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“Democrazia negoziale” e concretezza di governo per cercare di uscire da bassa crescita e alti squilibri

Come uscire dalla pandemia e soprattutto come riavviare uno sviluppo economico più robusto, socialmente inclusivo, sostenibile? Come andare oltre la fragilità messa in drammatica evidenza da società complesse e interconnesse, veloci e frenetiche, ossessionate dal progresso ma incuranti di limiti e diseguaglianze, sempre più esposte, dunque, a choc ambientali, sociali e sanitari? Insomma, come trasformare la dolorosa crisi da Covid 19 in un’opportunità di crescita migliore, proprio in un’Italia che, da molto tempo, s’è caratterizzata per “bassa crescita non inclusiva”?

C’è una questione di merito, su scelte, investimenti, riforme. E una di metodo, che ha molto a che fare con la buona politica e le relazioni tra governo, forze politiche e attori sociali: l’ultima idea di cui si discute, proprio in queste settimane di tensione, è quella della “democrazia negoziale”.

Cominciamo dal merito. Su come usare con efficacia le straordinarie risorse finanziarie messe a disposizione dall’allentamento dei vincoli Ue, dalle scelte di liquidità della Bce, dai fondi “Sure” e Mes (che sarebbe irresponsabile non usare, visto che quei 36 miliardi hanno interessi negativi o tendenti a zero e un solo vincolo, essere usati in modo generico per la sanità, il che significa ospedali nuovi e migliori, ricerca farmaceutica, qualità dell’assistenza, ma anche stimoli all’industria robotica e a quella delle apparecchiature sanitarie, peraltro due vere e proprie eccellenze hi tech italiane) e dai 170 e passa miliardi del Recovery Fund Next Generation, destinati a Green Deal e digital economy.

Il governo Conte non mostra di avere idee chiare, vive laceranti contrasti interni tra le forze politiche della coalizione, si rifugia in scelte retoriche e di propaganda (gli Stati Generali, l’inutile proposta di taglio dell’Iva, i rinvii delle scelte sul Mes, etc.) e ricorda tanto quella lucida e cinica battuta attribuita a Giulio Andreotti, “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. L’opposizione, divisa al suo interno, alterna proclami anti Europa (soprattutto la Lega) e richiami alla necessità di un “governo Draghi” (un pilastro della Ue e delle politiche Bce invise al populismo sovranista, peraltro), suggestioni da flat tax e manifestazioni di importante senso di responsabilità sull’impegno comune anti crisi (Forza Italia e il suo leader Silvio Berlusconi).

Eppure, proprio il governo ha davanti un catalogo chiaro e serio di scelte che possono essere fatte, per rimettere in moto la macchina dell’economia e guardare alla crescita di medio periodo. Ci sono le 120 schede del “Piano Colao”, molte delle quali ricche di proposte operative. Le 91 proposte “semplici” anti-burocrazia, preparate da Carlo Cottarelli e mandate sabato scorso al ministero della Pubblica amministrazione (le ha raccontare con ampiezza di dettagli “la Repubblica”). Le “proposte per lo sviluppo” contenute nel corposo volume “Italia 2030” presentato la settimana scorsa in Assolombarda e curato da dodici tra le migliori intelligenze economiche e sociali del Paese, con ampia documentazione di dati analitici e ricchezza di proposte concrete. Ma anche il primo di una serie di documenti di Confindustria, dedicato all’energia e alla competitività e già molto apprezzato dal ministro dello Sviluppo Patuanelli, mentre si preparano quelli sulle infrastrutture, la burocrazia, la produttività, il mercato del lavoro, l’innovazione, etc. Anche il Pd ha già presentato il suo “piano per l’industria”. Non mancano insomma né idee né proposte. Per non parlare di un’ampia, competente, documentata letteratura economica.

Mancano, invece, lucidità e forza politica per scegliere, avviare il confronto in Parlamento, costruire una attendibile execution dei programmi e avviare investimenti e riforme.

Si apre qui la seconda questione. Quella di metodo.

Per rimettere a posto il paese serve un impegno generale e convergente, di forze politiche e sociali, simile a quelli già sperimentati in stagioni di gravi crisi nella recente storia italiana, dall’immediato dopoguerra con la Costituzione e la ricostruzione alla risposta alla crisi economica e al terrorismo degli “anni di piombo”, sino a quel terribile 1992 in cui si sommano la crisi politica e giudiziaria di Tangentopoli, l’aggressione mafiosa allo Stato con le stragi in cui restano uccisi i due magistrati simbolo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il drammatico attacco speculativo contro la lira della tarda estate.

Se ne esce, con una convinta convergenza politica e sociale. E proprio a partire da quei primi anni Novanta, Carlo Azeglio Ciampi, da presidente del Consiglio, vara la stagione della “concertazione”, una scelta di governo che smorza i conflitti radicali con uno stile di confronto sulle risposte essenziali da dare. C’è una classe politica che, nonostante la tempesta di Tangentopoli, mette in campo personalità istituzionali di qualità. Un’imprenditoria e un sindacato concordi nel vedere nelle riforme, nella modernizzazione dell’economia e nelle privatizzazioni e poi nell’aggancio all’Europa, la via maestra per salvare l’Italia dal degrado e dal declino.

Il Quirinale, in una così difficile transizione, è il principale punto di riferimento e di garanzia, con il succedersi di personalità di grande livello, solido senso di responsabilità, robusta cultura politica e istituzionale: Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e, adesso, Sergio Mattarella.

Nella crisi attuale, risultato della pandemia e della recessione, c’è molto da fare, per rimettere in piedi un’Italia impaurita e impoverita, ferita nella salute ma soprattutto incerta sull’orizzonte di fiducia nel futuro.

Sono tempi difficili, in cui servono serietà e senso di responsabilità, non certo demagogie e illusioni sui poteri straordinari di “un uomo solo al comando”.

Ecco perché comincia a trovare spazio, nel discorso pubblico, l’idea della “democrazia negoziale”, ben illustrata in un recente saggio sull’ultimo numero del “Il Mulino” da Carlo Trigilia, professore di Sociologia economica alla Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze ed ex ministro alla coesione territoriale del governo Letta e nelle pagine del volume “Italia 2030 – Proposte per lo sviluppo” cui abbiamo fatto cenno e ripresa con convinzione dal nuovo presidente di Confindustria Carlo Bonomi.

E’ una scelta di coinvolgimento, nella preparazione delle decisioni di governo, delle forze politiche, anche d’opposizione. Di attenzione per la dialettica parlamentare. Di valorizzazione del ruolo di rappresentanza e mediazione degli attori sociali, dei “corpi intermedi”. Certo, non l’estenuante perdersi in mediazioni al ribasso in assenza di intese politiche di maggioranza (la condizione attuale). Né il gioco della discussione infinita e del rinvio. Tutt’altro. Semmai, la volontà di dare ascolto e spazio a conoscenze e competenze, interessi legittimi ben inseriti in un quadro generale, culture diffuse nella società civile. Poi, il governo decide, su investimenti e riforme. Dunque, non le passerelle mediatiche. Ma un lavoro serio, puntuale, essenziale, su cosa fare e come, sugli ostacoli da superare, sui tempi di realizzazione da rispettare.

Tramontata, almeno per ora, la stagione della “democrazia maggioritaria”, dei “partiti personali”, di una politica leaderistica fondata sull’esasperazione del consenso istantaneo (con tutte le derive sollecitate e subite dai social media), siamo adesso in una difficile fase, sociale ed economica, in cui serve ricostruire fiducia e riavviare i meccanismi della ricchezza, dell’innovazione e del benessere.

L’orizzonte possibile è quello della “crescita inclusiva”, ben diversa dalla “’alta crescita non inclusiva” del liberismo anglosassone (segnato da squilibri sociali e diseguaglianze crescenti) ma anche dalla “bassa crescita non inclusiva” tipica dell’Italia. Il punto di riferimento è la Germania, che cambia saggiamente rotta rispetto all’ortodossia ideologica dei “conti in regola” e ritrova il senso di una solida scelta di crescita inclusiva e di robusta coesione sociale, rilanciando l’Europa (forte anche della memoria della lezione di Thomas Mann: serve una Germania europea, non certo un’Europa tedesca). Sistema elettorale proporzionale (con sbarramento), governi di coalizione, coinvolgimento delle forze sociali nelle scelte.

Anche il Portogallo suggerisce strade di estremo interesse, con il coinvolgimento dell’opposizione di centro destra nelle scelte generali promosse dal presidente di centro sinistra.

E’ un’indicazione utile anche per l’Italia: la democrazia negoziale, appunto. Con forte senso di responsabilità e serio lavoro di squadra. Progetti di sviluppo ambiziosi, per uscire finalmente dalla palude dell’economia immobile. E concretezza di governo.

Come uscire dalla pandemia e soprattutto come riavviare uno sviluppo economico più robusto, socialmente inclusivo, sostenibile? Come andare oltre la fragilità messa in drammatica evidenza da società complesse e interconnesse, veloci e frenetiche, ossessionate dal progresso ma incuranti di limiti e diseguaglianze, sempre più esposte, dunque, a choc ambientali, sociali e sanitari? Insomma, come trasformare la dolorosa crisi da Covid 19 in un’opportunità di crescita migliore, proprio in un’Italia che, da molto tempo, s’è caratterizzata per “bassa crescita non inclusiva”?

C’è una questione di merito, su scelte, investimenti, riforme. E una di metodo, che ha molto a che fare con la buona politica e le relazioni tra governo, forze politiche e attori sociali: l’ultima idea di cui si discute, proprio in queste settimane di tensione, è quella della “democrazia negoziale”.

Cominciamo dal merito. Su come usare con efficacia le straordinarie risorse finanziarie messe a disposizione dall’allentamento dei vincoli Ue, dalle scelte di liquidità della Bce, dai fondi “Sure” e Mes (che sarebbe irresponsabile non usare, visto che quei 36 miliardi hanno interessi negativi o tendenti a zero e un solo vincolo, essere usati in modo generico per la sanità, il che significa ospedali nuovi e migliori, ricerca farmaceutica, qualità dell’assistenza, ma anche stimoli all’industria robotica e a quella delle apparecchiature sanitarie, peraltro due vere e proprie eccellenze hi tech italiane) e dai 170 e passa miliardi del Recovery Fund Next Generation, destinati a Green Deal e digital economy.

Il governo Conte non mostra di avere idee chiare, vive laceranti contrasti interni tra le forze politiche della coalizione, si rifugia in scelte retoriche e di propaganda (gli Stati Generali, l’inutile proposta di taglio dell’Iva, i rinvii delle scelte sul Mes, etc.) e ricorda tanto quella lucida e cinica battuta attribuita a Giulio Andreotti, “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. L’opposizione, divisa al suo interno, alterna proclami anti Europa (soprattutto la Lega) e richiami alla necessità di un “governo Draghi” (un pilastro della Ue e delle politiche Bce invise al populismo sovranista, peraltro), suggestioni da flat tax e manifestazioni di importante senso di responsabilità sull’impegno comune anti crisi (Forza Italia e il suo leader Silvio Berlusconi).

Eppure, proprio il governo ha davanti un catalogo chiaro e serio di scelte che possono essere fatte, per rimettere in moto la macchina dell’economia e guardare alla crescita di medio periodo. Ci sono le 120 schede del “Piano Colao”, molte delle quali ricche di proposte operative. Le 91 proposte “semplici” anti-burocrazia, preparate da Carlo Cottarelli e mandate sabato scorso al ministero della Pubblica amministrazione (le ha raccontare con ampiezza di dettagli “la Repubblica”). Le “proposte per lo sviluppo” contenute nel corposo volume “Italia 2030” presentato la settimana scorsa in Assolombarda e curato da dodici tra le migliori intelligenze economiche e sociali del Paese, con ampia documentazione di dati analitici e ricchezza di proposte concrete. Ma anche il primo di una serie di documenti di Confindustria, dedicato all’energia e alla competitività e già molto apprezzato dal ministro dello Sviluppo Patuanelli, mentre si preparano quelli sulle infrastrutture, la burocrazia, la produttività, il mercato del lavoro, l’innovazione, etc. Anche il Pd ha già presentato il suo “piano per l’industria”. Non mancano insomma né idee né proposte. Per non parlare di un’ampia, competente, documentata letteratura economica.

Mancano, invece, lucidità e forza politica per scegliere, avviare il confronto in Parlamento, costruire una attendibile execution dei programmi e avviare investimenti e riforme.

Si apre qui la seconda questione. Quella di metodo.

Per rimettere a posto il paese serve un impegno generale e convergente, di forze politiche e sociali, simile a quelli già sperimentati in stagioni di gravi crisi nella recente storia italiana, dall’immediato dopoguerra con la Costituzione e la ricostruzione alla risposta alla crisi economica e al terrorismo degli “anni di piombo”, sino a quel terribile 1992 in cui si sommano la crisi politica e giudiziaria di Tangentopoli, l’aggressione mafiosa allo Stato con le stragi in cui restano uccisi i due magistrati simbolo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il drammatico attacco speculativo contro la lira della tarda estate.

Se ne esce, con una convinta convergenza politica e sociale. E proprio a partire da quei primi anni Novanta, Carlo Azeglio Ciampi, da presidente del Consiglio, vara la stagione della “concertazione”, una scelta di governo che smorza i conflitti radicali con uno stile di confronto sulle risposte essenziali da dare. C’è una classe politica che, nonostante la tempesta di Tangentopoli, mette in campo personalità istituzionali di qualità. Un’imprenditoria e un sindacato concordi nel vedere nelle riforme, nella modernizzazione dell’economia e nelle privatizzazioni e poi nell’aggancio all’Europa, la via maestra per salvare l’Italia dal degrado e dal declino.

Il Quirinale, in una così difficile transizione, è il principale punto di riferimento e di garanzia, con il succedersi di personalità di grande livello, solido senso di responsabilità, robusta cultura politica e istituzionale: Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e, adesso, Sergio Mattarella.

Nella crisi attuale, risultato della pandemia e della recessione, c’è molto da fare, per rimettere in piedi un’Italia impaurita e impoverita, ferita nella salute ma soprattutto incerta sull’orizzonte di fiducia nel futuro.

Sono tempi difficili, in cui servono serietà e senso di responsabilità, non certo demagogie e illusioni sui poteri straordinari di “un uomo solo al comando”.

Ecco perché comincia a trovare spazio, nel discorso pubblico, l’idea della “democrazia negoziale”, ben illustrata in un recente saggio sull’ultimo numero del “Il Mulino” da Carlo Trigilia, professore di Sociologia economica alla Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze ed ex ministro alla coesione territoriale del governo Letta e nelle pagine del volume “Italia 2030 – Proposte per lo sviluppo” cui abbiamo fatto cenno e ripresa con convinzione dal nuovo presidente di Confindustria Carlo Bonomi.

E’ una scelta di coinvolgimento, nella preparazione delle decisioni di governo, delle forze politiche, anche d’opposizione. Di attenzione per la dialettica parlamentare. Di valorizzazione del ruolo di rappresentanza e mediazione degli attori sociali, dei “corpi intermedi”. Certo, non l’estenuante perdersi in mediazioni al ribasso in assenza di intese politiche di maggioranza (la condizione attuale). Né il gioco della discussione infinita e del rinvio. Tutt’altro. Semmai, la volontà di dare ascolto e spazio a conoscenze e competenze, interessi legittimi ben inseriti in un quadro generale, culture diffuse nella società civile. Poi, il governo decide, su investimenti e riforme. Dunque, non le passerelle mediatiche. Ma un lavoro serio, puntuale, essenziale, su cosa fare e come, sugli ostacoli da superare, sui tempi di realizzazione da rispettare.

Tramontata, almeno per ora, la stagione della “democrazia maggioritaria”, dei “partiti personali”, di una politica leaderistica fondata sull’esasperazione del consenso istantaneo (con tutte le derive sollecitate e subite dai social media), siamo adesso in una difficile fase, sociale ed economica, in cui serve ricostruire fiducia e riavviare i meccanismi della ricchezza, dell’innovazione e del benessere.

L’orizzonte possibile è quello della “crescita inclusiva”, ben diversa dalla “’alta crescita non inclusiva” del liberismo anglosassone (segnato da squilibri sociali e diseguaglianze crescenti) ma anche dalla “bassa crescita non inclusiva” tipica dell’Italia. Il punto di riferimento è la Germania, che cambia saggiamente rotta rispetto all’ortodossia ideologica dei “conti in regola” e ritrova il senso di una solida scelta di crescita inclusiva e di robusta coesione sociale, rilanciando l’Europa (forte anche della memoria della lezione di Thomas Mann: serve una Germania europea, non certo un’Europa tedesca). Sistema elettorale proporzionale (con sbarramento), governi di coalizione, coinvolgimento delle forze sociali nelle scelte.

Anche il Portogallo suggerisce strade di estremo interesse, con il coinvolgimento dell’opposizione di centro destra nelle scelte generali promosse dal presidente di centro sinistra.

E’ un’indicazione utile anche per l’Italia: la democrazia negoziale, appunto. Con forte senso di responsabilità e serio lavoro di squadra. Progetti di sviluppo ambiziosi, per uscire finalmente dalla palude dell’economia immobile. E concretezza di governo.

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