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Ecco l’industria medium tech: competitività e migliori equilibri sociali

Manifattura tecnologicamente sofisticata: è un bel primato italiano. Perché combina, soprattutto nel cosiddetto medium tech, la forza delle radici industriali e artigiane del “fare, e fare bene” ben salde nelle nostra cultura d’impresa, con una vivace tendenza all’innovazione che anima, nonostante tutto, il tessuto economico del paese, soprattutto nelle aree più dinamiche e industrializzate, dal Nord Ovest delle imprese medio-grandi al Nord Est in cui è finalmente tramontata l’ideologia del “piccolo è bello” e si cercano dimensioni d’impresa adatte alle nicchie d’alta qualità sui mercati internazionali, dall’Emilia dei distretti meccanici alla “dorsale adriatica”, sino a  toccare isole manifatturiere pur importanti (anche se fragili) nel Lazio e nel Mezzogiorno. Manifattura d’avanguardia, dunque, come combinazione originale d’industria e tecnologie digitali. Una leva fondamentale per costruire uno sviluppo più equilibrato dell’intero Paese. “Produzione, lievi segni di ripresa: crescita a marzo dello 0,7%”, nota il Centro Studi Confindustria (“IlSole24Ore”, 11 aprile), dando conto di una congiuntura che può alimentare pur prudenti speranze. E’ vero che rispetto al 2008, l’anno d’esplosione della Grande Crisi, c’è un calo del 23,6%, con un buon quarto dell’intera produzione industriale da recuperare. Ma è altrettanto vero che buona parte delle imprese medie e medio grandi, di molti distretti e delle principali filiere industriali confermano che la ripresa è partita, trainata dall’export (nell’area Ue, negli Usa, ma soprattutto nel cosiddetti “paesi emerenti” o da poco “emersi”, come la Cina e il Brasile) e rallentata dalla stagnazione ancora evidente sul mercato interno.

Come sostenere questa timida ripresa, come “Riaccendere i motori”? Indicazioni molto interessanti vengono da un bel libro di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e del Gruppo Techint (multinazionale italiana d’antica storia e robusto spessore) che, sotto quel titolo adatto a ispirare fiducia, parla di “innovazione, merito ordinario e rinascita italiana” e spiega l’importanza di un’Italia produttiva fondata sull’industria “medium tech”, cioè sulla manifattura d’alta qualità metalmeccanica, meccanica, chimica, plastica, elettrotecnica, nautica, legata alle filiere dell’automotive, del “medicale” e della diagnostica. Un’industria forte per innovazione “incrementale”, densa di “multinazionali tascabili”, capace di reggere la competizione con la Germania campione manifatturiero europeo, adatta a garantire lavoro, utile a potenziare attraverso la leva dell’export la crescita del Pil. Un’industria aperta, dinamica, abituata a investire all’estero (non per sfruttare la leva dei bassi costi, ma per conquistare da insider i mercati in espansione), tenendo però ben saldi in Italia la testa e il cuore delle strategie, della ricerca, delle produzioni “alto di gamma” e a maggior valore aggiunto.

E’ un libro importante e necessario, quello di Rocca. E rafforza le elaborazioni già in corso su “rinascimento manifatturiero”, ”orgoglio industriale”, “riscatto” della manifattura grazie anche agli investimenti internazionali, “produzione intelligente”(per riprendere un tema caro allo storico dell’economia Giuseppe Berta, di cui abbiamo parlato proprio su questa sezione di cultura d’impresa, alcune settimane fa), “quarto capitalismo” e imprese d’eccellenza delle “quattro A del made in Italy” (agro-industria, arredamento, abbigliamento e soprattutto automazione meccanica) diffuse su un territorio ricco di capitale umano e capitale sociale.

E’ un’industria che ha molto innovato, negli ultimi vent’anni. Ed è stata stimolata (o, perché no?, costretta) a farlo dalla fine della lunga stagione della facile e pigra svalutazione competitiva, con l’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht e ai vincoli dell’euro, quando non è stato più possibile usare la leva dei bassi prezzi (svalutando appunto la fragile lira) ed è stato necessario fare fronte agli alti costi di produzione con l’innovazione, la qualità, la creatività. Vale la pena ricordarlo, quel periodo, proprio in tempi in cui demagoghi e populisti chiacchierano disinvoltamente della fine dell’euro e del ritorno alla lira, vantando appunto, tra le conseguenze positive, la “svalutazione competitiva”: si butterebbe via un ventennio di positiva trasformazione industriale e di efficiente ed efficace competitività, per ritrovarsi ai margini dell’industria europea.

Meglio pensare, come suggerisce Rocca, a rafforzare le nostre imprese di successo medium tech: ricerca, formazione, infrastrutture, credito, ambiente adatto alle start up, cioè alle nuove aziende più dinamiche e creative, basso peso della burocrazia e del fisco, legalità, giustizia veloce e puntuale. E riforme istituzionali e sociali adatta a un paese che voglia e sappia dare un futuro alle giovani generazioni. “Un Paese è competitivo – sostiene Rocca – nel momento in cui le aziende che operano nel suo territorio sono in grado di competere con sucesso nell’economia globale e di assicurare, nello stesso tempo, standard di vita elevati e crescenti al cittadino medio”.

Le industrie medium tech hanno anche una funzione di miglior equilibrio sociale: hanno bisogno di un buon capitale umano, di lunga durata, sollecitano competenze continuamente aggiornate, promuovono il merito (cresce chi sa fare), si radicano positivamente nel territorio e, sollecitando una supply chain di qualità, migliorano il capitale sociale diffuso: “Una costellazione di valori che contribuiscono, nel lungo periodo, a rendere più solida, più stabile e anche più ricca una società”. Ci sono sei leve, su cui insistere: “Innovazione e produttività, capitale umano e merito ordinario, coesione sociale e mobilità intergenerazionale”. Sono caratteristiche in cui la buona cultura d’impresa si combina con la sostenibilità. E con lo sviluppo. Rinascita italiana, appunto. E paradigma positivo per altre aree dell’Europa e del mondo.

Manifattura tecnologicamente sofisticata: è un bel primato italiano. Perché combina, soprattutto nel cosiddetto medium tech, la forza delle radici industriali e artigiane del “fare, e fare bene” ben salde nelle nostra cultura d’impresa, con una vivace tendenza all’innovazione che anima, nonostante tutto, il tessuto economico del paese, soprattutto nelle aree più dinamiche e industrializzate, dal Nord Ovest delle imprese medio-grandi al Nord Est in cui è finalmente tramontata l’ideologia del “piccolo è bello” e si cercano dimensioni d’impresa adatte alle nicchie d’alta qualità sui mercati internazionali, dall’Emilia dei distretti meccanici alla “dorsale adriatica”, sino a  toccare isole manifatturiere pur importanti (anche se fragili) nel Lazio e nel Mezzogiorno. Manifattura d’avanguardia, dunque, come combinazione originale d’industria e tecnologie digitali. Una leva fondamentale per costruire uno sviluppo più equilibrato dell’intero Paese. “Produzione, lievi segni di ripresa: crescita a marzo dello 0,7%”, nota il Centro Studi Confindustria (“IlSole24Ore”, 11 aprile), dando conto di una congiuntura che può alimentare pur prudenti speranze. E’ vero che rispetto al 2008, l’anno d’esplosione della Grande Crisi, c’è un calo del 23,6%, con un buon quarto dell’intera produzione industriale da recuperare. Ma è altrettanto vero che buona parte delle imprese medie e medio grandi, di molti distretti e delle principali filiere industriali confermano che la ripresa è partita, trainata dall’export (nell’area Ue, negli Usa, ma soprattutto nel cosiddetti “paesi emerenti” o da poco “emersi”, come la Cina e il Brasile) e rallentata dalla stagnazione ancora evidente sul mercato interno.

Come sostenere questa timida ripresa, come “Riaccendere i motori”? Indicazioni molto interessanti vengono da un bel libro di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e del Gruppo Techint (multinazionale italiana d’antica storia e robusto spessore) che, sotto quel titolo adatto a ispirare fiducia, parla di “innovazione, merito ordinario e rinascita italiana” e spiega l’importanza di un’Italia produttiva fondata sull’industria “medium tech”, cioè sulla manifattura d’alta qualità metalmeccanica, meccanica, chimica, plastica, elettrotecnica, nautica, legata alle filiere dell’automotive, del “medicale” e della diagnostica. Un’industria forte per innovazione “incrementale”, densa di “multinazionali tascabili”, capace di reggere la competizione con la Germania campione manifatturiero europeo, adatta a garantire lavoro, utile a potenziare attraverso la leva dell’export la crescita del Pil. Un’industria aperta, dinamica, abituata a investire all’estero (non per sfruttare la leva dei bassi costi, ma per conquistare da insider i mercati in espansione), tenendo però ben saldi in Italia la testa e il cuore delle strategie, della ricerca, delle produzioni “alto di gamma” e a maggior valore aggiunto.

E’ un libro importante e necessario, quello di Rocca. E rafforza le elaborazioni già in corso su “rinascimento manifatturiero”, ”orgoglio industriale”, “riscatto” della manifattura grazie anche agli investimenti internazionali, “produzione intelligente”(per riprendere un tema caro allo storico dell’economia Giuseppe Berta, di cui abbiamo parlato proprio su questa sezione di cultura d’impresa, alcune settimane fa), “quarto capitalismo” e imprese d’eccellenza delle “quattro A del made in Italy” (agro-industria, arredamento, abbigliamento e soprattutto automazione meccanica) diffuse su un territorio ricco di capitale umano e capitale sociale.

E’ un’industria che ha molto innovato, negli ultimi vent’anni. Ed è stata stimolata (o, perché no?, costretta) a farlo dalla fine della lunga stagione della facile e pigra svalutazione competitiva, con l’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht e ai vincoli dell’euro, quando non è stato più possibile usare la leva dei bassi prezzi (svalutando appunto la fragile lira) ed è stato necessario fare fronte agli alti costi di produzione con l’innovazione, la qualità, la creatività. Vale la pena ricordarlo, quel periodo, proprio in tempi in cui demagoghi e populisti chiacchierano disinvoltamente della fine dell’euro e del ritorno alla lira, vantando appunto, tra le conseguenze positive, la “svalutazione competitiva”: si butterebbe via un ventennio di positiva trasformazione industriale e di efficiente ed efficace competitività, per ritrovarsi ai margini dell’industria europea.

Meglio pensare, come suggerisce Rocca, a rafforzare le nostre imprese di successo medium tech: ricerca, formazione, infrastrutture, credito, ambiente adatto alle start up, cioè alle nuove aziende più dinamiche e creative, basso peso della burocrazia e del fisco, legalità, giustizia veloce e puntuale. E riforme istituzionali e sociali adatta a un paese che voglia e sappia dare un futuro alle giovani generazioni. “Un Paese è competitivo – sostiene Rocca – nel momento in cui le aziende che operano nel suo territorio sono in grado di competere con sucesso nell’economia globale e di assicurare, nello stesso tempo, standard di vita elevati e crescenti al cittadino medio”.

Le industrie medium tech hanno anche una funzione di miglior equilibrio sociale: hanno bisogno di un buon capitale umano, di lunga durata, sollecitano competenze continuamente aggiornate, promuovono il merito (cresce chi sa fare), si radicano positivamente nel territorio e, sollecitando una supply chain di qualità, migliorano il capitale sociale diffuso: “Una costellazione di valori che contribuiscono, nel lungo periodo, a rendere più solida, più stabile e anche più ricca una società”. Ci sono sei leve, su cui insistere: “Innovazione e produttività, capitale umano e merito ordinario, coesione sociale e mobilità intergenerazionale”. Sono caratteristiche in cui la buona cultura d’impresa si combina con la sostenibilità. E con lo sviluppo. Rinascita italiana, appunto. E paradigma positivo per altre aree dell’Europa e del mondo.

Come imparano le imprese

Si impara provando, con l’esperienza e con la pratica. Certo, la teoria conta: dà lo schema di fondo, gli strumenti per capire e interpretare la realtà. Ma si impara per davvero sperimentando, verificando e confrontando. Anche nelle imprese. Forse soprattutto nelle imprese, costrette a mettersi in discussione con il mercato. Comprendere i meccanismi dell’apprendimento, serve quindi a tutti.

Experiential strategies for building individual absorptive capacity”  – appena pubblicato su Developments in Business Simulation and Experiential Learning  -, è utile in questo senso perché prende in considerazione i meccanismi di apprendimento collegandoli alla capacità di ogni impresa di “assorbire” la conoscenza da vari ambienti con cui entra in contatto: mercati, consumatori, sindacati, ricerca.

“Uno degli elementi chiave della competitività – spiegano gli autori all’inizio dello studio -, è la capacità di assorbimento di un’organizzazione, o la capacità di un’azienda di riconoscere il valore” delle informazioni esterne, assimilarle e applicarlo a fini commerciali.

Ma c’è un punto che spesso è stato sottovalutato: le imprese sono fatte da individui, persone con il loro carattere, con le proprie esperienze personali. Le imprese non sono macchine che imparano in modo automatico. L’apprendimento, quindi, non è un flusso omogeneo di informazioni che genera risultati uguali e costanti. L’apprendimento cambia da persona a persona. E la cultura aziendale muta ogni giorno.

Hugh M. Cannon  (Wayne State University), Bryon C. Geddes (Dixie State University), Andrew Hale Feinstein (San Jose State University), autori dell’indagine, si pongono quindi l’obiettivo di creare una “base concettuale forte” per comprendere il processo di apprendimento degli individui che si realizza in base all’esperienza. Lo scopo è quello di individuare “come gli individui assorbono conoscenze in un contesto organizzativo – spiegano gli autori -, e come vengono posti gli obiettivi di apprendimento e formazione professionale”. Ogni persona, infatti, impara partendo dalla rete sociale in cui è inserita (anche in azienda), dalla sua emotività o razionalità, dalle sue conoscenze tecniche, dalle motivazioni reali che gli vengono date, da quanto ha vissuto in precedenza.

La ricerca ragiona su questo nodo di questioni attraverso una serie di schemi che mettono insieme le caratteristiche dell’individuo (inventiva, capacità di adattamento, capacità di acquisizione), con quelle dell’organizzazione e con quelle provenienti dall’esterno. Viene anche fatto uno sforzo per schematizzare tre dimensioni della conoscenza e dell’apprendimento in azienda – una cognitiva, una affettiva e una psicomotoria – sulla base delle quali sono costruite delle griglie applicative da usare in situazioni reali.

E’ importante e non banale un passaggio conclusivo dello studio: la capacità di assorbimento di un’organizzazione dipende dalle capacità individuali, ma le due capacità non sono la stessa cosa.

Experiential strategies for building  individual absorptive capacity 

Hugh M. Cannon, Bryon C. Geddes, Andrew Hale Feinstein

Developments in Business Simulation and Experiential Learning, volume 41, 2014

Si impara provando, con l’esperienza e con la pratica. Certo, la teoria conta: dà lo schema di fondo, gli strumenti per capire e interpretare la realtà. Ma si impara per davvero sperimentando, verificando e confrontando. Anche nelle imprese. Forse soprattutto nelle imprese, costrette a mettersi in discussione con il mercato. Comprendere i meccanismi dell’apprendimento, serve quindi a tutti.

Experiential strategies for building individual absorptive capacity”  – appena pubblicato su Developments in Business Simulation and Experiential Learning  -, è utile in questo senso perché prende in considerazione i meccanismi di apprendimento collegandoli alla capacità di ogni impresa di “assorbire” la conoscenza da vari ambienti con cui entra in contatto: mercati, consumatori, sindacati, ricerca.

“Uno degli elementi chiave della competitività – spiegano gli autori all’inizio dello studio -, è la capacità di assorbimento di un’organizzazione, o la capacità di un’azienda di riconoscere il valore” delle informazioni esterne, assimilarle e applicarlo a fini commerciali.

Ma c’è un punto che spesso è stato sottovalutato: le imprese sono fatte da individui, persone con il loro carattere, con le proprie esperienze personali. Le imprese non sono macchine che imparano in modo automatico. L’apprendimento, quindi, non è un flusso omogeneo di informazioni che genera risultati uguali e costanti. L’apprendimento cambia da persona a persona. E la cultura aziendale muta ogni giorno.

Hugh M. Cannon  (Wayne State University), Bryon C. Geddes (Dixie State University), Andrew Hale Feinstein (San Jose State University), autori dell’indagine, si pongono quindi l’obiettivo di creare una “base concettuale forte” per comprendere il processo di apprendimento degli individui che si realizza in base all’esperienza. Lo scopo è quello di individuare “come gli individui assorbono conoscenze in un contesto organizzativo – spiegano gli autori -, e come vengono posti gli obiettivi di apprendimento e formazione professionale”. Ogni persona, infatti, impara partendo dalla rete sociale in cui è inserita (anche in azienda), dalla sua emotività o razionalità, dalle sue conoscenze tecniche, dalle motivazioni reali che gli vengono date, da quanto ha vissuto in precedenza.

La ricerca ragiona su questo nodo di questioni attraverso una serie di schemi che mettono insieme le caratteristiche dell’individuo (inventiva, capacità di adattamento, capacità di acquisizione), con quelle dell’organizzazione e con quelle provenienti dall’esterno. Viene anche fatto uno sforzo per schematizzare tre dimensioni della conoscenza e dell’apprendimento in azienda – una cognitiva, una affettiva e una psicomotoria – sulla base delle quali sono costruite delle griglie applicative da usare in situazioni reali.

E’ importante e non banale un passaggio conclusivo dello studio: la capacità di assorbimento di un’organizzazione dipende dalle capacità individuali, ma le due capacità non sono la stessa cosa.

Experiential strategies for building  individual absorptive capacity 

Hugh M. Cannon, Bryon C. Geddes, Andrew Hale Feinstein

Developments in Business Simulation and Experiential Learning, volume 41, 2014

Raccontare la vita d’impresa

Lo si è già detto tante volte: fare impresa è anche un’avventura. Ma anche raccontare è un’avventura. Se, poi, il racconto è quello di un’impresa e delle vite che l’hanno animata, allora l’avventura sale di grado, diventa più complessa e interessante. E’ necessario però, rendersi conto bene di cosa significa raccontare la storia di un’impresa, quali implicazioni e difficoltà siano nascoste al suo interno. Tutto tenendo conto che in ogni racconto c’è anche un po’ di chi lo scrive. Dall’intreccio fra vite individuali, vite d’azienda e vita del narratore, nasce quindi una visione ogni volta diversa, che è in grado di affascinare e spiegare molto della produzione e della cultura aziendale.

Alessandra Cosso, ha provato a ragionare su questo tema partendo dalla sua esperienza nelle organizzazioni di lavoro come consulente per favorire i cambiamenti culturali e il benessere delle persone che lavorano, potenziare le competenze relazionali, facilitare l’espressione di sé e del proprio talento. Ne è nato “Raccontarsela. Copioni di vita e storie organizzative: l’uso della narrazione per lo sviluppo individuale e d’impresa”, un volume diviso in due parti nette. Prima, un ragionamento sulla vita interpretata come un copione, con una particolare attenzione al sistema delle aziende e delle organizzazioni (un capitolo è dedicato a “Capi, processi e perfomance: il copione  nell’organizzazione”). La seconda parte è invece articolata come una rappresentazione teatrale, con un prologo e cinque atti con al centro le particolari “visioni d’impresa”, usa invece tutti gli strumenti possibili del raccontare e del rappresentare.

Direttore dell’Osservatorio di Corporate Storytelling dell’Università di Pavia, Alessandra Cosso calibra con sapienza teoria e pratica. L’autrice esamina anche gli aspetti psicologici che influenzano l'”homo narrans” e li mette in relazione con le auto-narrazioni che intesse nel suo vivere sociale e d’impresa.

E’ illuminante un passaggio: “Noi siamo storie in continuo divenire: vivendo, narriamo di noi, di chi incontriamo, dell’ambiente in cui viviamo e che trasformiamo. Seguiamo un vero e proprio copione, una sceneggiatura completa, quasi sempre non consapevole: ci sono comparse, colpi di scena e, solo a volte, finali positivi. Conoscere la storia che incarniamo è fondamentale per comprendere il senso delle scelte che facciamo ogni giorno, come individui o come imprese. Per riuscire a essere, e agire, per ciò che desideriamo, per avere successo, per scrivere il nostro lieto fine”.

“Raccontarsela” è un libro da leggere fino in fondo, possibilmente senza fermarsi.

Raccontarsela. Copioni di vita e storie organizzative: l’uso della narrazione per lo sviluppo individuale e d’impresa

Alessandra Cosso

Lupetti, 2013

Lo si è già detto tante volte: fare impresa è anche un’avventura. Ma anche raccontare è un’avventura. Se, poi, il racconto è quello di un’impresa e delle vite che l’hanno animata, allora l’avventura sale di grado, diventa più complessa e interessante. E’ necessario però, rendersi conto bene di cosa significa raccontare la storia di un’impresa, quali implicazioni e difficoltà siano nascoste al suo interno. Tutto tenendo conto che in ogni racconto c’è anche un po’ di chi lo scrive. Dall’intreccio fra vite individuali, vite d’azienda e vita del narratore, nasce quindi una visione ogni volta diversa, che è in grado di affascinare e spiegare molto della produzione e della cultura aziendale.

Alessandra Cosso, ha provato a ragionare su questo tema partendo dalla sua esperienza nelle organizzazioni di lavoro come consulente per favorire i cambiamenti culturali e il benessere delle persone che lavorano, potenziare le competenze relazionali, facilitare l’espressione di sé e del proprio talento. Ne è nato “Raccontarsela. Copioni di vita e storie organizzative: l’uso della narrazione per lo sviluppo individuale e d’impresa”, un volume diviso in due parti nette. Prima, un ragionamento sulla vita interpretata come un copione, con una particolare attenzione al sistema delle aziende e delle organizzazioni (un capitolo è dedicato a “Capi, processi e perfomance: il copione  nell’organizzazione”). La seconda parte è invece articolata come una rappresentazione teatrale, con un prologo e cinque atti con al centro le particolari “visioni d’impresa”, usa invece tutti gli strumenti possibili del raccontare e del rappresentare.

Direttore dell’Osservatorio di Corporate Storytelling dell’Università di Pavia, Alessandra Cosso calibra con sapienza teoria e pratica. L’autrice esamina anche gli aspetti psicologici che influenzano l'”homo narrans” e li mette in relazione con le auto-narrazioni che intesse nel suo vivere sociale e d’impresa.

E’ illuminante un passaggio: “Noi siamo storie in continuo divenire: vivendo, narriamo di noi, di chi incontriamo, dell’ambiente in cui viviamo e che trasformiamo. Seguiamo un vero e proprio copione, una sceneggiatura completa, quasi sempre non consapevole: ci sono comparse, colpi di scena e, solo a volte, finali positivi. Conoscere la storia che incarniamo è fondamentale per comprendere il senso delle scelte che facciamo ogni giorno, come individui o come imprese. Per riuscire a essere, e agire, per ciò che desideriamo, per avere successo, per scrivere il nostro lieto fine”.

“Raccontarsela” è un libro da leggere fino in fondo, possibilmente senza fermarsi.

Raccontarsela. Copioni di vita e storie organizzative: l’uso della narrazione per lo sviluppo individuale e d’impresa

Alessandra Cosso

Lupetti, 2013

Cambiare passo e riconsiderare il tempo senza frenesie per costruire lo sviluppo

Cambiare passo”, intima Arianna Huffington, nel suo nuovo libro (edito in Italia da Rizzoli) e spiega: “Ritmi di lavoro insostenibili, connessione 24 ore su 24, stress. Il modello attuale di successo non funziona”. Lei, che proprio il successo ha voluto fortemente, costruito con intelligenza e fatica e poi infine raggiunto, con tanto di popolarità e ricchezza, adesso fa mostra di capacità critica, “oltre il denaro e il potere”. Va ascoltata attentamente. Così come le altre voci che ci consigliano di riconsiderare le categorie del tempo che ci hanno accompagnati in questi anni frenetici di globalizzazione, rivoluzione digitale, boom finanziario. “Oggi si va di fretta, c’è bisogno di emozioni rapide”, commenta con malinconia Roberto Vecchioni, cantautore e scrittore sensibile alle relazioni, anche amorose, tra le persone, i luoghi (Milano, innanzitutto), gli ambienti sociali. C’è dunque un tempo da cambiare. Anche per evitare di essere sempre più “Overwhelmed”, come recita l’efficace titolo del libro di Brigid Schulte, una giornalista del “Washington Post”, pubblicato da Sarah Crichton Books, con un sottotitolo ben esplicativo: “Work, Love and Play When No One Has the Time”. Bisogna smetterla, insomma di essere “troppo indaffarati”, sopraffatti dagli impegni della vita, senza un attimo di sosta, di silenzio, di riflessione. Una vita dominata dall’”horror vacui”, da un’agenda in cui, implacabili e nevrotici, si allineano uno dopo l’altro impegni, appuntamenti, riunioni, viaggi, scadenze. Una vita da modificare e riequilibrare, dando retta anche alla saggezza della lezione che viene proprio dal mondo femminile, in cui si discute sulle relazioni tra lavoro e vita personale (i blog della “27° Ora” sul “Corriere della Sera”, sotto la guida sapiente di Barbara Stefanelli, offrono riflessioni e indicazioni di estremo interesse).

Ripensare il tempo. Nell’economia. E soprattutto nella vita. Gli anni Ottanta e Novanta, con la loro follia finanziaria, sono stati dominati dal “tutto e subito”, dall’ossessione dei rendimenti finanziari frettolosi, dai giudizi sulle imprese e sugli investimenti scanditi dagli orari delle Borse mondiali e dai “quaterly”, le analisi trimestrali care ad analisti impazienti (e a detentori di stock options misurate e pagate in base all’andamento dei titoli delle imprese da loro amministrate in Borsa). Mai un pensiero lungo. Mai una strategia di respiro. Sino alla Grande Crisi da nevrosi e squilibri. Adesso che finalmente, dopo l’illusione finanziaria, si torna a parlare di “economia reale”, “manifacturing reinassance”, “produzione intelligente”, industria e “nuove fabbriche”, si ragiona e si lavora per ridefinire anche i codici temporali. “Cambiare passo” alla Huffington, appunto. Benvenuta, Arianna.

Il ragionamento va naturalmente ampliato. “Modernizzare stanca”, ci aveva ammonito, già nel 2001, un acuto filosofo, Franco Cassano, spiegandoci come siano relative le espressioni “perdere tempo” e “guadagnare tempo”, come cioè i fondamentalismi della modernizzazione (la fretta come filosofia di vita, la produttività come valore e non come strumento o misura, etc.) possano essere fuorvianti rispetto agli obiettivi di una crescita economica equilibrata, di un’impresa o di un sistema Paese. Aveva ragione, anche se “vox clamans in deserto” o quasi. Mentre la maggior parte del pensiero economico e delle culture manageriali di gestione andavano verso il disastro del 2007-2008, in alcuni ambienti hanno per fortuna cominciato a diffondersi altre culture d’impresa, attente al capitale umano e al capitale sociale, sensibili alla lezione del premio Nobel Gary Becker, all’etica degli affari, alla salvaguardia ambientale come guida per gli insediamenti produttivi, ai valori che determinano la “nuova” ricchezza d’un luogo, d’una nazione, di un’area ampia, d’un continente. In sintesi, alla “sostenibilità”.

Rieccoci al tempo. Perché la “sostenibilità” ha una doppia accezione: uno sviluppo equilibrato, tanto da poter essere “sostenuto” ambientalmente e socialmente da un territorio, ma anche uno sviluppo in grado di durare, nel corso del tempo. Uno sviluppo né corrivo né rapace. Per raggiungere quell’obiettivo, ci vogliono migliori attitudini imprenditoriali e umane, un pensiero speculativo e non più un pensiero sbrigativamente produttivo.

La creatività, molla dell’innovazione, ha bisogno di un pensiero che sia libero di vagare, prima di approdare alla concretezza di un risultato. La ricerca, come ha insegnato Karl Popper, ha bisogno di un tempo perché un certo risultato possa essere “falsificato”, sottoposto cioè alla confutazione e alla prova dell’errore. Il pensiero deve andare per sue strade originali, “laterali”, per scoprire dimensioni che poi si traducano, in azienda, in serialità di prodotti e servizi ed essere comunque pronto a innovare ancora. Anni fa, un sociologo appassionato all’originalità, Domenico De Masi, aveva varato una bella espressione:  “l’ozio creativo”. Un’idea ancora e sempre d’attualità. L’ozio è tutt’altro che un vizio, ma un’attitudine a dare a ogni cosa il suo tempo, compresa l’assenza di ogni cosa, il vuoto d’ogni occupazione, il silenzio. Perché quel tempo così pieno di vuoto è il tempo della riflessione, del pensiero “extravagante” (che vaga libero), del pensiero creativo, del pensiero amoroso, dello stesso pensiero religioso. E non c’è civiltà senza silenzio, non c’è creazione d’idee senza libertà. Né ci sono arte, cultura, relazioni tra le persone. Né moralità delle relazioni sociali. Ed economiche. Vale la pena rileggere i padri dell’economia, come Smith e Keynes, per avere, proprio su questi punti, delle esemplari testimonianze.

Nella nuova ricerca d’equilibrio della “qualità della vita e del lavoro” e del Bes (il “benessere equo e sostenibile”, misurato anche in Italia, dall’Istat), queste riflessioni sul tempo diventano essenziali. Se “Sviluppo è libertà” (la lezione di Amartya Sen, Nobel per l’economia), bisognerà continuare a parlare seriamente e criticamente del tempo. Per darci quello che, essendo “overwhelmed”, non potremo mai avere: un obiettivo, un progetto, un sogno, un’impresa.

Tra le dimensioni di vita e di lavoro che oggi ci tocca ridefinire, eccoci all’impiego del tempo. Per quantità e qualità. Valorizzando riflessione, conversazione, ricerca, meditazione e, perché no?, contemplazione. Una nuova civiltà del pensare, del dire, del fare.

Tempi, dunque. E luoghi. Culture. E valori, Il nostro Paese, dell’intelligente uso del tempo, ha fatto nel secoli una risorsa: non avremo tanta arte, altrimenti, né tanta cultura, anche “sociale” su cui fondare oggi programmi di sviluppo (Symbola, intelligente associazione che valorizza territorio, cultura e produzioni, ne è una continua testimonianza). Un vero e proprio patrimonio su cui continuare a investire. Sui pensieri, dunque. E sul tempo. Da imparare anche a lasciare scivolare tra le dita, senza fretta. Prima o poi qualcosa tornerà. Lo sviluppo, appunto…

Cambiare passo”, intima Arianna Huffington, nel suo nuovo libro (edito in Italia da Rizzoli) e spiega: “Ritmi di lavoro insostenibili, connessione 24 ore su 24, stress. Il modello attuale di successo non funziona”. Lei, che proprio il successo ha voluto fortemente, costruito con intelligenza e fatica e poi infine raggiunto, con tanto di popolarità e ricchezza, adesso fa mostra di capacità critica, “oltre il denaro e il potere”. Va ascoltata attentamente. Così come le altre voci che ci consigliano di riconsiderare le categorie del tempo che ci hanno accompagnati in questi anni frenetici di globalizzazione, rivoluzione digitale, boom finanziario. “Oggi si va di fretta, c’è bisogno di emozioni rapide”, commenta con malinconia Roberto Vecchioni, cantautore e scrittore sensibile alle relazioni, anche amorose, tra le persone, i luoghi (Milano, innanzitutto), gli ambienti sociali. C’è dunque un tempo da cambiare. Anche per evitare di essere sempre più “Overwhelmed”, come recita l’efficace titolo del libro di Brigid Schulte, una giornalista del “Washington Post”, pubblicato da Sarah Crichton Books, con un sottotitolo ben esplicativo: “Work, Love and Play When No One Has the Time”. Bisogna smetterla, insomma di essere “troppo indaffarati”, sopraffatti dagli impegni della vita, senza un attimo di sosta, di silenzio, di riflessione. Una vita dominata dall’”horror vacui”, da un’agenda in cui, implacabili e nevrotici, si allineano uno dopo l’altro impegni, appuntamenti, riunioni, viaggi, scadenze. Una vita da modificare e riequilibrare, dando retta anche alla saggezza della lezione che viene proprio dal mondo femminile, in cui si discute sulle relazioni tra lavoro e vita personale (i blog della “27° Ora” sul “Corriere della Sera”, sotto la guida sapiente di Barbara Stefanelli, offrono riflessioni e indicazioni di estremo interesse).

Ripensare il tempo. Nell’economia. E soprattutto nella vita. Gli anni Ottanta e Novanta, con la loro follia finanziaria, sono stati dominati dal “tutto e subito”, dall’ossessione dei rendimenti finanziari frettolosi, dai giudizi sulle imprese e sugli investimenti scanditi dagli orari delle Borse mondiali e dai “quaterly”, le analisi trimestrali care ad analisti impazienti (e a detentori di stock options misurate e pagate in base all’andamento dei titoli delle imprese da loro amministrate in Borsa). Mai un pensiero lungo. Mai una strategia di respiro. Sino alla Grande Crisi da nevrosi e squilibri. Adesso che finalmente, dopo l’illusione finanziaria, si torna a parlare di “economia reale”, “manifacturing reinassance”, “produzione intelligente”, industria e “nuove fabbriche”, si ragiona e si lavora per ridefinire anche i codici temporali. “Cambiare passo” alla Huffington, appunto. Benvenuta, Arianna.

Il ragionamento va naturalmente ampliato. “Modernizzare stanca”, ci aveva ammonito, già nel 2001, un acuto filosofo, Franco Cassano, spiegandoci come siano relative le espressioni “perdere tempo” e “guadagnare tempo”, come cioè i fondamentalismi della modernizzazione (la fretta come filosofia di vita, la produttività come valore e non come strumento o misura, etc.) possano essere fuorvianti rispetto agli obiettivi di una crescita economica equilibrata, di un’impresa o di un sistema Paese. Aveva ragione, anche se “vox clamans in deserto” o quasi. Mentre la maggior parte del pensiero economico e delle culture manageriali di gestione andavano verso il disastro del 2007-2008, in alcuni ambienti hanno per fortuna cominciato a diffondersi altre culture d’impresa, attente al capitale umano e al capitale sociale, sensibili alla lezione del premio Nobel Gary Becker, all’etica degli affari, alla salvaguardia ambientale come guida per gli insediamenti produttivi, ai valori che determinano la “nuova” ricchezza d’un luogo, d’una nazione, di un’area ampia, d’un continente. In sintesi, alla “sostenibilità”.

Rieccoci al tempo. Perché la “sostenibilità” ha una doppia accezione: uno sviluppo equilibrato, tanto da poter essere “sostenuto” ambientalmente e socialmente da un territorio, ma anche uno sviluppo in grado di durare, nel corso del tempo. Uno sviluppo né corrivo né rapace. Per raggiungere quell’obiettivo, ci vogliono migliori attitudini imprenditoriali e umane, un pensiero speculativo e non più un pensiero sbrigativamente produttivo.

La creatività, molla dell’innovazione, ha bisogno di un pensiero che sia libero di vagare, prima di approdare alla concretezza di un risultato. La ricerca, come ha insegnato Karl Popper, ha bisogno di un tempo perché un certo risultato possa essere “falsificato”, sottoposto cioè alla confutazione e alla prova dell’errore. Il pensiero deve andare per sue strade originali, “laterali”, per scoprire dimensioni che poi si traducano, in azienda, in serialità di prodotti e servizi ed essere comunque pronto a innovare ancora. Anni fa, un sociologo appassionato all’originalità, Domenico De Masi, aveva varato una bella espressione:  “l’ozio creativo”. Un’idea ancora e sempre d’attualità. L’ozio è tutt’altro che un vizio, ma un’attitudine a dare a ogni cosa il suo tempo, compresa l’assenza di ogni cosa, il vuoto d’ogni occupazione, il silenzio. Perché quel tempo così pieno di vuoto è il tempo della riflessione, del pensiero “extravagante” (che vaga libero), del pensiero creativo, del pensiero amoroso, dello stesso pensiero religioso. E non c’è civiltà senza silenzio, non c’è creazione d’idee senza libertà. Né ci sono arte, cultura, relazioni tra le persone. Né moralità delle relazioni sociali. Ed economiche. Vale la pena rileggere i padri dell’economia, come Smith e Keynes, per avere, proprio su questi punti, delle esemplari testimonianze.

Nella nuova ricerca d’equilibrio della “qualità della vita e del lavoro” e del Bes (il “benessere equo e sostenibile”, misurato anche in Italia, dall’Istat), queste riflessioni sul tempo diventano essenziali. Se “Sviluppo è libertà” (la lezione di Amartya Sen, Nobel per l’economia), bisognerà continuare a parlare seriamente e criticamente del tempo. Per darci quello che, essendo “overwhelmed”, non potremo mai avere: un obiettivo, un progetto, un sogno, un’impresa.

Tra le dimensioni di vita e di lavoro che oggi ci tocca ridefinire, eccoci all’impiego del tempo. Per quantità e qualità. Valorizzando riflessione, conversazione, ricerca, meditazione e, perché no?, contemplazione. Una nuova civiltà del pensare, del dire, del fare.

Tempi, dunque. E luoghi. Culture. E valori, Il nostro Paese, dell’intelligente uso del tempo, ha fatto nel secoli una risorsa: non avremo tanta arte, altrimenti, né tanta cultura, anche “sociale” su cui fondare oggi programmi di sviluppo (Symbola, intelligente associazione che valorizza territorio, cultura e produzioni, ne è una continua testimonianza). Un vero e proprio patrimonio su cui continuare a investire. Sui pensieri, dunque. E sul tempo. Da imparare anche a lasciare scivolare tra le dita, senza fretta. Prima o poi qualcosa tornerà. Lo sviluppo, appunto…

Le imprese non sono orologi

TQM ovvero Total Quality Management ovvero l’impresa perfetta. Questo, almeno, è ciò che i manuali di gestione d’impresa ci dicono.  Il modello pare essere quello di un’azienda gestita come un orologio perfettamente funzionante, che tiene il tempo, ben lubrificato e resistente a tutte le intemperie. In realtà la TQM deve fare i conti con le persone che la devono creare e far funzionare. Tutta un’altra storia.

Il lavoro di Radoica Luburić (della Banca Centrale del Montenegro), è utile per mettere in collegamento la teoria della TQM con la pratica e, soprattutto, con gli aspetti umani e sociali che la influenzano.

Con la TQM “si potrebbe arrivare – viene spiegato nella ricerca -, a un modello che consente un raggiungimento simultaneo di un livello di qualità superiore da un lato e un livello di gestione superiore, dall’altro”. In altre parole, la Total Quality Management è davvero “un paradigma del business di successo in tutto il mondo”. E’ un concetto che “infonde fiducia nei clienti e innesca reazioni a catena di miglioramento dei rapporti con i fornitori”. Ma tutto questo non spiega ancora bene cosa sia la qualità totale. Ci sono cioè forti legami fra la TQM e la cultura della collaborazione all’interno dell’impresa stessa.

Luburić spiega bene cosa questo significhi attraverso una serie di schemi che mostrano le intersecazioni fra qualità, lavoro, management e azioni conseguenti. E, spostandosi poi dalla teoria alla pratica della TQM in Giappone, USA ed Europa, Luburić aggiunge elementi di approfondimento importanti.

“I giapponesi – spiega la ricerca -, sono così ossessionati con l’alta qualità che quasi fanno festa quando  trovano un errore, dal momento che serve loro come un ulteriore incentivo per ulteriori miglioramenti”. Il modo con cui le decisioni vengono prese nelle imprese USA, invece, differisce totalmente da quello delle aziende giapponesi. Secondo Luburić, nelle imprese americane poche persone decidono cosa fare: si fa più veloce, ma occorre poi convincere molti più attori d’impresa della bontà delle scelte assunte. Ancora diverso l’approccio degli europei che per Luburić è sintetizzato da una frase di Raymond Levy (chairman di Renault nel 1990): “La qualità è rappresentativa di una cultura che noi europei  non abbiamo alcun motivo di lasciare che gli altri monopolizzino. L’Europa di Cartesio, l’Europa dell’Età della Ragione e dell’Illuminismo, l’Europa industriale e della rivoluzione tecnologica degli ultimi due secoli, racchiude in sé tutti gli elementi di metodo e di esattezza veicolati con il termine qualità totale”.

Insomma, la TQM non è un meccanismo ma un modo di essere e va certamente ricercata in ogni azienda, ma da sola non basta. Per il semplice fatto che le imprese non sono orologi: al loro interno non ci sono rotelle e molle, ma uomini e donne. Come si diceva all’inizio, tutta un’altra storia, ma anche tutta un’altra qualità.

Total Quality Management as a  Paradigm of Business Success

Radoica Luburić (Central Bank of  Montenegro)

Journal of Central Banking Theory and Practice, 2014, Vol.3 No.1, pp. 59-80

TQM ovvero Total Quality Management ovvero l’impresa perfetta. Questo, almeno, è ciò che i manuali di gestione d’impresa ci dicono.  Il modello pare essere quello di un’azienda gestita come un orologio perfettamente funzionante, che tiene il tempo, ben lubrificato e resistente a tutte le intemperie. In realtà la TQM deve fare i conti con le persone che la devono creare e far funzionare. Tutta un’altra storia.

Il lavoro di Radoica Luburić (della Banca Centrale del Montenegro), è utile per mettere in collegamento la teoria della TQM con la pratica e, soprattutto, con gli aspetti umani e sociali che la influenzano.

Con la TQM “si potrebbe arrivare – viene spiegato nella ricerca -, a un modello che consente un raggiungimento simultaneo di un livello di qualità superiore da un lato e un livello di gestione superiore, dall’altro”. In altre parole, la Total Quality Management è davvero “un paradigma del business di successo in tutto il mondo”. E’ un concetto che “infonde fiducia nei clienti e innesca reazioni a catena di miglioramento dei rapporti con i fornitori”. Ma tutto questo non spiega ancora bene cosa sia la qualità totale. Ci sono cioè forti legami fra la TQM e la cultura della collaborazione all’interno dell’impresa stessa.

Luburić spiega bene cosa questo significhi attraverso una serie di schemi che mostrano le intersecazioni fra qualità, lavoro, management e azioni conseguenti. E, spostandosi poi dalla teoria alla pratica della TQM in Giappone, USA ed Europa, Luburić aggiunge elementi di approfondimento importanti.

“I giapponesi – spiega la ricerca -, sono così ossessionati con l’alta qualità che quasi fanno festa quando  trovano un errore, dal momento che serve loro come un ulteriore incentivo per ulteriori miglioramenti”. Il modo con cui le decisioni vengono prese nelle imprese USA, invece, differisce totalmente da quello delle aziende giapponesi. Secondo Luburić, nelle imprese americane poche persone decidono cosa fare: si fa più veloce, ma occorre poi convincere molti più attori d’impresa della bontà delle scelte assunte. Ancora diverso l’approccio degli europei che per Luburić è sintetizzato da una frase di Raymond Levy (chairman di Renault nel 1990): “La qualità è rappresentativa di una cultura che noi europei  non abbiamo alcun motivo di lasciare che gli altri monopolizzino. L’Europa di Cartesio, l’Europa dell’Età della Ragione e dell’Illuminismo, l’Europa industriale e della rivoluzione tecnologica degli ultimi due secoli, racchiude in sé tutti gli elementi di metodo e di esattezza veicolati con il termine qualità totale”.

Insomma, la TQM non è un meccanismo ma un modo di essere e va certamente ricercata in ogni azienda, ma da sola non basta. Per il semplice fatto che le imprese non sono orologi: al loro interno non ci sono rotelle e molle, ma uomini e donne. Come si diceva all’inizio, tutta un’altra storia, ma anche tutta un’altra qualità.

Total Quality Management as a  Paradigm of Business Success

Radoica Luburić (Central Bank of  Montenegro)

Journal of Central Banking Theory and Practice, 2014, Vol.3 No.1, pp. 59-80

L’impresa del creare

Essere creativi per innovare. Anche nelle imprese, forse soprattutto nelle imprese. Passaggio obbligatorio, per dare orizzonti diversi alla produzione e quindi alla collocazione sui mercati, quello della creatività viene vissuto spesso come un privilegio per pochi, illuminati, felici imprenditori. Ovvio, una certa predisposizione ci vuole. Ma la creatività è per tutti. Basta imparare e prima ancora rendersene conto.

E’ questo uno dei messaggi di “Essere creativi…una possibilità per tutti. Guida al DNA delle idee per innovare ogni giorno”, un volumetto  (poco meno di 200 pagine), scritto da Massimo Carignano, Francesco Rossetti, Alessandro Dondo, Fabio Schena ed Elisabetta Cavallari (giovani esperienze diverse messe in comune,  dall’ingegneria  all’economia, passando per la fisica, l’archeologia e il diritto applicate in ambiti ancora più disparati dall’Università, alla grande industria e alle PMI). Il libro esplora teoria e tecnica della creatività per l’innovazione con un metodo diverso da solito. “L’innovazione è una prerogativa universale dell’uomo”,  spiegano i cinque autori, anche in senso biologico e genetico; quindi è propria degli uomini, di tutti gli uomini. E’ possibile di conseguenza studiarla, spiegarla, applicarla, farla crescere raccontando e sviluppando le idee attraverso una specie di “carta di identità” composta da elementi che – come i geni -, possono comporsi e ricomporsi infinite volte, generando infiniti modi del pensare del creare. Spazio aperto per tutti, quindi, anche per chi pensa di aver esaurito tutte le risorse per far crescere l’innovazione nell’impresa, nella produzione e nei mercati. Della “genomation” – questo il nome dato al metodo -, vengono dati i tratti essenziali e fornite una serie di applicazioni. Nelle pagine del volume, dopo la teoria vi sono casi pratici come la predisposizione dei questionari aziendali, la strutturazione di una rete vendita, l’impostazione di un centro studi per le PMI, il social commerce, la selezione e la assunzione del personale. E anche spazi, pagine bianche “per pensare e reagire” immediatamente a quanto si è appena letto.

“Essere creativi” è un volume positivo, che fa bene alla cultura d’impresa, anche provocando reazioni contrastanti.

E’ bello quanto pongono i cinque autori nelle pagine iniziali della loro fatica citando Antoine de Saint-Exupery: “Creare…equivale a sbagliare quel passo nella danza. Significa dare di traverso quel colpo di scalpello nella pietra”.

Essere creativi…una possibilità per tutti! Guida al DINA delle idee per innovare ogni giorno

M. Carignano, F. Rossetti, A. Dondo, F. Schena, E. Cavallari

Edizioni Creativa, marzo 2014.

Essere creativi per innovare. Anche nelle imprese, forse soprattutto nelle imprese. Passaggio obbligatorio, per dare orizzonti diversi alla produzione e quindi alla collocazione sui mercati, quello della creatività viene vissuto spesso come un privilegio per pochi, illuminati, felici imprenditori. Ovvio, una certa predisposizione ci vuole. Ma la creatività è per tutti. Basta imparare e prima ancora rendersene conto.

E’ questo uno dei messaggi di “Essere creativi…una possibilità per tutti. Guida al DNA delle idee per innovare ogni giorno”, un volumetto  (poco meno di 200 pagine), scritto da Massimo Carignano, Francesco Rossetti, Alessandro Dondo, Fabio Schena ed Elisabetta Cavallari (giovani esperienze diverse messe in comune,  dall’ingegneria  all’economia, passando per la fisica, l’archeologia e il diritto applicate in ambiti ancora più disparati dall’Università, alla grande industria e alle PMI). Il libro esplora teoria e tecnica della creatività per l’innovazione con un metodo diverso da solito. “L’innovazione è una prerogativa universale dell’uomo”,  spiegano i cinque autori, anche in senso biologico e genetico; quindi è propria degli uomini, di tutti gli uomini. E’ possibile di conseguenza studiarla, spiegarla, applicarla, farla crescere raccontando e sviluppando le idee attraverso una specie di “carta di identità” composta da elementi che – come i geni -, possono comporsi e ricomporsi infinite volte, generando infiniti modi del pensare del creare. Spazio aperto per tutti, quindi, anche per chi pensa di aver esaurito tutte le risorse per far crescere l’innovazione nell’impresa, nella produzione e nei mercati. Della “genomation” – questo il nome dato al metodo -, vengono dati i tratti essenziali e fornite una serie di applicazioni. Nelle pagine del volume, dopo la teoria vi sono casi pratici come la predisposizione dei questionari aziendali, la strutturazione di una rete vendita, l’impostazione di un centro studi per le PMI, il social commerce, la selezione e la assunzione del personale. E anche spazi, pagine bianche “per pensare e reagire” immediatamente a quanto si è appena letto.

“Essere creativi” è un volume positivo, che fa bene alla cultura d’impresa, anche provocando reazioni contrastanti.

E’ bello quanto pongono i cinque autori nelle pagine iniziali della loro fatica citando Antoine de Saint-Exupery: “Creare…equivale a sbagliare quel passo nella danza. Significa dare di traverso quel colpo di scalpello nella pietra”.

Essere creativi…una possibilità per tutti! Guida al DINA delle idee per innovare ogni giorno

M. Carignano, F. Rossetti, A. Dondo, F. Schena, E. Cavallari

Edizioni Creativa, marzo 2014.

“People first”, investire in capitale umano e sociale, ricordando la lezione di Munari

People first” ovvero il ruolo del capitale sociale e del capitale umano per lo sviluppo dell’Italia. Un ruolo tutto da valorizzare, rilanciare, potenziare se è vero che le imprese italiane e, più in generale, il sistema Paese, investono molto meno del necessario in formazione, ricerca, innovazione, utilizzo corretto delle competenze professionali dei lavoratori. Se ne è discusso per due giorni a Bari, nello scorso week end, durante un convegno di Confindustria. Ed è proprio uno studio del Centro Studi Confindustria (CSC) diretto da Luca Paolazzi a indicare dati e fatti sui limiti italiani e sugli investimenti da fare.

I dati essenziali sono noti: l’investimento in ricerca equivale a poco più dell’1% del Pil, pochissimo rispetto al 3% indicato dalla Ue come obiettivo per il 2020, ma anche all’attuale media dei paesi Ue (2%), alla Germania (2,9%) e alla Francia (2,2%) e per il 54,5% ricade sulle imprese private (dato 2012, in crescita rispetto al 53,6% del 2008). Diminuisce la quota delle università, dal 30,5 al 28,6% e delle altre istituzioni pubbliche. Colpa della crisi, naturalmente (in Italia la lunga recessione è stata molto più dura che nel resto d’Europa). Ma anche di un’inquietante miopia della politica e di una parte delle stesse imprese rispetto al futuro. E’ vero che le statistiche sottostimano gli investimenti in ricerca e innovazione (nelle imprese piccole e medie in bilancio si parla spesso di “consulenza” e non di R&D e molta innovazione adattativa, soprattutto nei processi produttivi, non viene compiutamente contabilizzata). Ma il problema resta, soprattutto sul versante degli investimenti pubblici.

Ci sono, attivissime, le imprese innovatrici, rintracciabili soprattutto tra le industrie di media dimensione, internazionalizzate, competitive all’estero, capaci di aumentare la loro quota dell’export anche in stagioni di crisi (il dinamico mondo del “medium hi tech”, analizzato dal recente saggio di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, intitolato “Riaccendere i motori”, appena edito da Marsilio). E le nostre esportazioni vedono un peso crescente della meccanica, della chimica specialistica, di una certa farmaceutica d’avanguardia, accanto ai settori tradizionali, dall’abbigliamento all’arredamento e all’industria agro-alimentare. Ma tutto questo non basta a fare da locomotiva per una migliore crescita economica e sociale dell’Italia. Bisogna investire di più in capitale sociale e in capitale umano.

Come?  Su “Il Sole24Ore” (29 marzo) Paolo Bricco, sulla scorta della ricerca CSC, spiega che “capitale umano” significa in Italia tre cose: reale efficienza del sistema universitario, potenziamento della formazione tecnica, integrazione intelligente degli immigrati. E c’è molto da fare, su tutti e tre i versanti. Abbiamo un basso numero di laureati (il 15% della popolazione, tra i 25 e i 64 anni, rispetto al 42% degli Usa, con un effetto negativo sul Pil: 40mila euro pro capite, in nostro, 55mila quello americano) ma anche un forte deficit per le lauree in ingegneria, matematica, altri settori scientifici e comunque una mancata sintonia tra una pur essenziale formazione al “sapere” e una scarsa attitudine al “saper fare”, indispensabile per le imprese. Ci impegniamo poco nella formazione continua. E non c’è una strategia dell’attenzione alla riqualificazione per non “bruciare” forza lavoro (quella di mezza età, per esempio), messa ai margini dall’evoluzione dei processi produttivi (la formazione affidata purtroppo alla Regioni offre scandalosi esempi di sprechi, clientele, distorsioni, improduttività).

Ma c’è un altro fenomeno su cui il sistema Italia è particolarmente debole: l’attrazione dei talenti. Perdiamo, verso altri paesi, i laureati più qualificati, intraprendenti, dinamici. E non ne attiriamo abbastanza dal resto del mondo. La mobilità del lavoro qualificato, fenomeno positivo, per l’Italia diventa “fuga dei cervelli”. E, a peggiorare il quadro, contribuiscono non solo il fatto che non riusciamo ad avere talenti di alta qualità e competenze (complici le inadeguate leggi sull’immigrazione e una “bureau crazy”, brillante sintesi di un ironico laureato) ma anche il cattivo uso degli immigrati che abbiamo (“le matematiche ucraine che fanno le badanti per gli anziani, gli infornatici rumeni che scaricano le cassette di frutta al mercato”, per citare gli esempi del CSC).

Serve insomma una svolta politica. E culturale. Un investimento maggiore e migliore in “economia del sapere”, come sintetizza Fulvio Conti, ceo dell’Enel e vicepresidente di Confindustria per il CSC. E probabilmente vale la pena riconsiderare la lezione di un grande uomo di cultura come Bruno Munari, designer di straordinarie qualità innovative (“Munari politecnico”, si intitola la mostra a Milano al Museo del Novecento): “La fantasia è una facoltà dello spirito capace di inventare immagini mentali diverse dalla realtà dei particolari o nell’insieme: immagini che possono essere anche irrealizzabili praticamente. La creatività è una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate, per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile praticamente”. Di creatività e di “cultura politecnica” le imprese italiane sono ricche. Ma questo capitale va incrementato, fatto crescere e non sprecato o lasciato invecchiare. La chiave dello sviluppo è proprio qui.

People first” ovvero il ruolo del capitale sociale e del capitale umano per lo sviluppo dell’Italia. Un ruolo tutto da valorizzare, rilanciare, potenziare se è vero che le imprese italiane e, più in generale, il sistema Paese, investono molto meno del necessario in formazione, ricerca, innovazione, utilizzo corretto delle competenze professionali dei lavoratori. Se ne è discusso per due giorni a Bari, nello scorso week end, durante un convegno di Confindustria. Ed è proprio uno studio del Centro Studi Confindustria (CSC) diretto da Luca Paolazzi a indicare dati e fatti sui limiti italiani e sugli investimenti da fare.

I dati essenziali sono noti: l’investimento in ricerca equivale a poco più dell’1% del Pil, pochissimo rispetto al 3% indicato dalla Ue come obiettivo per il 2020, ma anche all’attuale media dei paesi Ue (2%), alla Germania (2,9%) e alla Francia (2,2%) e per il 54,5% ricade sulle imprese private (dato 2012, in crescita rispetto al 53,6% del 2008). Diminuisce la quota delle università, dal 30,5 al 28,6% e delle altre istituzioni pubbliche. Colpa della crisi, naturalmente (in Italia la lunga recessione è stata molto più dura che nel resto d’Europa). Ma anche di un’inquietante miopia della politica e di una parte delle stesse imprese rispetto al futuro. E’ vero che le statistiche sottostimano gli investimenti in ricerca e innovazione (nelle imprese piccole e medie in bilancio si parla spesso di “consulenza” e non di R&D e molta innovazione adattativa, soprattutto nei processi produttivi, non viene compiutamente contabilizzata). Ma il problema resta, soprattutto sul versante degli investimenti pubblici.

Ci sono, attivissime, le imprese innovatrici, rintracciabili soprattutto tra le industrie di media dimensione, internazionalizzate, competitive all’estero, capaci di aumentare la loro quota dell’export anche in stagioni di crisi (il dinamico mondo del “medium hi tech”, analizzato dal recente saggio di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, intitolato “Riaccendere i motori”, appena edito da Marsilio). E le nostre esportazioni vedono un peso crescente della meccanica, della chimica specialistica, di una certa farmaceutica d’avanguardia, accanto ai settori tradizionali, dall’abbigliamento all’arredamento e all’industria agro-alimentare. Ma tutto questo non basta a fare da locomotiva per una migliore crescita economica e sociale dell’Italia. Bisogna investire di più in capitale sociale e in capitale umano.

Come?  Su “Il Sole24Ore” (29 marzo) Paolo Bricco, sulla scorta della ricerca CSC, spiega che “capitale umano” significa in Italia tre cose: reale efficienza del sistema universitario, potenziamento della formazione tecnica, integrazione intelligente degli immigrati. E c’è molto da fare, su tutti e tre i versanti. Abbiamo un basso numero di laureati (il 15% della popolazione, tra i 25 e i 64 anni, rispetto al 42% degli Usa, con un effetto negativo sul Pil: 40mila euro pro capite, in nostro, 55mila quello americano) ma anche un forte deficit per le lauree in ingegneria, matematica, altri settori scientifici e comunque una mancata sintonia tra una pur essenziale formazione al “sapere” e una scarsa attitudine al “saper fare”, indispensabile per le imprese. Ci impegniamo poco nella formazione continua. E non c’è una strategia dell’attenzione alla riqualificazione per non “bruciare” forza lavoro (quella di mezza età, per esempio), messa ai margini dall’evoluzione dei processi produttivi (la formazione affidata purtroppo alla Regioni offre scandalosi esempi di sprechi, clientele, distorsioni, improduttività).

Ma c’è un altro fenomeno su cui il sistema Italia è particolarmente debole: l’attrazione dei talenti. Perdiamo, verso altri paesi, i laureati più qualificati, intraprendenti, dinamici. E non ne attiriamo abbastanza dal resto del mondo. La mobilità del lavoro qualificato, fenomeno positivo, per l’Italia diventa “fuga dei cervelli”. E, a peggiorare il quadro, contribuiscono non solo il fatto che non riusciamo ad avere talenti di alta qualità e competenze (complici le inadeguate leggi sull’immigrazione e una “bureau crazy”, brillante sintesi di un ironico laureato) ma anche il cattivo uso degli immigrati che abbiamo (“le matematiche ucraine che fanno le badanti per gli anziani, gli infornatici rumeni che scaricano le cassette di frutta al mercato”, per citare gli esempi del CSC).

Serve insomma una svolta politica. E culturale. Un investimento maggiore e migliore in “economia del sapere”, come sintetizza Fulvio Conti, ceo dell’Enel e vicepresidente di Confindustria per il CSC. E probabilmente vale la pena riconsiderare la lezione di un grande uomo di cultura come Bruno Munari, designer di straordinarie qualità innovative (“Munari politecnico”, si intitola la mostra a Milano al Museo del Novecento): “La fantasia è una facoltà dello spirito capace di inventare immagini mentali diverse dalla realtà dei particolari o nell’insieme: immagini che possono essere anche irrealizzabili praticamente. La creatività è una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate, per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile praticamente”. Di creatività e di “cultura politecnica” le imprese italiane sono ricche. Ma questo capitale va incrementato, fatto crescere e non sprecato o lasciato invecchiare. La chiave dello sviluppo è proprio qui.

Buona economia e buona cultura d’impresa

Si produce meglio se ci si rende conto di dove si è. Perché l’impresa non una monade isolata dall’ambiente in cui si trova. Un tutt’uno inscalfibile e impermeabile, che produce, fa profitti e basta. Altro dalla storia e dagli uomini che la costruiscono. La cultura d’impresa – che connota la sua capacità di produrre -, si nutre anche di consapevolezza del contesto in cui la stessa impresa si trova ad agire. Al buon imprenditore, alla buona impresa e ai suoi manager servono quindi anche spazi di approfondimento di quanto è accaduto. Per capire meglio l’oggi e prepararsi di più al domani.

E’ questo il caso dell’intervento di Ignazio Visco – Governatore della Banca d’Italia -, in occasione della celebrazione, alla LUISS, dei cent’anni dalla nascita di Guido Carli.

Guido Carli e la modernizzazione dell’economia” non è solo il ricordo di un maestro, ma anche l’occasione per puntualizzare corsi e ricorsi storici e, soprattutto, quanto adesso occorre risolvere per riprendere in mano le fila dello sviluppo industriale in Italia. Un testo che certamente suscita pareri contrastanti, ma che è importante leggere.

Visco ricorda di Carli alcuni passaggi scritti nella relazione da Governatore della Banca nel 1971. Concetti, termini e preoccupazioni che, di fatto, appaiono attuali. Carli scrisse di “apprensioni sulla capacità di sopravvivenza” del sistema, di “preventiva riflessione”, “difettosa conoscenza”, “visioni e atteggiamenti particolaristici” che possono davvero sintetizzare anche i timori e le istanze dell’oggi. E, ricorda Visco, fu  sempre Carli ad essersi posto, con altri, il problema della cosiddetta “modernizzazione strutturale dell’economia italiana”. Un traguardo ambizioso e complicato da raggiungere ma essenziale per consentire al Paese di crescere ancora. Ieri come oggi, appunto.

Preoccupazioni e obiettivi quasi identici, quindi, così come gli strumenti per raggiungerli. A partire dalla sburocratizzazione e dalla semplificazione delle regole.  Ma passando anche per lo sciogliere di una serie di “lacci e lacciuoli” di vario genere, statali e non, che frenano lo sviluppo. E’ qui che Visco – seguendo Carli -, punta il dito e fa discutere. Scrive infatti il Governatore: “I problemi odierni dell’Italia sono molto simili a quelli che si potevano osservare al termine del governatorato Carli: ‘lacci e lacciuoli’, intesi come rigidità legislative burocratiche, corporative, imprenditoriali, sindacali, sono sempre la remora principale allo sviluppo del nostro paese”. E non solo, perché Visco conclude spiegando: “Oggi non manca, come non è mancata in passato, la consapevolezza delle cose da fare. Ma i movimenti della politica, del corpo sociale sono apparsi impediti e l’azione è risultata largamente insufficiente rispetto al bisogno. Le conseguenze dell’immobilismo sono però diverse da quelle che si manifestavano negli anni settanta: mentre allora era l’inflazione, oggi è il ristagno. I segni di risveglio che vediamo sono incoraggianti, ma vanno confermati nei mesi e negli anni futuri: la costanza nell’azione riformatrice è essenziale. Solo affrontando risolutamente i nodi strutturali che hanno frenato l’economia italiana già prima delle recenti crisi, e ne hanno aggravato le conseguenze, sarà possibile riprendere un sentiero di crescita robusta e duratura”.

Tutto pane buono per alimentare una buona cultura d’impresa.

Guido Carli e la modernizzazione dell’economia

Ignazio Visco

Banca d’Italia-Università LUISS, 28 marzo 2014

Si produce meglio se ci si rende conto di dove si è. Perché l’impresa non una monade isolata dall’ambiente in cui si trova. Un tutt’uno inscalfibile e impermeabile, che produce, fa profitti e basta. Altro dalla storia e dagli uomini che la costruiscono. La cultura d’impresa – che connota la sua capacità di produrre -, si nutre anche di consapevolezza del contesto in cui la stessa impresa si trova ad agire. Al buon imprenditore, alla buona impresa e ai suoi manager servono quindi anche spazi di approfondimento di quanto è accaduto. Per capire meglio l’oggi e prepararsi di più al domani.

E’ questo il caso dell’intervento di Ignazio Visco – Governatore della Banca d’Italia -, in occasione della celebrazione, alla LUISS, dei cent’anni dalla nascita di Guido Carli.

Guido Carli e la modernizzazione dell’economia” non è solo il ricordo di un maestro, ma anche l’occasione per puntualizzare corsi e ricorsi storici e, soprattutto, quanto adesso occorre risolvere per riprendere in mano le fila dello sviluppo industriale in Italia. Un testo che certamente suscita pareri contrastanti, ma che è importante leggere.

Visco ricorda di Carli alcuni passaggi scritti nella relazione da Governatore della Banca nel 1971. Concetti, termini e preoccupazioni che, di fatto, appaiono attuali. Carli scrisse di “apprensioni sulla capacità di sopravvivenza” del sistema, di “preventiva riflessione”, “difettosa conoscenza”, “visioni e atteggiamenti particolaristici” che possono davvero sintetizzare anche i timori e le istanze dell’oggi. E, ricorda Visco, fu  sempre Carli ad essersi posto, con altri, il problema della cosiddetta “modernizzazione strutturale dell’economia italiana”. Un traguardo ambizioso e complicato da raggiungere ma essenziale per consentire al Paese di crescere ancora. Ieri come oggi, appunto.

Preoccupazioni e obiettivi quasi identici, quindi, così come gli strumenti per raggiungerli. A partire dalla sburocratizzazione e dalla semplificazione delle regole.  Ma passando anche per lo sciogliere di una serie di “lacci e lacciuoli” di vario genere, statali e non, che frenano lo sviluppo. E’ qui che Visco – seguendo Carli -, punta il dito e fa discutere. Scrive infatti il Governatore: “I problemi odierni dell’Italia sono molto simili a quelli che si potevano osservare al termine del governatorato Carli: ‘lacci e lacciuoli’, intesi come rigidità legislative burocratiche, corporative, imprenditoriali, sindacali, sono sempre la remora principale allo sviluppo del nostro paese”. E non solo, perché Visco conclude spiegando: “Oggi non manca, come non è mancata in passato, la consapevolezza delle cose da fare. Ma i movimenti della politica, del corpo sociale sono apparsi impediti e l’azione è risultata largamente insufficiente rispetto al bisogno. Le conseguenze dell’immobilismo sono però diverse da quelle che si manifestavano negli anni settanta: mentre allora era l’inflazione, oggi è il ristagno. I segni di risveglio che vediamo sono incoraggianti, ma vanno confermati nei mesi e negli anni futuri: la costanza nell’azione riformatrice è essenziale. Solo affrontando risolutamente i nodi strutturali che hanno frenato l’economia italiana già prima delle recenti crisi, e ne hanno aggravato le conseguenze, sarà possibile riprendere un sentiero di crescita robusta e duratura”.

Tutto pane buono per alimentare una buona cultura d’impresa.

Guido Carli e la modernizzazione dell’economia

Ignazio Visco

Banca d’Italia-Università LUISS, 28 marzo 2014

La bellezza del racconto d’impresa

Raccontare un’impresa è bello, ma anche utile. Bisogna, però, saperlo fare. E’ facile scivolare nella retorica, ancora di più nella nostalgia. Dimenticando l’utilità vera che il racconto della storia e dell’oggi delle imprese può dare: comprendere meglio come l’avventura del produrre si è sviluppata, non commettere errori adesso e migliorare il futuro.

Ma raccontare un’azienda vale anche per altro. Significa comunicare la cultura con cui si affrontano la produzione e il mercato. E significa anche pubblicità , commercio, vendita. Obiettivi forse più “bassi”, ma non per questo meno importanti.

Ciò che conta, lo si è detto, è saper raccontare bene un’esperienza aziendale. Per questo, il volume di Valentina Martino – “Dalle storie alla storia d’impresa. Memoria, comunicazione, heritage” -, serve molto. Il libro (poco meno di 300 pagine che si leggono però agevolmente), offre una ricognizione dei modelli strategico-operativi che aiutano la comunicazione della memoria aziendale. Perché è necessario, quando si inizia a raccontare un’impresa, tenere conto che ci si immerge in una storia complessa: non solo economica, non solo tecnica, non solamente sindacale o sociale. Si racconta di uomini e macchine, di aspirazioni individuali e collettive, di politica, di un sistema che è stato ed è permeabile a molte sollecitazioni e istanze dell’ambiente in cui è collocato.

Valentina Martino lo sa, e quindi si avvale di una prospettiva interdisciplinare per affrontare il tema partendo dagli strumenti per la comprensione delle tante storie, individuali e organizzative, delle diverse fonti conoscitive, delle buone pratiche aziendali e delle diverse reti sociali.

Ma il libro della Martino dice anche altro. Spiega cioè che la rilettura critica della storia di marche e prodotti può dar vita a narrazioni avvincenti, giocate in chiave anti-nostalgica e con un forte rilancio sul presente e sul futuro.

E non basta, perché è opinione dell’autrice che la tradizione non costituisce la prerogativa esclusiva di un’èlite di imprese storico-familiari, consacrate dal tempo in virtù di uno speciale elisir di lunga vita, ma un’opportunità strategica anche per organizzazioni non altrettanto antiche e, tuttavia, consapevoli dell’unicità del proprio apporto alla memoria collettiva.

Insomma, raccontare fa sempre bene, anche per le imprese qualsiasi esse siano. Basta saperlo fare bene.

Dalle storie alla storia d’impresa. Memoria, comunicazione, heritage

Valentina Martino

Bonanno, 2014

Raccontare un’impresa è bello, ma anche utile. Bisogna, però, saperlo fare. E’ facile scivolare nella retorica, ancora di più nella nostalgia. Dimenticando l’utilità vera che il racconto della storia e dell’oggi delle imprese può dare: comprendere meglio come l’avventura del produrre si è sviluppata, non commettere errori adesso e migliorare il futuro.

Ma raccontare un’azienda vale anche per altro. Significa comunicare la cultura con cui si affrontano la produzione e il mercato. E significa anche pubblicità , commercio, vendita. Obiettivi forse più “bassi”, ma non per questo meno importanti.

Ciò che conta, lo si è detto, è saper raccontare bene un’esperienza aziendale. Per questo, il volume di Valentina Martino – “Dalle storie alla storia d’impresa. Memoria, comunicazione, heritage” -, serve molto. Il libro (poco meno di 300 pagine che si leggono però agevolmente), offre una ricognizione dei modelli strategico-operativi che aiutano la comunicazione della memoria aziendale. Perché è necessario, quando si inizia a raccontare un’impresa, tenere conto che ci si immerge in una storia complessa: non solo economica, non solo tecnica, non solamente sindacale o sociale. Si racconta di uomini e macchine, di aspirazioni individuali e collettive, di politica, di un sistema che è stato ed è permeabile a molte sollecitazioni e istanze dell’ambiente in cui è collocato.

Valentina Martino lo sa, e quindi si avvale di una prospettiva interdisciplinare per affrontare il tema partendo dagli strumenti per la comprensione delle tante storie, individuali e organizzative, delle diverse fonti conoscitive, delle buone pratiche aziendali e delle diverse reti sociali.

Ma il libro della Martino dice anche altro. Spiega cioè che la rilettura critica della storia di marche e prodotti può dar vita a narrazioni avvincenti, giocate in chiave anti-nostalgica e con un forte rilancio sul presente e sul futuro.

E non basta, perché è opinione dell’autrice che la tradizione non costituisce la prerogativa esclusiva di un’èlite di imprese storico-familiari, consacrate dal tempo in virtù di uno speciale elisir di lunga vita, ma un’opportunità strategica anche per organizzazioni non altrettanto antiche e, tuttavia, consapevoli dell’unicità del proprio apporto alla memoria collettiva.

Insomma, raccontare fa sempre bene, anche per le imprese qualsiasi esse siano. Basta saperlo fare bene.

Dalle storie alla storia d’impresa. Memoria, comunicazione, heritage

Valentina Martino

Bonanno, 2014

E’ la forza del “cum”: vincono le imprese che sanno collaborare

Una parola piccola piccola, tre lettere appena. Un avverbio. Latino. Finito dentro tante altre parole europee e pur sempre d’attualità. Con sapore di futuro. La parola “cum”. Che indica percorsi comuni, connota strategie condivise, segna collaborazioni. E dà carattere persino a vocaboli che nel senso comune hanno finito per significare il contrario. Come “competizione”. Vissuta come gara, conflitto, contrapposizione. Ma che all’origine rivela un cammino da fare insieme, verso un obiettivo comune. “Cum petere”, appunto. Per tornare all’origine, in un linguaggio che dia conto delle esigenze di un’economia “più giusta e sostenibile” (ricercata in parecchi ambienti, sia laici che cattolici, dopo gli stravolgimenti della Grande Crisi da avidità finanziaria e squilibri sociali) si parla di “competizione collaborativa”. Che, per esempio, fa da titolo di un bel libro di Fabrizio Pezzani, pubblicato da Università Bocconi Editore e caratterizzato da un sottotitolo progettuale: “Ricostruire il capitale sociale ed economico”.

Proprio l’industria italiana può offrirne ottimi esempi. L’analisi economica e l’osservazione empirica dei migliori territori produttivi indicano da tempo come vincente la strategia delle reti d’impresa, delle filiere produttive lunghe, delle supply chain di qualità, che sono una interessante evoluzione dell’”economia dei distretti” che nel lungo corso degli anni 80 e 90 ha consentito alle imprese, anche piccole e medie, di ristrutturarsi, rafforzarsi, reggere l’urto delle nuove ragioni competitive interazionali e trovare altri spazi su mercati sempre più selettivi e severi, europei ed extra-europei. Strategia appunto vincente, come conferma anche l’analisi della rivista “McKinsey Quarterly” (numero 1 del 2014) sul “next shoring” del manifacturing (ne abbiamo a lungo parlato nel blog della scorsa settimana). L’impresa industriale cresce stando a stretto contatto con mercati in evoluzione e fornitori di qualità.

Che la strada sia giusta lo conferma una recente indagine Istat presentata nei giorni scorsi dal Mip Politecnico a Milano. “Chi vince e chi perde: l’industria italiana oltre la crisi”. L’indicazione di fondo è chiara: ce la fanno quelle che puntano su “formazione e sinergie”. Buon capitale umano, cioè. E capitale sociale positivo. La collaborazione, insomma. Se l’industria italiana ha perso un quarto della sua capacità produttiva dal 2008 a oggi, dall’indagine emerge che le imprese che hanno puntato sui mercati esteri hanno avuto, anche in tempi di crisi, un aumento del fatturato (e sono state costantemente stimolate a innovare, su prodotto, processi produttivi, servizi ad alto valore aggiunto legati alla produzione, marketing, etc.). Gianluca Spina, presidente del Mip, ne trae una interessante conclusione: “Vincono quelle imprese che hanno investito, proprio nella stagione di crisi e recessione, nella formazione e nel capitale umano, ma anche nella creazione di connessioni tra le aziende, attraverso joint ventures, alleanze strutturali, reti d’impresa”. E’ necessario, insomma, creare sinergie di prodotti e servizi, integrare competenze diverse. E anche per andare su nuovi mercati, muoversi “cum petendo” è la carta vincente. In ripiegamento, invece, molte imprese “monadi”, chiuse cioè, estranee allo spirito collaborativo. Il peggio di un capitalismo che involve verso il particolarismo familista, vive in modo ossessivo il dogma del controllo proprietario, non riesce a fare fronte alle nuove sfide del confronto, della sintesi tra famiglia imprenditoriale d’origine e competenze manageriali, non sa innovare e dunque si arrocca prevalentemente su mercati interni sempre più asfittici, poveri, in declino.

C’è un’altra indagine che porta a risultati analoghi. E’ stata fatta dallo Studio Giaccardi & Associati e presentata nei giorni scorsi al Web Economy Festival di Cesena. Ecco la sintesi: “Innovazione antidoto alla crisi: le imprese attive on line crescono fino a cinque volte più delle tradizionali”, titola “Il Sole 24Ore” (18 marzo). L’hi tech del web 2.0. E le radici nel territorio di una Romagna peraltro ricca di tradizione collaborativa e cooperativa. Le Pmi on line, con siti aperti e interattivi, vedono crescere il fatturato, la produttività e l’internazionalizzazione. E anche per le start up, il confronto e la collaborazione via web si rivelano armi vincenti. Cultura d’impresa positiva. Di  buona competitività.

Una parola piccola piccola, tre lettere appena. Un avverbio. Latino. Finito dentro tante altre parole europee e pur sempre d’attualità. Con sapore di futuro. La parola “cum”. Che indica percorsi comuni, connota strategie condivise, segna collaborazioni. E dà carattere persino a vocaboli che nel senso comune hanno finito per significare il contrario. Come “competizione”. Vissuta come gara, conflitto, contrapposizione. Ma che all’origine rivela un cammino da fare insieme, verso un obiettivo comune. “Cum petere”, appunto. Per tornare all’origine, in un linguaggio che dia conto delle esigenze di un’economia “più giusta e sostenibile” (ricercata in parecchi ambienti, sia laici che cattolici, dopo gli stravolgimenti della Grande Crisi da avidità finanziaria e squilibri sociali) si parla di “competizione collaborativa”. Che, per esempio, fa da titolo di un bel libro di Fabrizio Pezzani, pubblicato da Università Bocconi Editore e caratterizzato da un sottotitolo progettuale: “Ricostruire il capitale sociale ed economico”.

Proprio l’industria italiana può offrirne ottimi esempi. L’analisi economica e l’osservazione empirica dei migliori territori produttivi indicano da tempo come vincente la strategia delle reti d’impresa, delle filiere produttive lunghe, delle supply chain di qualità, che sono una interessante evoluzione dell’”economia dei distretti” che nel lungo corso degli anni 80 e 90 ha consentito alle imprese, anche piccole e medie, di ristrutturarsi, rafforzarsi, reggere l’urto delle nuove ragioni competitive interazionali e trovare altri spazi su mercati sempre più selettivi e severi, europei ed extra-europei. Strategia appunto vincente, come conferma anche l’analisi della rivista “McKinsey Quarterly” (numero 1 del 2014) sul “next shoring” del manifacturing (ne abbiamo a lungo parlato nel blog della scorsa settimana). L’impresa industriale cresce stando a stretto contatto con mercati in evoluzione e fornitori di qualità.

Che la strada sia giusta lo conferma una recente indagine Istat presentata nei giorni scorsi dal Mip Politecnico a Milano. “Chi vince e chi perde: l’industria italiana oltre la crisi”. L’indicazione di fondo è chiara: ce la fanno quelle che puntano su “formazione e sinergie”. Buon capitale umano, cioè. E capitale sociale positivo. La collaborazione, insomma. Se l’industria italiana ha perso un quarto della sua capacità produttiva dal 2008 a oggi, dall’indagine emerge che le imprese che hanno puntato sui mercati esteri hanno avuto, anche in tempi di crisi, un aumento del fatturato (e sono state costantemente stimolate a innovare, su prodotto, processi produttivi, servizi ad alto valore aggiunto legati alla produzione, marketing, etc.). Gianluca Spina, presidente del Mip, ne trae una interessante conclusione: “Vincono quelle imprese che hanno investito, proprio nella stagione di crisi e recessione, nella formazione e nel capitale umano, ma anche nella creazione di connessioni tra le aziende, attraverso joint ventures, alleanze strutturali, reti d’impresa”. E’ necessario, insomma, creare sinergie di prodotti e servizi, integrare competenze diverse. E anche per andare su nuovi mercati, muoversi “cum petendo” è la carta vincente. In ripiegamento, invece, molte imprese “monadi”, chiuse cioè, estranee allo spirito collaborativo. Il peggio di un capitalismo che involve verso il particolarismo familista, vive in modo ossessivo il dogma del controllo proprietario, non riesce a fare fronte alle nuove sfide del confronto, della sintesi tra famiglia imprenditoriale d’origine e competenze manageriali, non sa innovare e dunque si arrocca prevalentemente su mercati interni sempre più asfittici, poveri, in declino.

C’è un’altra indagine che porta a risultati analoghi. E’ stata fatta dallo Studio Giaccardi & Associati e presentata nei giorni scorsi al Web Economy Festival di Cesena. Ecco la sintesi: “Innovazione antidoto alla crisi: le imprese attive on line crescono fino a cinque volte più delle tradizionali”, titola “Il Sole 24Ore” (18 marzo). L’hi tech del web 2.0. E le radici nel territorio di una Romagna peraltro ricca di tradizione collaborativa e cooperativa. Le Pmi on line, con siti aperti e interattivi, vedono crescere il fatturato, la produttività e l’internazionalizzazione. E anche per le start up, il confronto e la collaborazione via web si rivelano armi vincenti. Cultura d’impresa positiva. Di  buona competitività.

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