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Investire su scuola, formazione e lavoro per usare bene il Recovery Fund della Ue

Next generation” si chiama il Recovery Fund che la Ue sta preparando per aiutare soprattutto i paesi più colpiti dalla pandemia da Covid 19 e dalla conseguente recessione a uscire dalla crisi. Fin dal nome, dunque, c’è uno sguardo verso il futuro, per dare ai giovani europei maggiori e migliori opportunità di crescita. I nomi non sono mai casuali: identificano una condizione e indicano una direzione, parlano di storia e di futuro. E proprio adesso, con sapienza in parte inaspettata e con ambizione lungimirante, l’Europa dichiara che, per uscire dalla crisi economica e sociale più grave dopo il devastante crollo economico e finanziario del 1929, bisogna rinnovare radicalmente il nostro modo di vivere e guardare alle nuove generazioni, di organizzare l’economia, la scuola, il lavoro. Anche le strade concrete lungo cui muoversi sono chiaramente indicate: green economy e digital economy. La sostenibilità ambientale e sociale e l’innovazione, la qualità della vita e delle attività professionali e la conoscenza. Cui destinare un vasto programma di investimenti pubblici e secondo cui stimolare gli investimenti privati.

E’ questo, dunque, l’orizzonte cui orientare le scelte dei governi nazionali, a cominciare da quello italiano. Proprio per “Investire sul capitale umano”, come indica il titolo di un volume curato da Assolombarda, in collaborazione con Confindustria Canavese su “il futuro della formazione”, cioè sul tema “di maggior rilievo strategico per la competitività delle imprese e lo sviluppo del Paese nel lungo termine”: le persone e “i processi di istruzione e formazione” che qualificano appunto quel capitale umano senza il quale non ci saranno né crescita economica né buoni equilibri sociali. Dunque, “futuro della formazione legato a doppio filo al futuro del lavoro”: “Imprenditori, classe dirigente, insegnanti, decisori pubblici, studenti e lavoratori, tutti sono chiamati a disegnare e a incarnare un nuovo quadro di riferimento rispondente al futuro che si prospetta e che già cominciamo a intravvedere”, sostiene Pietro Guindani, presidente di Vodafone e vicepresidente di Assolombarda con la delega su “università, innovazione e capitale umano”.

E’ un tema che comincia a trovare spazio nel discorso pubblico. Sul “Corriere della Sera” di domenica 17 maggio Ferruccio de Bortoli aveva molto insistito sulla centralità di un grande investimento sulla scuola, come luogo cardine per il miglioramento della coscienza civile e la formazione di una nuova classe dirigente, mettendo insieme risorse pubbliche e private. Altre voci autorevoli si sono aggiunte nel tempo. La questione, anche in vista della riapertura delle scuole a settembre, occupa uno spazio crescente, nell’attenzione generale, ma senza avere finora, dal governo, indicazioni chiare, efficaci, soddisfacenti. Servono scelte serie, responsabili, lungimiranti.

E’ una sfida su cui proprio le imprese sono particolarmente sensibili. Una sfida di buona politica. Che riguarda il governo e le forze politiche, ma anche gli attori sociali, le persone del mondo della cultura, tutti i cittadini che hanno a cuore lo sviluppo del Paese.

La condizione attuale della formazione, dalla scuola all’università e ai processi che legano formazione e lavoro è, purtroppo, tutt’altro che positiva. Alcuni numeri, per capire meglio.

Siamo gli ultimi in Europa per giovani laureati che, a distanza di tre anni dalla fine degli studi, hanno trovato lavoro: sono appena il 58,7%, rispetto al 93,1% di Malta, al 92,7% della Germania, al 75,7% della Francia al 73% della Spagna (dati Eurostat 2020). La crisi Covid ha ridotto ancora il tasso di occupazione. E se guardiamo meglio all’interno della statistica generale, il tasso del Mezzogiorno è molto più basso di quello medio dell’Italia: una marginalità nella marginalità. Proprio nel tempo dominato dalla “economia della conoscenza”, affrontiamo la competizione europea e internazionale poco e male attrezzati.

Avevamo già una quota di laureati molto al di sotto della media Ue, appena il 28% dei giovani tra i 30 e i 34 anni, contro il 40,3% europeo. E un tasso di abbandono della scuola del 14,5%, quart’ultimi in Europa. Intelligenze sprecate, capacità umiliate, progetti di crescita infranti. E una scala sociale, naturalmente, bloccata: senza studio non ci sono né lavoro né reddito migliori.

Il divario è aggravato proprio nel momento in cui la crisi Covid19 ha messo in evidenza anche gli effetti di una crescente “diseguaglianza digitale”. L’Agcom (l’Authority per le telecomunicazioni) ha rilevato come, di fronte a una copertura territoriale che potenzialmente consente all’88,9% delle famiglie di accedere a servizi Internet con velocità pari almeno a 30 Mbps, solo il 37,2% possiede una corrispondente connessione (“IlSole24Ore”, 8 luglio). E, ancora una volta, nel Sud va peggio: da uno studio del Censis sullo stress cui il Coronavirus ha sottoposto l’Italia emerge che nelle regioni meridionali la quota di famiglie prive di personal computer o di tablet supera il 40%, mentre nel Centro Nord si oscilla tra il 25 e il 35%. Appunto, un divario digitale grave, che condiziona anche la formazione (molti bambini e adolescenti sono rimasti tagliati fuori dalla “lezioni a distanza” e hanno perso davvero un anno scolastico) e peserà moltissimo sulle possibilità di lavoro e di futuro.

Il Rapporto DESI 2020 (Digital Economy and Society Index) della Commissione Ue conferma che l’Italia è al 25° posto tra i 28 Paesi Ue. Scarsa competenza digitale, bassa produttività, scadente competitività, economia ferma.

Proprio in base a queste considerazioni, i fondi europei vanno usati definendo programmi, tra green e digital economy, in cui scuola e formazione siano centrali. Investimenti per le infrastrutture scolastiche, materiali e immateriali. Un vasto piano di digitalizzazione, con il 5G d’impianto europeo. Un lavoro attento e di lungo periodo sulla qualità dell’insegnamento, compresa la selezione e il premio ai professori migliori. E un raccordo stretto tra formazione e lavoro. Anche qui torna in primo piano il Recovery Fund europeo: gli stimoli fiscali per Industry4.0, cardine della digital economy guidata dall’espansione della “Intelligenza artificiale” vanno estesi dagli investimenti in impianti e tecnologie a quelli sulla formazione, per persone che siano in grado di progettare e governare produzione e servizi di una data driver economy.

Proprio il rapidissimo cambiamento che investe le tecnologie pone una questione di fondo, sulla necessità di tenersi al passo con competenze a continuo rischio di usura e di superamento. E’ necessario dunque avere un sistema scolastico e universitario in cui è necessario “imparare a imparare”, acquisire cioè conoscenze critiche che nettano le persone in grado di aggiornare o modificare radicalmente le competenze acquisite, conquistarne di nuove, prepararsi a elaborare quelle che si intravvedono.

“Le nuove tecnologie possono risultare inutili se non ci sono persone con le competenze necessarie per utilizzarle. E nello stesso tempo è fondamentale che ci siano persone in grado di creare nuove tecnologie. Due aspetti tra loro strettamente connessi che, considerati nel loro insieme, costituiscono l’essenza della crescita economica”, sostiene Patrizia Paglia, presidente di Confindustria Canavese, memore dell’insegnamento di Adriano Olivetti sull’essenzialità della scuola e della formazione in generale.

C’è una seconda linea di scelte, su cui orientare gli investimenti: la formazione continua, in un processo costante che occupa tutta la vita. Per lavorare meglio, avere le opportunità di cambiare lavoro acquisendo competenze nuove. Dunque, sintetizza Guindani nel volume Assolombarda, bisogna “spingere verso una maggiore focalizzazione sulle competenze digitali e le discipline STEM” (l’acronimo che indica science, technology, engineering e mathematics); investire su percorsi di re-skilling e up-skilling, nuova e maggiore formazione professionale per i lavoratori già inseriti sul mercato. E ancora: “Promuovere le attività di orientamento, iscrivendo a pieno titolo le imprese come partner del mondo della formazione, per dare vita a corsi di laurea capaci di rispondere realmente alle esigenze di occupabilità dei giovani”. E “attribuire rinnovata dignità e visibilità sociale al comparto tecnico e professionale dell’istruzione: l’istruzione tecnica non può e non deve essere considerata una scelta secondaria rispetto ai licei”. Il quinto punto: “Riconoscere le imprese come partner formativi della scuola per la costruzione delle figure professionali del futuro, in particolare potenziando gli strumenti dell’alternanza scuola-lavoro e dell’apprendistato”.

Ma c’è anche un aspetto generale da mettere al centro della riflessione e dei programmi di investimento sulla scuola. Sapere e conoscenza sono indispensabili per lavorare e crescere di più e meglio. Ma servono soprattutto per avere, da cittadini, gli strumenti intellettuali e culturali necessari a decidere sui temi generali che, passando dalla scienza, occupano e condizionano le nostre vite. Se la democrazia è partecipazione consapevole, la conoscenza ne è cardine fondamentale.

Next generation” si chiama il Recovery Fund che la Ue sta preparando per aiutare soprattutto i paesi più colpiti dalla pandemia da Covid 19 e dalla conseguente recessione a uscire dalla crisi. Fin dal nome, dunque, c’è uno sguardo verso il futuro, per dare ai giovani europei maggiori e migliori opportunità di crescita. I nomi non sono mai casuali: identificano una condizione e indicano una direzione, parlano di storia e di futuro. E proprio adesso, con sapienza in parte inaspettata e con ambizione lungimirante, l’Europa dichiara che, per uscire dalla crisi economica e sociale più grave dopo il devastante crollo economico e finanziario del 1929, bisogna rinnovare radicalmente il nostro modo di vivere e guardare alle nuove generazioni, di organizzare l’economia, la scuola, il lavoro. Anche le strade concrete lungo cui muoversi sono chiaramente indicate: green economy e digital economy. La sostenibilità ambientale e sociale e l’innovazione, la qualità della vita e delle attività professionali e la conoscenza. Cui destinare un vasto programma di investimenti pubblici e secondo cui stimolare gli investimenti privati.

E’ questo, dunque, l’orizzonte cui orientare le scelte dei governi nazionali, a cominciare da quello italiano. Proprio per “Investire sul capitale umano”, come indica il titolo di un volume curato da Assolombarda, in collaborazione con Confindustria Canavese su “il futuro della formazione”, cioè sul tema “di maggior rilievo strategico per la competitività delle imprese e lo sviluppo del Paese nel lungo termine”: le persone e “i processi di istruzione e formazione” che qualificano appunto quel capitale umano senza il quale non ci saranno né crescita economica né buoni equilibri sociali. Dunque, “futuro della formazione legato a doppio filo al futuro del lavoro”: “Imprenditori, classe dirigente, insegnanti, decisori pubblici, studenti e lavoratori, tutti sono chiamati a disegnare e a incarnare un nuovo quadro di riferimento rispondente al futuro che si prospetta e che già cominciamo a intravvedere”, sostiene Pietro Guindani, presidente di Vodafone e vicepresidente di Assolombarda con la delega su “università, innovazione e capitale umano”.

E’ un tema che comincia a trovare spazio nel discorso pubblico. Sul “Corriere della Sera” di domenica 17 maggio Ferruccio de Bortoli aveva molto insistito sulla centralità di un grande investimento sulla scuola, come luogo cardine per il miglioramento della coscienza civile e la formazione di una nuova classe dirigente, mettendo insieme risorse pubbliche e private. Altre voci autorevoli si sono aggiunte nel tempo. La questione, anche in vista della riapertura delle scuole a settembre, occupa uno spazio crescente, nell’attenzione generale, ma senza avere finora, dal governo, indicazioni chiare, efficaci, soddisfacenti. Servono scelte serie, responsabili, lungimiranti.

E’ una sfida su cui proprio le imprese sono particolarmente sensibili. Una sfida di buona politica. Che riguarda il governo e le forze politiche, ma anche gli attori sociali, le persone del mondo della cultura, tutti i cittadini che hanno a cuore lo sviluppo del Paese.

La condizione attuale della formazione, dalla scuola all’università e ai processi che legano formazione e lavoro è, purtroppo, tutt’altro che positiva. Alcuni numeri, per capire meglio.

Siamo gli ultimi in Europa per giovani laureati che, a distanza di tre anni dalla fine degli studi, hanno trovato lavoro: sono appena il 58,7%, rispetto al 93,1% di Malta, al 92,7% della Germania, al 75,7% della Francia al 73% della Spagna (dati Eurostat 2020). La crisi Covid ha ridotto ancora il tasso di occupazione. E se guardiamo meglio all’interno della statistica generale, il tasso del Mezzogiorno è molto più basso di quello medio dell’Italia: una marginalità nella marginalità. Proprio nel tempo dominato dalla “economia della conoscenza”, affrontiamo la competizione europea e internazionale poco e male attrezzati.

Avevamo già una quota di laureati molto al di sotto della media Ue, appena il 28% dei giovani tra i 30 e i 34 anni, contro il 40,3% europeo. E un tasso di abbandono della scuola del 14,5%, quart’ultimi in Europa. Intelligenze sprecate, capacità umiliate, progetti di crescita infranti. E una scala sociale, naturalmente, bloccata: senza studio non ci sono né lavoro né reddito migliori.

Il divario è aggravato proprio nel momento in cui la crisi Covid19 ha messo in evidenza anche gli effetti di una crescente “diseguaglianza digitale”. L’Agcom (l’Authority per le telecomunicazioni) ha rilevato come, di fronte a una copertura territoriale che potenzialmente consente all’88,9% delle famiglie di accedere a servizi Internet con velocità pari almeno a 30 Mbps, solo il 37,2% possiede una corrispondente connessione (“IlSole24Ore”, 8 luglio). E, ancora una volta, nel Sud va peggio: da uno studio del Censis sullo stress cui il Coronavirus ha sottoposto l’Italia emerge che nelle regioni meridionali la quota di famiglie prive di personal computer o di tablet supera il 40%, mentre nel Centro Nord si oscilla tra il 25 e il 35%. Appunto, un divario digitale grave, che condiziona anche la formazione (molti bambini e adolescenti sono rimasti tagliati fuori dalla “lezioni a distanza” e hanno perso davvero un anno scolastico) e peserà moltissimo sulle possibilità di lavoro e di futuro.

Il Rapporto DESI 2020 (Digital Economy and Society Index) della Commissione Ue conferma che l’Italia è al 25° posto tra i 28 Paesi Ue. Scarsa competenza digitale, bassa produttività, scadente competitività, economia ferma.

Proprio in base a queste considerazioni, i fondi europei vanno usati definendo programmi, tra green e digital economy, in cui scuola e formazione siano centrali. Investimenti per le infrastrutture scolastiche, materiali e immateriali. Un vasto piano di digitalizzazione, con il 5G d’impianto europeo. Un lavoro attento e di lungo periodo sulla qualità dell’insegnamento, compresa la selezione e il premio ai professori migliori. E un raccordo stretto tra formazione e lavoro. Anche qui torna in primo piano il Recovery Fund europeo: gli stimoli fiscali per Industry4.0, cardine della digital economy guidata dall’espansione della “Intelligenza artificiale” vanno estesi dagli investimenti in impianti e tecnologie a quelli sulla formazione, per persone che siano in grado di progettare e governare produzione e servizi di una data driver economy.

Proprio il rapidissimo cambiamento che investe le tecnologie pone una questione di fondo, sulla necessità di tenersi al passo con competenze a continuo rischio di usura e di superamento. E’ necessario dunque avere un sistema scolastico e universitario in cui è necessario “imparare a imparare”, acquisire cioè conoscenze critiche che nettano le persone in grado di aggiornare o modificare radicalmente le competenze acquisite, conquistarne di nuove, prepararsi a elaborare quelle che si intravvedono.

“Le nuove tecnologie possono risultare inutili se non ci sono persone con le competenze necessarie per utilizzarle. E nello stesso tempo è fondamentale che ci siano persone in grado di creare nuove tecnologie. Due aspetti tra loro strettamente connessi che, considerati nel loro insieme, costituiscono l’essenza della crescita economica”, sostiene Patrizia Paglia, presidente di Confindustria Canavese, memore dell’insegnamento di Adriano Olivetti sull’essenzialità della scuola e della formazione in generale.

C’è una seconda linea di scelte, su cui orientare gli investimenti: la formazione continua, in un processo costante che occupa tutta la vita. Per lavorare meglio, avere le opportunità di cambiare lavoro acquisendo competenze nuove. Dunque, sintetizza Guindani nel volume Assolombarda, bisogna “spingere verso una maggiore focalizzazione sulle competenze digitali e le discipline STEM” (l’acronimo che indica science, technology, engineering e mathematics); investire su percorsi di re-skilling e up-skilling, nuova e maggiore formazione professionale per i lavoratori già inseriti sul mercato. E ancora: “Promuovere le attività di orientamento, iscrivendo a pieno titolo le imprese come partner del mondo della formazione, per dare vita a corsi di laurea capaci di rispondere realmente alle esigenze di occupabilità dei giovani”. E “attribuire rinnovata dignità e visibilità sociale al comparto tecnico e professionale dell’istruzione: l’istruzione tecnica non può e non deve essere considerata una scelta secondaria rispetto ai licei”. Il quinto punto: “Riconoscere le imprese come partner formativi della scuola per la costruzione delle figure professionali del futuro, in particolare potenziando gli strumenti dell’alternanza scuola-lavoro e dell’apprendistato”.

Ma c’è anche un aspetto generale da mettere al centro della riflessione e dei programmi di investimento sulla scuola. Sapere e conoscenza sono indispensabili per lavorare e crescere di più e meglio. Ma servono soprattutto per avere, da cittadini, gli strumenti intellettuali e culturali necessari a decidere sui temi generali che, passando dalla scienza, occupano e condizionano le nostre vite. Se la democrazia è partecipazione consapevole, la conoscenza ne è cardine fondamentale.

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