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Il rilancio del soft power per rafforzare democrazie liberali ed economie di mercato

Dici soft power e ti vengono subito in mente i confronti di idee, le discussioni culturali, i dibattiti politici, la costruzione di opinioni che passano dal buon giornalismo e da iniziative artistiche, letteratura, film. Insomma, l’opinione pubblica “discorsiva” cara a Jurgen Habermas (capace cioè di un discorso pubblico critico e ben informato) e la democrazia parlamentare, la diplomazia e la gentilezza delle relazioni tra persone diverse, in cerca di punti d’incontro, di sintesi. Poi ci pensi un po’ meglio e capisci che soft power può essere anche la manipolazione delle idee, la diffusione di fake news, l’uso dei social media per diffondere paure, ostilità, tensioni politiche e sociali. In un modo o nell’altro, il “soft power” delle storie e delle parole usate per costruirle.

Vale la pena, allora, cercare di capire un po’ meglio. E fare riferimento alla prima Soft Power Conference, organizzata nei primi giorni della settimana a Venezia, alla Fondazione Cini, da Francesco Rutelli, fondatore del Soft Power Club ed ex ministro dell’Ambiente e dei Beni culturali, oltre che ex sindaco di Roma. L’obiettivo: rilanciare il senso profondo delle idee del politologo americano Joseph Nye, professore ad Harvard e autore, nei primi anni Novanta, di una serie di studi sul tema poi sistematizzati, nel 2004, in un libro profondamente innovatore del pensiero politico contemporaneo, “Soft Power: The Means to Success in World Politics” (l’edizione italiana, per Einaudi, è del 2005).

Quel soft power è “l’altra faccia del potere”, del cosiddetto hard power, le politiche di potenza fondate sui primati militari, sulle quantità della crescita economica, sull’esercizio della forza nelle relazioni internazionali. Dopo la fine dell’equilibrio bipolare tra Usa e Urss che aveva dominato il mondo dal 1945 al 1989, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alle lunghe stagioni della “guerra fredda” e delle timide “distensioni”, sino alla caduta del Muro di Berlino e all’implosione dell’impero sovietico, gli anni Novanta e poi i Duemila sono il tempo della globalizzazione, dell’emergere di nuovi attori sulla scena internazionale, dei radicali cambiamenti dell’opinione pubblica sotto la spinta delle nuove tecnologie. Ma anche delle crisi ambientali e sociali, sino alle preoccupazioni attuali per il sommarsi della pandemia del Covid 19 e della drammatica recessione mondiale.

Serve – s’è detto a Venezia – un nuovo ordine del mondo, che rilanci i valori del dialogo, del confronto, della forza delle idee. Faccia fronte alle tensioni dei nuovi nazionalismi e dei prepotenti populismi. E coinvolga positivamente attori politici ed economici, ambienti culturali, forze sociali per costruire “le storie” che determinano e raccontano nuovi equilibri del mondo.

Di fronte alle ondate degli scontri nazionalisti e razzisti, servono le politiche di inclusione e integrazione fondate sull’assimilazione di diritti e doveri. Di fronte alla globalizzazione senza freni né regole (l’hard power del più forte), sono necessari la riforma e il rafforzamento degli organismi internazionali, con un passaggio dal free trade caro all’Ocse dei primi anni Duemila (il commercio estero privo di limiti) al fair trade, un sistema di scambi che tenga conto dei diritti ambientali, sociali e personali. Di fronte alle tentazioni e la fascino oscuro di vecchi e nuovi autoritarismi, ecco il rilancio della democrazia liberale. Di fronte ai nuovi sviluppi dell’era digitale, è indispensabile un’attenzione forte contro le manipolazioni, le fake news, gli oligopoli della rete, i rischi del cyber crime.

Sintetizza Rutelli, sul “Corriere della Sera”: “Nye, in una stagione ‘unipolare’ dominata dagli Usa, propose il valore di un equilibrio basato anche sulla reciproca comprensione tra nazioni, sul dialogo centrato sul pluralismo e sulla diversità delle culture e della stessa capacità di fare impresa. Oggi tutto è cambiato, ma l’interdipendenza globale appare ancora più forte: per contribuire a evitare che l’egoismo e le polarizzazioni radicali portino a nuovi conflitti. È necessario rilanciare uno spazio di incontro, ricordando a tutti quanto sia vitale il responsabile uso della rete e dei social media”.

L’attenzione va soprattutto all’Europa, alle istituzioni e alle scelte politiche della Ue che proprio adesso, in tempi di crisi, rilanciano le politiche di collaborazione e i valori delle democrazie liberali e dell’economia di mercato con forti valenze sociali. Il Recovery Fund “Next Generation”, rivolto ai giovani, all’ambiente, all’innovazione e a migliori equilibri sociali, è un buon esempio di uso del  soft power sia verso i cittadini europei che verso gli altri protagonisti della scena internazionale. E può ricordare gli effetti positivi di quel Piano Marshall, tanto apprezzato da Nye, con cui gli Usa guidano la ricostruzione post bellica in Europa e consolidano l’infuenza mondiale di una grande democrazia.

C’è un altro termine, caro a Nye, che ha molto a che fare con il soft power ben interpretato da uno studioso liberale: l’etica. Il suo ultimo libro ha come titolo “Do Moral Matters? Presidents and Foreign Policy from Franklyn D. Roosevelt to Trump” (appena pubblicato dalla Oxford University Press”. E sostiene che l’etica ha un ruolo centrale, pure per le relazioni internazionali, nonostante le opinioni contrarie dei “realisti” che si rifanno a Machiavelli e Hobbes. L’esempio positivo ha anche in questo caso radici in Europa: “Il liberalismo europeo, nella tradizione iluminista kantiana, afferma che certi valori sono universali e devono essere applicati anche alla politica estera” (“la Repubblica”).

Soft power, insomma, come sistema di valori e rete di rapporti di fiducia tra istituzioni e società, politica e cittadini, mercato e imprese. Per una “qualità” dello sviluppo di cui l’Occidente e l’Europa possono ancora vantare il buon esempio, l’indicazione di un paradigma positivo.

Dici soft power e ti vengono subito in mente i confronti di idee, le discussioni culturali, i dibattiti politici, la costruzione di opinioni che passano dal buon giornalismo e da iniziative artistiche, letteratura, film. Insomma, l’opinione pubblica “discorsiva” cara a Jurgen Habermas (capace cioè di un discorso pubblico critico e ben informato) e la democrazia parlamentare, la diplomazia e la gentilezza delle relazioni tra persone diverse, in cerca di punti d’incontro, di sintesi. Poi ci pensi un po’ meglio e capisci che soft power può essere anche la manipolazione delle idee, la diffusione di fake news, l’uso dei social media per diffondere paure, ostilità, tensioni politiche e sociali. In un modo o nell’altro, il “soft power” delle storie e delle parole usate per costruirle.

Vale la pena, allora, cercare di capire un po’ meglio. E fare riferimento alla prima Soft Power Conference, organizzata nei primi giorni della settimana a Venezia, alla Fondazione Cini, da Francesco Rutelli, fondatore del Soft Power Club ed ex ministro dell’Ambiente e dei Beni culturali, oltre che ex sindaco di Roma. L’obiettivo: rilanciare il senso profondo delle idee del politologo americano Joseph Nye, professore ad Harvard e autore, nei primi anni Novanta, di una serie di studi sul tema poi sistematizzati, nel 2004, in un libro profondamente innovatore del pensiero politico contemporaneo, “Soft Power: The Means to Success in World Politics” (l’edizione italiana, per Einaudi, è del 2005).

Quel soft power è “l’altra faccia del potere”, del cosiddetto hard power, le politiche di potenza fondate sui primati militari, sulle quantità della crescita economica, sull’esercizio della forza nelle relazioni internazionali. Dopo la fine dell’equilibrio bipolare tra Usa e Urss che aveva dominato il mondo dal 1945 al 1989, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alle lunghe stagioni della “guerra fredda” e delle timide “distensioni”, sino alla caduta del Muro di Berlino e all’implosione dell’impero sovietico, gli anni Novanta e poi i Duemila sono il tempo della globalizzazione, dell’emergere di nuovi attori sulla scena internazionale, dei radicali cambiamenti dell’opinione pubblica sotto la spinta delle nuove tecnologie. Ma anche delle crisi ambientali e sociali, sino alle preoccupazioni attuali per il sommarsi della pandemia del Covid 19 e della drammatica recessione mondiale.

Serve – s’è detto a Venezia – un nuovo ordine del mondo, che rilanci i valori del dialogo, del confronto, della forza delle idee. Faccia fronte alle tensioni dei nuovi nazionalismi e dei prepotenti populismi. E coinvolga positivamente attori politici ed economici, ambienti culturali, forze sociali per costruire “le storie” che determinano e raccontano nuovi equilibri del mondo.

Di fronte alle ondate degli scontri nazionalisti e razzisti, servono le politiche di inclusione e integrazione fondate sull’assimilazione di diritti e doveri. Di fronte alla globalizzazione senza freni né regole (l’hard power del più forte), sono necessari la riforma e il rafforzamento degli organismi internazionali, con un passaggio dal free trade caro all’Ocse dei primi anni Duemila (il commercio estero privo di limiti) al fair trade, un sistema di scambi che tenga conto dei diritti ambientali, sociali e personali. Di fronte alle tentazioni e la fascino oscuro di vecchi e nuovi autoritarismi, ecco il rilancio della democrazia liberale. Di fronte ai nuovi sviluppi dell’era digitale, è indispensabile un’attenzione forte contro le manipolazioni, le fake news, gli oligopoli della rete, i rischi del cyber crime.

Sintetizza Rutelli, sul “Corriere della Sera”: “Nye, in una stagione ‘unipolare’ dominata dagli Usa, propose il valore di un equilibrio basato anche sulla reciproca comprensione tra nazioni, sul dialogo centrato sul pluralismo e sulla diversità delle culture e della stessa capacità di fare impresa. Oggi tutto è cambiato, ma l’interdipendenza globale appare ancora più forte: per contribuire a evitare che l’egoismo e le polarizzazioni radicali portino a nuovi conflitti. È necessario rilanciare uno spazio di incontro, ricordando a tutti quanto sia vitale il responsabile uso della rete e dei social media”.

L’attenzione va soprattutto all’Europa, alle istituzioni e alle scelte politiche della Ue che proprio adesso, in tempi di crisi, rilanciano le politiche di collaborazione e i valori delle democrazie liberali e dell’economia di mercato con forti valenze sociali. Il Recovery Fund “Next Generation”, rivolto ai giovani, all’ambiente, all’innovazione e a migliori equilibri sociali, è un buon esempio di uso del  soft power sia verso i cittadini europei che verso gli altri protagonisti della scena internazionale. E può ricordare gli effetti positivi di quel Piano Marshall, tanto apprezzato da Nye, con cui gli Usa guidano la ricostruzione post bellica in Europa e consolidano l’infuenza mondiale di una grande democrazia.

C’è un altro termine, caro a Nye, che ha molto a che fare con il soft power ben interpretato da uno studioso liberale: l’etica. Il suo ultimo libro ha come titolo “Do Moral Matters? Presidents and Foreign Policy from Franklyn D. Roosevelt to Trump” (appena pubblicato dalla Oxford University Press”. E sostiene che l’etica ha un ruolo centrale, pure per le relazioni internazionali, nonostante le opinioni contrarie dei “realisti” che si rifanno a Machiavelli e Hobbes. L’esempio positivo ha anche in questo caso radici in Europa: “Il liberalismo europeo, nella tradizione iluminista kantiana, afferma che certi valori sono universali e devono essere applicati anche alla politica estera” (“la Repubblica”).

Soft power, insomma, come sistema di valori e rete di rapporti di fiducia tra istituzioni e società, politica e cittadini, mercato e imprese. Per una “qualità” dello sviluppo di cui l’Occidente e l’Europa possono ancora vantare il buon esempio, l’indicazione di un paradigma positivo.

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