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Beethoven in fabbrica, la musica classica rivive nei luoghi del lavoro

Ridare, alla musica classica, il suo ruolo di protagonista della grande cultura popolare, con la consapevolezza che le persone non hanno mai smesso di amarla e, semmai, anche tra le nuove generazioni, chiedono relazioni più aperte, intense, cariche d’intelligenza e di emozioni. E legare i concerti, le sinfonie, le sonate ai luoghi di lavoro: cultura “alta” e contemporaneamente, appunto, popolare, dimensione straordinaria di una sintonia molto originale, in cui proprio la cultura italiana, durante tutto il corso del Novecento, ha fornito all’Europa innovative elaborazioni, originali sintesi. Sta qui, il senso della relazione d’una grande impresa italiana e internazionale, come la Pirelli e un festival prestigioso come MiTo Settembre Musica (quasi un mese di concerti tra Milano e Torino). E si ribadisce il valore dell’esperienza dei concerti in fabbrica, ripetuta lunedì sera al Polo Industriale di Settimo Torinese, con i calorosi applausi di mille persone per l’Orchestra Filarmonica di Torino diretta da Micha Haimel, impegnata nell’esecuzione di due sinfonie di Beethoven, la Prima e la Settima. “La Settima a Settimo”, per dirla con una battuta di brillante comunicazione. Beethoven accanto ai robot e ai laboratori di ricerca del più moderno stabilimento industriale della Pirelli, davanti alla “spina” dei servizi progettata da Renzo Piano, tra cinquecento alberi di ciliegi, fabbrica bella ed efficiente, funzionale e sostenibile. E, adesso, anche molto musicale.

C’è, d’altronde, una tradizione europea, che lega la musica ai luoghi del lavoro. Nella Vienna a cavallo tra Ottocento e Novecento, con i concerti per lavoratori: opere classiche per un pubblico nuovo e diverso dalla tradizionale utenza borghese e composizioni all’epoca contemporanee (per fare solo un esempio: le sinfonie di Mahler dirette dal giovane Webern). E nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, con l’impegno di musicisti come Luigi Nono, Claudio Abbado e Maurizio Pollini, sensibilità ed esperienze differenti per “illuminare la fabbrica”. La Fondazione Pirelli ha voluto riagganciarsi a questa tradizione, innovando, come s’addice alla buona cultura d’impresa. Con i primi concerti in fabbrica, a Settimo, sempre nell’ambito di MiTo, nel 2010 e nel 2011. O ospitando, un paio di volte all’anno, nell’Auditorium dell’head quarter Pirelli in Bicocca, le prove dell’Orchestra da Camera Italiana diretta dal maestro Salvatore Accardo, uno dei maggiori violinisti internazionali (la prova generale, Bach e Dvorak, stavolta, è un concerto dedicato ai dipendenti Pirelli e alle loro famiglie, mentre i loro bambini sono ammessi all’inizio delle singole prove, per costruire una divertente familiarità con violini, viole e violoncelli). O ancora dedicando ai “pirelliani” i biglietti del sostegno all’Orchestra Verdi di Milano. Lavoro e musica, appunto.

Esiste un nesso profondo, d’altronde, tra operare con consapevolezza in un’impresa e fare musica. Nel costruire comportamenti armonici, mettere insieme persone, accordare strumenti. E imparare a ricondurre a unità originali espressioni e, perché no? dissonanze. Nei precedenti concerti erano stati centrali il lavoro e il suo “suono”, la fatica dell’esecuzione, la ricerca del massimo della qualità. La fabbrica è fatta da persone al lavoro. I gesti delle mani, svelte e capaci. E i movimenti delle macchine. La fabbrica è un ritmo. Voci e rumori. Che diventano un suono. La fabbrica ha una sua musica. E la musica può entrare in fabbrica. L’industria ha una sua cultura. E la cultura può, anzi deve ritrovarsi negli spazi dell’industria.

La sintesi? Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie.

Si torna al binomio tradizione e innovazione. La scelta, per quest’ultimo concerto, di Beethoven, ne è conferma: la sua musica ha robuste radici nei canoni del miglior Settecento, interpreta una vivace attualità romantica e rappresenta la monumentalità del “classico” ma preannuncia anche le composizioni di parecchi decenni dopo di lui. Straordinaria creatività. E rigorosissima strumentazione. Tradizione. E innovazione.

Anche il luogo scelto ha grande rilevanza. Dopo la Grande Crisi, l’industria è tornata al centro dell’economia. Si parla di “rinascimento manifatturiero”. Lo stabilimento di Settimo testimonia come sia cambiata e cresciuta la fabbrica, con le tecnologie più sofisticate. Metamorfosi. Impresa è cultura, nel segno della contemporaneità.”Realizzare un concerto in fabbrica – conferma Micha Hamel, che ha diretto l’Orchestra Filarmonica di Torino al Polo di Settimo – dà un senso di unicità e al tempo stesso l’idea che sta avvenendo qualcosa di nuovo. La musica entra in un luogo inusuale. Si va fuori dagli schemi. Artisticamente, è un concetto molto importante”.

E’ appunto questa la consapevolezza che ha ispirato tutta l’esperienza della musica in fabbrica. Fin dal primo, il 13 settembre 2010, nel vecchio stabilimento Pirelli, alla vigilia della sua chiusura (per dare vita al Nuovo Polo). Sul palco, I Fiati di Torino, musicisti dell’Orchestra Sinfonica della Rai torinese. Sullo sfondo, i pneumatici prodotti nello stabilimento. In platea, il cortile dell’azienda, oltre quattrocento persone. Per ascoltare le musiche di Mozart, Bach e Beethoven, Berio e Gabrieli, Saglietti e Stravinskij: dal Settecento alla contemporaneità. Una doppia valenza, del suono e dei luoghi. E’ stato un concerto per ottoni, gli strumenti che ricordano la materia metallica, parente simbolica di quella con cui sono fatte le macchine. Ed è stato un gioco di armonie, per suggerire quel che il lavoro può e deve tendere a essere, anche quando quell’armonia è difficile.

Adesso che le tecnologie innovative rendono più vario, ricco e complesso il lavoro, la musica può trovare un nuovo spazio, una più intensa attualità. Riascoltando il “classico”. E ambientando con inedite suggestioni la contemporaneità. Culture di sperimentazioni. E di ricerca di novità. L’innovazione è anche un linguaggio. 

Per il secondo concerto, il 9 settembre 2011, l’orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali di Milano, diretta da Luca Pfaff. Il luogo è il grande magazzino del nuovo stabilimento del Polo. In lontananza, rumore di macchine al lavoro, appena un’eco leggero. E’ fabbrica, no? In programma, davanti a settecento persone, brani di Stravinskij, Milhaud, Honegger e De Falla. E’ la musica del Novecento. Il secolo dei grandi cambiamenti. Economia, cultura, politica, società ne sono state coinvolte. Modificate le relazioni sociali, più dinamiche, conflittuali. Trasformati gli stessi linguaggi: fare cose nuove, e dirle con espressioni più adeguate.  E Novecento vuol dire industria, una complessità che occupa la scena dell’innovazione, suscita profondi rivolgimenti, coinvolge milioni di uomini e donne, il loro lavoro, i loro rapporti. Tecnologia, naturalmente. Ma anche un universo d’inedite responsabilità, un coacervo di protagonismi, contrastanti rivendicazioni e modifiche di diritti e doveri. Novecento è parole, immagini, movimento. Rumori mai prima ascoltati. E suoni. Si scompongono e ricompongono letteratura, arte figurativa, musica. Tramontano le forme classiche. La nuova forma è la ricerca. Che ancora continua, nei nostri tempi incerti.

Riflettere sul Novecento, con la sua musica in fabbrica, vuol dire dunque non solo interrogarci criticamente sulle nostre radici recenti, ma anche provare a costruire, sulla stessa memoria, una nuova epistemologia della post-modernità e cercare di tracciare linee futuribili d’un migliore destino. Per un’umanità in movimento. L’ascolto musicale può aiutare a comprendere il senso profondo delle mutazioni, sia del lavoro, sia delle relazioni connesse. La cultura d’impresa costruisce la sua colonna sonora. Sino alle suggestioni di Beethoven, nel concerto di ieri. Sinfonia classica. E contemporaneità. 

Ridare, alla musica classica, il suo ruolo di protagonista della grande cultura popolare, con la consapevolezza che le persone non hanno mai smesso di amarla e, semmai, anche tra le nuove generazioni, chiedono relazioni più aperte, intense, cariche d’intelligenza e di emozioni. E legare i concerti, le sinfonie, le sonate ai luoghi di lavoro: cultura “alta” e contemporaneamente, appunto, popolare, dimensione straordinaria di una sintonia molto originale, in cui proprio la cultura italiana, durante tutto il corso del Novecento, ha fornito all’Europa innovative elaborazioni, originali sintesi. Sta qui, il senso della relazione d’una grande impresa italiana e internazionale, come la Pirelli e un festival prestigioso come MiTo Settembre Musica (quasi un mese di concerti tra Milano e Torino). E si ribadisce il valore dell’esperienza dei concerti in fabbrica, ripetuta lunedì sera al Polo Industriale di Settimo Torinese, con i calorosi applausi di mille persone per l’Orchestra Filarmonica di Torino diretta da Micha Haimel, impegnata nell’esecuzione di due sinfonie di Beethoven, la Prima e la Settima. “La Settima a Settimo”, per dirla con una battuta di brillante comunicazione. Beethoven accanto ai robot e ai laboratori di ricerca del più moderno stabilimento industriale della Pirelli, davanti alla “spina” dei servizi progettata da Renzo Piano, tra cinquecento alberi di ciliegi, fabbrica bella ed efficiente, funzionale e sostenibile. E, adesso, anche molto musicale.

C’è, d’altronde, una tradizione europea, che lega la musica ai luoghi del lavoro. Nella Vienna a cavallo tra Ottocento e Novecento, con i concerti per lavoratori: opere classiche per un pubblico nuovo e diverso dalla tradizionale utenza borghese e composizioni all’epoca contemporanee (per fare solo un esempio: le sinfonie di Mahler dirette dal giovane Webern). E nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, con l’impegno di musicisti come Luigi Nono, Claudio Abbado e Maurizio Pollini, sensibilità ed esperienze differenti per “illuminare la fabbrica”. La Fondazione Pirelli ha voluto riagganciarsi a questa tradizione, innovando, come s’addice alla buona cultura d’impresa. Con i primi concerti in fabbrica, a Settimo, sempre nell’ambito di MiTo, nel 2010 e nel 2011. O ospitando, un paio di volte all’anno, nell’Auditorium dell’head quarter Pirelli in Bicocca, le prove dell’Orchestra da Camera Italiana diretta dal maestro Salvatore Accardo, uno dei maggiori violinisti internazionali (la prova generale, Bach e Dvorak, stavolta, è un concerto dedicato ai dipendenti Pirelli e alle loro famiglie, mentre i loro bambini sono ammessi all’inizio delle singole prove, per costruire una divertente familiarità con violini, viole e violoncelli). O ancora dedicando ai “pirelliani” i biglietti del sostegno all’Orchestra Verdi di Milano. Lavoro e musica, appunto.

Esiste un nesso profondo, d’altronde, tra operare con consapevolezza in un’impresa e fare musica. Nel costruire comportamenti armonici, mettere insieme persone, accordare strumenti. E imparare a ricondurre a unità originali espressioni e, perché no? dissonanze. Nei precedenti concerti erano stati centrali il lavoro e il suo “suono”, la fatica dell’esecuzione, la ricerca del massimo della qualità. La fabbrica è fatta da persone al lavoro. I gesti delle mani, svelte e capaci. E i movimenti delle macchine. La fabbrica è un ritmo. Voci e rumori. Che diventano un suono. La fabbrica ha una sua musica. E la musica può entrare in fabbrica. L’industria ha una sua cultura. E la cultura può, anzi deve ritrovarsi negli spazi dell’industria.

La sintesi? Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie.

Si torna al binomio tradizione e innovazione. La scelta, per quest’ultimo concerto, di Beethoven, ne è conferma: la sua musica ha robuste radici nei canoni del miglior Settecento, interpreta una vivace attualità romantica e rappresenta la monumentalità del “classico” ma preannuncia anche le composizioni di parecchi decenni dopo di lui. Straordinaria creatività. E rigorosissima strumentazione. Tradizione. E innovazione.

Anche il luogo scelto ha grande rilevanza. Dopo la Grande Crisi, l’industria è tornata al centro dell’economia. Si parla di “rinascimento manifatturiero”. Lo stabilimento di Settimo testimonia come sia cambiata e cresciuta la fabbrica, con le tecnologie più sofisticate. Metamorfosi. Impresa è cultura, nel segno della contemporaneità.”Realizzare un concerto in fabbrica – conferma Micha Hamel, che ha diretto l’Orchestra Filarmonica di Torino al Polo di Settimo – dà un senso di unicità e al tempo stesso l’idea che sta avvenendo qualcosa di nuovo. La musica entra in un luogo inusuale. Si va fuori dagli schemi. Artisticamente, è un concetto molto importante”.

E’ appunto questa la consapevolezza che ha ispirato tutta l’esperienza della musica in fabbrica. Fin dal primo, il 13 settembre 2010, nel vecchio stabilimento Pirelli, alla vigilia della sua chiusura (per dare vita al Nuovo Polo). Sul palco, I Fiati di Torino, musicisti dell’Orchestra Sinfonica della Rai torinese. Sullo sfondo, i pneumatici prodotti nello stabilimento. In platea, il cortile dell’azienda, oltre quattrocento persone. Per ascoltare le musiche di Mozart, Bach e Beethoven, Berio e Gabrieli, Saglietti e Stravinskij: dal Settecento alla contemporaneità. Una doppia valenza, del suono e dei luoghi. E’ stato un concerto per ottoni, gli strumenti che ricordano la materia metallica, parente simbolica di quella con cui sono fatte le macchine. Ed è stato un gioco di armonie, per suggerire quel che il lavoro può e deve tendere a essere, anche quando quell’armonia è difficile.

Adesso che le tecnologie innovative rendono più vario, ricco e complesso il lavoro, la musica può trovare un nuovo spazio, una più intensa attualità. Riascoltando il “classico”. E ambientando con inedite suggestioni la contemporaneità. Culture di sperimentazioni. E di ricerca di novità. L’innovazione è anche un linguaggio. 

Per il secondo concerto, il 9 settembre 2011, l’orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali di Milano, diretta da Luca Pfaff. Il luogo è il grande magazzino del nuovo stabilimento del Polo. In lontananza, rumore di macchine al lavoro, appena un’eco leggero. E’ fabbrica, no? In programma, davanti a settecento persone, brani di Stravinskij, Milhaud, Honegger e De Falla. E’ la musica del Novecento. Il secolo dei grandi cambiamenti. Economia, cultura, politica, società ne sono state coinvolte. Modificate le relazioni sociali, più dinamiche, conflittuali. Trasformati gli stessi linguaggi: fare cose nuove, e dirle con espressioni più adeguate.  E Novecento vuol dire industria, una complessità che occupa la scena dell’innovazione, suscita profondi rivolgimenti, coinvolge milioni di uomini e donne, il loro lavoro, i loro rapporti. Tecnologia, naturalmente. Ma anche un universo d’inedite responsabilità, un coacervo di protagonismi, contrastanti rivendicazioni e modifiche di diritti e doveri. Novecento è parole, immagini, movimento. Rumori mai prima ascoltati. E suoni. Si scompongono e ricompongono letteratura, arte figurativa, musica. Tramontano le forme classiche. La nuova forma è la ricerca. Che ancora continua, nei nostri tempi incerti.

Riflettere sul Novecento, con la sua musica in fabbrica, vuol dire dunque non solo interrogarci criticamente sulle nostre radici recenti, ma anche provare a costruire, sulla stessa memoria, una nuova epistemologia della post-modernità e cercare di tracciare linee futuribili d’un migliore destino. Per un’umanità in movimento. L’ascolto musicale può aiutare a comprendere il senso profondo delle mutazioni, sia del lavoro, sia delle relazioni connesse. La cultura d’impresa costruisce la sua colonna sonora. Sino alle suggestioni di Beethoven, nel concerto di ieri. Sinfonia classica. E contemporaneità. 

Responsabilità sociale e bilanci. Dov’è l’equilibrio?

La responsabilità sociale d’impresa è importante. Ma lo sono anche l’assetto di bilancio e le prospettive di mercato aziendali. Soprattutto, poi, l’attenzione “al sociale” da parte degli imprenditori e delle loro creature, non è cosa di oggi. Capirne l’evoluzione è quindi utile per comprenderne l’assetto attuale e le prospettive e la stessa evoluzione della cultura d’impresa dietro al tutto.

Leggere la nota di Panda Snigdharani – che insegna al Kalinga Institute of Social Sciences (KISS) della KIIT University di Bhubaneswar-Odisha in India -, apparsa qualche settimana fa sull’International Journal of Management, IT and Engineering è utile per capire meglio i legami fra responsabilità sociale d’impresa, sostenibilità della produzione e prospettive di mercato.

L’articolo parte da una constatazione semplice. Le attività di responsabilità sociale d’impresa – dice Panda Snigdharani  -, non sono una novità: “Hanno già più di 100 anni di storia”. Oggi però, “le aziende di tutto il mondo sono alle prese con un nuovo ruolo, che è quello di soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”, spiega la ricerca. E’ per questo che “le organizzazioni sono chiamate ad assumersi la responsabilità delle loro operazioni sull’ambiente naturale”.

Equilibrio difficile, quello di far quadrare i bilanci con le prospettive di sostenibilità ambientale della propria attività, che implica capacità di visione futura e di calcolo del presente.

Per Panda Snigdharani il perno attorno al quale ruota il ragionamento è proprio quello della “sostenibilità”. La ricerca intende quindi per “sostenibilità” le attività che dimostrano la comprensione “delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle operazioni aziendali e nelle interazioni con gli stakeholder”.

Tutto questo, però, non  deve essere inteso come un freno alla crescita dell’impresa. Attraverso una chiara indagine sulla storia e sulla situazione attuale della responsabilità sociale d’impresa, l’articolo infatti spiega che le attività di responsabilità sociale d’impresa possono aiutare efficacemente la “sostenibilità del business”.

Insomma, l’attenzione agli altri aiuta a crescere. Anche le imprese.

Corporate social responsibility: the mantra for business sustainability

Panda Snigdharani (Lecturer, Commerce, KISS, KIIT)

International Journal of Management, IT and Engineering

2014, Volume 4, Issue 7

La responsabilità sociale d’impresa è importante. Ma lo sono anche l’assetto di bilancio e le prospettive di mercato aziendali. Soprattutto, poi, l’attenzione “al sociale” da parte degli imprenditori e delle loro creature, non è cosa di oggi. Capirne l’evoluzione è quindi utile per comprenderne l’assetto attuale e le prospettive e la stessa evoluzione della cultura d’impresa dietro al tutto.

Leggere la nota di Panda Snigdharani – che insegna al Kalinga Institute of Social Sciences (KISS) della KIIT University di Bhubaneswar-Odisha in India -, apparsa qualche settimana fa sull’International Journal of Management, IT and Engineering è utile per capire meglio i legami fra responsabilità sociale d’impresa, sostenibilità della produzione e prospettive di mercato.

L’articolo parte da una constatazione semplice. Le attività di responsabilità sociale d’impresa – dice Panda Snigdharani  -, non sono una novità: “Hanno già più di 100 anni di storia”. Oggi però, “le aziende di tutto il mondo sono alle prese con un nuovo ruolo, che è quello di soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”, spiega la ricerca. E’ per questo che “le organizzazioni sono chiamate ad assumersi la responsabilità delle loro operazioni sull’ambiente naturale”.

Equilibrio difficile, quello di far quadrare i bilanci con le prospettive di sostenibilità ambientale della propria attività, che implica capacità di visione futura e di calcolo del presente.

Per Panda Snigdharani il perno attorno al quale ruota il ragionamento è proprio quello della “sostenibilità”. La ricerca intende quindi per “sostenibilità” le attività che dimostrano la comprensione “delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle operazioni aziendali e nelle interazioni con gli stakeholder”.

Tutto questo, però, non  deve essere inteso come un freno alla crescita dell’impresa. Attraverso una chiara indagine sulla storia e sulla situazione attuale della responsabilità sociale d’impresa, l’articolo infatti spiega che le attività di responsabilità sociale d’impresa possono aiutare efficacemente la “sostenibilità del business”.

Insomma, l’attenzione agli altri aiuta a crescere. Anche le imprese.

Corporate social responsibility: the mantra for business sustainability

Panda Snigdharani (Lecturer, Commerce, KISS, KIIT)

International Journal of Management, IT and Engineering

2014, Volume 4, Issue 7

Imprese e prosumers

Si cambia, e tutto. E’ di fronte ad una constatazione di questo genere che si trova oggi un numero crescente di imprese. Almeno quelle che vogliono sopravvivere e svilupparsi per davvero di fronte all’evoluzione dei mercati, delle modalità di produzione e di approccio all’esterno. E tutto, fra l’altro, deve mutare in fretta, velocemente, spesso quasi istantaneamente. Tanto che capita di vincere con la velocità e non con la qualità di ciò che si fa. Cambia – deve cambiare, anzi -, prima di tutto la cultura d’impresa, il nocciolo vivo del produrre.

In questo ambito, fa bene leggere “La società a costo marginale zero” di Jeremy Rifkin appena pubblicato (ovviamente anche in formato e-book oltre che cartaceo).

La tesi di Rifkin è tutto sommato semplice e sostiene che si sta affermando sulla scena mondiale un nuovo sistema economico che prende il nome di “Commons collaborativo” e che deve tutto all’“Internet delle cose”. Un assetto delle cose che potrebbe spazzare via – per Rifkin di fatto sta già accadendo – il capitalismo e il socialismo.

Ma non si tratta di una rivoluzione che ci porterà verso la distruzione. Niente affatto. Rifkin spiega che il “Commons collaborativo” sta trasformando il nostro modo di organizzare la vita economica, facendo intravvedere la possibilità di una drastica riduzione delle disparità di reddito, democratizzando l’economia globale e dando vita a una società ecologicamente più sostenibile. Motore di questa rivoluzione è l’”Internet delle cose”, un’infrastruttura intelligente formata dal virtuoso intreccio di Internet delle comunicazioni, Internet dell’energia e Internet della logistica, e che avrà l’effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale di numerosi beni e servizi sarà quasi azzerato, rendendo gli uni e gli altri praticamente gratuiti, abbondanti e non più soggetti alle forze del mercato. Un’altra economia, tutta da scrivere.

Già oggi, comunque, qualcosa sta cambiando. Per Rifkin, il diffondersi  del costo marginale zero sta generando un’economia ibrida, in parte orientata al mercato capitalistico e in parte, appunto, al “Commons collaborativo”. Emergono quelli che Rifkin indica come prosumers cioè consumatori diventati produttori in proprio che generano e condividono informazioni, intrattenimento, energia verde e prodotti realizzati con la stampa 3D a costi marginali quasi nulli. Ma non solo. Sempre loro condividono anche automobili, case, vestiti e altri oggetti attraverso i social media a costi marginali bassi o quasi nulli. L’autore fa gli esempi degli studenti che si iscrivono a corsi gratuiti online che funzionano a costi marginali quasi nulli; e dei giovani imprenditori sociali che evitano l’establishment bancario attraverso il crowdfunding per finanziare attività ecologicamente sensibili in una nuova economia che utilizza monete alternative.

Si genera – spiega il volume – una equivalenza fra capitale sociale e capitale finanziario, mentre la libertà di accesso prevale sulla proprietà, la sostenibilità soppianta il consumismo, la cooperazione spodesta la concorrenza, e il “valore di scambio” nel mercato capitalistico viene gradualmente sostituito dal “valore della condivisione”.

Certo, il capitalismo – conclude Rifkin – sopravviverà a lungo ma entro la fine di questo secolo non sarà più l’arbitro esclusivo della vita economica. Tutto senza contare i mille sfridi che si creano nelle epoche di trasformazione, i ritardi e le accelerazioni che convivono insieme, i progressi che vanno di pari passo con i rallentamenti e i blocchi.

Utopia? Allucinazioni positive di un visionario? Difficile dare giudizi definitivi. La  tesi di Rifkin, tuttavia, è da esaminare con attenzione. E tocca nel profondo l’assetto delle imprese dell’oggi, la loro cultura, il loro approccio verso la produzione e il mercato. Leggere Rifkin come al solito significare leggere qualcosa di provocante: sale sulle ferite delle imprese e del lavoro, ma anche sale utile per stimolare l’appetito del voler capire di più, ragionare meglio sul presente, guardare con maggiore attenzione al futuro.

La nuova società a costo marginale zero. L’Internet delle cose, l’ascesa dei commons collaborativi e l’eclissi del capitalismo

Jeremy Rifkin

Mondadori, settembre 2014

Si cambia, e tutto. E’ di fronte ad una constatazione di questo genere che si trova oggi un numero crescente di imprese. Almeno quelle che vogliono sopravvivere e svilupparsi per davvero di fronte all’evoluzione dei mercati, delle modalità di produzione e di approccio all’esterno. E tutto, fra l’altro, deve mutare in fretta, velocemente, spesso quasi istantaneamente. Tanto che capita di vincere con la velocità e non con la qualità di ciò che si fa. Cambia – deve cambiare, anzi -, prima di tutto la cultura d’impresa, il nocciolo vivo del produrre.

In questo ambito, fa bene leggere “La società a costo marginale zero” di Jeremy Rifkin appena pubblicato (ovviamente anche in formato e-book oltre che cartaceo).

La tesi di Rifkin è tutto sommato semplice e sostiene che si sta affermando sulla scena mondiale un nuovo sistema economico che prende il nome di “Commons collaborativo” e che deve tutto all’“Internet delle cose”. Un assetto delle cose che potrebbe spazzare via – per Rifkin di fatto sta già accadendo – il capitalismo e il socialismo.

Ma non si tratta di una rivoluzione che ci porterà verso la distruzione. Niente affatto. Rifkin spiega che il “Commons collaborativo” sta trasformando il nostro modo di organizzare la vita economica, facendo intravvedere la possibilità di una drastica riduzione delle disparità di reddito, democratizzando l’economia globale e dando vita a una società ecologicamente più sostenibile. Motore di questa rivoluzione è l’”Internet delle cose”, un’infrastruttura intelligente formata dal virtuoso intreccio di Internet delle comunicazioni, Internet dell’energia e Internet della logistica, e che avrà l’effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale di numerosi beni e servizi sarà quasi azzerato, rendendo gli uni e gli altri praticamente gratuiti, abbondanti e non più soggetti alle forze del mercato. Un’altra economia, tutta da scrivere.

Già oggi, comunque, qualcosa sta cambiando. Per Rifkin, il diffondersi  del costo marginale zero sta generando un’economia ibrida, in parte orientata al mercato capitalistico e in parte, appunto, al “Commons collaborativo”. Emergono quelli che Rifkin indica come prosumers cioè consumatori diventati produttori in proprio che generano e condividono informazioni, intrattenimento, energia verde e prodotti realizzati con la stampa 3D a costi marginali quasi nulli. Ma non solo. Sempre loro condividono anche automobili, case, vestiti e altri oggetti attraverso i social media a costi marginali bassi o quasi nulli. L’autore fa gli esempi degli studenti che si iscrivono a corsi gratuiti online che funzionano a costi marginali quasi nulli; e dei giovani imprenditori sociali che evitano l’establishment bancario attraverso il crowdfunding per finanziare attività ecologicamente sensibili in una nuova economia che utilizza monete alternative.

Si genera – spiega il volume – una equivalenza fra capitale sociale e capitale finanziario, mentre la libertà di accesso prevale sulla proprietà, la sostenibilità soppianta il consumismo, la cooperazione spodesta la concorrenza, e il “valore di scambio” nel mercato capitalistico viene gradualmente sostituito dal “valore della condivisione”.

Certo, il capitalismo – conclude Rifkin – sopravviverà a lungo ma entro la fine di questo secolo non sarà più l’arbitro esclusivo della vita economica. Tutto senza contare i mille sfridi che si creano nelle epoche di trasformazione, i ritardi e le accelerazioni che convivono insieme, i progressi che vanno di pari passo con i rallentamenti e i blocchi.

Utopia? Allucinazioni positive di un visionario? Difficile dare giudizi definitivi. La  tesi di Rifkin, tuttavia, è da esaminare con attenzione. E tocca nel profondo l’assetto delle imprese dell’oggi, la loro cultura, il loro approccio verso la produzione e il mercato. Leggere Rifkin come al solito significare leggere qualcosa di provocante: sale sulle ferite delle imprese e del lavoro, ma anche sale utile per stimolare l’appetito del voler capire di più, ragionare meglio sul presente, guardare con maggiore attenzione al futuro.

La nuova società a costo marginale zero. L’Internet delle cose, l’ascesa dei commons collaborativi e l’eclissi del capitalismo

Jeremy Rifkin

Mondadori, settembre 2014

“Economia positiva” e “Manifesto della convivialità”, idee critiche per lo sviluppo sostenibile

C’era, negli anni Ottanta e Novanta, “il sogno della merce”, l’universo consumista analizzato criticamente dal sociologo Jean Baudrillard, il trionfo del valore simbolico degli oggetti, segni di status. In politica, “l’edonismo” alla Reagan, l’individualismo alla Thatcher (qui, in Italia, la bolla effimera della “Milano da bere” e delle frenesie modaiole da “Sotto il vestito niente”). In economia, i miti del liberismo dei “Chicago boys”, della finanziarizzazione senza freni né controlli, della globalizzazione sempre e comunque benefica: il “turbocapitalismo”. Poi, è arrivata la crisi, preannunciata tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila dalle “bolle” finanziarie internettiane e dai junk bonds (senza che nessuno o quasi, purtroppo, desse ascolto agli analisti critici) ed esplosa in tutta la sua drammatica gravità dal 2007 in poi. Adesso ha senso rileggere, tornando proprio in Baudrillard, un giudizio come questo: “Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza” (“Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?”, parole profetiche, del 1996). Meno e meglio, insomma.

Basta accumulare, dunque. Ripensare criticamente, invece, le culture d’impresa. E cercare di costruire le condizioni per una “economia giusta” (come suggerisce il bel titolo di un libro di Edmondo Berselli del 2011, alla vigilia della sua morte: “Dopo l’imbroglio liberista, il ritorno di un mercato orientato alla società”, edizioni Einaudi). Vengono così alla ribalta attività, organizzazioni, iniziative, come il “Movimento per l’economia positiva”, promosso nel 2012 da Jacques Attali, economista molto ascoltato in Europa, punto di riferimento dell’Eliseo, attento a “incoraggiare la diffusione di risposte sostenibili alle sfide economiche, sociali e ambientali che il nostro Pianeta sta affrontando” e a costruire “nuovi sistemi di valori” economici e sociali, misurabili con strumenti diversi dal Pil e sensibili alla definizione di equilibri “nel tempo lungo”. Si rileggono gli studi di Michael Porter sul “valore condiviso”, contrassegnato da un alto tasso di capitale relazionale e sociale. Si discute di “Pikettynomics” e cioè delle critiche alle diseguaglianze prodotte dalle nuove dimensioni del capitalismo finanziario e patrimoniale, secondo le analisi di Thomas Piketty, un economista che piace poco agli establishment economici e molto agli intellettuali americani e ai premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stieglitz. Si ascoltano le lezioni di Jeremy Rifkin sull’”economia ibrida e della condivisione” con occhi molto attenti ai valori “green”, ambientalisti. Si analizzano i nuovi paradigmi di una “crescita felice”, con i suoi “percorsi di futuro civile” elaborati da Francesco Morace, attento sociologo. Si parla di atteggiamenti “neo-responsabili” (scegliere il meno ma anche il meglio, ridimensionare l’accumulazione da consumismo bulimico, rivendicare le valenze positive della sostenibilità, alla Baudrillard, appunto). Aumenta il numero delle imprese impegnate nel “marketing della bontà” e cioè in campagne di solidarietà sociale e ambientale, come aggiunta di motivazione per la vendita dei loro prodotti, con l’occhio ai consumatori più sensibili e attenti “a una buona causa” e cioè più ai valori che non agli status symbol dell’effimero (la Repubblica, 26 agosto 2014). E trova ascolto, condivisione e successo il “Manifesto convivialista”, una “Dichiarazione di interdipendenza” firmata da numerosi studiosi “anti-utilitaristi” di tutto il mondo, come Edgar Morin, Alain Caillé, Serge Latouche, Elena Pulcini, Francesco Fistetti e altri (il “Manifesto” è pubblicato in Italia da Ets di Pisa, ne parla il filosofo Adriano Favole su “La Lettura” del Corriere della Sera, 29 giugno 2014). Etichetta nuova, il “convivialismo”. Attento al “con” di convivere, condividere, al “noi” contrapposto all’esasperazione individualista del primato dell’”io irresponsabile”, alle relazionalità. E sensibile, naturalmente, alla sostenibilità dello sviluppo ma anche scarsamente incline ai miti della “decrescita felice” (anche se tra i suoi firmatari c’è l’ideologo di questa tendenza, Latouche). Né ostile al mercato, purché non sia un assolutismo ideologico, il “mercatismo”: “Il mercato e la ricerca di una redditività monetaria sono pienamente legittimi dal momento in cui rispettano i postulati di comune utilità e comune socialità e dal momento in cui sono coerenti con le considerazioni ecologiche” (una posizione che trova riscontri anche con le recenti indicazioni della Chiesa di Papa Francesco sulla necessità di nuovi equilibri economici).

Le posizioni del Manifesto sono una derivazione del “Movimento anti-utilitarista delle scienze sociali”, Mauss in acronimo, come il cognome di Marcel Mauss che nei primi anni del Novecento pubblicò un libro, “Il saggio sul dono” che aveva ricordato l’esistenza, nel pensiero occidentale, di una logica economica alternativa o comunque complementare a quella del mercato e che a lungo ispirato, anche il Italia, le culture dell’economia sociale, della cooperazione, del “terzo settore” e che oggi torna di piena, per quanto critica, attualità. Quattro i principi: la “comune umanità”, da rispettare nella persona dei suoi membri, al di là delle differenze etniche, religiose, di genere, di nazionalità, di ricchezza; la “comune socialità”, con attenzione per lo sviluppo delle relazioni sociali, del “capitale sociale” positivo; il principio di “individuazione”, per permettere ad ognuno “di sviluppare la propria singolare individualità in divenire” (con un riscontro, qui, con il diritto allo sviluppo delle “capacità” caro alle analisi di Martha Nussbaum); il principio di “opposizione controllata”, che permette “agli esseri umani di differenziarsi, accettando e controllando il conflitto”.

Sono posizioni di grande interesse, naturalmente. Stimolanti. Da affrontare criticamente. E da considerare comunque come elementi di un dibattito più generale che investe politica, imprese, settori sociali. Tutti soggetti legati da un interesse comune: usare la crisi in corso come stimolo al cambiamento, costruire una maggiore e migliore sostenibilità dello sviluppo, economico e sociale. Un’”economia giusta”, appunto.

C’era, negli anni Ottanta e Novanta, “il sogno della merce”, l’universo consumista analizzato criticamente dal sociologo Jean Baudrillard, il trionfo del valore simbolico degli oggetti, segni di status. In politica, “l’edonismo” alla Reagan, l’individualismo alla Thatcher (qui, in Italia, la bolla effimera della “Milano da bere” e delle frenesie modaiole da “Sotto il vestito niente”). In economia, i miti del liberismo dei “Chicago boys”, della finanziarizzazione senza freni né controlli, della globalizzazione sempre e comunque benefica: il “turbocapitalismo”. Poi, è arrivata la crisi, preannunciata tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila dalle “bolle” finanziarie internettiane e dai junk bonds (senza che nessuno o quasi, purtroppo, desse ascolto agli analisti critici) ed esplosa in tutta la sua drammatica gravità dal 2007 in poi. Adesso ha senso rileggere, tornando proprio in Baudrillard, un giudizio come questo: “Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza” (“Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?”, parole profetiche, del 1996). Meno e meglio, insomma.

Basta accumulare, dunque. Ripensare criticamente, invece, le culture d’impresa. E cercare di costruire le condizioni per una “economia giusta” (come suggerisce il bel titolo di un libro di Edmondo Berselli del 2011, alla vigilia della sua morte: “Dopo l’imbroglio liberista, il ritorno di un mercato orientato alla società”, edizioni Einaudi). Vengono così alla ribalta attività, organizzazioni, iniziative, come il “Movimento per l’economia positiva”, promosso nel 2012 da Jacques Attali, economista molto ascoltato in Europa, punto di riferimento dell’Eliseo, attento a “incoraggiare la diffusione di risposte sostenibili alle sfide economiche, sociali e ambientali che il nostro Pianeta sta affrontando” e a costruire “nuovi sistemi di valori” economici e sociali, misurabili con strumenti diversi dal Pil e sensibili alla definizione di equilibri “nel tempo lungo”. Si rileggono gli studi di Michael Porter sul “valore condiviso”, contrassegnato da un alto tasso di capitale relazionale e sociale. Si discute di “Pikettynomics” e cioè delle critiche alle diseguaglianze prodotte dalle nuove dimensioni del capitalismo finanziario e patrimoniale, secondo le analisi di Thomas Piketty, un economista che piace poco agli establishment economici e molto agli intellettuali americani e ai premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stieglitz. Si ascoltano le lezioni di Jeremy Rifkin sull’”economia ibrida e della condivisione” con occhi molto attenti ai valori “green”, ambientalisti. Si analizzano i nuovi paradigmi di una “crescita felice”, con i suoi “percorsi di futuro civile” elaborati da Francesco Morace, attento sociologo. Si parla di atteggiamenti “neo-responsabili” (scegliere il meno ma anche il meglio, ridimensionare l’accumulazione da consumismo bulimico, rivendicare le valenze positive della sostenibilità, alla Baudrillard, appunto). Aumenta il numero delle imprese impegnate nel “marketing della bontà” e cioè in campagne di solidarietà sociale e ambientale, come aggiunta di motivazione per la vendita dei loro prodotti, con l’occhio ai consumatori più sensibili e attenti “a una buona causa” e cioè più ai valori che non agli status symbol dell’effimero (la Repubblica, 26 agosto 2014). E trova ascolto, condivisione e successo il “Manifesto convivialista”, una “Dichiarazione di interdipendenza” firmata da numerosi studiosi “anti-utilitaristi” di tutto il mondo, come Edgar Morin, Alain Caillé, Serge Latouche, Elena Pulcini, Francesco Fistetti e altri (il “Manifesto” è pubblicato in Italia da Ets di Pisa, ne parla il filosofo Adriano Favole su “La Lettura” del Corriere della Sera, 29 giugno 2014). Etichetta nuova, il “convivialismo”. Attento al “con” di convivere, condividere, al “noi” contrapposto all’esasperazione individualista del primato dell’”io irresponsabile”, alle relazionalità. E sensibile, naturalmente, alla sostenibilità dello sviluppo ma anche scarsamente incline ai miti della “decrescita felice” (anche se tra i suoi firmatari c’è l’ideologo di questa tendenza, Latouche). Né ostile al mercato, purché non sia un assolutismo ideologico, il “mercatismo”: “Il mercato e la ricerca di una redditività monetaria sono pienamente legittimi dal momento in cui rispettano i postulati di comune utilità e comune socialità e dal momento in cui sono coerenti con le considerazioni ecologiche” (una posizione che trova riscontri anche con le recenti indicazioni della Chiesa di Papa Francesco sulla necessità di nuovi equilibri economici).

Le posizioni del Manifesto sono una derivazione del “Movimento anti-utilitarista delle scienze sociali”, Mauss in acronimo, come il cognome di Marcel Mauss che nei primi anni del Novecento pubblicò un libro, “Il saggio sul dono” che aveva ricordato l’esistenza, nel pensiero occidentale, di una logica economica alternativa o comunque complementare a quella del mercato e che a lungo ispirato, anche il Italia, le culture dell’economia sociale, della cooperazione, del “terzo settore” e che oggi torna di piena, per quanto critica, attualità. Quattro i principi: la “comune umanità”, da rispettare nella persona dei suoi membri, al di là delle differenze etniche, religiose, di genere, di nazionalità, di ricchezza; la “comune socialità”, con attenzione per lo sviluppo delle relazioni sociali, del “capitale sociale” positivo; il principio di “individuazione”, per permettere ad ognuno “di sviluppare la propria singolare individualità in divenire” (con un riscontro, qui, con il diritto allo sviluppo delle “capacità” caro alle analisi di Martha Nussbaum); il principio di “opposizione controllata”, che permette “agli esseri umani di differenziarsi, accettando e controllando il conflitto”.

Sono posizioni di grande interesse, naturalmente. Stimolanti. Da affrontare criticamente. E da considerare comunque come elementi di un dibattito più generale che investe politica, imprese, settori sociali. Tutti soggetti legati da un interesse comune: usare la crisi in corso come stimolo al cambiamento, costruire una maggiore e migliore sostenibilità dello sviluppo, economico e sociale. Un’”economia giusta”, appunto.

Lavorare nell’impresa del futuro

Come sarà l’ufficio del futuro? E come sarà l’impresa del futuro? Non si tratta di interrogativi teorici, ma di domande alle quali occorre essere capaci di rispondere. Soprattutto perché, dalle risposte che si daranno dipenderà l’evoluzione della cultura della produzione che darà l’impronta  di se’ all’impresa. Sono, a ben vedere, domande alle quali è possibile far seguire prove letterarie importanti oppure un articolo scientifico. E’ ciò che ha provato a fare Marea Saldarriaga Bueno della Brunel University di Uxbridge Middlesex (Regno Unito) con “The office of the future: a vision for stimulating working  environments” appena pubblicato in rete: nemmeno dieci cartelle che forniscono una bella sintesi della storia dell’evoluzione del modo di lavorare nelle imprese e, soprattutto, qualche indicazione su cosa ci si può aspettare.

Marea Saldarriaga racconta i cambiamenti fondamentali negli ambienti sociali, economici e tecnologici che potranno avere un impatto significativo sugli  ambienti di lavoro non solo dal punto di vista fisico ma anche da quello immateriale.

Il ragionamento è condotto sulla base di uno schema iniziale che inquadra l’organizzazione degli uffici e delle imprese in tre tappe. All’inizio del XX secolo si lavora e basta, a metà del XX secolo accanto al lavoro viene posta la “piacevolezza” degli ambienti, all’inizio del XXI secolo si aggiungono la conoscenza e l’apprendimento. Il lavoro e l’impresa, si fanno così più complessi e variegati: non si produce e basta, si crea qualcosa che prima non c’era, si guarda verso l’esterno dell’impresa. E non solo per fini commerciali.

Ma Saldarriaga Bueno  va oltre e spiega come ambienti di lavoro e impostazione della cultura d’impresa, cambino anche in funzione della tecnologia e dell’innovazione, così come delle esigenze sociali dei lavoratori. E arriva a ragionare sul lavoro “in mobilità” oppure “da casa”. Ponendo l’accento però su aspetti delicati come le relazioni interpersonali, lo spirito di gruppo, l’organizzazione gerarchica. Creare – spiega la ricercatrice nelle conclusioni – “una cultura d’impresa in una squadra dispersa geograficamente è molto difficile”. Per questo, aggiunge, ciò che “finirà per unire le persone e servire come collante aziendale non sarà l’area di lavoro ma i valori dell’azienda” e quindi occorre che “la visione della società, la cultura che si intende realizzare” siano “comunicati a tutta l’organizzazione in modo che tutte le persone coinvolte sappiano dove l’imbarcazione si sta dirigendo ed esattamente che cosa si sta cercando di realizzare”.

“The office of the future”, si legge in poco tempo, ma è utile rileggerlo e ragionarlo a lungo.

The office of the future: a vision for stimulating working  environments

Marea Saldarriaga Bueno

Brunel University, Uxbridge Middlesex (UK)

Come sarà l’ufficio del futuro? E come sarà l’impresa del futuro? Non si tratta di interrogativi teorici, ma di domande alle quali occorre essere capaci di rispondere. Soprattutto perché, dalle risposte che si daranno dipenderà l’evoluzione della cultura della produzione che darà l’impronta  di se’ all’impresa. Sono, a ben vedere, domande alle quali è possibile far seguire prove letterarie importanti oppure un articolo scientifico. E’ ciò che ha provato a fare Marea Saldarriaga Bueno della Brunel University di Uxbridge Middlesex (Regno Unito) con “The office of the future: a vision for stimulating working  environments” appena pubblicato in rete: nemmeno dieci cartelle che forniscono una bella sintesi della storia dell’evoluzione del modo di lavorare nelle imprese e, soprattutto, qualche indicazione su cosa ci si può aspettare.

Marea Saldarriaga racconta i cambiamenti fondamentali negli ambienti sociali, economici e tecnologici che potranno avere un impatto significativo sugli  ambienti di lavoro non solo dal punto di vista fisico ma anche da quello immateriale.

Il ragionamento è condotto sulla base di uno schema iniziale che inquadra l’organizzazione degli uffici e delle imprese in tre tappe. All’inizio del XX secolo si lavora e basta, a metà del XX secolo accanto al lavoro viene posta la “piacevolezza” degli ambienti, all’inizio del XXI secolo si aggiungono la conoscenza e l’apprendimento. Il lavoro e l’impresa, si fanno così più complessi e variegati: non si produce e basta, si crea qualcosa che prima non c’era, si guarda verso l’esterno dell’impresa. E non solo per fini commerciali.

Ma Saldarriaga Bueno  va oltre e spiega come ambienti di lavoro e impostazione della cultura d’impresa, cambino anche in funzione della tecnologia e dell’innovazione, così come delle esigenze sociali dei lavoratori. E arriva a ragionare sul lavoro “in mobilità” oppure “da casa”. Ponendo l’accento però su aspetti delicati come le relazioni interpersonali, lo spirito di gruppo, l’organizzazione gerarchica. Creare – spiega la ricercatrice nelle conclusioni – “una cultura d’impresa in una squadra dispersa geograficamente è molto difficile”. Per questo, aggiunge, ciò che “finirà per unire le persone e servire come collante aziendale non sarà l’area di lavoro ma i valori dell’azienda” e quindi occorre che “la visione della società, la cultura che si intende realizzare” siano “comunicati a tutta l’organizzazione in modo che tutte le persone coinvolte sappiano dove l’imbarcazione si sta dirigendo ed esattamente che cosa si sta cercando di realizzare”.

“The office of the future”, si legge in poco tempo, ma è utile rileggerlo e ragionarlo a lungo.

The office of the future: a vision for stimulating working  environments

Marea Saldarriaga Bueno

Brunel University, Uxbridge Middlesex (UK)

Immagini d’impresa

Un’impresa è anche l’immagine che riesce a dare di se’.  Certo,  l’immagine non è il tutto. Occorre il prodotto. Ma l’immagine racconta il tutto, con tratti, parole, scatti, disegni, istantanee di un processo produttivo che dal nulla arriva a qualcosa di definito. Lo sanno – e molto bene -, i bravi comunicatori d’impresa e tutti quelli che si occupano, con avvedutezza, di mercati e di vendite.  Ma l’immagine è ciò che l’impresa dice fuori di essa, e anche dentro. Capire come l’impresa parla di se’ e che immagine dà di se’, è importante per comprendere la cultura che l’ha fatta nascere e la fa vivere.

Paradigma – uno ma non il solo – di tutto questo è certamente la Olivetti di Ivrea, così come lo è anche la Pirelli e lo sono altre “fabbriche di prodotti e di cultura” che hanno caratterizzato l’economia italiana. “Millesimo di millimetro” di Caterina Cristina Fiorentino (architetto e ricercatrice in Disegno industriale presso il Dipartimento di Architettura  della SUN), appena pubblicato, rappresenta un’occasione importante per viaggiare nella storia della creazione e dello sviluppo dell’immagine della Olivetti.

E’ un testo denso – non sempre facile -, che racconta bene  la nascita e l’evoluzione del  codice visivo della Olivetti, cioè dell’apparato di idee e quindi  di segni posti dietro a tutti gli elaborati grafici che hanno accompagnato l’attività della fabbrica dal 1908 al 1978.  Settant’anni di fantasia e ingegno produttivi raccontati con linee, disegni, colori, poesie, testi in prosa, filmati e fotografie che hanno costituito lo “stile Olivetti”. La fatica di Fiorentino (che ha un buon apparato iconografico), racconta della nascita delle campagne pubblicitarie più importanti, di icone come le “Olivetti Girls”, ma anche dei “Libri Rossi” (veri strumenti di lavoro per anni per tutti i progettisti dell’azienda), e poi di strumenti per scrivere come la Lexikon, la Lettera 22, la Valentina e di quelli per far di calcolo come la Divisumma e la Multisumma. Ma il volume è anche un viaggio in compagnia di personaggi – che per la Olivetti hanno lavorato e molto -, come Elio Vittorini, Libero Bigiaretti, Giovanni Giudici, Franco Fortini ma anche Albe Steiner e Marcello Doduvich.

“L’immagine di un’azienda – scrive Renzo Zorzi, uno dei più assidui della Olivetti, citato nel libro -, è data dalla capacità di concentrare l’attenzione sul suo reale modo di essere, di rivelare la sua natura più sostanziale, quel che produce, come risolve i problemi dei suoi rapporti col proprio pubblico, col territorio e la comunità in cui opera, di rendere esplicita la cultura che essa esprime, i valori che assume e di cui si fa portatrice, il contributo che essa dà allo sviluppo umano. Fuori di questo è pura finzione, una costruzione propagandistica, una metafora rimasta a metà, che ha perduto il proprio termine di riferimento e il proprio fine”.

Dalle pagine di Fiorentino, dunque, si delineano i tratti di una Olivetti caratterizzata da quell’umanesimo industriale (formula coniata proprio da Vittorini nel ’39 per la comunicazione aziendale), che è stato e che rappresenta un’impresa che non è possibile ripetere così, ma che continua a improntare di se’ il meglio della cultura industriale del Paese.

Da leggere, infine, la postfazione di Eugenio Pacchioli “Con la cultura i bilanci scodinzolano”.

Millesimo di millimetro. I segni del codice visivo Olivetti 1908-1978

Caterina Cristina Fiorentino

Il Mulino, 2014

Un’impresa è anche l’immagine che riesce a dare di se’.  Certo,  l’immagine non è il tutto. Occorre il prodotto. Ma l’immagine racconta il tutto, con tratti, parole, scatti, disegni, istantanee di un processo produttivo che dal nulla arriva a qualcosa di definito. Lo sanno – e molto bene -, i bravi comunicatori d’impresa e tutti quelli che si occupano, con avvedutezza, di mercati e di vendite.  Ma l’immagine è ciò che l’impresa dice fuori di essa, e anche dentro. Capire come l’impresa parla di se’ e che immagine dà di se’, è importante per comprendere la cultura che l’ha fatta nascere e la fa vivere.

Paradigma – uno ma non il solo – di tutto questo è certamente la Olivetti di Ivrea, così come lo è anche la Pirelli e lo sono altre “fabbriche di prodotti e di cultura” che hanno caratterizzato l’economia italiana. “Millesimo di millimetro” di Caterina Cristina Fiorentino (architetto e ricercatrice in Disegno industriale presso il Dipartimento di Architettura  della SUN), appena pubblicato, rappresenta un’occasione importante per viaggiare nella storia della creazione e dello sviluppo dell’immagine della Olivetti.

E’ un testo denso – non sempre facile -, che racconta bene  la nascita e l’evoluzione del  codice visivo della Olivetti, cioè dell’apparato di idee e quindi  di segni posti dietro a tutti gli elaborati grafici che hanno accompagnato l’attività della fabbrica dal 1908 al 1978.  Settant’anni di fantasia e ingegno produttivi raccontati con linee, disegni, colori, poesie, testi in prosa, filmati e fotografie che hanno costituito lo “stile Olivetti”. La fatica di Fiorentino (che ha un buon apparato iconografico), racconta della nascita delle campagne pubblicitarie più importanti, di icone come le “Olivetti Girls”, ma anche dei “Libri Rossi” (veri strumenti di lavoro per anni per tutti i progettisti dell’azienda), e poi di strumenti per scrivere come la Lexikon, la Lettera 22, la Valentina e di quelli per far di calcolo come la Divisumma e la Multisumma. Ma il volume è anche un viaggio in compagnia di personaggi – che per la Olivetti hanno lavorato e molto -, come Elio Vittorini, Libero Bigiaretti, Giovanni Giudici, Franco Fortini ma anche Albe Steiner e Marcello Doduvich.

“L’immagine di un’azienda – scrive Renzo Zorzi, uno dei più assidui della Olivetti, citato nel libro -, è data dalla capacità di concentrare l’attenzione sul suo reale modo di essere, di rivelare la sua natura più sostanziale, quel che produce, come risolve i problemi dei suoi rapporti col proprio pubblico, col territorio e la comunità in cui opera, di rendere esplicita la cultura che essa esprime, i valori che assume e di cui si fa portatrice, il contributo che essa dà allo sviluppo umano. Fuori di questo è pura finzione, una costruzione propagandistica, una metafora rimasta a metà, che ha perduto il proprio termine di riferimento e il proprio fine”.

Dalle pagine di Fiorentino, dunque, si delineano i tratti di una Olivetti caratterizzata da quell’umanesimo industriale (formula coniata proprio da Vittorini nel ’39 per la comunicazione aziendale), che è stato e che rappresenta un’impresa che non è possibile ripetere così, ma che continua a improntare di se’ il meglio della cultura industriale del Paese.

Da leggere, infine, la postfazione di Eugenio Pacchioli “Con la cultura i bilanci scodinzolano”.

Millesimo di millimetro. I segni del codice visivo Olivetti 1908-1978

Caterina Cristina Fiorentino

Il Mulino, 2014

I grandi valori dello sport per il dialogo, la pace e la solidarietà

Sport come dialogo. E solidarietà. Competizione (non dimenticando, appunto, l’etimologia latina: cum petere, muoversi insieme verso un obiettivo comune). E spirito di squadra. Gara. E spettacolo, in una dimensione che lega individualità e comunità. Sono valori forti. E simili a quelli che connotano la migliore cultura d’impresa, nella sua grande dimensione personale e sociale. Stanno proprio qui le radici della scelta di Pirelli di essere partner principale della Partita Interreligiosa per la Pace, una iniziativa di straordinario rilievo, maturata nei mesi scorsi, valorizzata da Papa Francesco, capace di coinvolgere il mondo dello sport, dell’economia e dello spettacolo e giocata ieri, a Roma, con grande successo di pubblico e altrettanto ampio consenso mediatico e popolare. In un mondo di gravissime, crescenti tensioni sociali, etniche, religiose (che in casi drammatici hanno portato il Papa a denunciare l’esistenza della “Terza Guerra mondiale” e che comunque scuotono i valori della convivenza civile e chiamano in causa la cultura, la politica, la religione stessa) ha senso rilanciare l’appello all’impegno “di tutti gli uomini di buona volontà” (ricordando anche la lezione, mai tramontata d’attualità, dell’enciclica “Pacem in terris” di Papa Giovanni XXIII, nel 1963, mezzo secolo fa). E darsi dunque da fare, ognuno nel proprio ambito di ricerca e di lavoro, per dare spazio al dialogo invece che al conflitto di culture e civiltà. Come la stessa cultura d’impresa Pirelli testimonia, nel corso della storia dell’azienda: “La dimensione multiculturale, multireligiosa e multietnica appartiene da sempre alla cultura Pirelli. E per questo è stato naturale e motivo d’orgoglio aderire alla Partita Interreligiosa per la pace”, spiega la comunicazione del Gruppo, con la conferma di una “attenzione al sociale” essenziale per un’impresa che ha stabilimenti in 13 Paesi, presenze commerciali in 160 nazioni, 39mila dipendenti che parlano oltre 20 lingue e sono rappresentanti di 34 diverse nazionalità. Diversità. E valori comuni. Del lavoro, per esempio. Dell’impegno per qualità, ricerca e innovazione. Del confronto, per migliorare prodotti e sistemi di produzione e di rapporto con i clienti e più in generale, con tutti gli stakeholder. E, naturalmente, i valori dello sport. Anche qui, con un impegno d’antiche radici, nel calcio e nelle gare automobilistiche. Ma, nel corso del tempo, pure in molte altre discipline. “L’attualità sportiva – si sostiene – è diventata sinonimo di socialità solidale ed etica, soprattutto tra i giovani. E lo sport si conferma come potente strumento di integrazione e dialogo tra culture e generazioni diverse”. Cum petere, appunto. Buona cultura d’impresa.

Sport come dialogo. E solidarietà. Competizione (non dimenticando, appunto, l’etimologia latina: cum petere, muoversi insieme verso un obiettivo comune). E spirito di squadra. Gara. E spettacolo, in una dimensione che lega individualità e comunità. Sono valori forti. E simili a quelli che connotano la migliore cultura d’impresa, nella sua grande dimensione personale e sociale. Stanno proprio qui le radici della scelta di Pirelli di essere partner principale della Partita Interreligiosa per la Pace, una iniziativa di straordinario rilievo, maturata nei mesi scorsi, valorizzata da Papa Francesco, capace di coinvolgere il mondo dello sport, dell’economia e dello spettacolo e giocata ieri, a Roma, con grande successo di pubblico e altrettanto ampio consenso mediatico e popolare. In un mondo di gravissime, crescenti tensioni sociali, etniche, religiose (che in casi drammatici hanno portato il Papa a denunciare l’esistenza della “Terza Guerra mondiale” e che comunque scuotono i valori della convivenza civile e chiamano in causa la cultura, la politica, la religione stessa) ha senso rilanciare l’appello all’impegno “di tutti gli uomini di buona volontà” (ricordando anche la lezione, mai tramontata d’attualità, dell’enciclica “Pacem in terris” di Papa Giovanni XXIII, nel 1963, mezzo secolo fa). E darsi dunque da fare, ognuno nel proprio ambito di ricerca e di lavoro, per dare spazio al dialogo invece che al conflitto di culture e civiltà. Come la stessa cultura d’impresa Pirelli testimonia, nel corso della storia dell’azienda: “La dimensione multiculturale, multireligiosa e multietnica appartiene da sempre alla cultura Pirelli. E per questo è stato naturale e motivo d’orgoglio aderire alla Partita Interreligiosa per la pace”, spiega la comunicazione del Gruppo, con la conferma di una “attenzione al sociale” essenziale per un’impresa che ha stabilimenti in 13 Paesi, presenze commerciali in 160 nazioni, 39mila dipendenti che parlano oltre 20 lingue e sono rappresentanti di 34 diverse nazionalità. Diversità. E valori comuni. Del lavoro, per esempio. Dell’impegno per qualità, ricerca e innovazione. Del confronto, per migliorare prodotti e sistemi di produzione e di rapporto con i clienti e più in generale, con tutti gli stakeholder. E, naturalmente, i valori dello sport. Anche qui, con un impegno d’antiche radici, nel calcio e nelle gare automobilistiche. Ma, nel corso del tempo, pure in molte altre discipline. “L’attualità sportiva – si sostiene – è diventata sinonimo di socialità solidale ed etica, soprattutto tra i giovani. E lo sport si conferma come potente strumento di integrazione e dialogo tra culture e generazioni diverse”. Cum petere, appunto. Buona cultura d’impresa.

“Capitale umano” e sviluppo. Che fa la Cina?

Il “capitale umano” conta. Anche in Cina. Si tratta di dimensioni diverse, certo. Ma il problema della remunerazione dei lavoratori e, prima ancora, della loro qualificazione si affaccia anche in Asia. Anche in Cina, a dispetto di quanto si potrebbe essere portati a pensare. La questione fa intravvedere – là come in altre aree produttive -, possibilità più o meno consistenti di crescita economica. Ed è la dimostrazione di quanto pesi la cultura d’impresa nei confronti delle prospettive di benessere di un Paese.

Capire la situazione cinese più da vicino è quindi interessante, oltre che importante per comprendere meglio chi davvero hanno davanti molte delle nostre imprese. Anche se il tema del rapporto fra “capitale umano” e impresa in Cina è argomento complesso, che coinvolge la cultura d’impresa in generale e quella cinese in particolare.

A fornire un quadro aggiornato – ed impietoso -, della situazione ci hanno pensato quattro ricercatori cinesi divisi però fra Pechino, Cambridge e Nottingham con un articolo che in uno spazio contenuto fornisce storia e analisi attuale della condizione dei lavoratori cinesi.

“Inequality, human capital and innovation: China’s remaining big problems” di Wu D. (University of Cambridge), Wu Z. (Nottingham business school della Trent University), Wang J. (School of contemporary Chinese studies, University of Nottingham) e Zhao Z. (School of labour and human resources, Renmin University of China, Beijing), apparso sull’International journal of economics and business modeling inizia con un breve riassunto della letteratura sull’argomento per poi passare ad una analisi degli effetti sull’ineguaglianza delle riforme economiche intraprese negli ultimi anni. Un’attenta descrizione viene poi effettuata delle politiche di remunerazione e di valorizzazione rivolte ai lavoratori, politiche che riflettono e fanno comprendere bene il tipo di cultura d’impresa presente nel Paese.

Soprattutto, però, c’è il futuro. Per i quattro autori, se, anche in Cina, la chiave dello sviluppo è anche nell’innovazione tecnologica, questa passa soprattutto per un “capitale umano” più remunerato e meglio istruito. Senza queste condizioni, è la previsione, la crescita economica cinese sarà destinata ad avere molte difficoltà. Anzi di più. Se – aggiunge l’articolo -, la Cina non prenderà in seria considerazione il problema della disparità di reddito dei gruppi svantaggiati di persone, è possibile prevedere un tale dissesto politico da “far deragliare lo sviluppo economico” del Paese.

Insomma, la Cina è davvero vicina, ma occorre guardarla in maniera forse un po’ diversa da come si fa di solito.

Inequality, human capital and innovation: China’s remaining big problems

Wu D., Wu Z., Wang J., Zhao Z.

International journal of economics and business modeling, volume 5, Issue 1, 2014, pp. 233-237

Il “capitale umano” conta. Anche in Cina. Si tratta di dimensioni diverse, certo. Ma il problema della remunerazione dei lavoratori e, prima ancora, della loro qualificazione si affaccia anche in Asia. Anche in Cina, a dispetto di quanto si potrebbe essere portati a pensare. La questione fa intravvedere – là come in altre aree produttive -, possibilità più o meno consistenti di crescita economica. Ed è la dimostrazione di quanto pesi la cultura d’impresa nei confronti delle prospettive di benessere di un Paese.

Capire la situazione cinese più da vicino è quindi interessante, oltre che importante per comprendere meglio chi davvero hanno davanti molte delle nostre imprese. Anche se il tema del rapporto fra “capitale umano” e impresa in Cina è argomento complesso, che coinvolge la cultura d’impresa in generale e quella cinese in particolare.

A fornire un quadro aggiornato – ed impietoso -, della situazione ci hanno pensato quattro ricercatori cinesi divisi però fra Pechino, Cambridge e Nottingham con un articolo che in uno spazio contenuto fornisce storia e analisi attuale della condizione dei lavoratori cinesi.

“Inequality, human capital and innovation: China’s remaining big problems” di Wu D. (University of Cambridge), Wu Z. (Nottingham business school della Trent University), Wang J. (School of contemporary Chinese studies, University of Nottingham) e Zhao Z. (School of labour and human resources, Renmin University of China, Beijing), apparso sull’International journal of economics and business modeling inizia con un breve riassunto della letteratura sull’argomento per poi passare ad una analisi degli effetti sull’ineguaglianza delle riforme economiche intraprese negli ultimi anni. Un’attenta descrizione viene poi effettuata delle politiche di remunerazione e di valorizzazione rivolte ai lavoratori, politiche che riflettono e fanno comprendere bene il tipo di cultura d’impresa presente nel Paese.

Soprattutto, però, c’è il futuro. Per i quattro autori, se, anche in Cina, la chiave dello sviluppo è anche nell’innovazione tecnologica, questa passa soprattutto per un “capitale umano” più remunerato e meglio istruito. Senza queste condizioni, è la previsione, la crescita economica cinese sarà destinata ad avere molte difficoltà. Anzi di più. Se – aggiunge l’articolo -, la Cina non prenderà in seria considerazione il problema della disparità di reddito dei gruppi svantaggiati di persone, è possibile prevedere un tale dissesto politico da “far deragliare lo sviluppo economico” del Paese.

Insomma, la Cina è davvero vicina, ma occorre guardarla in maniera forse un po’ diversa da come si fa di solito.

Inequality, human capital and innovation: China’s remaining big problems

Wu D., Wu Z., Wang J., Zhao Z.

International journal of economics and business modeling, volume 5, Issue 1, 2014, pp. 233-237

Come fa a creare l’impresa?

L’impresa crea. E la cultura d’impresa racconta e caratterizza di se’ il processo di creazione che prende vita e si sviluppa nelle aziende. Alchimia spesso difficile da capire, il percorso che si svolge nel momento in cui la creatività dà i suoi frutti nelle fabbriche, deve comunque essere attentamente osservato: è – a ben vedere – il succo dell’imprenditorialità, del lavoro e della produzione.

La raccolta “Creativity in business” curata da Fredricka K. Reisman (Presidente della American Creativity Association), in occasione della KIE (Conference of Knowledge, Innovation and Enterprise), prevista a Istanbul il prossimo agosto 2015, è un buon vademecum proprio per capire di più e meglio di cosa accade quando la creatività incontra le aziende e gli imprenditori. L’evento mondiale, ha già avuto un prologo quest’anno – l’incontro “Knowledge, Innovation and Enterprise” -, tenuto a Riga nel luglio scorso, che ha prodotto un altro volume sempre curato dalla Reisman che fornisce ulteriori materiali di lettura sull’argomento.

Ma il cuore del tema può essere colto nelle righe introduttive di “Creativity in business” che spiegano: da nessuna parte l’applicazione della creatività è più pronunciata che “nel mondo degli affari. Sappiamo che la creatività è un ingrediente importante per la crescita economica e la competitività, ma molti imprenditori non vogliono ammettere o riconoscere il ruolo fondamentale che la creatività gioca in questo ambito”.

Il volume raccoglie quindi sedici contributi sul tema che spaziano dai legami fra la creatività e l’organizzazione d’impresa agli aspetti più filosofici dei processi creativi aziendali. Sono anche approfonditi temi come quelli relativi all’origine stessa del processo creativo, alle relazioni fra individuo e gruppo di lavoro, ai rapporti fra comunicazione, creatività e produzione. Cerca di dare un’organizzazione uniforme al tutto il saggio introduttivo di Fredricka K. Reisman (“Overview and application of creativity to enhance innovation in business and education”), che riassume gli altri capitoli e fornisce buoni schemi di analisi e lettura.

La raccolta della Reisman è certamente un libro da leggere con attenzione, magari non sempre facile ma che fa bene a molti uomini d’impresa.

Creativity in business

Fredricka K. Reisman (a cura di), President of American creativity Association

KIE Conference book series, 2014

Creativity: Process, Product, Personality, Environment & Technology

Fredricka K. Reisman (a cura di), President of American creativity Association

KIE Conference book series, 2013

L’impresa crea. E la cultura d’impresa racconta e caratterizza di se’ il processo di creazione che prende vita e si sviluppa nelle aziende. Alchimia spesso difficile da capire, il percorso che si svolge nel momento in cui la creatività dà i suoi frutti nelle fabbriche, deve comunque essere attentamente osservato: è – a ben vedere – il succo dell’imprenditorialità, del lavoro e della produzione.

La raccolta “Creativity in business” curata da Fredricka K. Reisman (Presidente della American Creativity Association), in occasione della KIE (Conference of Knowledge, Innovation and Enterprise), prevista a Istanbul il prossimo agosto 2015, è un buon vademecum proprio per capire di più e meglio di cosa accade quando la creatività incontra le aziende e gli imprenditori. L’evento mondiale, ha già avuto un prologo quest’anno – l’incontro “Knowledge, Innovation and Enterprise” -, tenuto a Riga nel luglio scorso, che ha prodotto un altro volume sempre curato dalla Reisman che fornisce ulteriori materiali di lettura sull’argomento.

Ma il cuore del tema può essere colto nelle righe introduttive di “Creativity in business” che spiegano: da nessuna parte l’applicazione della creatività è più pronunciata che “nel mondo degli affari. Sappiamo che la creatività è un ingrediente importante per la crescita economica e la competitività, ma molti imprenditori non vogliono ammettere o riconoscere il ruolo fondamentale che la creatività gioca in questo ambito”.

Il volume raccoglie quindi sedici contributi sul tema che spaziano dai legami fra la creatività e l’organizzazione d’impresa agli aspetti più filosofici dei processi creativi aziendali. Sono anche approfonditi temi come quelli relativi all’origine stessa del processo creativo, alle relazioni fra individuo e gruppo di lavoro, ai rapporti fra comunicazione, creatività e produzione. Cerca di dare un’organizzazione uniforme al tutto il saggio introduttivo di Fredricka K. Reisman (“Overview and application of creativity to enhance innovation in business and education”), che riassume gli altri capitoli e fornisce buoni schemi di analisi e lettura.

La raccolta della Reisman è certamente un libro da leggere con attenzione, magari non sempre facile ma che fa bene a molti uomini d’impresa.

Creativity in business

Fredricka K. Reisman (a cura di), President of American creativity Association

KIE Conference book series, 2014

Creativity: Process, Product, Personality, Environment & Technology

Fredricka K. Reisman (a cura di), President of American creativity Association

KIE Conference book series, 2013

Archivio storico e innovazione per rilanciare l’orgoglio industriale

Archivio. La parola, nel discorso contemporaneo, ha scarso fascino. Sa di vecchio e polveroso, evoca luoghi in cui accatastare ciò che non è più d’attualità e dunque non serve. S’apparenta al magazzino degli scarti. Un ripostiglio dell’inutile memoria. Anche nei progetti di riorganizzazione del ministero del Beni e delle Attività Culturali (lodevole iniziativa di riforma avviata dal ministro Dario Franceschini, per valorizzare e rilanciare il patrimonio culturale italiano) agli Archivi e alle apposite Sovrintendenze è dedicato scarso spazio (tanto da sollecitare le critiche d’un grande storico come Giovanni De Luna: “Memoria usa e getta: le linee guida del ministro penalizzano gli archivi, un grave danno per gli storici”, su “La Stampa” del 25 luglio). Eppure, a pensarci bene, anche dal punto di vista della buona cultura d’impresa, gli archivi hanno una funzione essenziale: custodia della memoria aziendale, ma anche luogo in cui si raccoglie la testimonianza di come progetti e idee diventano prodotti e processi produttivi, dunque dimensioni esemplare del “costruire contemporaneità” nel fluire dei tempi, che poi si trasformano in storia.

Luna, da storico, chiede di “non penalizzare la gestione e la conservazione di un patrimonio culturale che ha bisogno di essere tutelato per ragioni che c’entrano poco con la sua capacità di generare profitti e molto con quelle del patto di memoria su cui si fonda lo spazio pubblico della cittadinanza”.

Qui, in questo blog di cultura d’impresa, vale la pena riflettere sul senso e sulle condizioni per custodire documenti, schede tecniche, grafiche pubblicitarie, filmati ma anche bilanci societari e fascicoli dei processi produttivi e delle relazioni industriali (l’organizzazione, le trattative sindacali, il welfare aziendale) non solo per non disperdere un patrimonio di grande cultura tecnologica e materiale, ma anche per proteggere e valorizzare le suggestioni e le testimonianze utili a rilanciare, in modo originale, l’industria italiana.

Lo sviluppo italiano, infatti, sta “nelle smart land dove la manifattura intreccia la cultura”, come documenta un sociologo attento alla buona economia, come Aldo Bonomi (IlSole24Ore, 6 luglio). E la documentazione di quella cultura (tecnologia ed estetica, il “bello e ben fatto”, il design d’avanguardia e la qualità) è un vero e proprio patrimonio collettivo indispensabile alla ricchezza italiana. Quella cultura, sintesi di tradizione consapevole e continua propensione all’innovazione, è il nostro miglior asset competitivo: proprio quello che rende preziose le nostre imprese e non riproducibili a basso costo i loro prodotti a maggior valore aggiunto.

Sta appunto in questa consapevolezza l’impegno di grandi imprese, come la Pirelli, ma anche di medie e piccole, a costituire fondazioni che custodiscano gli archivi storici, con attività di manutenzione, restauro, digitalizzazione dei loro documenti (e messa a disposizione del pubblico delle scuole, dei ricercatori, degli storici). E qui vive la scelta di pensare alla “contemporaneità dell’archivio storico”, non certo come ossimoro utile a una comunicazione a effetto, ma come strumento per fare vivere, anche all’interno dell’azienda, il gioco della creatività tra ricorsi storici e innovazione.

Sono un costo, naturalmente, archivi e fondazioni (con scarso inventivo fiscale, purtroppo): richiedono spazi, competenze tecniche, risorse per il restauro e la conservazione, investimenti per la pubblicazione e la diffusione. Ma sono anche un valore. Che parla all’identità aziendale. E al futuro. Hanno senso pure le iniziative, come Museimpresa di Confindustria e soprattutto come il Centro della cultura d’impresa (un’iniziativa in cui hanno funzione di primo piano la Camera di Commercio di Milano e l’Assolombarda), per sostenere anche le piccole imprese, custodire e valorizzare i loro archivi e farne occasione di comunicazione, diffondere una vera e proprio “cultura della memoria d’impresa”.

C’è bisogno di storia, infatti, anche per rilanciare l’orgoglio industriale italiano. E’ necessario fare vivere, nel discorso pubblico e nel sentimento popolare, la qualità della nostra manifattura. E rinsaldare il forte senso di responsabilità verso le nostre radici. Memoria e cultura d’impresa non solo come effimeri eventi e spettacolarizzazione dei successi industriali (utili comunque a una buona comunicazione). Ma soprattutto come conservazione dei nostri valori produttivi e sociali. Una bella Italia dei suoi monumenti. E delle sue fabbriche.

Archivio. La parola, nel discorso contemporaneo, ha scarso fascino. Sa di vecchio e polveroso, evoca luoghi in cui accatastare ciò che non è più d’attualità e dunque non serve. S’apparenta al magazzino degli scarti. Un ripostiglio dell’inutile memoria. Anche nei progetti di riorganizzazione del ministero del Beni e delle Attività Culturali (lodevole iniziativa di riforma avviata dal ministro Dario Franceschini, per valorizzare e rilanciare il patrimonio culturale italiano) agli Archivi e alle apposite Sovrintendenze è dedicato scarso spazio (tanto da sollecitare le critiche d’un grande storico come Giovanni De Luna: “Memoria usa e getta: le linee guida del ministro penalizzano gli archivi, un grave danno per gli storici”, su “La Stampa” del 25 luglio). Eppure, a pensarci bene, anche dal punto di vista della buona cultura d’impresa, gli archivi hanno una funzione essenziale: custodia della memoria aziendale, ma anche luogo in cui si raccoglie la testimonianza di come progetti e idee diventano prodotti e processi produttivi, dunque dimensioni esemplare del “costruire contemporaneità” nel fluire dei tempi, che poi si trasformano in storia.

Luna, da storico, chiede di “non penalizzare la gestione e la conservazione di un patrimonio culturale che ha bisogno di essere tutelato per ragioni che c’entrano poco con la sua capacità di generare profitti e molto con quelle del patto di memoria su cui si fonda lo spazio pubblico della cittadinanza”.

Qui, in questo blog di cultura d’impresa, vale la pena riflettere sul senso e sulle condizioni per custodire documenti, schede tecniche, grafiche pubblicitarie, filmati ma anche bilanci societari e fascicoli dei processi produttivi e delle relazioni industriali (l’organizzazione, le trattative sindacali, il welfare aziendale) non solo per non disperdere un patrimonio di grande cultura tecnologica e materiale, ma anche per proteggere e valorizzare le suggestioni e le testimonianze utili a rilanciare, in modo originale, l’industria italiana.

Lo sviluppo italiano, infatti, sta “nelle smart land dove la manifattura intreccia la cultura”, come documenta un sociologo attento alla buona economia, come Aldo Bonomi (IlSole24Ore, 6 luglio). E la documentazione di quella cultura (tecnologia ed estetica, il “bello e ben fatto”, il design d’avanguardia e la qualità) è un vero e proprio patrimonio collettivo indispensabile alla ricchezza italiana. Quella cultura, sintesi di tradizione consapevole e continua propensione all’innovazione, è il nostro miglior asset competitivo: proprio quello che rende preziose le nostre imprese e non riproducibili a basso costo i loro prodotti a maggior valore aggiunto.

Sta appunto in questa consapevolezza l’impegno di grandi imprese, come la Pirelli, ma anche di medie e piccole, a costituire fondazioni che custodiscano gli archivi storici, con attività di manutenzione, restauro, digitalizzazione dei loro documenti (e messa a disposizione del pubblico delle scuole, dei ricercatori, degli storici). E qui vive la scelta di pensare alla “contemporaneità dell’archivio storico”, non certo come ossimoro utile a una comunicazione a effetto, ma come strumento per fare vivere, anche all’interno dell’azienda, il gioco della creatività tra ricorsi storici e innovazione.

Sono un costo, naturalmente, archivi e fondazioni (con scarso inventivo fiscale, purtroppo): richiedono spazi, competenze tecniche, risorse per il restauro e la conservazione, investimenti per la pubblicazione e la diffusione. Ma sono anche un valore. Che parla all’identità aziendale. E al futuro. Hanno senso pure le iniziative, come Museimpresa di Confindustria e soprattutto come il Centro della cultura d’impresa (un’iniziativa in cui hanno funzione di primo piano la Camera di Commercio di Milano e l’Assolombarda), per sostenere anche le piccole imprese, custodire e valorizzare i loro archivi e farne occasione di comunicazione, diffondere una vera e proprio “cultura della memoria d’impresa”.

C’è bisogno di storia, infatti, anche per rilanciare l’orgoglio industriale italiano. E’ necessario fare vivere, nel discorso pubblico e nel sentimento popolare, la qualità della nostra manifattura. E rinsaldare il forte senso di responsabilità verso le nostre radici. Memoria e cultura d’impresa non solo come effimeri eventi e spettacolarizzazione dei successi industriali (utili comunque a una buona comunicazione). Ma soprattutto come conservazione dei nostri valori produttivi e sociali. Una bella Italia dei suoi monumenti. E delle sue fabbriche.

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