirandello ha indicato acutamente in una frase ricordata dagli stessi autori: “Si va diventando tutti come macchine, senza più bisogno d’anima”.

Macchine celibi. Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo?

Chiara Giaccardi, Mauro Magatti

il Mulino, 2025

Le relazioni tra tecnologie digitali, sviluppo e umanità

Il modello di sviluppo che ha dominato il passaggio di secolo è ormai tramontato. Come tenere insieme, allora, una società sempre più grande e frammentata, che si sbarazza dell’ordine morale tradizionale in nome della libertà personale? Si tratta di una domanda molto importante, alla quale bene o male tutti sono chiamati a rispondere con una intensità che cresce sulla base delle singole responsabilità all’interno dei sistemi sociali. A questa domanda cerca di rispondere – riuscendoci – “Macchine celibi. Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo?” libro scritto a quattro mani da Chiara Giaccardi (sociologa e antropologa dei media) e Mauro Magatti (sociologo).

Come fare dunque? La soluzione parrebbe essere riposta nelle tecnologie digitali che si propongono come antidoto alle spinte disgregatrici della nostra epoca, ma che allo stesso tempo si dimostrano essere un potente catalizzatore di nuovi problemi. Il risultato, osservano i due,  è paradossale perché si ottengono con il digitale la massima efficienza e il massimo caos comunicativo. E mentre le macchine intelligenti diventano sempre più simili all’uomo, l’uomo rischia di regredire a “macchina celibe”, cioè ad un “Io” isolato, performante, capace di grandi prestazioni, ma privo di legami e incapace di riconoscere l’altro. Detto in altro modo, e con le parole di Giaccardi e Magatti, “per andare avanti è necessario pensare la digitalizzazione non per uniformare e controllare, bensì per nutrire l’intelligenza vitale di persone e gruppi. La tecnologia non può guidarci da sola: serve un pensiero nuovo, che superi i limiti della ragione moderna”. Già, un “pensiero nuovo” che riporti però ad alcuni principi fondamentali dell’essere e della convivenza umana, a partire dalla riscoperta di una “politica dello spirito” capace di restituire senso, legami e futuro alle nostre società. La via d’uscita sta così nel recuperare ciò che la modernità ha emarginato: il dialogo, il pensiero, lo spirito. Perché la felicità non è celibe (e nemmeno la libertà).

Chi legge viene quindi accompagnato lungo una strada con alcune  tappe e un arrivo: prima viene chiarita quella che è la “razionalizzazione digitale”, poi si passa ad approfondire i molti aspetti che questa razionalizzazione determina (dal narcisismo all’aggressività) per arrivare quindi a delineare la via d’uscita fatta di pensiero, complessità, pluralità e dialogo.

Chiara Giaccardi e Mauro Magatti sottolineano il nostro stare come davanti ad un bivio: sta a noi scegliere la direzione per evitare di finire come Luigi Pirandello ha indicato acutamente in una frase ricordata dagli stessi autori: “Si va diventando tutti come macchine, senza più bisogno d’anima”.

Macchine celibi. Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo?

Chiara Giaccardi, Mauro Magatti

il Mulino, 2025

Cultura della fabbrica e cultura dell’educazione

L’esperienza delle scuole montessoriane alla Falck

 

Attenzione dell’impresa verso le persone. Welfare d’impresa, si dice oggi. Comunque cura del benessere di chi, in fabbrica e negli uffici, lavora. Condizione non certo comune a tutte le realtà, ma sufficientemente diffusa per trovarne traccia in una serie di esempi di non poco conto.  Casi che devono essere ricordati come quello delle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck di Sesto San Giovanni che tra il 1952 e il 1993 promossero l’applicazione della pedagogia montessoriana nelle scuole destinate ai figli dei propri dipendenti.

Di quest’esperienza scrive Irene Pozzi (dell’Università di Bologna) nella sua  “L’applicazione della pedagogia montessoriana nelle scuole delle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck (1952-1993)” pubblicato recentemente su Nuova Secondaria.

L’articolo ricostruisce, a partire da fonti inedite aziendali (pubblicazioni e documenti d’archivio), le caratteristiche delle iniziative educative messe in pratica in Falck e che poterono svilupparsi grazie al sodalizio tra Maly Falck, consorte dell’allora presidente dell’azienda Giovanni Falck, e Giuliana Sorge, nota allieva diretta di Maria Montessori. Le scuole montessoriane Falck si configurarono da un lato come un esperimento educativo aziendale estremamente significativo, dall’altro come un centro importante del montessorismo del secondo dopoguerra.

La ricerca ha quindi il tratto dell’analisi pedagogica da un lato, ma anche quello di approfondimento storico e di cultura d’impresa. L’indagine di Irene Pozzi inizia con il mettere a fuoco l’impostazione educativa dell’iniziativa e la sua origine storica, per passare poi alla crescita e al consolidamento della stessa negli Sessanta fino all’epilogo con la crisi della siderurgia e la chiusura delle scuole determinata dalla diminuzione della “popolazione scolastica” ma anche dalla crisi dell’acciaio.

La narrazione di Irene Pozzi – perché di narrazione si tratta per il linguaggio adoperato – conduce chi legge a conoscere un’esperienza importante espressione di una cultura d’impresa la cui memoria non deve andare perduta.

L’applicazione della pedagogia montessoriana nelle scuole delle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck (1952-1993)

Irene Pozzi

Nuova Secondaria – n. 2, ottobre 2025 – anno XLIII

L’esperienza delle scuole montessoriane alla Falck

 

Attenzione dell’impresa verso le persone. Welfare d’impresa, si dice oggi. Comunque cura del benessere di chi, in fabbrica e negli uffici, lavora. Condizione non certo comune a tutte le realtà, ma sufficientemente diffusa per trovarne traccia in una serie di esempi di non poco conto.  Casi che devono essere ricordati come quello delle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck di Sesto San Giovanni che tra il 1952 e il 1993 promossero l’applicazione della pedagogia montessoriana nelle scuole destinate ai figli dei propri dipendenti.

Di quest’esperienza scrive Irene Pozzi (dell’Università di Bologna) nella sua  “L’applicazione della pedagogia montessoriana nelle scuole delle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck (1952-1993)” pubblicato recentemente su Nuova Secondaria.

L’articolo ricostruisce, a partire da fonti inedite aziendali (pubblicazioni e documenti d’archivio), le caratteristiche delle iniziative educative messe in pratica in Falck e che poterono svilupparsi grazie al sodalizio tra Maly Falck, consorte dell’allora presidente dell’azienda Giovanni Falck, e Giuliana Sorge, nota allieva diretta di Maria Montessori. Le scuole montessoriane Falck si configurarono da un lato come un esperimento educativo aziendale estremamente significativo, dall’altro come un centro importante del montessorismo del secondo dopoguerra.

La ricerca ha quindi il tratto dell’analisi pedagogica da un lato, ma anche quello di approfondimento storico e di cultura d’impresa. L’indagine di Irene Pozzi inizia con il mettere a fuoco l’impostazione educativa dell’iniziativa e la sua origine storica, per passare poi alla crescita e al consolidamento della stessa negli Sessanta fino all’epilogo con la crisi della siderurgia e la chiusura delle scuole determinata dalla diminuzione della “popolazione scolastica” ma anche dalla crisi dell’acciaio.

La narrazione di Irene Pozzi – perché di narrazione si tratta per il linguaggio adoperato – conduce chi legge a conoscere un’esperienza importante espressione di una cultura d’impresa la cui memoria non deve andare perduta.

L’applicazione della pedagogia montessoriana nelle scuole delle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck (1952-1993)

Irene Pozzi

Nuova Secondaria – n. 2, ottobre 2025 – anno XLIII

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?