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Ecco un nuovo “Piano Delors” per l’Europa e l’Italia non può sprecare soldi in sussidi

Tutti a dire “serve un nuovo Piano Marshall”. A pensare, cioè, a un progetto di interventi straordinari per fare fronte alla crisi da pandemia e da recessione. Un progetto fatto di misure per l’emergenza (l’assistenza a chi ha perso lavoro e reddito) e di  investimenti di lungo periodo per facilitare la ripresa economica. Il riferimento è affascinante, naturalmente, anche se impreciso. Ha la forza simbolica dell’eccezionalità, dell’impegno collettivo tra lo Stato donatore (gli Usa) e i 16 paesi europei beneficiari. Ma anche i limiti politici dell’irripetibilità. E’ cambiata la mappa geopolitica, anche per gli effetti del Covid 19 che ha colpito pesantemente proprio gli Usa, dopo la Cina e più che i singoli paesi dell’Europa (il terzo paese più coinvolto dalla pandemia è la Russia). E sono cambiate le esigenze, delle condizioni di partenza (uscire rapidamente dalle macerie e dalla povertà della guerra e ricominciare massicciamente a produrre, rafforzando anche così le democrazie occidentali) e degli obiettivi.

Oggi, dopo il blocco parziale delle attività economiche in tutto il mondo o quasi, è necessario ragionare di un vero e proprio cambio di paradigma delle nostre economie, ragionando di “beni comuni” (sanità, ambiente), migliori equilibri sociali (il Covid 19 ha colpito di più i ceti sociali disagiati e le aree più popolari delle metropoli), sicurezza e qualità della vita e del lavoro. Buona parte del mondo scientifico ragiona sulle relazioni, anche non direttamente causali, tra pandemia e alterazioni climatiche e devastazioni ambientali. E cresce la consapevolezza che la chiave nuova della ripartenza deve fondarsi sui valori della sostenibilità ambientale e sociale e sulle opportunità offerte dalla digital economy e da un uso responsabile dell’Intelligenza artificiale.

Un “mondo nuovo” da ridisegnare, una “economia giusta” da costruire, seguendo le considerazioni che vengono sia da Papa Francesco sia da settori qualificati del pensiero economico e del mondo delle imprese, per un privilegio degli stakeholders values, i bisogni e gli interessi di lavoratori, clienti, fornitori, consumatori, comunità con cui le imprese stesse stabiliscono positive relazioni. Per dirla in sintesi, più che di un “nuovo Piano Marshall” servirebbe, in Europa, un “nuovo Piano Delors” fondato su investimenti ambiziosi in infrastrutture materiali (quelle digitali, innanzitutto) e immateriali (comprese ricerca, formazione, cultura, salute, sicurezza, etc.) per uno straordinario salto di qualità e sostenibilità delle economie europee.

Alcuni dati ci aiutano a ragionare meglio. Il Piano Marshall, lanciato nel 1947, valeva 12,7 miliardi di dollari in 4 anni, sino al 1951, l’equivalente dell’1,1% del Pil Usa dell’epoca. I paesi che più ne utilizzarono le risorse furono il Regno Unito (3,3 miliardi), la Francia (2,3 miliardi), la Germania occidentale (1,45 miliardi) e l’Italia (1,2 miliardi): derrate alimentari per affrontare l’incubo della fame e risorse per rimettere in funzione gli apparati produttivi (in Italia, l’accordo tra la Confindustria guidata da Angelo Costa e la Cgil di Giuseppe Di Vittorio, proprio nel 1947, aveva fissato bene le priorità: “Prima le fabbriche, poi le case”). Era un piano di grants, soldi a fondo perduto, una gigantesca donazione per dare fiato non solo alle economie, ma soprattutto per consolidare le democrazie europee nella stretta relazione con gli Usa, in opposizione  alla potenza dell’Urss e della parte dell’Europa stretta nel “Patto di Varsavia” a dominazione sovietica.

Oggi, l’equivalente di quell’1,1% del Pil Usa del 1947 varrebbe 235 miliardi di dollari. Se attualizzassimo invece i 12,7 miliardi di dollari, avremmo un valore di 156 miliardi (i calcoli sono dell’efficiente Centro Sudi di Assolombarda). Un nuovo piano Marshall oscillante tra 150 e 250 miliardi di dollari, insomma, per ragionare su numeri tondi.

La Ue ha uno sguardo molto più ambizioso, sul proprio futuro, se si mettono insieme gli oltre 1.000 miliardi di euro mobilitati dalla Bce per acquistare titoli di Stato (e dunque sostenere l’indebitamento dei singoli Paesi, a cominciare dall’Italia) e l’orizzonte di un Recovery Plan da 1.500 miliardi nel bilancio Ue 2021-2027. Nel suo discorso al Parlamento europeo del 16 aprile, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, è stata molto chiara: “L’Europa ha fatto di più nelle ultime quattro settimane di quanto non abbia fatto nei primi quattro anni dell’ultima crisi”.

Come usare bene tanti soldi? Ecco appunto l’idea del nuovo Piano Delors o, come dicono alcuni, Delors-Draghi per investimenti europei di lungo periodo, in infrastrutture comuni, fisiche e digitali e per costruire necessarie sintonie politiche di ampio respiro tra i paesi dell’Unione: “Una politica fiscale e finanziaria, una politica reale e infrastrutturale: convergenza e crescita devono andare avanti di pari passo”, ha commentato Alberto Quadrio Curzio, economista tra i più autorevoli, sull’Huffington Post (9 maggio).

Per l’Italia, questa è un’occasione straordinaria, per fare fronte alle emergenze della crisi e rilanciare la nostra economia. Ci sono sul piatto risorse europee per più di 250 miliardi di euro, tra acquisti di titoli pubblici dalla Bce (180 miliardi), fondi strutturali Ue, finanziamenti della Bei, fondi del Mes per la sanità. 60 miliardi hanno dei vincoli di destinazione (i 36 del Mes direttamente e indirettamente per la sanità, 15 contro la disoccupazione (il programma Sure), 5 come garanzia per i prestiti alle imprese, 5 per l’agricoltura.  Una grande massa di risorse finanziarie. Da non sprecare.

Tante risorse sono soprattutto prestiti, da restituire. Sarà meno pesante farlo se l’economia tornerà a crescere e a produrre ricchezza e dunque anche lavoro e risorse fiscali nelle casse dello Stato.

La sfida politica è tutta qui. Quei fondi e l’assenza dei vincoli del Patto di Stabilità, almeno finché dura la pandemia, con i suoi effetti nel medio periodo, vanno impiegati per rimettere in piedi l’economia, favorire produttività e competitività delle imprese, sostenere la modernizzazione digitale della pubblica amministrazione e dei suoi servizi, migliorare sanità e formazione, avviare un grande piano di salvaguardia e di tutela dell’ambiente e delle infrastrutture. Avviare, insomma, la ricostruzione dell’Italia.

Nel mondo politico e, purtroppo, anche nel governo, si fronteggiano due linee: quella dell’assistenza, dei sussidi, dei soldi a pioggia, della spesa pubblica corrente su cui fondare acquisizione di consenso (sostenuta da ambienti del Movimento5Stelle) e quella del lavoro, dell’economia produttiva, dei sostegni alla crescita e allo sviluppo. E’ la linea che guarda meglio e con senso di responsabilità al futuro. L’Italia assistita e improduttiva non avrebbe alcun destino migliore, se non il suo impoverimento crescente e il distacco dall’Europa.

Tutti a dire “serve un nuovo Piano Marshall”. A pensare, cioè, a un progetto di interventi straordinari per fare fronte alla crisi da pandemia e da recessione. Un progetto fatto di misure per l’emergenza (l’assistenza a chi ha perso lavoro e reddito) e di  investimenti di lungo periodo per facilitare la ripresa economica. Il riferimento è affascinante, naturalmente, anche se impreciso. Ha la forza simbolica dell’eccezionalità, dell’impegno collettivo tra lo Stato donatore (gli Usa) e i 16 paesi europei beneficiari. Ma anche i limiti politici dell’irripetibilità. E’ cambiata la mappa geopolitica, anche per gli effetti del Covid 19 che ha colpito pesantemente proprio gli Usa, dopo la Cina e più che i singoli paesi dell’Europa (il terzo paese più coinvolto dalla pandemia è la Russia). E sono cambiate le esigenze, delle condizioni di partenza (uscire rapidamente dalle macerie e dalla povertà della guerra e ricominciare massicciamente a produrre, rafforzando anche così le democrazie occidentali) e degli obiettivi.

Oggi, dopo il blocco parziale delle attività economiche in tutto il mondo o quasi, è necessario ragionare di un vero e proprio cambio di paradigma delle nostre economie, ragionando di “beni comuni” (sanità, ambiente), migliori equilibri sociali (il Covid 19 ha colpito di più i ceti sociali disagiati e le aree più popolari delle metropoli), sicurezza e qualità della vita e del lavoro. Buona parte del mondo scientifico ragiona sulle relazioni, anche non direttamente causali, tra pandemia e alterazioni climatiche e devastazioni ambientali. E cresce la consapevolezza che la chiave nuova della ripartenza deve fondarsi sui valori della sostenibilità ambientale e sociale e sulle opportunità offerte dalla digital economy e da un uso responsabile dell’Intelligenza artificiale.

Un “mondo nuovo” da ridisegnare, una “economia giusta” da costruire, seguendo le considerazioni che vengono sia da Papa Francesco sia da settori qualificati del pensiero economico e del mondo delle imprese, per un privilegio degli stakeholders values, i bisogni e gli interessi di lavoratori, clienti, fornitori, consumatori, comunità con cui le imprese stesse stabiliscono positive relazioni. Per dirla in sintesi, più che di un “nuovo Piano Marshall” servirebbe, in Europa, un “nuovo Piano Delors” fondato su investimenti ambiziosi in infrastrutture materiali (quelle digitali, innanzitutto) e immateriali (comprese ricerca, formazione, cultura, salute, sicurezza, etc.) per uno straordinario salto di qualità e sostenibilità delle economie europee.

Alcuni dati ci aiutano a ragionare meglio. Il Piano Marshall, lanciato nel 1947, valeva 12,7 miliardi di dollari in 4 anni, sino al 1951, l’equivalente dell’1,1% del Pil Usa dell’epoca. I paesi che più ne utilizzarono le risorse furono il Regno Unito (3,3 miliardi), la Francia (2,3 miliardi), la Germania occidentale (1,45 miliardi) e l’Italia (1,2 miliardi): derrate alimentari per affrontare l’incubo della fame e risorse per rimettere in funzione gli apparati produttivi (in Italia, l’accordo tra la Confindustria guidata da Angelo Costa e la Cgil di Giuseppe Di Vittorio, proprio nel 1947, aveva fissato bene le priorità: “Prima le fabbriche, poi le case”). Era un piano di grants, soldi a fondo perduto, una gigantesca donazione per dare fiato non solo alle economie, ma soprattutto per consolidare le democrazie europee nella stretta relazione con gli Usa, in opposizione  alla potenza dell’Urss e della parte dell’Europa stretta nel “Patto di Varsavia” a dominazione sovietica.

Oggi, l’equivalente di quell’1,1% del Pil Usa del 1947 varrebbe 235 miliardi di dollari. Se attualizzassimo invece i 12,7 miliardi di dollari, avremmo un valore di 156 miliardi (i calcoli sono dell’efficiente Centro Sudi di Assolombarda). Un nuovo piano Marshall oscillante tra 150 e 250 miliardi di dollari, insomma, per ragionare su numeri tondi.

La Ue ha uno sguardo molto più ambizioso, sul proprio futuro, se si mettono insieme gli oltre 1.000 miliardi di euro mobilitati dalla Bce per acquistare titoli di Stato (e dunque sostenere l’indebitamento dei singoli Paesi, a cominciare dall’Italia) e l’orizzonte di un Recovery Plan da 1.500 miliardi nel bilancio Ue 2021-2027. Nel suo discorso al Parlamento europeo del 16 aprile, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, è stata molto chiara: “L’Europa ha fatto di più nelle ultime quattro settimane di quanto non abbia fatto nei primi quattro anni dell’ultima crisi”.

Come usare bene tanti soldi? Ecco appunto l’idea del nuovo Piano Delors o, come dicono alcuni, Delors-Draghi per investimenti europei di lungo periodo, in infrastrutture comuni, fisiche e digitali e per costruire necessarie sintonie politiche di ampio respiro tra i paesi dell’Unione: “Una politica fiscale e finanziaria, una politica reale e infrastrutturale: convergenza e crescita devono andare avanti di pari passo”, ha commentato Alberto Quadrio Curzio, economista tra i più autorevoli, sull’Huffington Post (9 maggio).

Per l’Italia, questa è un’occasione straordinaria, per fare fronte alle emergenze della crisi e rilanciare la nostra economia. Ci sono sul piatto risorse europee per più di 250 miliardi di euro, tra acquisti di titoli pubblici dalla Bce (180 miliardi), fondi strutturali Ue, finanziamenti della Bei, fondi del Mes per la sanità. 60 miliardi hanno dei vincoli di destinazione (i 36 del Mes direttamente e indirettamente per la sanità, 15 contro la disoccupazione (il programma Sure), 5 come garanzia per i prestiti alle imprese, 5 per l’agricoltura.  Una grande massa di risorse finanziarie. Da non sprecare.

Tante risorse sono soprattutto prestiti, da restituire. Sarà meno pesante farlo se l’economia tornerà a crescere e a produrre ricchezza e dunque anche lavoro e risorse fiscali nelle casse dello Stato.

La sfida politica è tutta qui. Quei fondi e l’assenza dei vincoli del Patto di Stabilità, almeno finché dura la pandemia, con i suoi effetti nel medio periodo, vanno impiegati per rimettere in piedi l’economia, favorire produttività e competitività delle imprese, sostenere la modernizzazione digitale della pubblica amministrazione e dei suoi servizi, migliorare sanità e formazione, avviare un grande piano di salvaguardia e di tutela dell’ambiente e delle infrastrutture. Avviare, insomma, la ricostruzione dell’Italia.

Nel mondo politico e, purtroppo, anche nel governo, si fronteggiano due linee: quella dell’assistenza, dei sussidi, dei soldi a pioggia, della spesa pubblica corrente su cui fondare acquisizione di consenso (sostenuta da ambienti del Movimento5Stelle) e quella del lavoro, dell’economia produttiva, dei sostegni alla crescita e allo sviluppo. E’ la linea che guarda meglio e con senso di responsabilità al futuro. L’Italia assistita e improduttiva non avrebbe alcun destino migliore, se non il suo impoverimento crescente e il distacco dall’Europa.

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