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Il benessere etico della società e delle imprese

“L’efficienza produttiva di un’azienda, che miri a valutare il suo sviluppo non solo con parametri economici ma anche umani e sociali, tende a valorizzare sempre meglio le capacità, le creatività e le competenze professionali, umane e spirituali dei suoi dipendenti. Il principale fattore di produttività, più rilevante del profitto e del capitale, è dunque l’uomo che lavora, con la valorizzazione del suo ambiente di vita, in particolare la famiglia e la comunità”. Non è la visione dell’impresa, dell’imprenditore e di chi lavora con lui fornita da un manuale di moderna gestione aziendale, ma quella di Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino, espressa a inizio luglio in un intervento di fronte ai piccoli imprenditori raccolti da API Torino,  che riunisce le PMI di una delle aree d’Italia più tartassate dal punto di vista industriale.

Si tratta di un documento che delinea bene l’attuale interpretazione della Chiesa dei legami fra produzione ed economia, impresa e benessere sociale, capitale e lavoro. E che legge in maniera diversa concetti come la responsabilità sociale d’impresa, l’agire dell’imprenditore all’interno di un determinato contesto sociale, il ruolo dei lavoratori, i conflitti aziendali.

“Etica, imprese, società e benessere” – questo il titolo dell’intervento di Nosiglia -, non fa sconti a nessuno ma parla di un “patto generazionale” per venir fuori dalle difficoltà e che mette insieme istituzioni, giovani, imprese e forze culturali. Dice Nosiglia: “Le attuali difficoltà economiche fanno prevedere scenari difficili, che vanno attentamente considerati e prevenuti con un’accorta strategia, che veda le forze culturali (formazione), imprenditoriali, politiche e sociali agire insieme per gestire questa fase con accortezza e spirito di solidarietà, in vista di un patto sociale e generazionale che guardi al futuro del nostro territorio e valorizzi le imprese che malgrado tutto resistono e cercano sbocchi nuovi di mercato per affrontare l’attuale momento difficile”.

Insieme per superare la crisi, quindi. Ma non in maniera buonista e basta. Guardando, invece, ad una nuova cultura d’impresa e del lavoro, con un’attenzione particolare alle necessità del capitale ma anche a quelle dei lavoratori. E della società. E tirando in gioco anche la Chiesa che “ha – spiega l’Arcivescovo -, una grande responsabilità” come istituzione fatta però da singoli “cristiani imprenditori” che devono agire come tali. Anche nelle singole imprese.

Nosiglia poi aggiunge: “Va messo in bilancio che l’ambiente di lavoro, la produzione, le leggi economiche, il mercato comportano una serie di difficoltà, che possono apparire a volte insormontabili e comunque creano tensione, conflittualità, ingiustizie”. Passaggio delicato e critico al quale, per l’Arcivescovo di Torino, occorre rispondere facendo ricorso non solo alla religione ma anche agli elementi dell’etica  che “ogni uomo sente dentro di sé in quanto persona”.

Così , l’etica d’impresa e del profitto finisce per agganciarsi a quella cristiana e sociale. Situazione non nuova, adesso però con un elemento importante, sottolineato dallo stesso Arcivescovo, e più chiaro forse rispetto al passato: le difficoltà si superano con l’impegno di tutti, cristiani e non cristiani, imprenditori e operai.

Quella di Nosiglia, è una lettura che  può porre molti interrogativi sull’agire concreto all’interno del tessuto sociale e produttivo e mettere quindi in crisi schemi già costruiti. Una lettura che fa bene leggere.

“Etica, imprese, società e benessere”

Intervento dell’Arcivescovo di Torino, Monsignor Cesare Nosiglia

Torino, 2 luglio 2014

“L’efficienza produttiva di un’azienda, che miri a valutare il suo sviluppo non solo con parametri economici ma anche umani e sociali, tende a valorizzare sempre meglio le capacità, le creatività e le competenze professionali, umane e spirituali dei suoi dipendenti. Il principale fattore di produttività, più rilevante del profitto e del capitale, è dunque l’uomo che lavora, con la valorizzazione del suo ambiente di vita, in particolare la famiglia e la comunità”. Non è la visione dell’impresa, dell’imprenditore e di chi lavora con lui fornita da un manuale di moderna gestione aziendale, ma quella di Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino, espressa a inizio luglio in un intervento di fronte ai piccoli imprenditori raccolti da API Torino,  che riunisce le PMI di una delle aree d’Italia più tartassate dal punto di vista industriale.

Si tratta di un documento che delinea bene l’attuale interpretazione della Chiesa dei legami fra produzione ed economia, impresa e benessere sociale, capitale e lavoro. E che legge in maniera diversa concetti come la responsabilità sociale d’impresa, l’agire dell’imprenditore all’interno di un determinato contesto sociale, il ruolo dei lavoratori, i conflitti aziendali.

“Etica, imprese, società e benessere” – questo il titolo dell’intervento di Nosiglia -, non fa sconti a nessuno ma parla di un “patto generazionale” per venir fuori dalle difficoltà e che mette insieme istituzioni, giovani, imprese e forze culturali. Dice Nosiglia: “Le attuali difficoltà economiche fanno prevedere scenari difficili, che vanno attentamente considerati e prevenuti con un’accorta strategia, che veda le forze culturali (formazione), imprenditoriali, politiche e sociali agire insieme per gestire questa fase con accortezza e spirito di solidarietà, in vista di un patto sociale e generazionale che guardi al futuro del nostro territorio e valorizzi le imprese che malgrado tutto resistono e cercano sbocchi nuovi di mercato per affrontare l’attuale momento difficile”.

Insieme per superare la crisi, quindi. Ma non in maniera buonista e basta. Guardando, invece, ad una nuova cultura d’impresa e del lavoro, con un’attenzione particolare alle necessità del capitale ma anche a quelle dei lavoratori. E della società. E tirando in gioco anche la Chiesa che “ha – spiega l’Arcivescovo -, una grande responsabilità” come istituzione fatta però da singoli “cristiani imprenditori” che devono agire come tali. Anche nelle singole imprese.

Nosiglia poi aggiunge: “Va messo in bilancio che l’ambiente di lavoro, la produzione, le leggi economiche, il mercato comportano una serie di difficoltà, che possono apparire a volte insormontabili e comunque creano tensione, conflittualità, ingiustizie”. Passaggio delicato e critico al quale, per l’Arcivescovo di Torino, occorre rispondere facendo ricorso non solo alla religione ma anche agli elementi dell’etica  che “ogni uomo sente dentro di sé in quanto persona”.

Così , l’etica d’impresa e del profitto finisce per agganciarsi a quella cristiana e sociale. Situazione non nuova, adesso però con un elemento importante, sottolineato dallo stesso Arcivescovo, e più chiaro forse rispetto al passato: le difficoltà si superano con l’impegno di tutti, cristiani e non cristiani, imprenditori e operai.

Quella di Nosiglia, è una lettura che  può porre molti interrogativi sull’agire concreto all’interno del tessuto sociale e produttivo e mettere quindi in crisi schemi già costruiti. Una lettura che fa bene leggere.

“Etica, imprese, società e benessere”

Intervento dell’Arcivescovo di Torino, Monsignor Cesare Nosiglia

Torino, 2 luglio 2014

L’etica fa bene al profitto

L’etica d’impresa può far bene al brand d’impresa. Anche dal punto di vista economico e non solo sul fronte dell’immagine. E’ un passo in avanti rispetto a quanto si sarebbe portati a credere: l’impresa esiste per fare profitti e dare salari, per produrre benessere, magari anche sociale. Altra cosa, invece, è arrivare a capire – e mettere in pratica -, l’importanza della responsabilità sociale d’impresa (e quindi del suo agire etico), anche in vista di un miglioramento delle prestazioni economiche della stessa. Etica e profitto – è quindi la conclusione -, non si eliminano a vicenda ma, anzi, si aiutano.

Serve, per comprendere meglio il tema, il libro di Alessandro Spizzo apparso nella collana Nuovi pensieri di Libreriauniversitaria.it Edizioni. Scritto in maniera semplice, in circa 160 pagine “Gli effetti dell’etica sul brand” è chiaramente suddiviso in tre parti. Prima di tutto un ragionamento sul cambiamento dei “tempi d’impresa”  e sull’avvento dei ragionamenti sugli aspetti etici del marketing (toccando anche il Caused Related Marketing che cerca di unire obiettivi economici dell’azienda con quelli sociali), poi un approfondimento sulla responsabilità sociale d’impresa (Rsi), sia all’interno che all’esterno di questa. Spizzo non ragiona solo in termini teorici, ma cerca di fornire spunti operativi per la gestione reale della Rsi prendendo anche come esempio concreto quello di una’azienda leader nel settore delle attrezzature sportive come la Ferrino & C. SpA.

Per far meglio capire quanto l’etica d’impresa e la responsabilità sociale siano concetti non dell’oggi, Spizzo costruisce anche una cronologia delle tappe principali della loro evoluzione. A partire  dal 1800 con l’esempio dell’azienda di Roberto Owen che nel New Lanark avvia una filanda facendone un’azienda modello dal punto di vista etico e che diciannove anni dopo riuscirà a far approvare in Inghilterra la prima legge per la limitazione del lavoro delle donne e dei bambini nelle fabbriche.

E’ interessante uno dei primi passaggi del ragionamento di Spizzo: “L’assunzione di una responsabilità sociale diventa interessante e concretamente realizzabile quando si dimostra conveniente, nel senso etimologico latino del termine, cioè quello di ‘venire da più parti in un medesimo luogo e per una medesima ragione’. In questo ‘incontro armonico’ si allineano gli obiettivi di competitività ed economicità per l’impresa con quelli sociali”.

Leggere “Gli effetti dell’etica sul brand” rappresenta un buon esercizio per tutti.

Gli effetti dell’etica sul brand

Alessandro Spizzo

Libreriauniversitaria.it Edizioni

L’etica d’impresa può far bene al brand d’impresa. Anche dal punto di vista economico e non solo sul fronte dell’immagine. E’ un passo in avanti rispetto a quanto si sarebbe portati a credere: l’impresa esiste per fare profitti e dare salari, per produrre benessere, magari anche sociale. Altra cosa, invece, è arrivare a capire – e mettere in pratica -, l’importanza della responsabilità sociale d’impresa (e quindi del suo agire etico), anche in vista di un miglioramento delle prestazioni economiche della stessa. Etica e profitto – è quindi la conclusione -, non si eliminano a vicenda ma, anzi, si aiutano.

Serve, per comprendere meglio il tema, il libro di Alessandro Spizzo apparso nella collana Nuovi pensieri di Libreriauniversitaria.it Edizioni. Scritto in maniera semplice, in circa 160 pagine “Gli effetti dell’etica sul brand” è chiaramente suddiviso in tre parti. Prima di tutto un ragionamento sul cambiamento dei “tempi d’impresa”  e sull’avvento dei ragionamenti sugli aspetti etici del marketing (toccando anche il Caused Related Marketing che cerca di unire obiettivi economici dell’azienda con quelli sociali), poi un approfondimento sulla responsabilità sociale d’impresa (Rsi), sia all’interno che all’esterno di questa. Spizzo non ragiona solo in termini teorici, ma cerca di fornire spunti operativi per la gestione reale della Rsi prendendo anche come esempio concreto quello di una’azienda leader nel settore delle attrezzature sportive come la Ferrino & C. SpA.

Per far meglio capire quanto l’etica d’impresa e la responsabilità sociale siano concetti non dell’oggi, Spizzo costruisce anche una cronologia delle tappe principali della loro evoluzione. A partire  dal 1800 con l’esempio dell’azienda di Roberto Owen che nel New Lanark avvia una filanda facendone un’azienda modello dal punto di vista etico e che diciannove anni dopo riuscirà a far approvare in Inghilterra la prima legge per la limitazione del lavoro delle donne e dei bambini nelle fabbriche.

E’ interessante uno dei primi passaggi del ragionamento di Spizzo: “L’assunzione di una responsabilità sociale diventa interessante e concretamente realizzabile quando si dimostra conveniente, nel senso etimologico latino del termine, cioè quello di ‘venire da più parti in un medesimo luogo e per una medesima ragione’. In questo ‘incontro armonico’ si allineano gli obiettivi di competitività ed economicità per l’impresa con quelli sociali”.

Leggere “Gli effetti dell’etica sul brand” rappresenta un buon esercizio per tutti.

Gli effetti dell’etica sul brand

Alessandro Spizzo

Libreriauniversitaria.it Edizioni

La Ue di JCJ ora rilancia l’economia reale e l’industria italiana può giocare le carte migliori

Europa, “finalmente attenzione all’economia reale”, scrive Il Sole24Ore, commentando positivamente, per l’autorevole firma di Alberto Quadrio Curzio (20 luglio), il programma di Jean-Claude Juncker, dopo la sua elezione a presidente della Commissione Europea. Il documento del nuovo corso di JCJ (il lungo nome diventato sigla, per la gioia dei titolisti dei giornali) ha un titolo ambizioso, “Programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico”. E Quadrio Curzio ne apprezza la concretezza strategica, al di là dei dibattiti, oramai rituali, sulla essenzialità del “fiscal compact” (conti pubblici in ordine, per poter parlare di sviluppo), sui limiti della “flessibilità” nei (e non “dei”) parametri di Maastricht e sulla necessità di rafforzare scelte da “industrial compact” per una maggiore e migliore competitività dell’economia e soprattutto dell’industria europea.

JCJ indica “dieci settori strategici di intervento”. E insiste sul principio di “sussidiarietà” quando ricorda che sono soprattutto le imprese a creare occupazione (buon monito, a chi ritiene valida la ricetta simil-keynesiana che affida alla spesa pubblica il compito di difendere e produrre posti di lavoro) e che “dunque i fondi pubblici della Ue – commenta Quadrio Curzio – possono e devono essere usati meglio per spingere gli investimenti nell’economia reale e per una proficua sinergia tra pubblico e privato”. Non assistenzialismo dunque, pur nella consapevolezza dell’importanza delle dimensioni sociali della crisi ancora viva e delle scelte da “economia sociale di mercato”. Ma stimoli agli investimenti e allo sviluppo (con il corollario di sostegno a ricerca, innovazione, formazione, infrastrutture). E con le imprese in primo piano.

Economia reale, appunto. Gli interventi “in settori strategici” parlano infatti di investimenti Ue in sistemi di infrastrutture integrate (digitale e banda larga, energie, trasporti, tecnoscienze). Quadrio Curzio ne mette in rilievo “il potenziamento dei finanziamenti sia con un uso più efficiente ed efficace del bilancio comunitario sia tramite la Bei (la Banca europea degli investimenti) e il partenariato pubblico-privato, sia con nuovi strumenti finanziari per le imprese”. JCJ si è impegnato a presentare entro tre mesi, all’inizio dell’autunno, cioè, un programma che metta in movimento 300 miliardi di investimenti in tre anni: “Si creerebbero così – commenta Quadrio Curzio – dei mercati integrati infrastrutturalmente e una maggiore competitività specie per l’industria che per JCJ deve puntare al 20% del Pil della Ue. Per fare sì che di questa strategia di crescita reale beneficino anche le piccole e medie imprese, che danno oltre l’85% degli occupati nella Ue, JCJ si impegna anche a una semplificazione radicale delle norme europee, auspicando una ricaduta su quelle nazionali”. Importante, il richiamo alla Bei, con un’efficacia da migliorare (nel triennio 2013-2015 può “liberare” fino a 180 miliardi in investimenti addizionali all’economia reale, dalle infrastrutture alle Pmi). E importante anche il silenzio sulla Bce, interpretato come apprezzamento della sua autonomia e del ruolo svolto finora per il sostegno all’economia europea.

L’Europa si muove. E l’Italia, come intende partecipare alla nuova strategia di JCJ? I dati economici italiani sono ancora negativi, con un ridimensionamento (fonte Bankitalia) delle prospettive di crescita del Pil a uno stentato 0,2% nel 2014 (contro le previsioni del governo di uno 0,7%). La competitività è in caduta, a causa soprattutto degli scarsi investimenti esteri, del peso del fisco, del contesto normativo e burocratico complesso e opaco, dei servizi carenti e della caduta dell’occupazione (il sistema Paese ha perso sei posizioni in due anni, secondo la classifica del World Competitiveness Center dell’Imd, l’Institute for Management Development di Losanna, scivolando dalla 40° alla 46° posizione, molto più in basso di Germania, Francia ma anche Spagna e Portogallo). La manifattura e i servizi ristagnano (secondo le indagini R&S di Mediobanca sui bilanci delle principali società italiane). L’industria perde colpi e la crescita dell’export delle aziende migliori non ce la fa, da sola, naturalmente, a controbilanciare un’evidente condizione di crisi ancora in corso (con fortissime ricadute negative sui posti di lavoro e sui redditi).

E il governo? Ha annunciato “un piano industriale per fare ripartire l’Italia”, con interventi per fare crescere gli investimenti e lavorare “sull’offerta di made in Italy di qualità” che tutto il mondo apprezza e aspetta. “Se lavoriamo bene sull’offerta, abbiamo davanti vent’anni di benessere reale”, prevede, molto fiducioso, il viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda, guardando soprattutto ai mercati esteri su cui rafforzarsi e a quelli da conquistare. Dunque, più investimenti, più innovazione, maggiore internazionalizzazione, meno complicazioni burocratiche (e meno corruzione: un vero ostacolo alla buona economia competitiva).

Il programma di JCJ è una buona cornice europea in cui inserire il rinnovamento e il rilancio italiano. Le imprese migliori (alcune migliaia di medio-grandi, che trascinano le piccole e medie) sono già su questa lunghezza d’onda. La nostra cultura d’impresa è innovativa. La sfida è tutta per la politica e la pubblica amministrazione. Da non perdere.

Europa, “finalmente attenzione all’economia reale”, scrive Il Sole24Ore, commentando positivamente, per l’autorevole firma di Alberto Quadrio Curzio (20 luglio), il programma di Jean-Claude Juncker, dopo la sua elezione a presidente della Commissione Europea. Il documento del nuovo corso di JCJ (il lungo nome diventato sigla, per la gioia dei titolisti dei giornali) ha un titolo ambizioso, “Programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico”. E Quadrio Curzio ne apprezza la concretezza strategica, al di là dei dibattiti, oramai rituali, sulla essenzialità del “fiscal compact” (conti pubblici in ordine, per poter parlare di sviluppo), sui limiti della “flessibilità” nei (e non “dei”) parametri di Maastricht e sulla necessità di rafforzare scelte da “industrial compact” per una maggiore e migliore competitività dell’economia e soprattutto dell’industria europea.

JCJ indica “dieci settori strategici di intervento”. E insiste sul principio di “sussidiarietà” quando ricorda che sono soprattutto le imprese a creare occupazione (buon monito, a chi ritiene valida la ricetta simil-keynesiana che affida alla spesa pubblica il compito di difendere e produrre posti di lavoro) e che “dunque i fondi pubblici della Ue – commenta Quadrio Curzio – possono e devono essere usati meglio per spingere gli investimenti nell’economia reale e per una proficua sinergia tra pubblico e privato”. Non assistenzialismo dunque, pur nella consapevolezza dell’importanza delle dimensioni sociali della crisi ancora viva e delle scelte da “economia sociale di mercato”. Ma stimoli agli investimenti e allo sviluppo (con il corollario di sostegno a ricerca, innovazione, formazione, infrastrutture). E con le imprese in primo piano.

Economia reale, appunto. Gli interventi “in settori strategici” parlano infatti di investimenti Ue in sistemi di infrastrutture integrate (digitale e banda larga, energie, trasporti, tecnoscienze). Quadrio Curzio ne mette in rilievo “il potenziamento dei finanziamenti sia con un uso più efficiente ed efficace del bilancio comunitario sia tramite la Bei (la Banca europea degli investimenti) e il partenariato pubblico-privato, sia con nuovi strumenti finanziari per le imprese”. JCJ si è impegnato a presentare entro tre mesi, all’inizio dell’autunno, cioè, un programma che metta in movimento 300 miliardi di investimenti in tre anni: “Si creerebbero così – commenta Quadrio Curzio – dei mercati integrati infrastrutturalmente e una maggiore competitività specie per l’industria che per JCJ deve puntare al 20% del Pil della Ue. Per fare sì che di questa strategia di crescita reale beneficino anche le piccole e medie imprese, che danno oltre l’85% degli occupati nella Ue, JCJ si impegna anche a una semplificazione radicale delle norme europee, auspicando una ricaduta su quelle nazionali”. Importante, il richiamo alla Bei, con un’efficacia da migliorare (nel triennio 2013-2015 può “liberare” fino a 180 miliardi in investimenti addizionali all’economia reale, dalle infrastrutture alle Pmi). E importante anche il silenzio sulla Bce, interpretato come apprezzamento della sua autonomia e del ruolo svolto finora per il sostegno all’economia europea.

L’Europa si muove. E l’Italia, come intende partecipare alla nuova strategia di JCJ? I dati economici italiani sono ancora negativi, con un ridimensionamento (fonte Bankitalia) delle prospettive di crescita del Pil a uno stentato 0,2% nel 2014 (contro le previsioni del governo di uno 0,7%). La competitività è in caduta, a causa soprattutto degli scarsi investimenti esteri, del peso del fisco, del contesto normativo e burocratico complesso e opaco, dei servizi carenti e della caduta dell’occupazione (il sistema Paese ha perso sei posizioni in due anni, secondo la classifica del World Competitiveness Center dell’Imd, l’Institute for Management Development di Losanna, scivolando dalla 40° alla 46° posizione, molto più in basso di Germania, Francia ma anche Spagna e Portogallo). La manifattura e i servizi ristagnano (secondo le indagini R&S di Mediobanca sui bilanci delle principali società italiane). L’industria perde colpi e la crescita dell’export delle aziende migliori non ce la fa, da sola, naturalmente, a controbilanciare un’evidente condizione di crisi ancora in corso (con fortissime ricadute negative sui posti di lavoro e sui redditi).

E il governo? Ha annunciato “un piano industriale per fare ripartire l’Italia”, con interventi per fare crescere gli investimenti e lavorare “sull’offerta di made in Italy di qualità” che tutto il mondo apprezza e aspetta. “Se lavoriamo bene sull’offerta, abbiamo davanti vent’anni di benessere reale”, prevede, molto fiducioso, il viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda, guardando soprattutto ai mercati esteri su cui rafforzarsi e a quelli da conquistare. Dunque, più investimenti, più innovazione, maggiore internazionalizzazione, meno complicazioni burocratiche (e meno corruzione: un vero ostacolo alla buona economia competitiva).

Il programma di JCJ è una buona cornice europea in cui inserire il rinnovamento e il rilancio italiano. Le imprese migliori (alcune migliaia di medio-grandi, che trascinano le piccole e medie) sono già su questa lunghezza d’onda. La nostra cultura d’impresa è innovativa. La sfida è tutta per la politica e la pubblica amministrazione. Da non perdere.

L’aria pura di Adriano Olivetti

Guardare all’industria come ad un bene collettivo. Vedere l’impresa come una conquista di tutti. In tempi complessi come quelli che la società e il sistema produttivo stanno attraversando, concetti di questo genere appaiono quantomeno anacronistici, altro dalla realtà (anche quella sognata). Di fatto però, la ripresa della produzione, gli esempi migliori di essa, una prospettiva seria e concreta  di sviluppo passano anche da concetti di questo genere. Aria pura che si deve diffondere. Aria attualissima eppure non nuova. A farla sentire meglio di molti altri, a darle un fascino e una profondità particolari ci aveva già pensato Adriano Olivetti del quale, in questi mesi le rinate Edizioni di Comunità stanno ripubblicando tutti gli scritti.

“Le fabbriche del bene” – volumetto agile che si legge d’un fiato -, raccoglie due significativi interventi dell’imprenditore di Ivrea: il primo è la sintesi del progetto di Comunità cioè dell’idea, fondata anche sulla fabbrica, di convivenza civile di Olivetti; il secondo (“Dovete conoscere i fini del vostro lavoro”), è un discorso tenuto nel giugno del ’45 agli operai  della Olivetti subito dopo la Liberazione. In entrambi appaiono a più riprese suggestioni, lampi, idee, concetti che appaiono oggi come ieri provocatori ed unici, ispiratori di organizzazioni e gestioni del lavoro modernissime ma ancora difficilmente reperibili in una forma compiuta.

“Ogni azienda importante determina, per i suoi problemi tecnici e per i bisogni di vita dei propri dipendenti, continui conflitti di interessi con l’ambiente in cui vive”, ammette per esempio Olivetti, nel primo intervento contenuto nel volume, che aggiunge subito dopo: “In verità il bene comune nell’industria è una funzione complessa di: interessi individuali e diretti dei partecipanti al lavoro; interessi spirituali solidaristici e sociali indiretti dei medesimi; interessi dell’ambiente immediatamente vicino, che trae ragion di vita e di sviluppo dal progredire dell’industria; interessi del territorio immediatamente limitrofo”. Tutto per arrivare a dire che l’unica soluzione possibile per il benessere e il progresso sta “nell’equilibrio tra le forze che rappresentando gli interessi descritti”. Una conclusione che vale ancora e che spesso tuttavia sembra lontana dalla realtà dei tempi.

Ancora più vicino alla fabbrica, alla sua cultura e al lavoro che vi si svolge è il secondo scritto contenuto nel volume. Che inizia subito con la testimonianza della presenza di qualcosa che sfugge ad “un esame razionale” dell’agire imprenditoriale per valutare il quale non è sufficiente il solo calcolo.  Poi arriva il racconto della fabbrica durante la guerra che serve per gettare insolite (apparentemente per molti ma non per Olivetti), basi della fabbrica del futuro. Alla domanda su cosa fare, Adriano Olivetti infatti risponde: “Saremo condotti dai valori spirituali, che sono valori eterni. Seguendo questi i beni materiali sorgeranno da sé senza che non li ricerchiamo”.

Ha ragione Gustavo Zagrebelsky  nella bella introduzione al volume: le idee di Olivetti potevano “sembrare fuori dal mondo” e in effetti Olivetti era ed è “fuori di quel mondo e di questo attuale, ma voleva rappresentare l’ingresso in un altro mondo”.

Le fabbriche del bene

Adriano Olivetti

Edizioni di Comunità, 2014

Guardare all’industria come ad un bene collettivo. Vedere l’impresa come una conquista di tutti. In tempi complessi come quelli che la società e il sistema produttivo stanno attraversando, concetti di questo genere appaiono quantomeno anacronistici, altro dalla realtà (anche quella sognata). Di fatto però, la ripresa della produzione, gli esempi migliori di essa, una prospettiva seria e concreta  di sviluppo passano anche da concetti di questo genere. Aria pura che si deve diffondere. Aria attualissima eppure non nuova. A farla sentire meglio di molti altri, a darle un fascino e una profondità particolari ci aveva già pensato Adriano Olivetti del quale, in questi mesi le rinate Edizioni di Comunità stanno ripubblicando tutti gli scritti.

“Le fabbriche del bene” – volumetto agile che si legge d’un fiato -, raccoglie due significativi interventi dell’imprenditore di Ivrea: il primo è la sintesi del progetto di Comunità cioè dell’idea, fondata anche sulla fabbrica, di convivenza civile di Olivetti; il secondo (“Dovete conoscere i fini del vostro lavoro”), è un discorso tenuto nel giugno del ’45 agli operai  della Olivetti subito dopo la Liberazione. In entrambi appaiono a più riprese suggestioni, lampi, idee, concetti che appaiono oggi come ieri provocatori ed unici, ispiratori di organizzazioni e gestioni del lavoro modernissime ma ancora difficilmente reperibili in una forma compiuta.

“Ogni azienda importante determina, per i suoi problemi tecnici e per i bisogni di vita dei propri dipendenti, continui conflitti di interessi con l’ambiente in cui vive”, ammette per esempio Olivetti, nel primo intervento contenuto nel volume, che aggiunge subito dopo: “In verità il bene comune nell’industria è una funzione complessa di: interessi individuali e diretti dei partecipanti al lavoro; interessi spirituali solidaristici e sociali indiretti dei medesimi; interessi dell’ambiente immediatamente vicino, che trae ragion di vita e di sviluppo dal progredire dell’industria; interessi del territorio immediatamente limitrofo”. Tutto per arrivare a dire che l’unica soluzione possibile per il benessere e il progresso sta “nell’equilibrio tra le forze che rappresentando gli interessi descritti”. Una conclusione che vale ancora e che spesso tuttavia sembra lontana dalla realtà dei tempi.

Ancora più vicino alla fabbrica, alla sua cultura e al lavoro che vi si svolge è il secondo scritto contenuto nel volume. Che inizia subito con la testimonianza della presenza di qualcosa che sfugge ad “un esame razionale” dell’agire imprenditoriale per valutare il quale non è sufficiente il solo calcolo.  Poi arriva il racconto della fabbrica durante la guerra che serve per gettare insolite (apparentemente per molti ma non per Olivetti), basi della fabbrica del futuro. Alla domanda su cosa fare, Adriano Olivetti infatti risponde: “Saremo condotti dai valori spirituali, che sono valori eterni. Seguendo questi i beni materiali sorgeranno da sé senza che non li ricerchiamo”.

Ha ragione Gustavo Zagrebelsky  nella bella introduzione al volume: le idee di Olivetti potevano “sembrare fuori dal mondo” e in effetti Olivetti era ed è “fuori di quel mondo e di questo attuale, ma voleva rappresentare l’ingresso in un altro mondo”.

Le fabbriche del bene

Adriano Olivetti

Edizioni di Comunità, 2014

“Moderno è ciò che è degno di diventare antico”, una sfida di sintesi tra cultura classica e scientifica

Moderno è ciò che è degno di diventare antico… moderno è lo spirito dei tempi, ma la forma vera non può che essere classica”. Sta in questa  bella definizione di Dino Gavina una delle chiavi per riflettere su tradizione e innovazione in Italia e dunque sugli intrecci tra saperi umanistici e cultura scientifica, fuori dalle tradizionali (ed errate) antinomie. Era un designer, Gavina (uno dei “maestri” degli anni 50 e 60, accanto a Munari e Mari, Ponti e Castiglioni). Dunque un uomo abituato a ragionare di cultura e imprese, forme e funzioni, parole e numeri, progetti e prodotti e a trovare, di conseguenza, sintesi originali tra il pensare e il fare, l’idea e la sua realizzazione. La sostanza, appunto, della buona manifattura. E della “cultura politecnica”, potremmo anche dire, con una frase cara alle elaborazioni della Fondazione Pirelli. C’è un nesso molto stretto, dunque, tra “moderno” e “classico”, tra l’innovazione e le sue radici nella memoria storica, tra i valori di fondo dell’umanesimo e la scienza, che della modernità stessa è forza creativa. Un nesso da cogliere e alimentare. Il patrimonio storico e culturale è il nostro passato. La scienza e la creatività sono leve innovative per costruire quel che sarà patrimonio domani.

La frase e le sintesi di Gavina vengono in mente leggendo le riflessioni di Carlo Rovelli, fisico teorico, appena insignito del Premio Merck, su “Perché siamo il Paese dell’incultura scientifica” (su “la Repubblica” del 19 luglio). Un’analisi sulla scuola e i saperi e sul deficit culturale che si lega a una sottovalutazione dell’importanza della ricerca, sia quella “pura” sia quella “applicata”, declinata cioè in innovazione utile all’impresa e allo sviluppo dell’economia (una contrapposizione che proprio l’Italia ha talvolta pur saputo evitare, come dimostra la storia di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1954 e “padre” del polipropilene, conquista chiave dell’industria italiana, con il “moplen”). Dice dunque Rovelli di ritenere “che la scuola italiana sia tra le migliori del mondo… paradossalmente soprattutto per chi vuole dedicarsi alla scienza, come ho fatto io… perché i giovani italiani hanno qualcosa che altri paesi fanno fatica a offrire: non solo fantasia e creatività, ma soprattutto un’ampia, solida e profonda cultura. Sono convinto che studiare Alceo, Kant e Michelangelo offra  a uno scienziato strumenti di pensiero più acuminati che non passare ore a calcolare integrali, come fanno i ragazzi delle scuole di élite di Parigi”. E ancora: “La capacità di guardare lontano e individuare i problemi chiave è venuta dalla scuola italiana, dall’ampiezza della sua prospettiva storica e culturale”. Quel che manca, invece, è “la scienza”: l’Italia “resta pericolosamente un Paese di profonda incultura scientifica, sia confrontato con gli altri paesi europei, dove la scienza è rispettata profondamente, sia forse con i paesi emergenti, che vedono nella cultura scientifica la chiave del loro sviluppo”. Le riprove dell’incultura: “La mancanza di scienza seria a scuola; l’incapacità di avere discussioni dove si ascoltano con attenzione argomenti e contro-argomenti; la diffusa ignoranza di scienza nelle nostre élite, fin nel nostro parlamento, e peggio ancora la stucchevole prosopopea di chi si fa vanto di non capire nulla di scienza”.

E invece, “la cultura è la ricchezza e la complessità del sapere, l’insieme degli strumenti concettuali di cui dispone una comunità per pensare a se stessa e al mondo. Cultura classica e scientifica sono facce complementari di questo insieme, che si rafforzano l’una con l’altra”.  Ebbene, “l’incultura scientifica del paese è una nostra debolezza severa. I paesi più ricchi come i paesi emergenti sanno che senza cultura scientifica adeguata un paese oggi diventa rapidamente arretrato. E l’Italia arretra”.

Non è andata sempre così. Rovelli ricorda Galileo, “il frutto forse più straordinario del maturo Rinascimento italiano, uomo di musica e lettere, profondo conoscitore dell’antichità classica, di Aristotele e Platone… e l’iniziatore della scienza moderna, primo a capire come interrogare la Natura, primo a trovare una legge matematica che descrive il moto dei corpi sulla terra, primo a guardare nel cielo cose che nessun umano aveva mai prima saputo immaginare”. Una figura da riprendere in considerazione: “Mi piacerebbe che l’Italia fosse orgogliosa di Galileo, non solo di Raffaello”, dice Rovelli. Che riscoprisse le qualità di matematico di Piero della Francesca e non solo le sue doti di grande pittore, potremmo aggiungere noi. Insomma, per concludere con Rovelli, ”mi piacerebbe che l’Italia si allontanasse dall’idea che la cultura sia solo arte antica o culto sterile del proprio passato, che l’Italia desse alla cultura e alla cultura scientifica in particolare la dignità che deve avere nella formazione di una persona”.

Moderno è ciò che è degno di diventare antico… moderno è lo spirito dei tempi, ma la forma vera non può che essere classica”. Sta in questa  bella definizione di Dino Gavina una delle chiavi per riflettere su tradizione e innovazione in Italia e dunque sugli intrecci tra saperi umanistici e cultura scientifica, fuori dalle tradizionali (ed errate) antinomie. Era un designer, Gavina (uno dei “maestri” degli anni 50 e 60, accanto a Munari e Mari, Ponti e Castiglioni). Dunque un uomo abituato a ragionare di cultura e imprese, forme e funzioni, parole e numeri, progetti e prodotti e a trovare, di conseguenza, sintesi originali tra il pensare e il fare, l’idea e la sua realizzazione. La sostanza, appunto, della buona manifattura. E della “cultura politecnica”, potremmo anche dire, con una frase cara alle elaborazioni della Fondazione Pirelli. C’è un nesso molto stretto, dunque, tra “moderno” e “classico”, tra l’innovazione e le sue radici nella memoria storica, tra i valori di fondo dell’umanesimo e la scienza, che della modernità stessa è forza creativa. Un nesso da cogliere e alimentare. Il patrimonio storico e culturale è il nostro passato. La scienza e la creatività sono leve innovative per costruire quel che sarà patrimonio domani.

La frase e le sintesi di Gavina vengono in mente leggendo le riflessioni di Carlo Rovelli, fisico teorico, appena insignito del Premio Merck, su “Perché siamo il Paese dell’incultura scientifica” (su “la Repubblica” del 19 luglio). Un’analisi sulla scuola e i saperi e sul deficit culturale che si lega a una sottovalutazione dell’importanza della ricerca, sia quella “pura” sia quella “applicata”, declinata cioè in innovazione utile all’impresa e allo sviluppo dell’economia (una contrapposizione che proprio l’Italia ha talvolta pur saputo evitare, come dimostra la storia di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1954 e “padre” del polipropilene, conquista chiave dell’industria italiana, con il “moplen”). Dice dunque Rovelli di ritenere “che la scuola italiana sia tra le migliori del mondo… paradossalmente soprattutto per chi vuole dedicarsi alla scienza, come ho fatto io… perché i giovani italiani hanno qualcosa che altri paesi fanno fatica a offrire: non solo fantasia e creatività, ma soprattutto un’ampia, solida e profonda cultura. Sono convinto che studiare Alceo, Kant e Michelangelo offra  a uno scienziato strumenti di pensiero più acuminati che non passare ore a calcolare integrali, come fanno i ragazzi delle scuole di élite di Parigi”. E ancora: “La capacità di guardare lontano e individuare i problemi chiave è venuta dalla scuola italiana, dall’ampiezza della sua prospettiva storica e culturale”. Quel che manca, invece, è “la scienza”: l’Italia “resta pericolosamente un Paese di profonda incultura scientifica, sia confrontato con gli altri paesi europei, dove la scienza è rispettata profondamente, sia forse con i paesi emergenti, che vedono nella cultura scientifica la chiave del loro sviluppo”. Le riprove dell’incultura: “La mancanza di scienza seria a scuola; l’incapacità di avere discussioni dove si ascoltano con attenzione argomenti e contro-argomenti; la diffusa ignoranza di scienza nelle nostre élite, fin nel nostro parlamento, e peggio ancora la stucchevole prosopopea di chi si fa vanto di non capire nulla di scienza”.

E invece, “la cultura è la ricchezza e la complessità del sapere, l’insieme degli strumenti concettuali di cui dispone una comunità per pensare a se stessa e al mondo. Cultura classica e scientifica sono facce complementari di questo insieme, che si rafforzano l’una con l’altra”.  Ebbene, “l’incultura scientifica del paese è una nostra debolezza severa. I paesi più ricchi come i paesi emergenti sanno che senza cultura scientifica adeguata un paese oggi diventa rapidamente arretrato. E l’Italia arretra”.

Non è andata sempre così. Rovelli ricorda Galileo, “il frutto forse più straordinario del maturo Rinascimento italiano, uomo di musica e lettere, profondo conoscitore dell’antichità classica, di Aristotele e Platone… e l’iniziatore della scienza moderna, primo a capire come interrogare la Natura, primo a trovare una legge matematica che descrive il moto dei corpi sulla terra, primo a guardare nel cielo cose che nessun umano aveva mai prima saputo immaginare”. Una figura da riprendere in considerazione: “Mi piacerebbe che l’Italia fosse orgogliosa di Galileo, non solo di Raffaello”, dice Rovelli. Che riscoprisse le qualità di matematico di Piero della Francesca e non solo le sue doti di grande pittore, potremmo aggiungere noi. Insomma, per concludere con Rovelli, ”mi piacerebbe che l’Italia si allontanasse dall’idea che la cultura sia solo arte antica o culto sterile del proprio passato, che l’Italia desse alla cultura e alla cultura scientifica in particolare la dignità che deve avere nella formazione di una persona”.

Collaborare fra “diversi” per crescere tutti

Come si fa a far collaborare imprese che hanno come obiettivo il profitto e altre che, invece, hanno come traguardo il benessere sociale? Il tema è importante, soprattutto oggi. Perché da un lato di responsabilità sociale dell’impresa “profit” si parla sempre più spesso; dall’altro l’attività delle aziende “non profit” cresce d’importanza accanto però all’aumentare dei problemi da risolvere. D’altra parte, i legami fra gli imprenditori in cerca di profitto economico e quelli che guardano ad altri obiettivi, ci sono sempre stati. Oggi, tuttavia, si fanno più complessi e forse per questo più interessanti da esplorare.

Per capire, quindi, occorrono sguardi acuti, che sappiano indagare le molte realtà che collegano i due tipi di attività. E la cultura d’impresa dietro ad ognuno di essi.

E’  per questo che  serve leggere “Cross-fertilization tra mondo profit e imprese sociali” di Laura Corazza (dell’Università di Torino), recentemente apparso in Impresa sociale. Si tratta di un articolo che ragiona sui legami fra imprese di produzione “normali” quindi “profit” e imprese sociali, cercando di capirne le reciproche influenze oltre che i vantaggi.

Il nucleo della ricerca è un caso reale: il progetto europeo LOIEs (Lesson and options for an integrated approach), che viene raccontato e descritto anche con una serie di interviste a chi ne ha preso parte (in particolare i componenti di due aziende, la Divitech Spa e la Cooperativa sociale ORSO). LOIEs, iniziato nel marzo 2012 e concluso un anno e mezzo dopo, è un esempio di come aziende che hanno obiettivi diversi possano collaborare insieme.

Prima ancora però, Corazza sintetizza in poche pagine la teoria dei  collegamenti fra aziende “profit” e quelle “non profit” usando il metodo della cross-fertilization  cioè del continuo processo di scambio di conoscenze, intuizioni e suggestioni  che scatta prima della creazione di un vero rapporto di collaborazione  tra organizzazioni diverse.

Dalle indicazioni della realtà interpretate con quelle della teoria, Laura Corazza arriva a tre conclusioni che possono essere applicate in molti altri casi simili. La cross-fertilization agisce per davvero e almeno su tre livelli: il primo psicologico  (iniziare a collaborare ha un impatto emozionale e partecipativo importante), il secondo manageriale (i buoni risultati arrivano quando i manager delle realtà in gioco si parlano e collaborano per davvero), il terzo tecnico-operativo (dal collaborare insieme le imprese possono trarre motivi per nuovi servizi e nuovi prodotti).

“Cross-fertilization tra mondo profit e imprese sociali” ha un altro pregio: è scritto con un linguaggio piano e chiaro e spiega bene un modo diverso di intendere la cultura d’impresa oggi.

Cross-fertilization tra mondo profit e imprese sociali

Laura Corazza

Impresa sociale, n. 3, aprile 2014

Come si fa a far collaborare imprese che hanno come obiettivo il profitto e altre che, invece, hanno come traguardo il benessere sociale? Il tema è importante, soprattutto oggi. Perché da un lato di responsabilità sociale dell’impresa “profit” si parla sempre più spesso; dall’altro l’attività delle aziende “non profit” cresce d’importanza accanto però all’aumentare dei problemi da risolvere. D’altra parte, i legami fra gli imprenditori in cerca di profitto economico e quelli che guardano ad altri obiettivi, ci sono sempre stati. Oggi, tuttavia, si fanno più complessi e forse per questo più interessanti da esplorare.

Per capire, quindi, occorrono sguardi acuti, che sappiano indagare le molte realtà che collegano i due tipi di attività. E la cultura d’impresa dietro ad ognuno di essi.

E’  per questo che  serve leggere “Cross-fertilization tra mondo profit e imprese sociali” di Laura Corazza (dell’Università di Torino), recentemente apparso in Impresa sociale. Si tratta di un articolo che ragiona sui legami fra imprese di produzione “normali” quindi “profit” e imprese sociali, cercando di capirne le reciproche influenze oltre che i vantaggi.

Il nucleo della ricerca è un caso reale: il progetto europeo LOIEs (Lesson and options for an integrated approach), che viene raccontato e descritto anche con una serie di interviste a chi ne ha preso parte (in particolare i componenti di due aziende, la Divitech Spa e la Cooperativa sociale ORSO). LOIEs, iniziato nel marzo 2012 e concluso un anno e mezzo dopo, è un esempio di come aziende che hanno obiettivi diversi possano collaborare insieme.

Prima ancora però, Corazza sintetizza in poche pagine la teoria dei  collegamenti fra aziende “profit” e quelle “non profit” usando il metodo della cross-fertilization  cioè del continuo processo di scambio di conoscenze, intuizioni e suggestioni  che scatta prima della creazione di un vero rapporto di collaborazione  tra organizzazioni diverse.

Dalle indicazioni della realtà interpretate con quelle della teoria, Laura Corazza arriva a tre conclusioni che possono essere applicate in molti altri casi simili. La cross-fertilization agisce per davvero e almeno su tre livelli: il primo psicologico  (iniziare a collaborare ha un impatto emozionale e partecipativo importante), il secondo manageriale (i buoni risultati arrivano quando i manager delle realtà in gioco si parlano e collaborano per davvero), il terzo tecnico-operativo (dal collaborare insieme le imprese possono trarre motivi per nuovi servizi e nuovi prodotti).

“Cross-fertilization tra mondo profit e imprese sociali” ha un altro pregio: è scritto con un linguaggio piano e chiaro e spiega bene un modo diverso di intendere la cultura d’impresa oggi.

Cross-fertilization tra mondo profit e imprese sociali

Laura Corazza

Impresa sociale, n. 3, aprile 2014

Attenzione ai boomerang

Il boomerang, Charlie Brown e le imprese hanno molto in comune. Il primo, è uno strumento infido: ha bisogno di perizia, spazio, tempismo. Richiede una dose di rischio. Non è un gioco, comunque la si pensi. Charlie Brown,  lo ha provato sulla sua pelle, tentando in tutti i modi di usarlo e sempre con risultati non avvincenti. Metafora delle difficoltà e delle sorprese della vita, anche produttiva. Ecco perché l’ultima fatica di Nicola Palmarini (laurea alla Cattolica e specializzazione a Seattle in Comunicazione di massa e società), parte proprio dal boomerang  per parlare di innovazione, creatività e novità tecnologiche che non sempre hanno avuto successo.

Leggere “Boomerang” – circa 200 pagine disponibile anche in formato elettronico -, è bello e utile ad iniziare dal sottotiolo che dice tutto: “Perché cent’anni di tecnologia non hanno (ancora) migliorato il mondo”. E in effetti il problema di cosa possono provocare l’innovazione e le tecnologie sta tutto lì: come mai in molti casi invece di produrre benessere hanno prodotto solo “malessere?”.

Palmarini usa proprio l’esempio del boomerang per raccontare bene il modo con cui abbiamo lanciato negli ultimi cent’anni i nostri percorsi di ricerca, desideri, ambizioni attraverso la tecnologia, in nome di un futuro che, per l’autore,  assomiglia sempre di più a un’utopia. Percorsi e situazioni nelle quali viene coinvolta ovviamente la stessa idea di produzione e di impresa, la stessa cultura del produrre e dell’innovare.

Il libro è quindi una carrellata dei tanti boomerang di cui è popolata la storia produttiva e sociale degli ultimi decenni e non solo. I falsi miti dello spettacolo e della cultura, il fallimento dello Stato sociale, l’appiattimento culturale e sociale della moda, l’accecamento che si rischia con il web e la comunicazione istantanea, la confusione e incomunicabilità del linguaggio moderno, le incognite e le ansie date da Internet, le difficoltà e l’infelicità di fondo che denomina molte organizzazione (anche e soprattutto produttive), il mito della smart cities così come quello del profitto e della finanza di successo.  Tutti boomerang – alcuni in viaggio da distanze e fratture temporali brevissime, altri che stanno compiendo la loro parabola, altri ancora che ricadono oggi o domani – che hanno incisa nel loro legno la parola “fine”.

Ma Palmarini racconta anche le possibilità di riscatto e di allontanamento dai rischi del boomerang. E’ quella che l’autore chiama “etica del limite” che può ricondurre società e imprese con i piedi per terra. Si tratta della presa di coscienza di questioni – che sono prima ancora concetti culturali – come l’ambiente e l’inquinamento, il rispetto dell’altro e del suo futuro, ma anche di problemi puntuali come quelli dell’uso dell’acqua, delle risorse naturali, della chimica e della produzione di energia.

Certo, Palmarini quasi al fondo della sua fatica precisa che non esiste nessun “bottone magico” che, premuto, può risolvere le cose, ma esiste, e deve essere conquistato, un senso del limite che deriva proprio dalla particolare etica con la quale si devono vedere tutte le cose. Anche (e forse soprattutto), quelle della produzione e del consumo.

E’ bella e drammaticamente vera – e per questo deve fare pensare tutti, anche gli imprenditori -, un’affermazione che Palmarini pone ad un certo punto del suo libro: “All’accelerazione del cambiamento e del ritmo del cambiamento si sta associando una altrettanto veloce de-accelerazione culturale”.

“Boomerang” è un libro che fa pensare e spesso anche arrabbiare ma è tutto da leggere e anche da rileggere.

Boomerang. Perché cent’anni di tecnologia non hanno (ancora) migliorato il mondo

Nicola Palmarini

Egea, giugno 2014

Il boomerang, Charlie Brown e le imprese hanno molto in comune. Il primo, è uno strumento infido: ha bisogno di perizia, spazio, tempismo. Richiede una dose di rischio. Non è un gioco, comunque la si pensi. Charlie Brown,  lo ha provato sulla sua pelle, tentando in tutti i modi di usarlo e sempre con risultati non avvincenti. Metafora delle difficoltà e delle sorprese della vita, anche produttiva. Ecco perché l’ultima fatica di Nicola Palmarini (laurea alla Cattolica e specializzazione a Seattle in Comunicazione di massa e società), parte proprio dal boomerang  per parlare di innovazione, creatività e novità tecnologiche che non sempre hanno avuto successo.

Leggere “Boomerang” – circa 200 pagine disponibile anche in formato elettronico -, è bello e utile ad iniziare dal sottotiolo che dice tutto: “Perché cent’anni di tecnologia non hanno (ancora) migliorato il mondo”. E in effetti il problema di cosa possono provocare l’innovazione e le tecnologie sta tutto lì: come mai in molti casi invece di produrre benessere hanno prodotto solo “malessere?”.

Palmarini usa proprio l’esempio del boomerang per raccontare bene il modo con cui abbiamo lanciato negli ultimi cent’anni i nostri percorsi di ricerca, desideri, ambizioni attraverso la tecnologia, in nome di un futuro che, per l’autore,  assomiglia sempre di più a un’utopia. Percorsi e situazioni nelle quali viene coinvolta ovviamente la stessa idea di produzione e di impresa, la stessa cultura del produrre e dell’innovare.

Il libro è quindi una carrellata dei tanti boomerang di cui è popolata la storia produttiva e sociale degli ultimi decenni e non solo. I falsi miti dello spettacolo e della cultura, il fallimento dello Stato sociale, l’appiattimento culturale e sociale della moda, l’accecamento che si rischia con il web e la comunicazione istantanea, la confusione e incomunicabilità del linguaggio moderno, le incognite e le ansie date da Internet, le difficoltà e l’infelicità di fondo che denomina molte organizzazione (anche e soprattutto produttive), il mito della smart cities così come quello del profitto e della finanza di successo.  Tutti boomerang – alcuni in viaggio da distanze e fratture temporali brevissime, altri che stanno compiendo la loro parabola, altri ancora che ricadono oggi o domani – che hanno incisa nel loro legno la parola “fine”.

Ma Palmarini racconta anche le possibilità di riscatto e di allontanamento dai rischi del boomerang. E’ quella che l’autore chiama “etica del limite” che può ricondurre società e imprese con i piedi per terra. Si tratta della presa di coscienza di questioni – che sono prima ancora concetti culturali – come l’ambiente e l’inquinamento, il rispetto dell’altro e del suo futuro, ma anche di problemi puntuali come quelli dell’uso dell’acqua, delle risorse naturali, della chimica e della produzione di energia.

Certo, Palmarini quasi al fondo della sua fatica precisa che non esiste nessun “bottone magico” che, premuto, può risolvere le cose, ma esiste, e deve essere conquistato, un senso del limite che deriva proprio dalla particolare etica con la quale si devono vedere tutte le cose. Anche (e forse soprattutto), quelle della produzione e del consumo.

E’ bella e drammaticamente vera – e per questo deve fare pensare tutti, anche gli imprenditori -, un’affermazione che Palmarini pone ad un certo punto del suo libro: “All’accelerazione del cambiamento e del ritmo del cambiamento si sta associando una altrettanto veloce de-accelerazione culturale”.

“Boomerang” è un libro che fa pensare e spesso anche arrabbiare ma è tutto da leggere e anche da rileggere.

Boomerang. Perché cent’anni di tecnologia non hanno (ancora) migliorato il mondo

Nicola Palmarini

Egea, giugno 2014

Antitrust: ecco come superare il “capitalismo di relazione” e fare crescere mercato e merito

Il capitalismo di relazione danneggia la parte più vitale e competitiva dell’economia italiana”, favorisce “la spesa pubblica improduttiva e inefficiente”, molto spesso diretta “a soddisfare gli interessi particolaristici delle lobbies e dei cacciatori di rendite”. E’ dunque un grave freno per la crescita equilibrata del sistema Paese. E va bloccato, con scelte politiche e con riforme che insistano su competitività, produzione, buone culture d’impresa per un mercato aperto, trasparente, ben regolato e controllato. Il severo giudizio sui danni del “capitalismo di relazione” viene da una fonte autorevole, il professor Giovanni Pitruzzella, presidente dell’ “Autorità garante della concorrenza” (meglio nota come Antitrust), un costituzionalista attento agli aspetti economici della legislazione e delle politiche di governo. Ed è contenuto nella relazione annuale che l’Antitrust presenta alle autorità istituzionali e ai vertici del mondo politico ed economico (il 30 giugno, quest’anno).

Pitruzzella mette nel mirino, giustamente, un insieme di regole non scritte ma ben consolidate, che “si basa sui privilegi, piuttosto che sui meriti, aggrava le diseguaglianze, rende la società chiusa, statica, poco aperta alla concorrenza e all’innovazione”. E insiste sui guasti provocati da un sistema di corporazioni, dagli intrecci perversi tra burocrazie pubbliche (statali e locali) e imprese poco inclini alla competizione, dai rapporti oscuri tra favori e corruzioni, dalle distorsioni del mercato in nome delle clientele (con tutte le conseguenze che investono in pieno la drammatica crescita dell’influenza delle organizzazioni mafiose non solo nelle aree storiche di insediamento, ma anche nelle ricche regioni del Nord). E’ una denuncia con una forte valenza etica e politica, quella di Pitruzzella. Insiste sui temi della legalità (che trovano da tempo sensibilità crescenti tra gli imprenditori e le loro organizzazioni, da Confindustria alle territoriali di maggior rilievo, da Assolombarda alle strutture del Veneto e del Piemonte). Ma pone anche in primo piano la questione dell’efficienza, della produttività e della competitività dell’Italia, che il “capitalismo di relazione” frena e distorce.

C’è stata una lunga stagione, nella storia dell’economia italiana, caratterizzata dalle consuetudini d’un “capitalismo dei salotti buoni”, dalle relazioni privilegiate tra grandi imprese e sistema finanziario, sotto l’ombrello della Mediobanca guidata da Enrico Cuccia. Una rete di rapporti incrociati e saldati dai “patti di sindacato”, sostanzialmente conservativa e poco aperta alle dinamiche più vivaci di Borsa e di mercato. Servì a proteggere la parte migliore del capitalismo privato dalle incursioni della peggior politica (e anche dagli assalti di speculatori finanziari alla Sindona, che facevano da paravento a capitali mafiosi). Anche quello, per comodità di sintesi, veniva chiamato “capitalismo di relazione”. Ne aveva però, rispetto all’analisi di Pitruzzella, caratteristiche ben diverse (per capire meglio, può essere utile la lettura di un paio di libri recenti, come “Cuccia e il segreto di Mediobanca” scritto da Giorgio La Malfa e pubblicato da Feltrinelli e “Promemoria d’un banchiere d’affari”, una interessante raccolta di scritti di Cuccia, curata da Sandro Gerbi e Giandomenico Piluso e pubblicata da Aragno: dettagliate e talvolta originali ricostruzioni del ruolo di Mediobanca, nella seconda metà del Novecento italiano, con molte luci e alcune ombre, di sistema, soprattutto). Era un capitalismo protettivo e solidamente governato da una figura forte e integerrima. Poco incline alla trasparenza e al mercato, è vero, ma con un sistema di valorizzazione del merito e di sanzioni. Forte di una sua autonomia, dalla politica ma anche dalle peggiori tentazioni corsare di alcune delle stesse imprese. Ed è comunque un tipo di capitalismo entrato in crisi già negli anni Novanta. E poi definitivamente tramontato (tema interessante per gli storici, provare prima o poi a farne un bilancio serio, documentato, equilibrato). Addio patti di sindacato. Si impara a stare sul mercato, anzi meglio sui mercati della competizione internazionale.

Il “capitalismo di relazione” denunciato da Pitruzzella è tutt’altro. E va combattuto e superato. Come? Con un maggior impegno su privatizzazioni e liberalizzazioni, per non sostituire monopoli pubblici con monopoli privati e per chiudere con  un certo “capitalismo municipalistico” delle società pubbliche locali. E con un lavoro coerente da parte dell’Antitrust “che si è concentrato e continuerà a concentrarsi su quei settori in cui più forte è stata la presa del capitalismo di relazione e nei quali da una corretta dinamica concorrenziale c’è da attendersi una spinta alla competitività e alla crescita”: energia, trasporti, servizi, comunicazioni elettroniche, commercio online e servizi finanziari. Proprio gli stessi settori nel mirino della Commissione Ue.

C’è un gran lavoro da fare, dunque. Possibile. Meno burocrazia, corporazioni, clientele. Più mercato. E dunque più sviluppo. Le buone imprese e l’Italia che vuole crescere ne saranno grate.

Il capitalismo di relazione danneggia la parte più vitale e competitiva dell’economia italiana”, favorisce “la spesa pubblica improduttiva e inefficiente”, molto spesso diretta “a soddisfare gli interessi particolaristici delle lobbies e dei cacciatori di rendite”. E’ dunque un grave freno per la crescita equilibrata del sistema Paese. E va bloccato, con scelte politiche e con riforme che insistano su competitività, produzione, buone culture d’impresa per un mercato aperto, trasparente, ben regolato e controllato. Il severo giudizio sui danni del “capitalismo di relazione” viene da una fonte autorevole, il professor Giovanni Pitruzzella, presidente dell’ “Autorità garante della concorrenza” (meglio nota come Antitrust), un costituzionalista attento agli aspetti economici della legislazione e delle politiche di governo. Ed è contenuto nella relazione annuale che l’Antitrust presenta alle autorità istituzionali e ai vertici del mondo politico ed economico (il 30 giugno, quest’anno).

Pitruzzella mette nel mirino, giustamente, un insieme di regole non scritte ma ben consolidate, che “si basa sui privilegi, piuttosto che sui meriti, aggrava le diseguaglianze, rende la società chiusa, statica, poco aperta alla concorrenza e all’innovazione”. E insiste sui guasti provocati da un sistema di corporazioni, dagli intrecci perversi tra burocrazie pubbliche (statali e locali) e imprese poco inclini alla competizione, dai rapporti oscuri tra favori e corruzioni, dalle distorsioni del mercato in nome delle clientele (con tutte le conseguenze che investono in pieno la drammatica crescita dell’influenza delle organizzazioni mafiose non solo nelle aree storiche di insediamento, ma anche nelle ricche regioni del Nord). E’ una denuncia con una forte valenza etica e politica, quella di Pitruzzella. Insiste sui temi della legalità (che trovano da tempo sensibilità crescenti tra gli imprenditori e le loro organizzazioni, da Confindustria alle territoriali di maggior rilievo, da Assolombarda alle strutture del Veneto e del Piemonte). Ma pone anche in primo piano la questione dell’efficienza, della produttività e della competitività dell’Italia, che il “capitalismo di relazione” frena e distorce.

C’è stata una lunga stagione, nella storia dell’economia italiana, caratterizzata dalle consuetudini d’un “capitalismo dei salotti buoni”, dalle relazioni privilegiate tra grandi imprese e sistema finanziario, sotto l’ombrello della Mediobanca guidata da Enrico Cuccia. Una rete di rapporti incrociati e saldati dai “patti di sindacato”, sostanzialmente conservativa e poco aperta alle dinamiche più vivaci di Borsa e di mercato. Servì a proteggere la parte migliore del capitalismo privato dalle incursioni della peggior politica (e anche dagli assalti di speculatori finanziari alla Sindona, che facevano da paravento a capitali mafiosi). Anche quello, per comodità di sintesi, veniva chiamato “capitalismo di relazione”. Ne aveva però, rispetto all’analisi di Pitruzzella, caratteristiche ben diverse (per capire meglio, può essere utile la lettura di un paio di libri recenti, come “Cuccia e il segreto di Mediobanca” scritto da Giorgio La Malfa e pubblicato da Feltrinelli e “Promemoria d’un banchiere d’affari”, una interessante raccolta di scritti di Cuccia, curata da Sandro Gerbi e Giandomenico Piluso e pubblicata da Aragno: dettagliate e talvolta originali ricostruzioni del ruolo di Mediobanca, nella seconda metà del Novecento italiano, con molte luci e alcune ombre, di sistema, soprattutto). Era un capitalismo protettivo e solidamente governato da una figura forte e integerrima. Poco incline alla trasparenza e al mercato, è vero, ma con un sistema di valorizzazione del merito e di sanzioni. Forte di una sua autonomia, dalla politica ma anche dalle peggiori tentazioni corsare di alcune delle stesse imprese. Ed è comunque un tipo di capitalismo entrato in crisi già negli anni Novanta. E poi definitivamente tramontato (tema interessante per gli storici, provare prima o poi a farne un bilancio serio, documentato, equilibrato). Addio patti di sindacato. Si impara a stare sul mercato, anzi meglio sui mercati della competizione internazionale.

Il “capitalismo di relazione” denunciato da Pitruzzella è tutt’altro. E va combattuto e superato. Come? Con un maggior impegno su privatizzazioni e liberalizzazioni, per non sostituire monopoli pubblici con monopoli privati e per chiudere con  un certo “capitalismo municipalistico” delle società pubbliche locali. E con un lavoro coerente da parte dell’Antitrust “che si è concentrato e continuerà a concentrarsi su quei settori in cui più forte è stata la presa del capitalismo di relazione e nei quali da una corretta dinamica concorrenziale c’è da attendersi una spinta alla competitività e alla crescita”: energia, trasporti, servizi, comunicazioni elettroniche, commercio online e servizi finanziari. Proprio gli stessi settori nel mirino della Commissione Ue.

C’è un gran lavoro da fare, dunque. Possibile. Meno burocrazia, corporazioni, clientele. Più mercato. E dunque più sviluppo. Le buone imprese e l’Italia che vuole crescere ne saranno grate.

Mercati esteri, vince la “gestione culturale” d’impresa

Si sa: le imprese devono correre nel mondo per sopravvivere. Alle prese con congiunture complesse, le aziende – direttamente o indirettamente – sono costrette ad esplorare mercati che non sono più dietro l’angolo. L’assunto pare essere ormai accettato. Meno compresa – e accettata -, è però una condizione immediatamente seguente: nel momento in cui si parte cambia tutto, anche la cultura aziendale. Perché capire cosa si affronta dal punto di vista culturale quando si va all’estero è fondamentale: la base del successo.

Il lavoro di Diwakar Singh della Gujarat University, apparso qualche giorno fa sul Journal of Mechanical and Civil Engineering, è utile per comprendere meglio questo aspetto della gestione d’impresa comune alle grandi realtà così come alle piccole.

Managing Cross-cultural Diversity: Issues and Challenges in Global Organizations” fornisce uno schema chiaro delle relazioni fra globalizzazione, imprese e aspetti culturali della gestione.

“I progressi nel campo delle tecnologie dell’informazione e la liberalizzazione del commercio e degli investimenti – dice l’autore -, hanno aumentato la facilità e la velocità con cui le aziende possono gestire le loro operazioni globali. A causa della globalizzazione, molte aziende operano in più di un paese”.

Oltre che quella di nuovi mercati, tutto ciò provoca però un’altra esperienza nelle imprese. “Questo attraversamento dei confini geografici delle società – dice ancora Singh -, fa nascere organizzazioni multiculturali dove dipendenti di più di un paese stanno lavorando insieme”. Il risultato? Ancora oggi – dopo anni di globalizzazione -, le imprese da un lato scoprono la redditività di situazioni di questo genere, ma, dall’altro, rilevano anche tutte le difficoltà di avviare relazioni con altri paesi. “Il business globale – dice la ricerca -, è influenzato da una serie di fattori come le differenze ambientali socio-economiche, culturali, giuridiche e politiche. Entrano in gioco anche svariati rischi culturali e finanziari oltre che politici”.

Da tutto questo una necessità: occorrono mappe chiare per non perdersi. Singh, quindi, fornisce un percorso a punti importante per tenere conto di tutti gli aspetti interculturali che un’impresa può incontrare andando all’estero. Ma soprattutto la ricerca arriva ad una conclusione più generale. Nella globalizzazione vincono quelle organizzazioni che hanno la capacità di “attrarre, trattenere e motivare le persone di diversa estrazione culturale”. Salta così in primo piano una dote rara e da sviluppare: la sensibilità del saper cogliere aspetti della gestione aziendale diversi dalla semplice produzione e ricerca di nuovi sbocchi commerciali.

Managing Cross-cultural Diversity: Issues and Challenges in Global Organizations

Diwakar Singh

MBA(HR), MA(Psy)[Gujarat University], UGC NET (Management), PGDHE(IGNOU)

IOSR Journal of Mechanical and Civil Engineering (IOSR-JMCE), e-ISSN: 2278-1684, p-ISSN: 2320-334X, PP 43-50

Si sa: le imprese devono correre nel mondo per sopravvivere. Alle prese con congiunture complesse, le aziende – direttamente o indirettamente – sono costrette ad esplorare mercati che non sono più dietro l’angolo. L’assunto pare essere ormai accettato. Meno compresa – e accettata -, è però una condizione immediatamente seguente: nel momento in cui si parte cambia tutto, anche la cultura aziendale. Perché capire cosa si affronta dal punto di vista culturale quando si va all’estero è fondamentale: la base del successo.

Il lavoro di Diwakar Singh della Gujarat University, apparso qualche giorno fa sul Journal of Mechanical and Civil Engineering, è utile per comprendere meglio questo aspetto della gestione d’impresa comune alle grandi realtà così come alle piccole.

Managing Cross-cultural Diversity: Issues and Challenges in Global Organizations” fornisce uno schema chiaro delle relazioni fra globalizzazione, imprese e aspetti culturali della gestione.

“I progressi nel campo delle tecnologie dell’informazione e la liberalizzazione del commercio e degli investimenti – dice l’autore -, hanno aumentato la facilità e la velocità con cui le aziende possono gestire le loro operazioni globali. A causa della globalizzazione, molte aziende operano in più di un paese”.

Oltre che quella di nuovi mercati, tutto ciò provoca però un’altra esperienza nelle imprese. “Questo attraversamento dei confini geografici delle società – dice ancora Singh -, fa nascere organizzazioni multiculturali dove dipendenti di più di un paese stanno lavorando insieme”. Il risultato? Ancora oggi – dopo anni di globalizzazione -, le imprese da un lato scoprono la redditività di situazioni di questo genere, ma, dall’altro, rilevano anche tutte le difficoltà di avviare relazioni con altri paesi. “Il business globale – dice la ricerca -, è influenzato da una serie di fattori come le differenze ambientali socio-economiche, culturali, giuridiche e politiche. Entrano in gioco anche svariati rischi culturali e finanziari oltre che politici”.

Da tutto questo una necessità: occorrono mappe chiare per non perdersi. Singh, quindi, fornisce un percorso a punti importante per tenere conto di tutti gli aspetti interculturali che un’impresa può incontrare andando all’estero. Ma soprattutto la ricerca arriva ad una conclusione più generale. Nella globalizzazione vincono quelle organizzazioni che hanno la capacità di “attrarre, trattenere e motivare le persone di diversa estrazione culturale”. Salta così in primo piano una dote rara e da sviluppare: la sensibilità del saper cogliere aspetti della gestione aziendale diversi dalla semplice produzione e ricerca di nuovi sbocchi commerciali.

Managing Cross-cultural Diversity: Issues and Challenges in Global Organizations

Diwakar Singh

MBA(HR), MA(Psy)[Gujarat University], UGC NET (Management), PGDHE(IGNOU)

IOSR Journal of Mechanical and Civil Engineering (IOSR-JMCE), e-ISSN: 2278-1684, p-ISSN: 2320-334X, PP 43-50

Impresa felice, società contenta

L’impresa e l’imprenditore possono essere le figure ispiratrici di un “nuovo inizio”. A patto che siano “felici” cioè guidati da principi chiari e, soprattutto, attenti alla crescita del benessere sociale. L’idea può apparire provocatoria – e per certi versi lo è per davvero -, ma è da prendere con grande serietà. Perché l’immagine dell’impresa felice che dà forma ad un nuovo modello di società è certamente da esplorare. Per farlo è possibile leggere l’ultima fatica di Renata Borgato (della Facoltà di psicologia di Milano Bicocca oltre che formatrice aziendale).

“L’impresa felice. La responsabilità sociale come impulso alla crescita” – questo il tiolo del volume di poco meno di cento pagine -, cerca di mettere insieme alcuni concetti apparentemente distanti: l’impresa come macchina di produzione e profitto, la responsabilità sociale della stessa e il suo possibile ruolo di guida per – appunto -, la costruzione di un nuovo modello di convivenza.

“La percezione della gravità delle crisi attuali – dice Borgato -, permette di attendere un nuovo inizio. Occorre però individuare il soggetto adatto a guidare il processo di cambiamento, diventando quel punto di riferimento che i tradizionali attori sociali non sono più in grado di essere. Questo soggetto potrebbe essere individuato nell’impresa: non a caso il lavoro è sempre stato uno degli elementi strutturanti delle società”. L’impresa felice viene subito definita chiaramente. E’ quell’entità che fa parte di “un nucleo solido di aziende manifatturiere, agricole e terziarie che hanno riadattato le proprie strategie complessive e rappresentano un blocco solido di economia reale, contrapposto al disgregarsi dell’economia finanziaria”.

E’ su questa base che si dipana il testo che esplora, quindi, i legami fra l’impresa e il territorio, fra questa e l’etica dell’azione e ancora con le persone che la fanno vivere. Renata Borgato, quindi, tocca temi delicati come l’empatia che dovrebbe instaurarsi nell’organizzazione aziendale, la leadership, la comunicazione, la motivazione e la valutazione del personale, gli orari, il trattamento degli errori. Visto tutto questo, il volume passa ad esaminare i “sette vizi capitali” ma dal punto di vista aziendale: “superbia”, “avarizia” e “accidia” nella gestione e nei progetti, “invidia” e “ira” nell’organizzazione, “gola” e “lussuria” negli obiettivi da raggiungere. E’ cioè facile, per esempio, cadere  in rapporti organizzativi in cui l’invidia prende il posto della collaborazione oppure scivolare in gestioni che fanno spazio a singoli egoismi o ancora alla pigrizia del lasciar fare senza cercare formule innovative di produzione e di amministrazione. Negli obiettivi da raggiungere, d’altra parte, l’impresa felice è altro da quella che si crea quando prevalgono sete di potere oppure di denaro. Chiude poi il volume un’annotazione di Luciano Pero che racconta – come contrapposte ai vizi capitali -, le quattro virtù cardinali “prudenza”, “giustizia”, “fortezza” e “temperanza”, cercandole, naturalmente, nel modello imprenditoriale che potrebbe dare un senso alla comunità. L’azienda felice, a ben vedere, nasce infatti dalla prudenza nella progettazione e nella gestione unita però alla forza e alla determinazione dell’imprenditore e dei suoi collaboratori che lavorano insieme per obiettivi giusti.

E’ bello l’esempio di impresa felice, che somma le virtù e annulla i vizi, che l’autrice pone quasi all’inizio del volume. Brunello Cucinelli – imprenditore tessile – per raccontare  la sua impresa e l’interesse condiviso tra datore di lavoro, lavoratori e comunità, dice: “I profitti vengono ripartiti in quattro parti. La prima va all’azienda, per renderla forte, la seconda a me come imprenditore, la terza agli operai attraverso gli stipendi (che sono di circa il 20% più alti rispetto al contratto nazionale) e la quarta parte va ad abbellire l’umanità… cioè alla creazione di servizi, un teatro o un ospedale per esempio del quale gode l’intera comunità”.

L’impresa felice. La responsabilità sociale come impulso alla crescita

Renata Borgato

Franco Angeli, 2014

L’impresa e l’imprenditore possono essere le figure ispiratrici di un “nuovo inizio”. A patto che siano “felici” cioè guidati da principi chiari e, soprattutto, attenti alla crescita del benessere sociale. L’idea può apparire provocatoria – e per certi versi lo è per davvero -, ma è da prendere con grande serietà. Perché l’immagine dell’impresa felice che dà forma ad un nuovo modello di società è certamente da esplorare. Per farlo è possibile leggere l’ultima fatica di Renata Borgato (della Facoltà di psicologia di Milano Bicocca oltre che formatrice aziendale).

“L’impresa felice. La responsabilità sociale come impulso alla crescita” – questo il tiolo del volume di poco meno di cento pagine -, cerca di mettere insieme alcuni concetti apparentemente distanti: l’impresa come macchina di produzione e profitto, la responsabilità sociale della stessa e il suo possibile ruolo di guida per – appunto -, la costruzione di un nuovo modello di convivenza.

“La percezione della gravità delle crisi attuali – dice Borgato -, permette di attendere un nuovo inizio. Occorre però individuare il soggetto adatto a guidare il processo di cambiamento, diventando quel punto di riferimento che i tradizionali attori sociali non sono più in grado di essere. Questo soggetto potrebbe essere individuato nell’impresa: non a caso il lavoro è sempre stato uno degli elementi strutturanti delle società”. L’impresa felice viene subito definita chiaramente. E’ quell’entità che fa parte di “un nucleo solido di aziende manifatturiere, agricole e terziarie che hanno riadattato le proprie strategie complessive e rappresentano un blocco solido di economia reale, contrapposto al disgregarsi dell’economia finanziaria”.

E’ su questa base che si dipana il testo che esplora, quindi, i legami fra l’impresa e il territorio, fra questa e l’etica dell’azione e ancora con le persone che la fanno vivere. Renata Borgato, quindi, tocca temi delicati come l’empatia che dovrebbe instaurarsi nell’organizzazione aziendale, la leadership, la comunicazione, la motivazione e la valutazione del personale, gli orari, il trattamento degli errori. Visto tutto questo, il volume passa ad esaminare i “sette vizi capitali” ma dal punto di vista aziendale: “superbia”, “avarizia” e “accidia” nella gestione e nei progetti, “invidia” e “ira” nell’organizzazione, “gola” e “lussuria” negli obiettivi da raggiungere. E’ cioè facile, per esempio, cadere  in rapporti organizzativi in cui l’invidia prende il posto della collaborazione oppure scivolare in gestioni che fanno spazio a singoli egoismi o ancora alla pigrizia del lasciar fare senza cercare formule innovative di produzione e di amministrazione. Negli obiettivi da raggiungere, d’altra parte, l’impresa felice è altro da quella che si crea quando prevalgono sete di potere oppure di denaro. Chiude poi il volume un’annotazione di Luciano Pero che racconta – come contrapposte ai vizi capitali -, le quattro virtù cardinali “prudenza”, “giustizia”, “fortezza” e “temperanza”, cercandole, naturalmente, nel modello imprenditoriale che potrebbe dare un senso alla comunità. L’azienda felice, a ben vedere, nasce infatti dalla prudenza nella progettazione e nella gestione unita però alla forza e alla determinazione dell’imprenditore e dei suoi collaboratori che lavorano insieme per obiettivi giusti.

E’ bello l’esempio di impresa felice, che somma le virtù e annulla i vizi, che l’autrice pone quasi all’inizio del volume. Brunello Cucinelli – imprenditore tessile – per raccontare  la sua impresa e l’interesse condiviso tra datore di lavoro, lavoratori e comunità, dice: “I profitti vengono ripartiti in quattro parti. La prima va all’azienda, per renderla forte, la seconda a me come imprenditore, la terza agli operai attraverso gli stipendi (che sono di circa il 20% più alti rispetto al contratto nazionale) e la quarta parte va ad abbellire l’umanità… cioè alla creazione di servizi, un teatro o un ospedale per esempio del quale gode l’intera comunità”.

L’impresa felice. La responsabilità sociale come impulso alla crescita

Renata Borgato

Franco Angeli, 2014

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