Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Inventare saltando gli schemi, ma con giudizio

I veri imprenditori, si sa, non sono persone comuni. Hanno coraggio ed inventiva, osano, azzardano ma con calcolo, entusiasmano e sorprendono. Esulano dai soliti schemi per crearne altri e poi distruggerli. Apparentemente agiscono senza logica. Ma in realtà vivono e lavorano con una logica propria. Non ve ne sono moltissimi, ma non sono certo pochi. Altrimenti l’economia sarebbe tutta diversa. Capire come ragionano è stato importante sempre, anche e forse soprattutto oggi. Specialmente quando, in tempi di crisi, è necessario inventare cose nuove per far sopravvivere la propria azienda.

Luc de Brabandere e Alan Iny (entrambi di Boston Consulting Group), hanno scritto un libro che aiuta proprio a capire l’essenza degli imprenditori e, soprattutto, come è possibile ragionare per inventare cose nuove stando con i piedi per terra.

Le scatole delle idee” è un libro che vuole insegnare una nuova forma di intendere l’impresa, il suo lavoro, la sua creatività, la trasformazione della sua cultura. Il volume – di circa 260 pagine -, spiega che la gestione delle imprese e la creatività sono fatte alla fine dei conti da pragmatismo e “creazione di idee in totale libertà”. Nel sommario di questo libro i capitoli principali hanno dei titoli belli che già da soli fanno capire molto: dubitare di tutto, esplorare, divergere, convergere, rivalutare. Si tratta dei cinque passi che imprenditori o manager d’azienda possono compiere per arrivare a soluzioni diverse dal convenzionale. Passi da conquistare uno per uno, ma che possono cambiare il modo d’intendere la gestione  della produzione e dei mercati.

E’ bello uno degli esempi posti nel libro. Bic inventò la penna a sfera e divenne leader negli strumenti per scrivere. Ad un certo punto, per crescere ulteriormente, qualcuno suggerì di produrre degli accendini. Un’idea assurda, a prima vista. Certamente senza senso se si pensa che Bic era ed è un produttore di penne. Cosa c’entrano gli accendini? Ma se si pensa a Bic come un produttore di oggetti a basso costo usa e getta l’idea appare subito meno assurda. Anzi, inizia a sembrare una buona idea. Come poi è stato. Bic divenne leader anche nel mercato degli accendini, e poi dei rasoi. Alla base di tutto una sola mossa: liberarsi da uno schema che ne limitava le possibilità.  “Eppure – scrivono i due autori nell’introduzione – il nostro cervello ci conduce sistematicamente alle cose familiari (…). Per alcuni è utile, e perfino inevitabile, utilizzare i modelli esistenti per semplificare l’incognito infinito, ma basandosi esclusivamente, o troppo a lungo, su di essi si rischia fortemente di perdere grandi opportunità. Possono, infatti, impedirci  di vedere che il recinto è scomparso”.

Cambiare, dunque, è alla base di tutto. Occorre farlo però in maniera accorta e consapevole.  Perché non tutto ciò che è nuovo è anche utile. De Brabandere e Iny possono essere utili per arrivare a questo traguardo.

Le scatole delle idee

Luc de Brabandere, Alain Iny

Egea, 2014

I veri imprenditori, si sa, non sono persone comuni. Hanno coraggio ed inventiva, osano, azzardano ma con calcolo, entusiasmano e sorprendono. Esulano dai soliti schemi per crearne altri e poi distruggerli. Apparentemente agiscono senza logica. Ma in realtà vivono e lavorano con una logica propria. Non ve ne sono moltissimi, ma non sono certo pochi. Altrimenti l’economia sarebbe tutta diversa. Capire come ragionano è stato importante sempre, anche e forse soprattutto oggi. Specialmente quando, in tempi di crisi, è necessario inventare cose nuove per far sopravvivere la propria azienda.

Luc de Brabandere e Alan Iny (entrambi di Boston Consulting Group), hanno scritto un libro che aiuta proprio a capire l’essenza degli imprenditori e, soprattutto, come è possibile ragionare per inventare cose nuove stando con i piedi per terra.

Le scatole delle idee” è un libro che vuole insegnare una nuova forma di intendere l’impresa, il suo lavoro, la sua creatività, la trasformazione della sua cultura. Il volume – di circa 260 pagine -, spiega che la gestione delle imprese e la creatività sono fatte alla fine dei conti da pragmatismo e “creazione di idee in totale libertà”. Nel sommario di questo libro i capitoli principali hanno dei titoli belli che già da soli fanno capire molto: dubitare di tutto, esplorare, divergere, convergere, rivalutare. Si tratta dei cinque passi che imprenditori o manager d’azienda possono compiere per arrivare a soluzioni diverse dal convenzionale. Passi da conquistare uno per uno, ma che possono cambiare il modo d’intendere la gestione  della produzione e dei mercati.

E’ bello uno degli esempi posti nel libro. Bic inventò la penna a sfera e divenne leader negli strumenti per scrivere. Ad un certo punto, per crescere ulteriormente, qualcuno suggerì di produrre degli accendini. Un’idea assurda, a prima vista. Certamente senza senso se si pensa che Bic era ed è un produttore di penne. Cosa c’entrano gli accendini? Ma se si pensa a Bic come un produttore di oggetti a basso costo usa e getta l’idea appare subito meno assurda. Anzi, inizia a sembrare una buona idea. Come poi è stato. Bic divenne leader anche nel mercato degli accendini, e poi dei rasoi. Alla base di tutto una sola mossa: liberarsi da uno schema che ne limitava le possibilità.  “Eppure – scrivono i due autori nell’introduzione – il nostro cervello ci conduce sistematicamente alle cose familiari (…). Per alcuni è utile, e perfino inevitabile, utilizzare i modelli esistenti per semplificare l’incognito infinito, ma basandosi esclusivamente, o troppo a lungo, su di essi si rischia fortemente di perdere grandi opportunità. Possono, infatti, impedirci  di vedere che il recinto è scomparso”.

Cambiare, dunque, è alla base di tutto. Occorre farlo però in maniera accorta e consapevole.  Perché non tutto ciò che è nuovo è anche utile. De Brabandere e Iny possono essere utili per arrivare a questo traguardo.

Le scatole delle idee

Luc de Brabandere, Alain Iny

Egea, 2014

“Space cowboys”, il progetto Daimler e la staffetta anziani-giovani

L’hanno chiamato “Space cowboys”,  come il film di Clint Eastwood in cui un gruppo di anziani astronauti vengono richiamati in servizio per una missione speciale: un nome perfetto, per il programma della Daimler (Mercedes) di sollecitare il rientro in azienda di cento pensionati, per usare le loro esperienze e le loro competenze in settori particolari del gruppo. Altri 390 sono già in lista, per ulteriori necessità. Largo agli anziani, insomma, in Germania. Non solo alla Daimler, ma anche alla Bosch e alla Otto. E probabilmente altre aziende seguiranno. “Erano a rischio conoscenze e know how specifici, nell’informatica, nel lancio di nuovi prodotti, nella conquista di mercati esteri particolarmente difficili, come la Cina, ha spiegato ai media Wilfried Porth, capo delle risorse umane del gruppo Daimler (275mila dipendenti). E se è vero che i giovani ingegneri e i giovani tecnici hanno conoscenze particolarmente aggiornate e hi tech, gli anziani, con anni di lavoro alle spalle in fabbrica e nei centri di ricerca e nei settori del marketing e delle vendite, hanno un patrimonio di competenze straordinariamente sofisticato, di cui l’azienda ritiene di avere particolarmente bisogno. Strada interessante, insomma, su cui discutere con attenzione e senza rigidità.

Il potente sindacato dell’auto tedesco, IG Metall, ha già espresso la sua contrarietà: si tolgono opportunità ai giovani, si aggrava il gap generazionale. Ma le imprese in Germania sembrano avere voglia di tenere bene in considerazione i risultati dei programmi Daimler e Bosch.

La vicenda tedesca va probabilmente considerata fuori dagli schemi tradizionali del conflitto generazionale, evitando fin che è possibile le contrapposizioni vecchi-giovani care a una certa rappresentazione mediatica buona per i talk show urlati ma inutile di fronte alle evoluzioni sempre più complesse della cultura d’impresa e dei mercati “dei lavori”.

Si può per esempio considerare il fatto che proprio nella stagione del primato dell’ “economia della conoscenza” le competenze acquisite in anni e anni di mestiere nell’industria non vanno affatto disperse, pena uno spreco di capitale intellettuale e di capitale sociale di rilevanti dimensioni. E si può aggiungere che vanno studiate forme, sia organizzative che contrattuali, per favorire l’affiancamento degli anziani ai nuovi assunti. Pensionati sottratti all’inutilità che possono insegnare ai giovani secondo strutture di “learnig on job”. Ingegneri, tecnici e quadri operai di livello che possono affidare le loro conoscenze concrete alle attitudini ad alta tecnologia dei nuovi assunti. Ibridazioni di punti di vista. Cross fertilization di culture e attitudini. Con parecchi vantaggi: gli anziani pensionati possono costare relativamente poco all’impresa (stipendi ridotti in presenza di part time e contratti a tempo, senza oneri previdenziali), i giovani possono imparare e fare carriera senza subire il “tappo generazionale”, il capitale professionale complessivo si rafforza. Una staffetta generazionale complessa e virtuosa, un buon utilizzo lungimirante del capitale umano.

La fabbrica, che è stata durante tutto l’inquieto Novecento un soggetto sociale di gran rilievo (i valori del lavoro, l’integrazione sociale, l’acquisizione della coscienza della cittadinanza con il raccordo tra diritti e doveri, il vissuto denso di tensioni dei conflitti ricomposti e sfociati in nuovi equilibri delle relazioni industriali e in innovazioni produttive e sociali) può essere dunque anche luogo in cui si definiscono inediti criteri secondo cui scrivere “nuovi patti generazionali”, affrontando, proprio attraverso la cultura d’impresa e i rapporti di lavoro, la questione della trasmissione dei valori, della memoria e della speranza (il filosofo Remo Bodei scrive pagine molto belle, in questo senso, nel suo ultimo libro, “Generazioni – Età della vita, età delle cose” edito da Laterza). E la “civiltà dell’industria” può fare da paradigma di inedite trasformazioni sociali.

In economia, in Italia – è vero – è ancora forte una “gerontocrazia” (documentata da un interessante libro di Sandro Catani, manager e consulente, per Garzanti, che ha considerato le 400 figure di vertice delle imprese quotate in Piazza Affari, un’oligarchia con un’età media di 65 anni, la più alta in Europa, che vive male e rallenta il ricambio generazionale). Un’evoluzione è comunque in corso. E anche nel mondo delle imprese medie e piccole, là dove il capitalismo familiare si evolve verso forme di gestione che pur faticosamente fanno spazio ai manager, il ricambio generazionale è abbastanza avanzato, con originali dinamismi (li documenta l’ultimo numero del mensile “Capital”, che vi dedica la copertina: “Generazione 40”).

In ogni caso è necessario che il dibattito pubblico sulla metamorfosi delle imprese vada oltre la contrapposizione gerontocrati-giovani rampanti, per approfondire semmai, criticamente, l’indicazione tedesca. “Space cowboys”, appunto. Che insegnino ai giovani a cavalcare meglio il futuro.

L’hanno chiamato “Space cowboys”,  come il film di Clint Eastwood in cui un gruppo di anziani astronauti vengono richiamati in servizio per una missione speciale: un nome perfetto, per il programma della Daimler (Mercedes) di sollecitare il rientro in azienda di cento pensionati, per usare le loro esperienze e le loro competenze in settori particolari del gruppo. Altri 390 sono già in lista, per ulteriori necessità. Largo agli anziani, insomma, in Germania. Non solo alla Daimler, ma anche alla Bosch e alla Otto. E probabilmente altre aziende seguiranno. “Erano a rischio conoscenze e know how specifici, nell’informatica, nel lancio di nuovi prodotti, nella conquista di mercati esteri particolarmente difficili, come la Cina, ha spiegato ai media Wilfried Porth, capo delle risorse umane del gruppo Daimler (275mila dipendenti). E se è vero che i giovani ingegneri e i giovani tecnici hanno conoscenze particolarmente aggiornate e hi tech, gli anziani, con anni di lavoro alle spalle in fabbrica e nei centri di ricerca e nei settori del marketing e delle vendite, hanno un patrimonio di competenze straordinariamente sofisticato, di cui l’azienda ritiene di avere particolarmente bisogno. Strada interessante, insomma, su cui discutere con attenzione e senza rigidità.

Il potente sindacato dell’auto tedesco, IG Metall, ha già espresso la sua contrarietà: si tolgono opportunità ai giovani, si aggrava il gap generazionale. Ma le imprese in Germania sembrano avere voglia di tenere bene in considerazione i risultati dei programmi Daimler e Bosch.

La vicenda tedesca va probabilmente considerata fuori dagli schemi tradizionali del conflitto generazionale, evitando fin che è possibile le contrapposizioni vecchi-giovani care a una certa rappresentazione mediatica buona per i talk show urlati ma inutile di fronte alle evoluzioni sempre più complesse della cultura d’impresa e dei mercati “dei lavori”.

Si può per esempio considerare il fatto che proprio nella stagione del primato dell’ “economia della conoscenza” le competenze acquisite in anni e anni di mestiere nell’industria non vanno affatto disperse, pena uno spreco di capitale intellettuale e di capitale sociale di rilevanti dimensioni. E si può aggiungere che vanno studiate forme, sia organizzative che contrattuali, per favorire l’affiancamento degli anziani ai nuovi assunti. Pensionati sottratti all’inutilità che possono insegnare ai giovani secondo strutture di “learnig on job”. Ingegneri, tecnici e quadri operai di livello che possono affidare le loro conoscenze concrete alle attitudini ad alta tecnologia dei nuovi assunti. Ibridazioni di punti di vista. Cross fertilization di culture e attitudini. Con parecchi vantaggi: gli anziani pensionati possono costare relativamente poco all’impresa (stipendi ridotti in presenza di part time e contratti a tempo, senza oneri previdenziali), i giovani possono imparare e fare carriera senza subire il “tappo generazionale”, il capitale professionale complessivo si rafforza. Una staffetta generazionale complessa e virtuosa, un buon utilizzo lungimirante del capitale umano.

La fabbrica, che è stata durante tutto l’inquieto Novecento un soggetto sociale di gran rilievo (i valori del lavoro, l’integrazione sociale, l’acquisizione della coscienza della cittadinanza con il raccordo tra diritti e doveri, il vissuto denso di tensioni dei conflitti ricomposti e sfociati in nuovi equilibri delle relazioni industriali e in innovazioni produttive e sociali) può essere dunque anche luogo in cui si definiscono inediti criteri secondo cui scrivere “nuovi patti generazionali”, affrontando, proprio attraverso la cultura d’impresa e i rapporti di lavoro, la questione della trasmissione dei valori, della memoria e della speranza (il filosofo Remo Bodei scrive pagine molto belle, in questo senso, nel suo ultimo libro, “Generazioni – Età della vita, età delle cose” edito da Laterza). E la “civiltà dell’industria” può fare da paradigma di inedite trasformazioni sociali.

In economia, in Italia – è vero – è ancora forte una “gerontocrazia” (documentata da un interessante libro di Sandro Catani, manager e consulente, per Garzanti, che ha considerato le 400 figure di vertice delle imprese quotate in Piazza Affari, un’oligarchia con un’età media di 65 anni, la più alta in Europa, che vive male e rallenta il ricambio generazionale). Un’evoluzione è comunque in corso. E anche nel mondo delle imprese medie e piccole, là dove il capitalismo familiare si evolve verso forme di gestione che pur faticosamente fanno spazio ai manager, il ricambio generazionale è abbastanza avanzato, con originali dinamismi (li documenta l’ultimo numero del mensile “Capital”, che vi dedica la copertina: “Generazione 40”).

In ogni caso è necessario che il dibattito pubblico sulla metamorfosi delle imprese vada oltre la contrapposizione gerontocrati-giovani rampanti, per approfondire semmai, criticamente, l’indicazione tedesca. “Space cowboys”, appunto. Che insegnino ai giovani a cavalcare meglio il futuro.

L’impresa non nasce da sola

E’ vero, per certi versi imprenditori si nasce. Quella carica d’iniziativa, quella voglia di rischiare, quell’inventiva per gli affari, quel gusto per il produrre,  che caratterizza i veri imprenditori non è cosa che  si impara sui banchi di scuola. Eppure, imprenditori si può anche diventare. Nel senso che occorre, comunque, un contesto  che possa favorire la scoperta e la crescita dello spirito imprenditoriale. Non è il caso di scomodare Max Weber (che proprio  sui rapporti fra ambiente, protestante in questo caso, e imprenditorialità ha basato una delle più note interpretazioni dello sviluppo del capitalismo), ma non c’è dubbio che l’ambiente può far molto per la nascita delle nuove leve dell’industria. Ambiente, s’intende, visto sotto tanti aspetti: istituzionali, formativi, sociali, religiosi, etici.

Per capire meglio alcuni di questi, è interessante leggere “The importance and role of personal entrepreneurship training in the development of business culture and its challenges” di Ghorbani Mahmouda e Partonia Soheilab della Islamic Azad University di Bojnourd in  Iran (rispettivamente del Department of Management e del Department of  Educational Management) , pubblicato proprio qualche giorno fa dall’ Asian Journal of Research in Business Economics and Management.

I due autori fanno derivare l’imprenditorialità presente in un sistema economico, dal grado di motivazione e dal livello di “formazione all’imprenditorialità” , oltre che dall’assegnazione di crediti e di altri strumenti di crescita per le imprese.  “Lo sviluppo e la promozione della cultura imprenditoriale – spiegano ancora i due ricercatori -, e la creazione di piattaforme necessarie per l’occupazione giovanile nella società”, sembrano condizioni necessarie per innescare la crescita di un’economia. Torna così importante il sistema della formazione e della scuola, del sapere e della sua diffusione.

Imprenditori, dunque, si nasce ma si diventa anche, se si inizia da giovani e in un contesto adeguato. Constatazione che può apparire quasi ovvia ma che è importante. La cultura d’impresa, cioè, non si costruisce dal nulla e non può crescere nel nulla. Sottolineatura ancora più interessante visto che arriva da un  Paese – l’Iran – non certo facile per fare impresa. L’accento sul contesto, d’altra parte, vale anche per l’Europa, e per l’Italia in particolare.

La conclusione che deriva da questo articoli è d’altra parte chiara: un’impresa nasce certamente dall’ingegno di un singolo, ma cresce, si sviluppa, crea occupazione e ricchezza solo se trova una sorta di substrato fertile dove attecchire.

The importance and role of personal entrepreneurship training in the development of business culture and its challenges

Ghorbani Mahmouda, Partonia Soheilab

Asian Journal of Research in Business Economics and Management

2014, Volume : 4, Issue : 5

E’ vero, per certi versi imprenditori si nasce. Quella carica d’iniziativa, quella voglia di rischiare, quell’inventiva per gli affari, quel gusto per il produrre,  che caratterizza i veri imprenditori non è cosa che  si impara sui banchi di scuola. Eppure, imprenditori si può anche diventare. Nel senso che occorre, comunque, un contesto  che possa favorire la scoperta e la crescita dello spirito imprenditoriale. Non è il caso di scomodare Max Weber (che proprio  sui rapporti fra ambiente, protestante in questo caso, e imprenditorialità ha basato una delle più note interpretazioni dello sviluppo del capitalismo), ma non c’è dubbio che l’ambiente può far molto per la nascita delle nuove leve dell’industria. Ambiente, s’intende, visto sotto tanti aspetti: istituzionali, formativi, sociali, religiosi, etici.

Per capire meglio alcuni di questi, è interessante leggere “The importance and role of personal entrepreneurship training in the development of business culture and its challenges” di Ghorbani Mahmouda e Partonia Soheilab della Islamic Azad University di Bojnourd in  Iran (rispettivamente del Department of Management e del Department of  Educational Management) , pubblicato proprio qualche giorno fa dall’ Asian Journal of Research in Business Economics and Management.

I due autori fanno derivare l’imprenditorialità presente in un sistema economico, dal grado di motivazione e dal livello di “formazione all’imprenditorialità” , oltre che dall’assegnazione di crediti e di altri strumenti di crescita per le imprese.  “Lo sviluppo e la promozione della cultura imprenditoriale – spiegano ancora i due ricercatori -, e la creazione di piattaforme necessarie per l’occupazione giovanile nella società”, sembrano condizioni necessarie per innescare la crescita di un’economia. Torna così importante il sistema della formazione e della scuola, del sapere e della sua diffusione.

Imprenditori, dunque, si nasce ma si diventa anche, se si inizia da giovani e in un contesto adeguato. Constatazione che può apparire quasi ovvia ma che è importante. La cultura d’impresa, cioè, non si costruisce dal nulla e non può crescere nel nulla. Sottolineatura ancora più interessante visto che arriva da un  Paese – l’Iran – non certo facile per fare impresa. L’accento sul contesto, d’altra parte, vale anche per l’Europa, e per l’Italia in particolare.

La conclusione che deriva da questo articoli è d’altra parte chiara: un’impresa nasce certamente dall’ingegno di un singolo, ma cresce, si sviluppa, crea occupazione e ricchezza solo se trova una sorta di substrato fertile dove attecchire.

The importance and role of personal entrepreneurship training in the development of business culture and its challenges

Ghorbani Mahmouda, Partonia Soheilab

Asian Journal of Research in Business Economics and Management

2014, Volume : 4, Issue : 5

L’impresa che vince si adatta

La nuova impresa – soprattutto quella che riesce a vincere sui mercati – deve avere una caratteristica in più rispetto alle altre: deve essere resiliente. In altre parole, saltati tutti i paradigmi classici, l’azienda che riesce a progredire, creare sviluppo e occupazione è cioè quella in grado – se sottoposta a grandi sollecitazioni – di rispondere positivamente, tornare alla “forma” originaria oppure crearne una nuova e continuare ad esistere.

Concetto di moda nella teoria della gestione aziendale, quella della resilienza è però una frontiera di metodo e di comportamento che ha strettamente a che fare anche con la cultura d’impresa. Non si tratta solo di gestire in maniera diversa, ma anche di concepire diversamente l’organizzazione aziendale e il modo di essere impresa.

Resilience. I sette principi per una gestione aziendale sana e prudente” di Guia Beatrice Pirotti e Markus Venzin, serve a questo scopo. Fornisce una guida chiara alla comprensione della resilienza applicata nelle imprese e arriva ad indicare alcuni principi ritenuti cardine per migliorare la gestione aziendale di fronte  alle turbolenze della congiuntura.

Viene così spiegato che gli indicatori più comunemente utilizzati dalle imprese misurano l’andamento su un arco temporale che raggiunge al massimo un anno, ma sempre più spesso si arresta sulla soglia del semestre quando non del trimestre. Se a ciò si aggiunge il sempre più veloce turnover del top management, risulta che poche aziende elaborano strategie di lungo termine e molte restano concentrate su tattiche a tre mesi. E’ per questo che, secondo Pirotti e Venzin, occorre acquisire resilienza. Ma non solo. Per i due autori, infatti, questa capacità serve comunque per prendere decisioni in aree come l’internazionalizzazione, i nuovi investimenti, l’immagine da trasmettere ai consumatori, l’incentivazione dei dipendenti.

Il volume, quindi, pone degli esempi tratti da una serie di interviste con manager di aziende resilienti come Carlsberg, Enel, Iveco, Adcf Bank, Hyundai, Sace e altre ancora. Poi vengono indicati alcuni strumenti di gestione utili a fare di un’organizzazione produttiva un’impresa resiliente. Si parla quindi di capacità di misurare le prestazioni, attenzione all’autenticità del prodotto e alla soddisfazione del consumatore, ma anche di attenzione al mercato in senso geografico e all’orientamento a lungo termine, così come di capacità di affinare tutti i meccanismi organizzativi.

Gli autori non si fanno però illusioni: cambiare verso la resilienza è complicato e difficile. E’ bello, allora, il ritorno ad un insegnamento di Niccolò Machiavelli: “Non c’è nulla di più difficile  da gestire, di esito così incerto e così pericoloso da realizzare dell’inizio di un cambiamento”. Una condizione comune a molte imprese e imprenditori che hanno a che fare con  lo “scetticismo degli uomini, i quali non credono nelle novità se non le vedono ben consolidate”.  Ma occorre pure iniziare a provarci.

Resilience. I sette principi per una gestione aziendale sana e prudente

Guia Beatrice Pirotti, Markus Venzin

Egea, 2014

La nuova impresa – soprattutto quella che riesce a vincere sui mercati – deve avere una caratteristica in più rispetto alle altre: deve essere resiliente. In altre parole, saltati tutti i paradigmi classici, l’azienda che riesce a progredire, creare sviluppo e occupazione è cioè quella in grado – se sottoposta a grandi sollecitazioni – di rispondere positivamente, tornare alla “forma” originaria oppure crearne una nuova e continuare ad esistere.

Concetto di moda nella teoria della gestione aziendale, quella della resilienza è però una frontiera di metodo e di comportamento che ha strettamente a che fare anche con la cultura d’impresa. Non si tratta solo di gestire in maniera diversa, ma anche di concepire diversamente l’organizzazione aziendale e il modo di essere impresa.

Resilience. I sette principi per una gestione aziendale sana e prudente” di Guia Beatrice Pirotti e Markus Venzin, serve a questo scopo. Fornisce una guida chiara alla comprensione della resilienza applicata nelle imprese e arriva ad indicare alcuni principi ritenuti cardine per migliorare la gestione aziendale di fronte  alle turbolenze della congiuntura.

Viene così spiegato che gli indicatori più comunemente utilizzati dalle imprese misurano l’andamento su un arco temporale che raggiunge al massimo un anno, ma sempre più spesso si arresta sulla soglia del semestre quando non del trimestre. Se a ciò si aggiunge il sempre più veloce turnover del top management, risulta che poche aziende elaborano strategie di lungo termine e molte restano concentrate su tattiche a tre mesi. E’ per questo che, secondo Pirotti e Venzin, occorre acquisire resilienza. Ma non solo. Per i due autori, infatti, questa capacità serve comunque per prendere decisioni in aree come l’internazionalizzazione, i nuovi investimenti, l’immagine da trasmettere ai consumatori, l’incentivazione dei dipendenti.

Il volume, quindi, pone degli esempi tratti da una serie di interviste con manager di aziende resilienti come Carlsberg, Enel, Iveco, Adcf Bank, Hyundai, Sace e altre ancora. Poi vengono indicati alcuni strumenti di gestione utili a fare di un’organizzazione produttiva un’impresa resiliente. Si parla quindi di capacità di misurare le prestazioni, attenzione all’autenticità del prodotto e alla soddisfazione del consumatore, ma anche di attenzione al mercato in senso geografico e all’orientamento a lungo termine, così come di capacità di affinare tutti i meccanismi organizzativi.

Gli autori non si fanno però illusioni: cambiare verso la resilienza è complicato e difficile. E’ bello, allora, il ritorno ad un insegnamento di Niccolò Machiavelli: “Non c’è nulla di più difficile  da gestire, di esito così incerto e così pericoloso da realizzare dell’inizio di un cambiamento”. Una condizione comune a molte imprese e imprenditori che hanno a che fare con  lo “scetticismo degli uomini, i quali non credono nelle novità se non le vedono ben consolidate”.  Ma occorre pure iniziare a provarci.

Resilience. I sette principi per una gestione aziendale sana e prudente

Guia Beatrice Pirotti, Markus Venzin

Egea, 2014

“Rinascimento manifatturiero” adesso è anche una scelta del premier Renzi

Un nuovo rinascimento industriale”. E’ un obiettivo prioritario indicato dal presidente del Consiglio Matteo Renzi per il semestre italiano di presidenza Ue. Ed è importante vedere come un’indicazione nata nel dibattito tra economisti e protagonisti della cultura d’impresa (dal saggio sulla “manifacturing reinassance Usa” di Gary P. Pisano e Willy C. Smith della Harvard Business School alle ricerche dell’Aspen Institute di Washington, dalle indagini dei centri studi di Boston Consulting Group e McKinsey alle elaborazioni di Confindustria, Assolombarda e Fondazione Pirelli, di cui c’è ampia traccia nelle pagine di questo blog) diventi finalmente materia centrale di strategie politiche e programmi di governo.

Le migliori imprese manifatturiere, anche in Italia, hanno reagito alla Grande Crisi contrapponendo alle pratiche rapaci della finanza d’assalto le loro scelte in materia d’innovazione, qualità, creatività, green economy, export e conquista di nuovi mercati, sostenibilità ambientale e sociale di produzioni e prodotti. E hanno mostrato come nella “nuova fabbrica” (un mix di produzione, ricerca, servizi di alta gamma) ci sia il nucleo forte di un’economia in grado di creare ricchezza, lavoro, sviluppo equilibrato. Adesso la politica ne prende atto e progetta di usare le sue leve (le politiche economiche e fiscali, le riforme) per rilanciare l’industria europea. Buona scelta. Nuova dimensione possibile per una Ue in cerca di migliore identità, di più efficace relazione con i bisogni dei suoi cittadini.

Il premier Renzi parla dunque di “crescita e occupazione” come “valori costitutivi” della Ue e mette l’accento sia sulla “ripresa manifatturiera tradizionale” sia sulla necessità, appunto, di “un nuovo rinascimento industriale”. In un’intervista al settimanale “Time” ribadisce il ruolo dell’Italia “come leader industriale” e come “locomotiva d’Europa”, con il “rilancio dell’industria e di quel genio italiano che nei momenti di massima difficoltà ha sempre trovato la forza di fare le cose più incredibili”. E le sue indicazioni incrociano le analoghe valutazioni che prendono corpo in Francia e negli altri paesi europei mediterranei, ma anche nella Gran Bretagna che ha riscoperto l’industria e nella stessa Germania che rimane il primo grande paese manifatturiero d’Europa, subito prima di noi italiani (Flavio Valeri, amministratore delegato di Deutsche Bank in Italia, in una bella intervista a “Il Sole24Ore” dell’8 maggio, ha giustamente parlato di “un asse manifatturiero tra Italia e Germania” nel segno “dell’eccellenza”).

Ci vuole un “industrial compact”, accanto e ben correlato a un intelligente “fiscal compact” magari riformato (mettendo gli investimenti per ricerca, innovazione e sviluppo fuori dai parametri del 3% del rapporto deficit-Pil). E vale la pena dare retta a un grande economista come Amartya Sen, premio Nobel, che difende l’importanza dell’euro e della Ue ma critica l’ossessione ideologica dell’austerity, difendendo la strategia dello “sviluppo sostenibile”.

Romano Prodi, che conosce bene sia la Ue (per averne a lungo governato la Commissione) e il mondo dell’industria, sia italiano che internazionale (competenza da studioso e impegno da politico) parla di “innovazione che crea valore” (Il Sole 24ore, 10 maggio). E, insieme ad Alessandro Ovi, fondatore della Mit Technology Review Italia, indica l’importanza delle grande imprese (da Pirelli a Ferrari), delle medie e piccole imprese (la Protocast di Avio o la Zehus di Milano), degli incubatori d’impresa e delle start up che domenica e lunedì, a Bologna, al Mast e alla Alma Graduate School, sono state al centro di una grande manifestazione sull’innovazione industriale. “Premiare le imprese innovative può essere utile per svegliare gli spiriti creativi che, anche se spesso dormono, sono certamente presenti anche in Italia”, sostiene giustamente Prodi.

L’Italia, con le sue imprese migliori, ha fatto molto, in questa direzione. Ma si può fare di più. La competitività internazionale, nel contesto Ue, si gioca appunto sull’innovazione, sulle tecnologie, sulla ricerca. Lo conferma anche un recente libro di due economisti, Giorgio Barba Navaretti e Gianmarco Ottaviano, “Made in Torino? Fiat Chrysler Automobiles e il futuro dell’industria”, pubblicato da Il Mulino e rivolto a dimostrare la rinnovata centralità manifatturiera in Italia, in Europa e nei paesi occidentali in generale. Si può fare industria. Cercando una competitività non certo sul costo del lavoro (i due economisti ribadiscono che il costo del lavoro non supera il 5% dei costi di produzione totali di un’auto) ma su vantaggi competitivi “che dipendono dalla disponibilità sul territorio di servizi, infrastrutture e forza lavoro specializzata”. Ecco la riconferma della sfida possibile e delle scelte da rafforzare. Il “rinascimento manifatturiero” di cui adesso parla giustamente anche Renzi ha a che fare, infatti, con supply chain di qualità, imprese “medium tech” e servizi hi tech (la “banda larga” delle Tlc, per esempio), formazione d’eccellenza, come quella già garantita dai Politecnici di Torino e Milano, ambiente favorevole all’industria (senza distorsioni d’eccesso di burocrazia, per esempio), buona cultura d’impresa. Si può andare avanti.

Un nuovo rinascimento industriale”. E’ un obiettivo prioritario indicato dal presidente del Consiglio Matteo Renzi per il semestre italiano di presidenza Ue. Ed è importante vedere come un’indicazione nata nel dibattito tra economisti e protagonisti della cultura d’impresa (dal saggio sulla “manifacturing reinassance Usa” di Gary P. Pisano e Willy C. Smith della Harvard Business School alle ricerche dell’Aspen Institute di Washington, dalle indagini dei centri studi di Boston Consulting Group e McKinsey alle elaborazioni di Confindustria, Assolombarda e Fondazione Pirelli, di cui c’è ampia traccia nelle pagine di questo blog) diventi finalmente materia centrale di strategie politiche e programmi di governo.

Le migliori imprese manifatturiere, anche in Italia, hanno reagito alla Grande Crisi contrapponendo alle pratiche rapaci della finanza d’assalto le loro scelte in materia d’innovazione, qualità, creatività, green economy, export e conquista di nuovi mercati, sostenibilità ambientale e sociale di produzioni e prodotti. E hanno mostrato come nella “nuova fabbrica” (un mix di produzione, ricerca, servizi di alta gamma) ci sia il nucleo forte di un’economia in grado di creare ricchezza, lavoro, sviluppo equilibrato. Adesso la politica ne prende atto e progetta di usare le sue leve (le politiche economiche e fiscali, le riforme) per rilanciare l’industria europea. Buona scelta. Nuova dimensione possibile per una Ue in cerca di migliore identità, di più efficace relazione con i bisogni dei suoi cittadini.

Il premier Renzi parla dunque di “crescita e occupazione” come “valori costitutivi” della Ue e mette l’accento sia sulla “ripresa manifatturiera tradizionale” sia sulla necessità, appunto, di “un nuovo rinascimento industriale”. In un’intervista al settimanale “Time” ribadisce il ruolo dell’Italia “come leader industriale” e come “locomotiva d’Europa”, con il “rilancio dell’industria e di quel genio italiano che nei momenti di massima difficoltà ha sempre trovato la forza di fare le cose più incredibili”. E le sue indicazioni incrociano le analoghe valutazioni che prendono corpo in Francia e negli altri paesi europei mediterranei, ma anche nella Gran Bretagna che ha riscoperto l’industria e nella stessa Germania che rimane il primo grande paese manifatturiero d’Europa, subito prima di noi italiani (Flavio Valeri, amministratore delegato di Deutsche Bank in Italia, in una bella intervista a “Il Sole24Ore” dell’8 maggio, ha giustamente parlato di “un asse manifatturiero tra Italia e Germania” nel segno “dell’eccellenza”).

Ci vuole un “industrial compact”, accanto e ben correlato a un intelligente “fiscal compact” magari riformato (mettendo gli investimenti per ricerca, innovazione e sviluppo fuori dai parametri del 3% del rapporto deficit-Pil). E vale la pena dare retta a un grande economista come Amartya Sen, premio Nobel, che difende l’importanza dell’euro e della Ue ma critica l’ossessione ideologica dell’austerity, difendendo la strategia dello “sviluppo sostenibile”.

Romano Prodi, che conosce bene sia la Ue (per averne a lungo governato la Commissione) e il mondo dell’industria, sia italiano che internazionale (competenza da studioso e impegno da politico) parla di “innovazione che crea valore” (Il Sole 24ore, 10 maggio). E, insieme ad Alessandro Ovi, fondatore della Mit Technology Review Italia, indica l’importanza delle grande imprese (da Pirelli a Ferrari), delle medie e piccole imprese (la Protocast di Avio o la Zehus di Milano), degli incubatori d’impresa e delle start up che domenica e lunedì, a Bologna, al Mast e alla Alma Graduate School, sono state al centro di una grande manifestazione sull’innovazione industriale. “Premiare le imprese innovative può essere utile per svegliare gli spiriti creativi che, anche se spesso dormono, sono certamente presenti anche in Italia”, sostiene giustamente Prodi.

L’Italia, con le sue imprese migliori, ha fatto molto, in questa direzione. Ma si può fare di più. La competitività internazionale, nel contesto Ue, si gioca appunto sull’innovazione, sulle tecnologie, sulla ricerca. Lo conferma anche un recente libro di due economisti, Giorgio Barba Navaretti e Gianmarco Ottaviano, “Made in Torino? Fiat Chrysler Automobiles e il futuro dell’industria”, pubblicato da Il Mulino e rivolto a dimostrare la rinnovata centralità manifatturiera in Italia, in Europa e nei paesi occidentali in generale. Si può fare industria. Cercando una competitività non certo sul costo del lavoro (i due economisti ribadiscono che il costo del lavoro non supera il 5% dei costi di produzione totali di un’auto) ma su vantaggi competitivi “che dipendono dalla disponibilità sul territorio di servizi, infrastrutture e forza lavoro specializzata”. Ecco la riconferma della sfida possibile e delle scelte da rafforzare. Il “rinascimento manifatturiero” di cui adesso parla giustamente anche Renzi ha a che fare, infatti, con supply chain di qualità, imprese “medium tech” e servizi hi tech (la “banda larga” delle Tlc, per esempio), formazione d’eccellenza, come quella già garantita dai Politecnici di Torino e Milano, ambiente favorevole all’industria (senza distorsioni d’eccesso di burocrazia, per esempio), buona cultura d’impresa. Si può andare avanti.

Cultura d’impresa e complessità degli scambi

Comprendere la complessità. Vale per tutti, anche per le imprese. Soprattutto per quelle che sono o vogliono essere nei mercati internazionali. Il percorso  per arrivare ad una comprensione effettiva della realtà, tuttavia, non è semplice. Specialmente per chi – come le imprese, appunto – non può fermare l’evoluzione delle cose, dei mercati, della concorrenza. Oltre che al movimento del tutto, poi, le imprese devono fare fronte ai conflitti che si generano nei mercati.

La tesi di Chloe Friederichsen della Liberty University di Lynchburg in Virginia (Usa), è una buona lettura che cerca di analizzare contemporaneamente il fitto intreccio delle relazioni fra il commercio internazionale, la gestione d’impresa e la cultura d’impresa.

L’inizio di “Culture e Conflict: Intertwined with International Business” è una constatazione. Oggi – viene spiegato -, le transazioni internazionali sono diventate un oggetto molto comune nel mondo degli affari, ma parallelamente è emersa l’esigenza di comprendere la complessità della cultura dei diversi mercati e delle imprese che interagiscono fra di loro.

Non si parte alla conquista di un nuovo mercato, senza conoscere molto dell’ambiente in cui si arriva, della gente, della politica adottata, delle regole vigenti. Assunto normale e quasi ovvio da comprendere, difficile da mettere in pratica compiutamente. Eppure, i rapporti fra il modo d’intendere l’impresa, i conflitti aziendali internazionali che si possono determinare, insieme alla capacità di adattamento e di comprensione dei mercati e della concorrenza da parte delle singole aziende, sono elementi di uno stesso problema che devono essere ben chiari per arrivare capire  i motivi di successo o di sconfitta sui teatri industriali mondiali.

Il lavoro di Chloe Friederichsen  si articola quindi in due parti: prima di tutto vengono analizzati gli elementi per la comprensione del management delle imprese e del loro modi di rapportarsi con i mercati. Per comprendere meglio questi aspetti, l’autrice prende ad esempi quelli della Coca Cola e della Motorola in Cina. La seconda parte della ricerca, poi, percorre uno per uno gli elementi della cultura: la religione, l’etica, la comunicazione, il sistema dei valori, il sistema degli incroci culturali che danno vita alle diverse dimensioni culturali di una società. Qui, gli esempi assunti a riferimento sono quelli della McDonald’s in India, ma anche della Pepsi Cola e della British Telecom e poi della IBM.

E’ interessante la conclusione dell’indagine: mettere insieme il mosaico costituito da culture d’impresa diverse, mercati differenti e complessità degli stessi, è una sfida per tutti che tutti devono vincere. Ed è bella la frase di Henry Ford messa a sigillare l’intero lavoro: “Mettersi insieme è un inizio, restare insieme un progresso, lavorare insieme un successo”.

Culture e Conflict: Intertwined with International Business 

Chloe Friederichsen  Senior Thesis Liberty University, Spring 2014

Comprendere la complessità. Vale per tutti, anche per le imprese. Soprattutto per quelle che sono o vogliono essere nei mercati internazionali. Il percorso  per arrivare ad una comprensione effettiva della realtà, tuttavia, non è semplice. Specialmente per chi – come le imprese, appunto – non può fermare l’evoluzione delle cose, dei mercati, della concorrenza. Oltre che al movimento del tutto, poi, le imprese devono fare fronte ai conflitti che si generano nei mercati.

La tesi di Chloe Friederichsen della Liberty University di Lynchburg in Virginia (Usa), è una buona lettura che cerca di analizzare contemporaneamente il fitto intreccio delle relazioni fra il commercio internazionale, la gestione d’impresa e la cultura d’impresa.

L’inizio di “Culture e Conflict: Intertwined with International Business” è una constatazione. Oggi – viene spiegato -, le transazioni internazionali sono diventate un oggetto molto comune nel mondo degli affari, ma parallelamente è emersa l’esigenza di comprendere la complessità della cultura dei diversi mercati e delle imprese che interagiscono fra di loro.

Non si parte alla conquista di un nuovo mercato, senza conoscere molto dell’ambiente in cui si arriva, della gente, della politica adottata, delle regole vigenti. Assunto normale e quasi ovvio da comprendere, difficile da mettere in pratica compiutamente. Eppure, i rapporti fra il modo d’intendere l’impresa, i conflitti aziendali internazionali che si possono determinare, insieme alla capacità di adattamento e di comprensione dei mercati e della concorrenza da parte delle singole aziende, sono elementi di uno stesso problema che devono essere ben chiari per arrivare capire  i motivi di successo o di sconfitta sui teatri industriali mondiali.

Il lavoro di Chloe Friederichsen  si articola quindi in due parti: prima di tutto vengono analizzati gli elementi per la comprensione del management delle imprese e del loro modi di rapportarsi con i mercati. Per comprendere meglio questi aspetti, l’autrice prende ad esempi quelli della Coca Cola e della Motorola in Cina. La seconda parte della ricerca, poi, percorre uno per uno gli elementi della cultura: la religione, l’etica, la comunicazione, il sistema dei valori, il sistema degli incroci culturali che danno vita alle diverse dimensioni culturali di una società. Qui, gli esempi assunti a riferimento sono quelli della McDonald’s in India, ma anche della Pepsi Cola e della British Telecom e poi della IBM.

E’ interessante la conclusione dell’indagine: mettere insieme il mosaico costituito da culture d’impresa diverse, mercati differenti e complessità degli stessi, è una sfida per tutti che tutti devono vincere. Ed è bella la frase di Henry Ford messa a sigillare l’intero lavoro: “Mettersi insieme è un inizio, restare insieme un progresso, lavorare insieme un successo”.

Culture e Conflict: Intertwined with International Business 

Chloe Friederichsen  Senior Thesis Liberty University, Spring 2014

Buoni manager e buoni filosofi

L’impresa è fatta anche di uomini. Ma questi occorre capirli. E meglio si capiscono, migliore, più efficiente e più efficace sarà la gestione d’impresa e, quindi, i risultati finali di questa. Assunto facile da comprendere, difficilissimo da mettere in pratica. Tremendamente attuale oggi, tempo di tensioni sociali e di fabbrica, di allerte economiche, di incognite sul futuro e perplessità sul presente, quello del livello di comprensione degli uomini nell’impresa è un tema trasversale all’intermo dell’azienda: sa di cultura ma agisce sulla produzione materiale, vive sulla base di insegnamenti umanistici ma ha stretti legami con la tecnica.

E’ per questo che, forse oggi forse più di ieri, l’efficienza d’impresa si raggiunge anche con la filosofia. Ed è per questo che leggere le “Tre lezioni di filosofia del management” di Piero Pagnotta è cosa stuzzicante, utile, affascinante e quasi doverosa.

Pagnotta –  laureato in filosofia ma con una forte esperienza in aziende come Honeywell e  Olivetti -, ha scritto un volumetto che si legge quasi d’un fiato e che pone all’inizio un punto fermo: “È l’essere umano che lavora con la sua intelligenza ed è l’essere umano che con le sue scelte, condizionate, determina il successo del suo lavoro. Qui il punto di partenza e di arrivo del lavoro manageriale”. Per spiegare meglio, poi, Pagnotta parte da Platone e dalle sue idee attorno alla scrittura e l’arte, per dipanare un ragionamento che arriva fino alla migliore gestione aziendale e spiega: “Per comprendere il management bisogna prima vivere e lavorare a lungo in una organizzazione e poi (…), pervenire a coglierne la complessità”. Non grandi Master di specializzazione prima, quindi, ma la pratica, lo sporcarsi le mani, il sudare, sembra dire Pagnotta che continua passando ad analizzare il pensiero scientifico del ‘900 – tirando in ballo Einstein, Kant, Heisemberg, Godel e Feynman e Popper -, per trarre altre indicazioni operative. “Nell’analizzare un’organizzazione umana – spiega Pagnotta -, vi sono dati necessari a coglierne l’andamento (…), ma se vogliamo valutarne anche potenzialità, capacità di sviluppo, impatto sociale, i numeri cominciano ad avere un valore relativo e dovremo formulare valutazioni altre”. Insomma, il vero manager deve saper fare i conti “con l’indeterminato” e l’incertezza. Ed è su questa base che Pagnotta arriva al terzo passo del suo cammino. “Management non significa solo competenze e procedure da applicare, regole da far rispettare ma simboli da creare, una passione condivisa con l’universo aziendale, dare vita ad una storia condivisa che comprenda passione, creatività e progetto, ragione e sentimento, per costruire una identità, una storia collettiva che  per proseguire nel tempo ha bisogno di fondarsi sul riconoscimento, fiducia e interesse materiale”.  E non basta, perché, arrivando in fondo alla sua fatica, Pagnotta tocca anche elementi delicati delle organizzazioni e delle imprese come l’invidia, il potere, lo status, il ruolo, la cordata. Con alla fine un esempio tratto dalla storia di una grande azienda italiana finita male: “Avevano tutto ma erano incapaci di ammirare il loro lavoro, erano invidiosamente distruttivi”.

Un libro tutto da leggere e da tenere sul tavolo, a disposizione.

Tre lezioni di filosofia del management

Piero Pagnotta

Edizioni Nuova Cultura  (e-book), 2013

L’impresa è fatta anche di uomini. Ma questi occorre capirli. E meglio si capiscono, migliore, più efficiente e più efficace sarà la gestione d’impresa e, quindi, i risultati finali di questa. Assunto facile da comprendere, difficilissimo da mettere in pratica. Tremendamente attuale oggi, tempo di tensioni sociali e di fabbrica, di allerte economiche, di incognite sul futuro e perplessità sul presente, quello del livello di comprensione degli uomini nell’impresa è un tema trasversale all’intermo dell’azienda: sa di cultura ma agisce sulla produzione materiale, vive sulla base di insegnamenti umanistici ma ha stretti legami con la tecnica.

E’ per questo che, forse oggi forse più di ieri, l’efficienza d’impresa si raggiunge anche con la filosofia. Ed è per questo che leggere le “Tre lezioni di filosofia del management” di Piero Pagnotta è cosa stuzzicante, utile, affascinante e quasi doverosa.

Pagnotta –  laureato in filosofia ma con una forte esperienza in aziende come Honeywell e  Olivetti -, ha scritto un volumetto che si legge quasi d’un fiato e che pone all’inizio un punto fermo: “È l’essere umano che lavora con la sua intelligenza ed è l’essere umano che con le sue scelte, condizionate, determina il successo del suo lavoro. Qui il punto di partenza e di arrivo del lavoro manageriale”. Per spiegare meglio, poi, Pagnotta parte da Platone e dalle sue idee attorno alla scrittura e l’arte, per dipanare un ragionamento che arriva fino alla migliore gestione aziendale e spiega: “Per comprendere il management bisogna prima vivere e lavorare a lungo in una organizzazione e poi (…), pervenire a coglierne la complessità”. Non grandi Master di specializzazione prima, quindi, ma la pratica, lo sporcarsi le mani, il sudare, sembra dire Pagnotta che continua passando ad analizzare il pensiero scientifico del ‘900 – tirando in ballo Einstein, Kant, Heisemberg, Godel e Feynman e Popper -, per trarre altre indicazioni operative. “Nell’analizzare un’organizzazione umana – spiega Pagnotta -, vi sono dati necessari a coglierne l’andamento (…), ma se vogliamo valutarne anche potenzialità, capacità di sviluppo, impatto sociale, i numeri cominciano ad avere un valore relativo e dovremo formulare valutazioni altre”. Insomma, il vero manager deve saper fare i conti “con l’indeterminato” e l’incertezza. Ed è su questa base che Pagnotta arriva al terzo passo del suo cammino. “Management non significa solo competenze e procedure da applicare, regole da far rispettare ma simboli da creare, una passione condivisa con l’universo aziendale, dare vita ad una storia condivisa che comprenda passione, creatività e progetto, ragione e sentimento, per costruire una identità, una storia collettiva che  per proseguire nel tempo ha bisogno di fondarsi sul riconoscimento, fiducia e interesse materiale”.  E non basta, perché, arrivando in fondo alla sua fatica, Pagnotta tocca anche elementi delicati delle organizzazioni e delle imprese come l’invidia, il potere, lo status, il ruolo, la cordata. Con alla fine un esempio tratto dalla storia di una grande azienda italiana finita male: “Avevano tutto ma erano incapaci di ammirare il loro lavoro, erano invidiosamente distruttivi”.

Un libro tutto da leggere e da tenere sul tavolo, a disposizione.

Tre lezioni di filosofia del management

Piero Pagnotta

Edizioni Nuova Cultura  (e-book), 2013

Sostenibilità, innovazione e creatività: dall’arredamento ecco le indicazioni per l’industria italiana

“I momenti di crisi raddoppiano la vitalità degli uomini”. La frase ottimistica di un grande scrittore americano, Paul Auster, è stata scelta da Silvana Annichiarico, direttrice del triennale Design Museum, come “exergo” della mostra aperta in occasione della Design Week, l’edizione 2014 del Salone del Mobile, nella prima metà d’aprile. Ed è una scelta opportuna. Perché connota una positiva caratteristica della migliore industria italiana: puntare su creatività e innovazione, qualità e sguardo internazionale, per cercare strade originali d’uscita da una crisi che ancora, in Italia, segna il mercato interno ma che può essere superata proprio con il contributo dell’espansione sui mercati esteri.

“Il Salone del Mobile e il Rinascimento della nostra creatività”, sostiene appunto un grande artista di fama internazionale, Michelangelo Pistoletto. Che coglie bene il senso della dimensione d’imprenditorialità e cultura che caratterizza in modo sempre più evidente la vitalità di uno dei pilastri del made in Italy (nel contesto vincente delle “quattro A” e cioè arredamento e poi abbigliamento, agro-industria e automazione meccanica, l’industria eccellente dei robot e dei macchinari, in cui ha gran peso anche la filiera delle macchine per la lavorazione del legno).

E’ parola oramai di moda, “Rinascimento”. Di “manifacturig reinassance”, rinascimento manifatturiero, parlano (in questo blog ne abbiamo dato spesso conto) gli studi economici di Harvard, per indicare la scelta Usa di ricominciare a investire sull’industria, favorendo il “back-shoring” e cioè il ritorno in patria della manifattura americana che era andata a cercare altrove migliori condizioni produttive. E su “orgoglio industriale” ed “eccellenza manifatturiera” insistono in Italia non solo parecchi dei migliori economisti, ma anche Confindustria e soprattutto le sue strutture territoriali più attive, a cominciare da Assolombarda. Cultura d’impresa e creatività. Qualità di prodotti e sistemi di produzione. E originalità del design. “Facciamo cultura d’impresa e non solo business”, conferma Claudio Luti, presidente della Kartell e guida del Cosmit, l’ente organizzatore del Salone del Mobile.

Ci sono altri grandi nomi della cultura, dell’architettura e del design a ribadire il giudizio positivo di Pistoletto. Mario Bellini nota come “qui a Milano si dà vita a idee di tutto il mondo” e Zaha Hadid rileva che “Milano è tappa obbligata per imparare”, mentre Doriana e Massimiliano Fuksas sottolineano l’importanza di “tradizione artigiana e innovazione”, David Chipperfield conferma che “le piccole e medie imprese italiane raggiungono risultati unici” e Daniel Libeskind scrive di “funzionalità ed estetica nel vostro Dna”, ricordando come “il design italiano è ancora competitivo sui mercati internazionali, grazie alla lunga storia e all’impegno in questo settore”.

La conferma viene dai numeri del Salone e della Design Week. 360mila visitatori, nell’edizione 2014, il 13% in più dell’anno precedente: architetti, designer, buyer, imprenditori, giornalisti specializzati. Il 70% viene dall’estero, non solo dai paesi Ue, ma anche da Cina e Russia, Brasile e India, Usa e paesi arabi. Il Salone del Mobile si conferma così la più grande manifestazione fieristica del settore nel mondo. E tutta la filiera italiana dell’arredamento può trarne vantaggi, confermando l’originalità positiva d’una situazione che vede ancora in primo piano l’indissolubile legame tra idea e produzione, il collegamento tra “la cultura del progetto” e la “cultura del prodotto” che si influenzano a vicenda, il rapporto attivo, da “cross fertilization”, tra lo studio del designer e la fabbrica, gli stimoli creativi più innovativi e l’opportunità di fare diventare le idee e i prototipi prodotti in grado di affrontare i mercati, dalle nicchie più sofisticate alle produzioni di più ampio consumo (sempre naturalmente nelle dimensioni del design).

Tre, le parole chiave che hanno trovato risalto durante la Design Week e indicato la direzione lungo cui continuerà a muoversi l’industria italiana dell’arredamento: sostenibilità, innovazione e formazione. Si riparte dalla tradizione artigiana, ma la si mette in strettissima relazione con le tecnologie produttive più avanzate, compreso il mondo in evoluzione delle “stampanti 3D”. Si lavora su una dimensione “green” di processi produttivi e prodotti. Si insiste sui materiali, dando centralità al legno, ma anche lavorando su plastiche, resine, metalli e su quanto laboratori di ricerca e altri settori industriali hanno scoperto e valorizzato, dalle nuove leghe ai composti più flessibili, resistenti e leggeri. E si studiano relazioni positive tra “la bottega” e “la fabbrica”, tra la ricerca più sofisticata e la produttività più promettente in termini di valore. E’ in questo contesto che la formazione ha un ruolo chiave: di preparazione di nuove leve di progettisti e di operatori dell’industria, di designer e di chimici che sappiano cosa fare con le nano-tecnologie, ma anche di riqualificazione di maestranze d’esperienza e d’eccellenza alla luce delle nuove scoperte hi tech.

Milano, con il suo distretto del mobile in Brianza, ma anche con i collegamenti con le altre due grandi aree produttive, il Veneto e le Marche, è il centro di questa strategia. C’è l’industria. E un mondo dei servizi esperto, legato all’arredamento, a cominciare appunto dal sistema fieristico. C’è un Politecnico di respiro internazionale, con una buona specializzazione in architettura e design. E c’è un robusto insieme di università con forte caratterizzazione sui temi dell’economia, ma anche delle scienze umane, indispensabili a una sofisticata creatività. C’è la finanza (utile, soprattutto se capirà come venire meglio incontro alle esigenze di crescita delle piccole e medie imprese e alla affermazione delle start up). C’è un dinamico settore di comunicazione e media. E una vivace presenza di luoghi d’eccellenza dell’arte contemporanea, stimolo innovativo essenziale. Quel che serve per rafforzare il made in Italy e dargli ancora maggiori prospettive internazionali.

“I momenti di crisi raddoppiano la vitalità degli uomini”. La frase ottimistica di un grande scrittore americano, Paul Auster, è stata scelta da Silvana Annichiarico, direttrice del triennale Design Museum, come “exergo” della mostra aperta in occasione della Design Week, l’edizione 2014 del Salone del Mobile, nella prima metà d’aprile. Ed è una scelta opportuna. Perché connota una positiva caratteristica della migliore industria italiana: puntare su creatività e innovazione, qualità e sguardo internazionale, per cercare strade originali d’uscita da una crisi che ancora, in Italia, segna il mercato interno ma che può essere superata proprio con il contributo dell’espansione sui mercati esteri.

“Il Salone del Mobile e il Rinascimento della nostra creatività”, sostiene appunto un grande artista di fama internazionale, Michelangelo Pistoletto. Che coglie bene il senso della dimensione d’imprenditorialità e cultura che caratterizza in modo sempre più evidente la vitalità di uno dei pilastri del made in Italy (nel contesto vincente delle “quattro A” e cioè arredamento e poi abbigliamento, agro-industria e automazione meccanica, l’industria eccellente dei robot e dei macchinari, in cui ha gran peso anche la filiera delle macchine per la lavorazione del legno).

E’ parola oramai di moda, “Rinascimento”. Di “manifacturig reinassance”, rinascimento manifatturiero, parlano (in questo blog ne abbiamo dato spesso conto) gli studi economici di Harvard, per indicare la scelta Usa di ricominciare a investire sull’industria, favorendo il “back-shoring” e cioè il ritorno in patria della manifattura americana che era andata a cercare altrove migliori condizioni produttive. E su “orgoglio industriale” ed “eccellenza manifatturiera” insistono in Italia non solo parecchi dei migliori economisti, ma anche Confindustria e soprattutto le sue strutture territoriali più attive, a cominciare da Assolombarda. Cultura d’impresa e creatività. Qualità di prodotti e sistemi di produzione. E originalità del design. “Facciamo cultura d’impresa e non solo business”, conferma Claudio Luti, presidente della Kartell e guida del Cosmit, l’ente organizzatore del Salone del Mobile.

Ci sono altri grandi nomi della cultura, dell’architettura e del design a ribadire il giudizio positivo di Pistoletto. Mario Bellini nota come “qui a Milano si dà vita a idee di tutto il mondo” e Zaha Hadid rileva che “Milano è tappa obbligata per imparare”, mentre Doriana e Massimiliano Fuksas sottolineano l’importanza di “tradizione artigiana e innovazione”, David Chipperfield conferma che “le piccole e medie imprese italiane raggiungono risultati unici” e Daniel Libeskind scrive di “funzionalità ed estetica nel vostro Dna”, ricordando come “il design italiano è ancora competitivo sui mercati internazionali, grazie alla lunga storia e all’impegno in questo settore”.

La conferma viene dai numeri del Salone e della Design Week. 360mila visitatori, nell’edizione 2014, il 13% in più dell’anno precedente: architetti, designer, buyer, imprenditori, giornalisti specializzati. Il 70% viene dall’estero, non solo dai paesi Ue, ma anche da Cina e Russia, Brasile e India, Usa e paesi arabi. Il Salone del Mobile si conferma così la più grande manifestazione fieristica del settore nel mondo. E tutta la filiera italiana dell’arredamento può trarne vantaggi, confermando l’originalità positiva d’una situazione che vede ancora in primo piano l’indissolubile legame tra idea e produzione, il collegamento tra “la cultura del progetto” e la “cultura del prodotto” che si influenzano a vicenda, il rapporto attivo, da “cross fertilization”, tra lo studio del designer e la fabbrica, gli stimoli creativi più innovativi e l’opportunità di fare diventare le idee e i prototipi prodotti in grado di affrontare i mercati, dalle nicchie più sofisticate alle produzioni di più ampio consumo (sempre naturalmente nelle dimensioni del design).

Tre, le parole chiave che hanno trovato risalto durante la Design Week e indicato la direzione lungo cui continuerà a muoversi l’industria italiana dell’arredamento: sostenibilità, innovazione e formazione. Si riparte dalla tradizione artigiana, ma la si mette in strettissima relazione con le tecnologie produttive più avanzate, compreso il mondo in evoluzione delle “stampanti 3D”. Si lavora su una dimensione “green” di processi produttivi e prodotti. Si insiste sui materiali, dando centralità al legno, ma anche lavorando su plastiche, resine, metalli e su quanto laboratori di ricerca e altri settori industriali hanno scoperto e valorizzato, dalle nuove leghe ai composti più flessibili, resistenti e leggeri. E si studiano relazioni positive tra “la bottega” e “la fabbrica”, tra la ricerca più sofisticata e la produttività più promettente in termini di valore. E’ in questo contesto che la formazione ha un ruolo chiave: di preparazione di nuove leve di progettisti e di operatori dell’industria, di designer e di chimici che sappiano cosa fare con le nano-tecnologie, ma anche di riqualificazione di maestranze d’esperienza e d’eccellenza alla luce delle nuove scoperte hi tech.

Milano, con il suo distretto del mobile in Brianza, ma anche con i collegamenti con le altre due grandi aree produttive, il Veneto e le Marche, è il centro di questa strategia. C’è l’industria. E un mondo dei servizi esperto, legato all’arredamento, a cominciare appunto dal sistema fieristico. C’è un Politecnico di respiro internazionale, con una buona specializzazione in architettura e design. E c’è un robusto insieme di università con forte caratterizzazione sui temi dell’economia, ma anche delle scienze umane, indispensabili a una sofisticata creatività. C’è la finanza (utile, soprattutto se capirà come venire meglio incontro alle esigenze di crescita delle piccole e medie imprese e alla affermazione delle start up). C’è un dinamico settore di comunicazione e media. E una vivace presenza di luoghi d’eccellenza dell’arte contemporanea, stimolo innovativo essenziale. Quel che serve per rafforzare il made in Italy e dargli ancora maggiori prospettive internazionali.

Produzione, morale ed estetica d’azienda

La cultura aziendale e d’impresa è un affare complesso. Non si costruisce a comando, non si evolve secondo indicazioni standardizzate. E non potrebbe che essere così, visto che a far davvero la cultura non sono le macchine ma gli uomini. Concetto apparentemente facile da capire, quello della cultura d’impresa è in realtà un insieme di approcci, idee, interpretazioni della realtà che è difficile da concretizzare e prima ancora da analizzare compiutamente.

“Influence of corporate culture on innovative activity of employees of the enterprises” appena pubblicato dalla Russian Academy of Sciences è in questo senso un’utile lettura proprio perché cerca di definire la complessità della cultura d’impresa . V. N.Belkin, N. A. Belkina, O. A. Antonova e , N. A. Luzin, autori dell’indagine, cercano di comprendere la cultura d’impresa vista come un “sistema culturale, morale ed estetico” che viene utilizzato e introdotto nella vita lavorativa dei dipendenti dai datori di lavoro e dal CEO. E’ sulla base di questo sistema che vengono sviluppate le norme e le regole dei rapporti dei lavoratori, i costumi, le tradizioni e le abitudini aziendali. Sulla base quindi di conoscenze tecniche ed economiche, principi d’azione morale e sociale, indicazioni anche estetiche nel momento in cui l’immagine dell’azienda si riflette nella cultura della stessa e viceversa, ma prende anche forma dagli atteggiamenti e dalle relazioni interpersonali che si costruiscono negli uffici e negli stabilimenti. Secondo la ricerca, dalle procedure produttive e di qualità alle metodologie di organizzazione del personale, dai cataloghi una volta cartacei e ora on-line alle azioni di responsabilità sociale, l’impresa costruisce un apparato culturale variegato, complesso, multiforme. Che va compreso nella sua interezza per capire dove va l’impresa stessa.

Ma non solo, perché la ricerca poi ragiona sul fatto che “la cultura aziendale è collegata con la cultura generale del popolo del paese, riflette questa ma in una certa misura può contraddirla”. Ed è possibile anche il generarsi di un “conflitto fra valori culturali dell’impresa e dei lavoratori”.  Assumendo come caso studio quello delle aziende giapponesi e in particolare della Toyota, i ricercatori russi continuano il loro ragionamento e spiegano che “è dimostrato che l’alta attività innovativa del personale è raggiunta non con i sistemi separati di incentivazione materiale e morale , ma con tutto il sistema delle relazioni sindacali costruite sulla base della cultura aziendale”.  Traguardo, questo, certamente difficile da raggiungere ma che può davvero essere la prospettiva di crescita per molte imprese, soprattutto in momenti difficili dal punto di vista congiunturale come quello che si sta ancora attraversando.

Una delle idee forti che emergono dall’articolo è che al centro della cultura aziendale ci deve essere la persona, non solo i beni e i servizi prodotti.

Influence of corporate culture on innovative activity of employees of the enterprises.

Belkin, V. N.; Belkina, N. A.; Antonova, O. A.; Luzin, N. A.

Russian Academy of Sciences, Economy of Region / Ekonomika Regiona . Mar2014, Issue 1, p184-195. 12p.

Download pdf

La cultura aziendale e d’impresa è un affare complesso. Non si costruisce a comando, non si evolve secondo indicazioni standardizzate. E non potrebbe che essere così, visto che a far davvero la cultura non sono le macchine ma gli uomini. Concetto apparentemente facile da capire, quello della cultura d’impresa è in realtà un insieme di approcci, idee, interpretazioni della realtà che è difficile da concretizzare e prima ancora da analizzare compiutamente.

“Influence of corporate culture on innovative activity of employees of the enterprises” appena pubblicato dalla Russian Academy of Sciences è in questo senso un’utile lettura proprio perché cerca di definire la complessità della cultura d’impresa . V. N.Belkin, N. A. Belkina, O. A. Antonova e , N. A. Luzin, autori dell’indagine, cercano di comprendere la cultura d’impresa vista come un “sistema culturale, morale ed estetico” che viene utilizzato e introdotto nella vita lavorativa dei dipendenti dai datori di lavoro e dal CEO. E’ sulla base di questo sistema che vengono sviluppate le norme e le regole dei rapporti dei lavoratori, i costumi, le tradizioni e le abitudini aziendali. Sulla base quindi di conoscenze tecniche ed economiche, principi d’azione morale e sociale, indicazioni anche estetiche nel momento in cui l’immagine dell’azienda si riflette nella cultura della stessa e viceversa, ma prende anche forma dagli atteggiamenti e dalle relazioni interpersonali che si costruiscono negli uffici e negli stabilimenti. Secondo la ricerca, dalle procedure produttive e di qualità alle metodologie di organizzazione del personale, dai cataloghi una volta cartacei e ora on-line alle azioni di responsabilità sociale, l’impresa costruisce un apparato culturale variegato, complesso, multiforme. Che va compreso nella sua interezza per capire dove va l’impresa stessa.

Ma non solo, perché la ricerca poi ragiona sul fatto che “la cultura aziendale è collegata con la cultura generale del popolo del paese, riflette questa ma in una certa misura può contraddirla”. Ed è possibile anche il generarsi di un “conflitto fra valori culturali dell’impresa e dei lavoratori”.  Assumendo come caso studio quello delle aziende giapponesi e in particolare della Toyota, i ricercatori russi continuano il loro ragionamento e spiegano che “è dimostrato che l’alta attività innovativa del personale è raggiunta non con i sistemi separati di incentivazione materiale e morale , ma con tutto il sistema delle relazioni sindacali costruite sulla base della cultura aziendale”.  Traguardo, questo, certamente difficile da raggiungere ma che può davvero essere la prospettiva di crescita per molte imprese, soprattutto in momenti difficili dal punto di vista congiunturale come quello che si sta ancora attraversando.

Una delle idee forti che emergono dall’articolo è che al centro della cultura aziendale ci deve essere la persona, non solo i beni e i servizi prodotti.

Influence of corporate culture on innovative activity of employees of the enterprises.

Belkin, V. N.; Belkina, N. A.; Antonova, O. A.; Luzin, N. A.

Russian Academy of Sciences, Economy of Region / Ekonomika Regiona . Mar2014, Issue 1, p184-195. 12p.

Download pdf

Complicate imprese imprevedibili

C’è la teoria e c’è la pratica. Ci sono le certezze e ci sono le sorprese. Anche nelle imprese, come nella politica, nella storia, nell’economia, in ogni campo dell’attività umana. E, spesso, la pratica supera la teoria e la surclassa in fantasia e in complessità. E le sorprese azzerano le certezze tanto da farle diventare delle banalità. Accade, lo si è detto, anche nelle aziende, che sono fatte di uomini e donne, non solo di manuali di gestione e di produzione applicati dalle macchine. Per questo, fra l’altro, anche le imprese fanno cultura, pur nella loro imprevedibilità.

Parkinson’s Law” – libro di Cyril Northcote Parkinson uscito la prima volta nel 1955 e appena ripubblicato sotto forma di e-book -, serve proprio per capire meglio quanto la realtà sia molto più complessa (e talvolta bella), della teoria.  E quanto – fra l’altro – un tema così complesso possa essere, invece, affrontato con precisa soavità.

La prima frase del libro, appare sibillina: “Il lavoro si espande fino a occupare tutto il tempo necessario a portarlo a termine”. In realtà, indica una condizione di fatto comune a moltissime organizzazioni e imprese: la complessità della struttura è indipendente da quello che occorre davvero fare. In tempi di ricerca dell’efficienza più elevata e dell’abbattimento di costi più forte possibile, il tema della comprensione della complessità organizzativa – e dei suoi guai – passa anche dalla lettura di Parkinson. Che descrive il tutto in dieci passaggi che, partendo appunto dalla formulazione della “Legge di Parkinson”, prendono in considerazione i diversi aspetti delle organizzazioni legate al personale, ai meccanismi di selezione, alla formazione delle opinioni e delle indicazioni operative, all’articolazione stessa degli uffici, all’amministrazione, ai rapporti di forza, ai segni del “potere” aziendale, fino ad arrivare alla scansione delle diverse fasi della vita lavorativa dei singoli.

Pensata per le grandi organizzazioni (pubbliche e private), la “Legge di Parkinson”, indica i rischi che corrono tutte le imprese nel momento della loro espansione, ma anche dove possono essere molte delle cause delle attuali inefficienze pubbliche e private. Tutto raccontato con serio umorismo anglosassone.

Cyril Northcote Parkinson ha prodotto un libro (contenuto in poco più di cento pagine), che fa arrabbiare quasi tutti ma che è un esempio inimitabile di cultura d’impresa al massimo livello, con tono apparentemente leggero e frivolo ma denso di analisi sul campo. Un’analisi che si arricchisce, cinquant’anni dopo la prima edizione, di una serie di citazioni che costituiscono un po’ l’eredità di Parkinson e che lanciano ulteriori provocazioni. Una fra tutte quelle che riflettono bene lo spirito di Parkinson  dice: “Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola” (Voltaire).

La legge di Parkinson 

Cyril Northcote Parkinson

Monti&Ambrosini, marzo 2014

C’è la teoria e c’è la pratica. Ci sono le certezze e ci sono le sorprese. Anche nelle imprese, come nella politica, nella storia, nell’economia, in ogni campo dell’attività umana. E, spesso, la pratica supera la teoria e la surclassa in fantasia e in complessità. E le sorprese azzerano le certezze tanto da farle diventare delle banalità. Accade, lo si è detto, anche nelle aziende, che sono fatte di uomini e donne, non solo di manuali di gestione e di produzione applicati dalle macchine. Per questo, fra l’altro, anche le imprese fanno cultura, pur nella loro imprevedibilità.

Parkinson’s Law” – libro di Cyril Northcote Parkinson uscito la prima volta nel 1955 e appena ripubblicato sotto forma di e-book -, serve proprio per capire meglio quanto la realtà sia molto più complessa (e talvolta bella), della teoria.  E quanto – fra l’altro – un tema così complesso possa essere, invece, affrontato con precisa soavità.

La prima frase del libro, appare sibillina: “Il lavoro si espande fino a occupare tutto il tempo necessario a portarlo a termine”. In realtà, indica una condizione di fatto comune a moltissime organizzazioni e imprese: la complessità della struttura è indipendente da quello che occorre davvero fare. In tempi di ricerca dell’efficienza più elevata e dell’abbattimento di costi più forte possibile, il tema della comprensione della complessità organizzativa – e dei suoi guai – passa anche dalla lettura di Parkinson. Che descrive il tutto in dieci passaggi che, partendo appunto dalla formulazione della “Legge di Parkinson”, prendono in considerazione i diversi aspetti delle organizzazioni legate al personale, ai meccanismi di selezione, alla formazione delle opinioni e delle indicazioni operative, all’articolazione stessa degli uffici, all’amministrazione, ai rapporti di forza, ai segni del “potere” aziendale, fino ad arrivare alla scansione delle diverse fasi della vita lavorativa dei singoli.

Pensata per le grandi organizzazioni (pubbliche e private), la “Legge di Parkinson”, indica i rischi che corrono tutte le imprese nel momento della loro espansione, ma anche dove possono essere molte delle cause delle attuali inefficienze pubbliche e private. Tutto raccontato con serio umorismo anglosassone.

Cyril Northcote Parkinson ha prodotto un libro (contenuto in poco più di cento pagine), che fa arrabbiare quasi tutti ma che è un esempio inimitabile di cultura d’impresa al massimo livello, con tono apparentemente leggero e frivolo ma denso di analisi sul campo. Un’analisi che si arricchisce, cinquant’anni dopo la prima edizione, di una serie di citazioni che costituiscono un po’ l’eredità di Parkinson e che lanciano ulteriori provocazioni. Una fra tutte quelle che riflettono bene lo spirito di Parkinson  dice: “Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola” (Voltaire).

La legge di Parkinson 

Cyril Northcote Parkinson

Monti&Ambrosini, marzo 2014

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?