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Conversazioni d’impresa

Nell’impresa si produce e si parla, si lavora e ci si incontra. Oggi, più di ieri, l’azienda è luogo di scambio di informazioni, coagulo di interessi ma anche fonte di cultura, notizie, comunicazione. E sempre di più occorre pensare ad un’impresa aperta, che “parla con il mercato”. E’ il risultato del cambiamento del mondo, che, tuttavia, non tutte le imprese hanno ancora compreso a fondo. Il progresso tecnologico, i social network, la disponibilità a costi decrescenti di dispositivi di connessione sempre più piccoli, potenti, versatili, convergenti, pone di fronte lavoratori e imprenditori a delle sfide che non si sono esaurite e che anzi si rinnovano.

Occorrono bussole e carte nuove. Come il volume “L’impresa nell’era della convergenza. Da emittente di messaggi a nodi di conversazioni” di Luigi Ferrari, Massimo Bartoccioli e Mario Ruotolo (tutti tecnici della comunicazione d’impresa e docenti alla IULM e alla Cattolica di Milano, oltre che all’Università Statale).

L’assunto dal quale parte il ragionamento dei tre ricercatori, è che il cambiamento in atto non implica solo la capacità di usare nuove tecnologie, ma anche una condizione strettamente intrecciata con aspetti culturali e relazionali fondamentali per l’impresa, legati in particolare all’evoluzione della psicologia e delle competenze degli individui/consumatori, sempre più capaci di esplorazioni autonome e di altrettanto autonome azioni di scelta o di rifiuto verso quelle imprese che non sono in grado di adeguarsi al cambiamento.

Il volume – arricchito da un intervento di Nando Pagnoncelli (Presidente di IPSOS) -, prende in particolare in esame la necessità per l’impresa di modificare profondamente la proprio cultura di approccio al mercato – esiste, secondo i tre docenti, una ancora diffusa pratica della contrapposizione con i propri consumatori -, per arrivare ad una visione diversa del mercato con cui dialogare di più. “Le riflessioni e le analisi raccolte – spiegano gli autori -, in particolare l’evoluzione dell’opinione pubblica, il crescente fenomeno dello scambio in Rete, la trasparenza e l’immediatezza dell’informazione accessibile a tutti a costo zero, portano a prevedere come questa cultura potrà venire rapidamente abbracciata dalle imprese più lungimiranti, quelle che già hanno sentito il vento del cambiamento e hanno posto il consolidamento della loro missione e la Responsabilità verso gli anni a venire al primo posto delle proprie scelte organizzative, strategiche ed economiche”.

L’impresa nell’era della convergenza. Da emittente di messaggi a nodo di conversazioni

Luigi Ferrari, Massimo Bartoccioli, Mario Ruotolo

Unicopli, giugno 2013

Nell’impresa si produce e si parla, si lavora e ci si incontra. Oggi, più di ieri, l’azienda è luogo di scambio di informazioni, coagulo di interessi ma anche fonte di cultura, notizie, comunicazione. E sempre di più occorre pensare ad un’impresa aperta, che “parla con il mercato”. E’ il risultato del cambiamento del mondo, che, tuttavia, non tutte le imprese hanno ancora compreso a fondo. Il progresso tecnologico, i social network, la disponibilità a costi decrescenti di dispositivi di connessione sempre più piccoli, potenti, versatili, convergenti, pone di fronte lavoratori e imprenditori a delle sfide che non si sono esaurite e che anzi si rinnovano.

Occorrono bussole e carte nuove. Come il volume “L’impresa nell’era della convergenza. Da emittente di messaggi a nodi di conversazioni” di Luigi Ferrari, Massimo Bartoccioli e Mario Ruotolo (tutti tecnici della comunicazione d’impresa e docenti alla IULM e alla Cattolica di Milano, oltre che all’Università Statale).

L’assunto dal quale parte il ragionamento dei tre ricercatori, è che il cambiamento in atto non implica solo la capacità di usare nuove tecnologie, ma anche una condizione strettamente intrecciata con aspetti culturali e relazionali fondamentali per l’impresa, legati in particolare all’evoluzione della psicologia e delle competenze degli individui/consumatori, sempre più capaci di esplorazioni autonome e di altrettanto autonome azioni di scelta o di rifiuto verso quelle imprese che non sono in grado di adeguarsi al cambiamento.

Il volume – arricchito da un intervento di Nando Pagnoncelli (Presidente di IPSOS) -, prende in particolare in esame la necessità per l’impresa di modificare profondamente la proprio cultura di approccio al mercato – esiste, secondo i tre docenti, una ancora diffusa pratica della contrapposizione con i propri consumatori -, per arrivare ad una visione diversa del mercato con cui dialogare di più. “Le riflessioni e le analisi raccolte – spiegano gli autori -, in particolare l’evoluzione dell’opinione pubblica, il crescente fenomeno dello scambio in Rete, la trasparenza e l’immediatezza dell’informazione accessibile a tutti a costo zero, portano a prevedere come questa cultura potrà venire rapidamente abbracciata dalle imprese più lungimiranti, quelle che già hanno sentito il vento del cambiamento e hanno posto il consolidamento della loro missione e la Responsabilità verso gli anni a venire al primo posto delle proprie scelte organizzative, strategiche ed economiche”.

L’impresa nell’era della convergenza. Da emittente di messaggi a nodo di conversazioni

Luigi Ferrari, Massimo Bartoccioli, Mario Ruotolo

Unicopli, giugno 2013

Ecco come cultura e creatività fanno crescere anche il Pil

Con la cultura si mangia, si diventa più competitivi, si fa crescere il Pil. E nella nuova geografia dello sviluppo, economia e qualità della vita migliorano proprio là dove si investe in creatività e innovazione, si fa ricerca, si producono arte, letteratura, musica, cinema e teatro, si tutela e valorizza il patrimonio culturale, si dà spazio alla scienza, si insiste sulla formazione delle persone, sia negli anni della scuola che nel resto del tempo della loro vita. Concetti già noti, naturalmente. Ma che purtroppo, invece, stentano a trovare spazio nell’elaborazione e nell’applicazione concreta della politiche di governo, soprattutto in Italia.

Per approfondire ancora una volta la riflessione, vale la pena leggere le pagine de “La nuova geografia del lavoro”, di un economista italiano, Enrico Moretti, che insegna a San Francisco, alla Berkeley University, scrive sul “New York Times” e il “Wall Street Journal” ed è consultato dal presidente Barack Obama sui temi del rapporto tra innovazione e occupazione. Il saggio, definito dalla rivista “Forbes” “il libro di economia più importante dell’anno” documenta, innazitutto, come l’innovazione abbia cambiato la mappa del lavoro in America, con il tramonto delle vecchie città industriali, come Detroit e Cleveland, che non hanno saputo aggiornarsi dopo la crisi della tradizionale industria manifatturiera e con il successo di metropoli (San Francisco e Seattle, Austin e San Josè, Boston e Washington) in cui è stato costruito un “ecosistema innovativo” fondato su biotech, ricerca medica e farmacologica, industria dei semiconduttori e del software, comunicazione e altri settori in via di continua innovazione come il clean tech (le tecnologie ambientali più avanzate), il digital entertainement e i “nuovi materiali” con il supporto del nano-tech. Ricerca e hi tech, appunto. Creatività che lega saperi umanistici e competenze scientifiche in originali sintesi. Stimolante cultura d’impresa.

L’effetto? Un boom nella creazione di ricchezza, nella competività e nell’attrattività delle città in questione (un vero e proprio circuito virtuoso: i luoghi dei talenti attraggono altri talenti). Con un risultato positivo in termini di posti di lavoro. E un’ulteriore spinta di fiducia nel futuro. Le ricerche di Moretti dimostrano infatti che per un nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico, un ingegnere o un informatico ad alta specializzazione, un software designer di Google o un fisico esperto in nanotecnologie se ne creano altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si alimenta un volano economico positivo. E si mette in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che fa da ulteriore molla della crescita. Immaginazione. Cultura. Creatività. Sviluppo economico e sociale.

Che sia proprio questa la strada di un futuro che è già qui lo conferma anche la scelta del Bureau of Economic Analysis, il principale istitito di statistiche degli Usa, di inserire dai primi di agosto, tra i fattori del Pil, anche la “creatività”. “Il Pil della fantasia”, hanno scritto gli osservatori più poetici. E a ragione. Perché le spese per la ricerca, lo sviluppo e la creazione in campo tecnico, scientifico, artistico e culturale (una nuova molecola per la medicina, ma anche un romanzo, una canzone, un film) saranno conteggiati tra gli investimenti, utili dunque a produrre una ricchezza migliore (e maggiore: con questo nuovo calcolo, il pil americano aumenterebbe del 2,7%). Con la cultura, appunto, si va avanti.

E in Italia? Invece di investire in cultura, ricerca, innovazione e formazione, si taglia, come dimostrano due bravi giornalisti, Bruno Arpaia e Pietro Greco, in “La cultura si mangia!”, accurata documentazione di come e quanto, negli anni scorsi, i governi abbiano drasticamente ridimensionato gli investimenti pubblici, ai livello più bassi in Europa e abbiano dunque contribuito in modo decisivo alla stagnazione dell’economia italiana.

Strategia da cambiare, dunque. Più cultura, più pil, più competitività delle nostre città (ancora forti di patrimoni e attitudini culturali da valorizzare), più sviluppo. E’, appunto, una buona impresa.

Con la cultura si mangia, si diventa più competitivi, si fa crescere il Pil. E nella nuova geografia dello sviluppo, economia e qualità della vita migliorano proprio là dove si investe in creatività e innovazione, si fa ricerca, si producono arte, letteratura, musica, cinema e teatro, si tutela e valorizza il patrimonio culturale, si dà spazio alla scienza, si insiste sulla formazione delle persone, sia negli anni della scuola che nel resto del tempo della loro vita. Concetti già noti, naturalmente. Ma che purtroppo, invece, stentano a trovare spazio nell’elaborazione e nell’applicazione concreta della politiche di governo, soprattutto in Italia.

Per approfondire ancora una volta la riflessione, vale la pena leggere le pagine de “La nuova geografia del lavoro”, di un economista italiano, Enrico Moretti, che insegna a San Francisco, alla Berkeley University, scrive sul “New York Times” e il “Wall Street Journal” ed è consultato dal presidente Barack Obama sui temi del rapporto tra innovazione e occupazione. Il saggio, definito dalla rivista “Forbes” “il libro di economia più importante dell’anno” documenta, innazitutto, come l’innovazione abbia cambiato la mappa del lavoro in America, con il tramonto delle vecchie città industriali, come Detroit e Cleveland, che non hanno saputo aggiornarsi dopo la crisi della tradizionale industria manifatturiera e con il successo di metropoli (San Francisco e Seattle, Austin e San Josè, Boston e Washington) in cui è stato costruito un “ecosistema innovativo” fondato su biotech, ricerca medica e farmacologica, industria dei semiconduttori e del software, comunicazione e altri settori in via di continua innovazione come il clean tech (le tecnologie ambientali più avanzate), il digital entertainement e i “nuovi materiali” con il supporto del nano-tech. Ricerca e hi tech, appunto. Creatività che lega saperi umanistici e competenze scientifiche in originali sintesi. Stimolante cultura d’impresa.

L’effetto? Un boom nella creazione di ricchezza, nella competività e nell’attrattività delle città in questione (un vero e proprio circuito virtuoso: i luoghi dei talenti attraggono altri talenti). Con un risultato positivo in termini di posti di lavoro. E un’ulteriore spinta di fiducia nel futuro. Le ricerche di Moretti dimostrano infatti che per un nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico, un ingegnere o un informatico ad alta specializzazione, un software designer di Google o un fisico esperto in nanotecnologie se ne creano altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si alimenta un volano economico positivo. E si mette in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che fa da ulteriore molla della crescita. Immaginazione. Cultura. Creatività. Sviluppo economico e sociale.

Che sia proprio questa la strada di un futuro che è già qui lo conferma anche la scelta del Bureau of Economic Analysis, il principale istitito di statistiche degli Usa, di inserire dai primi di agosto, tra i fattori del Pil, anche la “creatività”. “Il Pil della fantasia”, hanno scritto gli osservatori più poetici. E a ragione. Perché le spese per la ricerca, lo sviluppo e la creazione in campo tecnico, scientifico, artistico e culturale (una nuova molecola per la medicina, ma anche un romanzo, una canzone, un film) saranno conteggiati tra gli investimenti, utili dunque a produrre una ricchezza migliore (e maggiore: con questo nuovo calcolo, il pil americano aumenterebbe del 2,7%). Con la cultura, appunto, si va avanti.

E in Italia? Invece di investire in cultura, ricerca, innovazione e formazione, si taglia, come dimostrano due bravi giornalisti, Bruno Arpaia e Pietro Greco, in “La cultura si mangia!”, accurata documentazione di come e quanto, negli anni scorsi, i governi abbiano drasticamente ridimensionato gli investimenti pubblici, ai livello più bassi in Europa e abbiano dunque contribuito in modo decisivo alla stagnazione dell’economia italiana.

Strategia da cambiare, dunque. Più cultura, più pil, più competitività delle nostre città (ancora forti di patrimoni e attitudini culturali da valorizzare), più sviluppo. E’, appunto, una buona impresa.

La “diversità cooperante” può far vincere l’impresa. Ma occorre saperle gestire

Una volta piccolo era bello, adesso – sempre di più – diverso può essere bello, efficace, efficiente, competitivo. Anche e soprattutto in economia. Sempre che si riesca a conciliare istanze diverse, origini differenti, modi di pensare variegati, approcci alla produzione e alla vita magari apparentemente lontanissimi fra di loro. Quella che si potrebbe chiamare “diversità cooperante”, è  – a ben vedere – una delle sfide (forse la sfida principale), della produzione in senso lato. Vincono le imprese che sanno diversificare, ma anche quelle che riescono piùugrave; di altre ad unire menti diverse in un solo luogo e a farle ragionare insieme, quelle che accorpano in una sola squadra manualità di origine differente e a farle lavorare insieme.

Ma non tutto è così facile. Capire attraverso quali percorsi le imprese si muovo di fronte alla diversità è quindi sempre utile per comprendere quali errori non commettere e quali strade percorrere.  “Cultural diversity in organizations A study on the view and management on cultural diversity” – una tesi presentata da Dhakshayene Holmgren  e Anneli Jonsson alla Umeå School of Business and Economics nella sessione primaverile-estiva appena conclusasi -, serve proprio per questo. Si tratta di un studio che parte dalle basi teoriche del tema per arrivare ad una serie di interviste in imprese svedesi. Un lavoro che, proprio perché “ambientato” in un’area che dovrebbe essere molto avanzata dal punto di vista dell’accoglienza delle diversità culturali, arriva a conclusioni inaspettate.

L’idea dalla quale partono i due studiosi è semplice. “La globalizzazione delle economie e le migrazioni – spiegano –  hanno aumentato le opportunità” ma anche la necessità che le organizzazioni siano più aperte e “accomodanti nei confronti di un ambiente di lavoro eterogeneo”. La constatazione è però che “purtroppo molte aziende non vedono i vantaggi che la diversità culturale potrebbe portare e come una diversità culturale ben gestita possa consentire di raggiungere vantaggi competitivi nel mercato”.

Ma in realtà che cosa accade? A questa domanda il lavoro risponde con l’analisi di sette casi aziendali diversi, quelli di: Iksu (attiva dal 1959 nell’ambito dei settori sportivi), Indexator (azienda metalmeccanica creata nel 1967), Komatsu Forest e SCA Obbola (entrambe attive nel comparto forestale), Norrmejerier (un’impresa di trasformazione di latte nata dall’unione di decine e decine di produttori), Umetrics (creata nell’ambito dell’Università  e attiva nel settore dell’analisi dei dati), e di Umiren Stad AB (un’agenzia di lavoro temporaneo).

Due sembrano le conclusioni empiriche di questo lavoro. Da un lato, la diversità culturale viene vista comunque come un elemento positivo. Ma, dall’altro, l’esplicitazione pratica è tutta un’altra cosa. “La maggior parte delle aziende – viene spiegato ancora -, non ha una  visione olistica” dell’argomento e quindi non riesce “ad articolare la diversità a livello strategico e di conseguenza in tutte le dimensioni  dell’organizzazione”. Con risultati che, quindi, non sempre sono ottimali. Insomma, in tema di “diversità cooperante” la strada è ancora complessa. Anche in Svezia.

Cultural diversity in organizations. A study on the view and management on cultural diversity

Dhakshayene Holmgren, Anneli Jonsson

Umeå School of Business and Economics

Spring semester 2013

Una volta piccolo era bello, adesso – sempre di più – diverso può essere bello, efficace, efficiente, competitivo. Anche e soprattutto in economia. Sempre che si riesca a conciliare istanze diverse, origini differenti, modi di pensare variegati, approcci alla produzione e alla vita magari apparentemente lontanissimi fra di loro. Quella che si potrebbe chiamare “diversità cooperante”, è  – a ben vedere – una delle sfide (forse la sfida principale), della produzione in senso lato. Vincono le imprese che sanno diversificare, ma anche quelle che riescono piùugrave; di altre ad unire menti diverse in un solo luogo e a farle ragionare insieme, quelle che accorpano in una sola squadra manualità di origine differente e a farle lavorare insieme.

Ma non tutto è così facile. Capire attraverso quali percorsi le imprese si muovo di fronte alla diversità è quindi sempre utile per comprendere quali errori non commettere e quali strade percorrere.  “Cultural diversity in organizations A study on the view and management on cultural diversity” – una tesi presentata da Dhakshayene Holmgren  e Anneli Jonsson alla Umeå School of Business and Economics nella sessione primaverile-estiva appena conclusasi -, serve proprio per questo. Si tratta di un studio che parte dalle basi teoriche del tema per arrivare ad una serie di interviste in imprese svedesi. Un lavoro che, proprio perché “ambientato” in un’area che dovrebbe essere molto avanzata dal punto di vista dell’accoglienza delle diversità culturali, arriva a conclusioni inaspettate.

L’idea dalla quale partono i due studiosi è semplice. “La globalizzazione delle economie e le migrazioni – spiegano –  hanno aumentato le opportunità” ma anche la necessità che le organizzazioni siano più aperte e “accomodanti nei confronti di un ambiente di lavoro eterogeneo”. La constatazione è però che “purtroppo molte aziende non vedono i vantaggi che la diversità culturale potrebbe portare e come una diversità culturale ben gestita possa consentire di raggiungere vantaggi competitivi nel mercato”.

Ma in realtà che cosa accade? A questa domanda il lavoro risponde con l’analisi di sette casi aziendali diversi, quelli di: Iksu (attiva dal 1959 nell’ambito dei settori sportivi), Indexator (azienda metalmeccanica creata nel 1967), Komatsu Forest e SCA Obbola (entrambe attive nel comparto forestale), Norrmejerier (un’impresa di trasformazione di latte nata dall’unione di decine e decine di produttori), Umetrics (creata nell’ambito dell’Università  e attiva nel settore dell’analisi dei dati), e di Umiren Stad AB (un’agenzia di lavoro temporaneo).

Due sembrano le conclusioni empiriche di questo lavoro. Da un lato, la diversità culturale viene vista comunque come un elemento positivo. Ma, dall’altro, l’esplicitazione pratica è tutta un’altra cosa. “La maggior parte delle aziende – viene spiegato ancora -, non ha una  visione olistica” dell’argomento e quindi non riesce “ad articolare la diversità a livello strategico e di conseguenza in tutte le dimensioni  dell’organizzazione”. Con risultati che, quindi, non sempre sono ottimali. Insomma, in tema di “diversità cooperante” la strada è ancora complessa. Anche in Svezia.

Cultural diversity in organizations. A study on the view and management on cultural diversity

Dhakshayene Holmgren, Anneli Jonsson

Umeå School of Business and Economics

Spring semester 2013

L’industria italiana e il suo dilemma

Manifattura prima di tutto. Se l’Italia ha un futuro economico – come naturalmente è -, questo passa in gran parte per il rilancio della nostra capacità manifatturiera. Oggi come ieri e soprattutto domani. Si tratta di un’idea accettata da molti, quasi tutti. Ma occorre capire come realizzarla e sulla base di quali principi.

Per questo serve leggere “Il dilemma dell’impresa italiana” di Armando Brandolese: una sorta di ragionamento ad alta voce sugli errori di politica industriale commessi e su, soprattutto, quanto occorre fare adesso, nel momento in cui pare si sia arrestata la discesa nel baratro della recessione.

Bandolese racconta quindi (con esempi concreti e un’analisi storica puntuale), come, per troppo tempo e in troppi ambienti, ci si è dimenticati dell’importanza della nostra capacità manifatturiera.”Il settore manifatturiero – viene spiegato -, continua a essere un brand dell’Italia nel mondo prima di quelli legati alla moda, all’arte, al turismo e alla  cucina. Il manufacturing e la meccanica di precisione ci sono invidiati in tutto il mondo”. Peccato che – a causa dei costi di produzione, della burocrazia e di un generale ambiente poco favorevole all’industria -, parti importanti della nostra industria negli anni siano migrate all’estero. Una soluzione per sopravvivere ma dagli effetti molto pericolosi. Perché delocalizzare significa prima o poi perdere qualità, competenze, sensibilità tecniche, miglioramenti incrementali, controllo della filiera, a meno di spostare all’estero anche la ricerca. Ma a questo punto – dice Brandolese -,  sarebbe l’impresa italiana tutta a battere un’altra bandiera.

Ecco quindi il dilemma. Che fare per sopravvivere?

Per l’autore del volume (che comprende anche un intervento di Alberto Bombassei e uno di Giovanni Cavallini),  tutto ciò si trasforma in una richiesta: occorre mettere mano per davvero ad una politica industriale che si rispetti e che guardi proprio al mantenimento della manifattura nel nostro Paese. E, quindi, occorre ragionare bene ogni volta che all’orizzonte si presenta la possibilità di delocalizzare. Perché quando si va in questa direzione, dice Brandolese, non si pone attenzione a due  punti essenziali: “Da un lato, lo stretto legame fra processo produttivo e capacità di innovazione sui prodotti; dall’altro, l’incongruenza assoluta tra la scelta di off-shoring e outsourcing e l’enfasi sulla qualità, presentata spesso come elemento qualificante e distintivo della propria produzione”.

Il dilemma dell’impresa italiana

Armando Brandolese

Brioschi, 2012

Manifattura prima di tutto. Se l’Italia ha un futuro economico – come naturalmente è -, questo passa in gran parte per il rilancio della nostra capacità manifatturiera. Oggi come ieri e soprattutto domani. Si tratta di un’idea accettata da molti, quasi tutti. Ma occorre capire come realizzarla e sulla base di quali principi.

Per questo serve leggere “Il dilemma dell’impresa italiana” di Armando Brandolese: una sorta di ragionamento ad alta voce sugli errori di politica industriale commessi e su, soprattutto, quanto occorre fare adesso, nel momento in cui pare si sia arrestata la discesa nel baratro della recessione.

Bandolese racconta quindi (con esempi concreti e un’analisi storica puntuale), come, per troppo tempo e in troppi ambienti, ci si è dimenticati dell’importanza della nostra capacità manifatturiera.”Il settore manifatturiero – viene spiegato -, continua a essere un brand dell’Italia nel mondo prima di quelli legati alla moda, all’arte, al turismo e alla  cucina. Il manufacturing e la meccanica di precisione ci sono invidiati in tutto il mondo”. Peccato che – a causa dei costi di produzione, della burocrazia e di un generale ambiente poco favorevole all’industria -, parti importanti della nostra industria negli anni siano migrate all’estero. Una soluzione per sopravvivere ma dagli effetti molto pericolosi. Perché delocalizzare significa prima o poi perdere qualità, competenze, sensibilità tecniche, miglioramenti incrementali, controllo della filiera, a meno di spostare all’estero anche la ricerca. Ma a questo punto – dice Brandolese -,  sarebbe l’impresa italiana tutta a battere un’altra bandiera.

Ecco quindi il dilemma. Che fare per sopravvivere?

Per l’autore del volume (che comprende anche un intervento di Alberto Bombassei e uno di Giovanni Cavallini),  tutto ciò si trasforma in una richiesta: occorre mettere mano per davvero ad una politica industriale che si rispetti e che guardi proprio al mantenimento della manifattura nel nostro Paese. E, quindi, occorre ragionare bene ogni volta che all’orizzonte si presenta la possibilità di delocalizzare. Perché quando si va in questa direzione, dice Brandolese, non si pone attenzione a due  punti essenziali: “Da un lato, lo stretto legame fra processo produttivo e capacità di innovazione sui prodotti; dall’altro, l’incongruenza assoluta tra la scelta di off-shoring e outsourcing e l’enfasi sulla qualità, presentata spesso come elemento qualificante e distintivo della propria produzione”.

Il dilemma dell’impresa italiana

Armando Brandolese

Brioschi, 2012

I mercati sono conversazioni, in inglese, ma anche in buon italiano

I mercati sono conversazioni”, sosteneva l’abate Ferdinando Galiani, economista napoletano apprezzatissimo nei salotti dell’Illuminismo francese. E proprio con questa frase si apre il “Cluetrain manifesto”, il libro di LevineLockeSearis e Weinberger che nel 2000, tra appassionati sostenitori e accesi critici, prova a definire la nuova era della comunicazione Internet che stravolge il marketing e le culture aziendali (“Le aziende devono chiedersi dove finisce la loro cultura d’impresa e se finisce prima che inizi la comunità, allora non hanno mercato”). I percorsi delle idee sono affascinanti. E la relazione tra la lucida consapevolezza di una delle più belle intelligenze del Settecento italiano e la visionarietà dei circoli hi tech americani conferma quanta forza possa ancora avere la tradizione culturale, filosofica europea in tempi incerti in cui memoria e futuro devono costruire nuove sintesi di sviluppo.

Conversazioni”, dunque. L’abate Galiani faceva uso, come tutte le persone colte dell’epoca, di un elegante francese che seduceva madame Louise d’Épinay, la protettrice di Rousseau. Oggi, la lingua dei mercati è l’inglese o, più esattamente, quell’ibrido scarno tra “british english e “american english” che consente alle persone della finanza, del commercio e dell’impresa di parlarsi e capirsi da Hong Kong a New York, da Londra a Mumbay, dal Qatar a Singapore e così via globalizzando. Una sorta di contemporaneo “sabir”, la lingua (una miscela di dialetti italiani e arabi, spagnolo, francese e greco) che nel corso dei secoli aveva consentito ai mercanti e ai marinai di capirsi lungo le sponde e i porti del Mediterraneo.

Inglese, comunque. Lingua del primato dei mercati del mondo globale. Da conoscere. Da parlare bene. Da considerare con attenzione e rispetto per la sua funzione di relazione, di informazione, di comunicazione. Lingua d’affari. Lingua essenziale (nel duplice senso della sua ineliminabile utilità, ma anche del suo essere ridotta al nucleo dei termini indispensabili a scambiare merci, beni, servizi). Ma anche lingua delle relazioni scientifiche, fondamentali. E dei rapporti internazionali.

Ma qui vale la pena fermarsi un attimo a riflettere. Perché una lingua è molto di più di uno strumento di scambio economico e politico. Esprime storia, culture, valori personali e sociali, idee, abitudini, costumi. E’ testimonianza di identità complesse, di modi di intendere il potere, la fede, ma anche il diritto, la speranza, l’amore. Rivela progetti di costruzione e gestione di comunità. Una lingua è vita, è dunque struttura mobile e mutevole, che ha le sue radici e la sua contemporaneità.

L’impresa italiana è flessibile, innovativa, creativa, capace di conquistare mercati non perché i nostri imprenditori parlino inglese (devono parlarlo, ma non sta qui la loro forza). Ma soprattutto perché alle loro spalle c’è una storia culturale, artistica, sociale molteplice e carica di immaginazione. E tutto questo patrimonio culturale si manifesta in una lingua, l’italiano. Una lingua da salvare e valorizzare, dunque. Nelle scuole. E sul lavoro.

E la conversazione? Si fa in inglese, nel mondo. Ma con le lingue nazionali come retroterra contemporaneamente presente, come valore irrinunciabile. Le buone imprese multinazionali italiane sanno, appunto perché abituate alla intelligente flessibilità italiana e all’importanza di cultura, creatività e immaginazione (che si esprimono innanzitutto nelle lingue nazionali), che bisogna essere “brasiliani in Brasile, turchi in Turchia, cinesi in Cina”, “resilienti”, dunque, adattabili ai cambiamenti. E la ricchezza e la competitività dell’imprenditoria e del management italiano stanno appunto nella nostra capacità di non essere vincolati allo schematismo della cultura manageriale d’impronta anglosassone sino a ieri dominante (e oggi in seria difficoltà d’egemonia dopo la Grande Crisi della rapacità finanziaria nata a Londra e New York). E di curare e promuovere, nel nostro fare impresa, valori, culture, lingue dei vari paesi in cui andiamo a investire, esportare, costruire fabbriche e strutture di servizio. Un piccolo primato italiano. Da continuare a fare vivere.

I mercati sono conversazioni”, sosteneva l’abate Ferdinando Galiani, economista napoletano apprezzatissimo nei salotti dell’Illuminismo francese. E proprio con questa frase si apre il “Cluetrain manifesto”, il libro di LevineLockeSearis e Weinberger che nel 2000, tra appassionati sostenitori e accesi critici, prova a definire la nuova era della comunicazione Internet che stravolge il marketing e le culture aziendali (“Le aziende devono chiedersi dove finisce la loro cultura d’impresa e se finisce prima che inizi la comunità, allora non hanno mercato”). I percorsi delle idee sono affascinanti. E la relazione tra la lucida consapevolezza di una delle più belle intelligenze del Settecento italiano e la visionarietà dei circoli hi tech americani conferma quanta forza possa ancora avere la tradizione culturale, filosofica europea in tempi incerti in cui memoria e futuro devono costruire nuove sintesi di sviluppo.

Conversazioni”, dunque. L’abate Galiani faceva uso, come tutte le persone colte dell’epoca, di un elegante francese che seduceva madame Louise d’Épinay, la protettrice di Rousseau. Oggi, la lingua dei mercati è l’inglese o, più esattamente, quell’ibrido scarno tra “british english e “american english” che consente alle persone della finanza, del commercio e dell’impresa di parlarsi e capirsi da Hong Kong a New York, da Londra a Mumbay, dal Qatar a Singapore e così via globalizzando. Una sorta di contemporaneo “sabir”, la lingua (una miscela di dialetti italiani e arabi, spagnolo, francese e greco) che nel corso dei secoli aveva consentito ai mercanti e ai marinai di capirsi lungo le sponde e i porti del Mediterraneo.

Inglese, comunque. Lingua del primato dei mercati del mondo globale. Da conoscere. Da parlare bene. Da considerare con attenzione e rispetto per la sua funzione di relazione, di informazione, di comunicazione. Lingua d’affari. Lingua essenziale (nel duplice senso della sua ineliminabile utilità, ma anche del suo essere ridotta al nucleo dei termini indispensabili a scambiare merci, beni, servizi). Ma anche lingua delle relazioni scientifiche, fondamentali. E dei rapporti internazionali.

Ma qui vale la pena fermarsi un attimo a riflettere. Perché una lingua è molto di più di uno strumento di scambio economico e politico. Esprime storia, culture, valori personali e sociali, idee, abitudini, costumi. E’ testimonianza di identità complesse, di modi di intendere il potere, la fede, ma anche il diritto, la speranza, l’amore. Rivela progetti di costruzione e gestione di comunità. Una lingua è vita, è dunque struttura mobile e mutevole, che ha le sue radici e la sua contemporaneità.

L’impresa italiana è flessibile, innovativa, creativa, capace di conquistare mercati non perché i nostri imprenditori parlino inglese (devono parlarlo, ma non sta qui la loro forza). Ma soprattutto perché alle loro spalle c’è una storia culturale, artistica, sociale molteplice e carica di immaginazione. E tutto questo patrimonio culturale si manifesta in una lingua, l’italiano. Una lingua da salvare e valorizzare, dunque. Nelle scuole. E sul lavoro.

E la conversazione? Si fa in inglese, nel mondo. Ma con le lingue nazionali come retroterra contemporaneamente presente, come valore irrinunciabile. Le buone imprese multinazionali italiane sanno, appunto perché abituate alla intelligente flessibilità italiana e all’importanza di cultura, creatività e immaginazione (che si esprimono innanzitutto nelle lingue nazionali), che bisogna essere “brasiliani in Brasile, turchi in Turchia, cinesi in Cina”, “resilienti”, dunque, adattabili ai cambiamenti. E la ricchezza e la competitività dell’imprenditoria e del management italiano stanno appunto nella nostra capacità di non essere vincolati allo schematismo della cultura manageriale d’impronta anglosassone sino a ieri dominante (e oggi in seria difficoltà d’egemonia dopo la Grande Crisi della rapacità finanziaria nata a Londra e New York). E di curare e promuovere, nel nostro fare impresa, valori, culture, lingue dei vari paesi in cui andiamo a investire, esportare, costruire fabbriche e strutture di servizio. Un piccolo primato italiano. Da continuare a fare vivere.

Il benessere del lavoro è il benessere dell’impresa

Guardare al lavoro e alla produzione, ai loro luoghi, alle persone che li incarnano, appare essere sempre di più come un elemento fondante di un approccio diverso all’impresa e alla sua cultura. Il lavoro inteso come creatività e capacità manifatturiera, come iniziativa e innovatività, sembra essere una lente, fino ad oggi forse un po’ trascurata, attraverso la quale guardare come le imprese oggi – passata la sbornia dell’informatizzazione e della finanziarizzazione a tutti i costi -, riescono non solo a sopravvivere alla crisi ma a creare comunque ricchezza. E’ la cultura d’impresa che si fa cultura del lavoro, anzi che riallaccia fili in parte spezzati con  quella visione del produrre che, fino a qualche tempo fa, era propria dei grandi imprenditori.

E’ importante allora capire come i manager possono guardare oggi al lavoro e, più in generale, al ruolo del cosiddetto “capitale umano” in azienda. Anche nelle realtà medio-piccole che, poi,  sono per davvero quelle che costituiscono il succo della produzione industriale rapportandosi con le realtà più grandi. E’ stato questo l’obiettivo che ha mosso Lidia Galabova, (della Technical University of Sofia) e Linda McKie, (della Durham University), nel loro “The Five Fingers of My Hand”: Human Capital and Well-being in SMEs”, appena uscito su Personnel  Review. Scopo più puntuale dello studio è quello di comprendere l’atteggiamento dei manager nei confronti del “capitale umano” e del benessere in azienda, intesi come fattori che incidono sui risultati dell’impresa stessa. Lo studio si basa sui dati raccolti attraverso 42 interviste semi-strutturate con i dirigenti di PMI di comparti in crescita nel settore dei servizi. La ricerca è stata condotta in tre paesi dell’Unione europea: Scozia (Regno Unito), Finlandia e Bulgaria.

Il risultato al quale le due ricercatrici arrivano è solo apparentemente banale. I dirigenti delle piccole e medie imprese sono naturalmente interessati alle competenze e all’esperienza come elementi chiave del “capitale umano”. Ma  la volontà, la capacità di apprendere e l’entusiasmo “sono – viene spiegato nella ricerca -, spesso considerati più importanti”. Tutto, poi, confluisce in quel “benessere” che in molti casi riesce a fare la differenza fra un’azienda e un’altra.

“The Five Fingers of My Hand”: Human Capital and Well-being in SMEs

Lidia Galabova, Linda McKie

Personnel Review, vol. 42, 6, 2013.

Guardare al lavoro e alla produzione, ai loro luoghi, alle persone che li incarnano, appare essere sempre di più come un elemento fondante di un approccio diverso all’impresa e alla sua cultura. Il lavoro inteso come creatività e capacità manifatturiera, come iniziativa e innovatività, sembra essere una lente, fino ad oggi forse un po’ trascurata, attraverso la quale guardare come le imprese oggi – passata la sbornia dell’informatizzazione e della finanziarizzazione a tutti i costi -, riescono non solo a sopravvivere alla crisi ma a creare comunque ricchezza. E’ la cultura d’impresa che si fa cultura del lavoro, anzi che riallaccia fili in parte spezzati con  quella visione del produrre che, fino a qualche tempo fa, era propria dei grandi imprenditori.

E’ importante allora capire come i manager possono guardare oggi al lavoro e, più in generale, al ruolo del cosiddetto “capitale umano” in azienda. Anche nelle realtà medio-piccole che, poi,  sono per davvero quelle che costituiscono il succo della produzione industriale rapportandosi con le realtà più grandi. E’ stato questo l’obiettivo che ha mosso Lidia Galabova, (della Technical University of Sofia) e Linda McKie, (della Durham University), nel loro “The Five Fingers of My Hand”: Human Capital and Well-being in SMEs”, appena uscito su Personnel  Review. Scopo più puntuale dello studio è quello di comprendere l’atteggiamento dei manager nei confronti del “capitale umano” e del benessere in azienda, intesi come fattori che incidono sui risultati dell’impresa stessa. Lo studio si basa sui dati raccolti attraverso 42 interviste semi-strutturate con i dirigenti di PMI di comparti in crescita nel settore dei servizi. La ricerca è stata condotta in tre paesi dell’Unione europea: Scozia (Regno Unito), Finlandia e Bulgaria.

Il risultato al quale le due ricercatrici arrivano è solo apparentemente banale. I dirigenti delle piccole e medie imprese sono naturalmente interessati alle competenze e all’esperienza come elementi chiave del “capitale umano”. Ma  la volontà, la capacità di apprendere e l’entusiasmo “sono – viene spiegato nella ricerca -, spesso considerati più importanti”. Tutto, poi, confluisce in quel “benessere” che in molti casi riesce a fare la differenza fra un’azienda e un’altra.

“The Five Fingers of My Hand”: Human Capital and Well-being in SMEs

Lidia Galabova, Linda McKie

Personnel Review, vol. 42, 6, 2013.

Machiavelli imprenditore e manager

Capitani d’azienda come capitani coraggiosi. Di questi tempi è certamente così. Anche se occorre stare attenti a non mitizzare troppo figure che, seppur importanti, scontano la varietà delle situazioni e delle tipologie umane. Capire come “comandare” è, però, determinante. Sempre di più in azienda, e non solo, non si comanda per autorità ma per autorevolezza.

E avere come “tutore” Niccolò Machiavelli è certamente il sogno di molti. In parte, adesso, realizzato con “Machiavelli per i manager. Dalla mente più acuta del Rinascimento, massime e sentenze a uso della vita moderna nelle aziende e fuori” a cura di Elena e Luigi Spagnol. Si tratta di un libretto di poco più di un centinaio di pagine denso di frasi machiavellesche, che possono fare da scorta a chi ogni giorno deve gestire, decidere, valutare, predisporre, promuovere, in una parola “comandare” in azienda.

Anche tenendo conto di come il “capo”, il capitano d’azienda, viene visto spesso, a torto o ragione, dai suoi collaboratori. E’ per questo bello e condivisibile, il taglio di lettura che del volumetto dà Piero Ottone nella sua prefazione: “Nel Cinquecento comandavano gli aristocratici: adesso comandano i signori dell’economia, gli uomini dell’industria e della finanza i manager. Cambiano gli attori, ma il copione è lo stesso. Il nuovo principe è il capo dell’azienda. Dalle sue decisioni, forse dai suoi capricci, dipende la sorte di coloro che lavorano per lui, la loro fortuna o la loro disgrazia. Spesso egli dispone di un potere assoluto. Intorno a lui si diffonde pertanto la mentalità cortigiana. Quando egli entra la mattina nel palazzo della sua società, che è l’equivalente dell’antico castello, quando si insedia nella poltrona dietro la sua scrivania, che è l’equivalente del trono, subito si respira nei corridoi e negli uffici un’aria diversa: ci sono quelli che sperano di incontrarlo, che aspettano con ansia la sua chiamata, quelli che lo temono e lo odiano; ci sono i cortigiani pronti all’adulazione, gli infedeli che tramano la congiura. Perché il dilemma, per ogni carrierista intorno a lui, è inesorabile: o se ne conquistano i favori, o lo si abbatte. Tertium non datur”. Machiavelli, dunque, tutto da leggere anche per manager e imprenditori chiamati a compiti sempre più difficili. Proprio Machiavelli scriveva nella sue Istorie Fiorentine: “E’ più facile imparare ad ubbidire che ad comandare”.

Machiavelli per i manager. Dalla mente più acuta del Rinascimento, massime e sentenze a uso della vita moderna nelle aziende e fuori

Elena Spagnol,  Luigi Spagnol

Ponte alle Grazie, 2012.

Capitani d’azienda come capitani coraggiosi. Di questi tempi è certamente così. Anche se occorre stare attenti a non mitizzare troppo figure che, seppur importanti, scontano la varietà delle situazioni e delle tipologie umane. Capire come “comandare” è, però, determinante. Sempre di più in azienda, e non solo, non si comanda per autorità ma per autorevolezza.

E avere come “tutore” Niccolò Machiavelli è certamente il sogno di molti. In parte, adesso, realizzato con “Machiavelli per i manager. Dalla mente più acuta del Rinascimento, massime e sentenze a uso della vita moderna nelle aziende e fuori” a cura di Elena e Luigi Spagnol. Si tratta di un libretto di poco più di un centinaio di pagine denso di frasi machiavellesche, che possono fare da scorta a chi ogni giorno deve gestire, decidere, valutare, predisporre, promuovere, in una parola “comandare” in azienda.

Anche tenendo conto di come il “capo”, il capitano d’azienda, viene visto spesso, a torto o ragione, dai suoi collaboratori. E’ per questo bello e condivisibile, il taglio di lettura che del volumetto dà Piero Ottone nella sua prefazione: “Nel Cinquecento comandavano gli aristocratici: adesso comandano i signori dell’economia, gli uomini dell’industria e della finanza i manager. Cambiano gli attori, ma il copione è lo stesso. Il nuovo principe è il capo dell’azienda. Dalle sue decisioni, forse dai suoi capricci, dipende la sorte di coloro che lavorano per lui, la loro fortuna o la loro disgrazia. Spesso egli dispone di un potere assoluto. Intorno a lui si diffonde pertanto la mentalità cortigiana. Quando egli entra la mattina nel palazzo della sua società, che è l’equivalente dell’antico castello, quando si insedia nella poltrona dietro la sua scrivania, che è l’equivalente del trono, subito si respira nei corridoi e negli uffici un’aria diversa: ci sono quelli che sperano di incontrarlo, che aspettano con ansia la sua chiamata, quelli che lo temono e lo odiano; ci sono i cortigiani pronti all’adulazione, gli infedeli che tramano la congiura. Perché il dilemma, per ogni carrierista intorno a lui, è inesorabile: o se ne conquistano i favori, o lo si abbatte. Tertium non datur”. Machiavelli, dunque, tutto da leggere anche per manager e imprenditori chiamati a compiti sempre più difficili. Proprio Machiavelli scriveva nella sue Istorie Fiorentine: “E’ più facile imparare ad ubbidire che ad comandare”.

Machiavelli per i manager. Dalla mente più acuta del Rinascimento, massime e sentenze a uso della vita moderna nelle aziende e fuori

Elena Spagnol,  Luigi Spagnol

Ponte alle Grazie, 2012.

Il “kalòs kai agathòs” tra museo e fabbrica

Kalòs kai agathòs”, la relazione tra il bello e il buono, l’estetica e l’etica, è una consapevolezza radicata nella cultura occidentale. In tempi di metamorfosi si tratta di rafforzare anche altre relazioni, tra il bello e l’utile, il buono e il produttivo, l’estetica e la competitività. Giocando sulle dimensioni di creatività delle scienze, della filosofia, della letteratura. Sulla ricerca di nuove forme (dunque nuovi materiali, nuovi prodotti, nuove finzioni). E sulle tecnologie relative, elaborate non tanto come tecniche, quanto soprattutto come pensiero e come linguaggio. Una contemporaneità storicamente consapevole e progettualmente politecnica. “Ho imparato che le grandi aziende hanno a cuore l’estetica perché trasmette un messaggio su come l’azienda percepisce se stessa”, sosteneva Steve Jobs. Rilanciando, forse inconsapevolemente, una riflessione di Adriano Olivetti, contenuta nel discorso inaugurale dello stabilimento di Pozzuoli, nel 1955: “Di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno”.

Omaggio alla bellezza esterna. Ma anche incorporazione della bellezza. Estetica e funzionalità, appunto. La riprova sta nei nuovi stabilimenti costruiti negli ultimi anni in Italia: Maserati, Ferrari, Tod’s, Lavazza, Diesel, Cucinelli (“L’alta creatività salverà queste generazioni e le successive”). E Pirelli, a Settimo Torinese, un nuovo stabilimento di produzione di pneumatici segnato da produzioni “premium” (alta gamma, qualità d’eccellenza grazie a sofisticate tecnologie in robot di ultima generazione) e da una “spina”, una struttura progettata da Renzo Piano per contenere laboratori di ricerca, uffici, servizi, biblioteche, spazi di riunione e del tempo libero: un parallelepipedo di vetro e acciaio lungo quattrocento metri, luminoso, aperto sui due stabilimenti produttivi che lo affiancano, con un tetto di pannelli solari. Il tutto attorniato da cinquecento alberi di ciliegi. Una fabbrica bella, appunto. Dove lavorare sia piacevole e dunque più e meglio produttivo. In un contesto “sostenibile”, non solo ambientalmente (la fabbrica ha consumi ridotti di acqua e l’energia viene da fonti rinnovabili) ma anche socialmente. Perchè, spiega Piano, “la scommessa è interpretare la sostenibilità come linguaggio e non solo come tecnica da applicare in maniera più o meno appropriata a un contenitore concepito diversamente”. Anche in questo caso, la cultura del progetto e la cultura del prodotto trovano originale sintesi. In fabbrica, appunto. Ma non solo in fabbrica.

Il ragionamento di Piano si può ripetere infatti anche per l’ultima delle sue opere, il Muse, il Museo della Scienza di Trento, inaugurato sabato 27 luglio. Vetro, legno, acciaio, cemento, una struttura di esposizione e ricerca, una raccolta di materiali per raccontare la natura e gli interventi dell’uomo. “Luogo di incontro tra ricerca e impresa”, dicono i responsabili del Muse, costruito là dove c’era un vecchio stabilimento industriale (ex componenti per pneumatici Michelin) e adatto a rappresentare il passaggio dall’antica economia industriale alla stagione dell’”economia della conoscenza”, che innerva attività produttive che hanno bisogno, proprio in chiave di competitività dei territori, di fare un salto di competenze culturali, tecnologiche, scientifiche.

Un Museo della Scienza, dunque, come strumento di narrazione che lega conoscenza, formazione, produzione. Un sistema aperto su un territorio, il Trentino e il Nord Est, con forte vocazione produttiva. Uno stimolo a costruire, nel corso del tempo, inediti collegamenti tra la scienza e le sue applicazioni.

C’è proprio in questo, un nesso stretto tra luoghi della produzione e luoghi della rappresentazione. Piano ne è ottimo interprete. E sta nelle sue opere, come “la fabbrica bella” e sostenibile e il museo di cui stiamo parlando, non solo la versione contemporanea del “kalòs kai agathòs”, ma anche l’indicazione del buon futuribile italiano: lo sviluppo di qualità ha un’anima tecnologica e, insieme, poetica.

Kalòs kai agathòs”, la relazione tra il bello e il buono, l’estetica e l’etica, è una consapevolezza radicata nella cultura occidentale. In tempi di metamorfosi si tratta di rafforzare anche altre relazioni, tra il bello e l’utile, il buono e il produttivo, l’estetica e la competitività. Giocando sulle dimensioni di creatività delle scienze, della filosofia, della letteratura. Sulla ricerca di nuove forme (dunque nuovi materiali, nuovi prodotti, nuove finzioni). E sulle tecnologie relative, elaborate non tanto come tecniche, quanto soprattutto come pensiero e come linguaggio. Una contemporaneità storicamente consapevole e progettualmente politecnica. “Ho imparato che le grandi aziende hanno a cuore l’estetica perché trasmette un messaggio su come l’azienda percepisce se stessa”, sosteneva Steve Jobs. Rilanciando, forse inconsapevolemente, una riflessione di Adriano Olivetti, contenuta nel discorso inaugurale dello stabilimento di Pozzuoli, nel 1955: “Di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno”.

Omaggio alla bellezza esterna. Ma anche incorporazione della bellezza. Estetica e funzionalità, appunto. La riprova sta nei nuovi stabilimenti costruiti negli ultimi anni in Italia: Maserati, Ferrari, Tod’s, Lavazza, Diesel, Cucinelli (“L’alta creatività salverà queste generazioni e le successive”). E Pirelli, a Settimo Torinese, un nuovo stabilimento di produzione di pneumatici segnato da produzioni “premium” (alta gamma, qualità d’eccellenza grazie a sofisticate tecnologie in robot di ultima generazione) e da una “spina”, una struttura progettata da Renzo Piano per contenere laboratori di ricerca, uffici, servizi, biblioteche, spazi di riunione e del tempo libero: un parallelepipedo di vetro e acciaio lungo quattrocento metri, luminoso, aperto sui due stabilimenti produttivi che lo affiancano, con un tetto di pannelli solari. Il tutto attorniato da cinquecento alberi di ciliegi. Una fabbrica bella, appunto. Dove lavorare sia piacevole e dunque più e meglio produttivo. In un contesto “sostenibile”, non solo ambientalmente (la fabbrica ha consumi ridotti di acqua e l’energia viene da fonti rinnovabili) ma anche socialmente. Perchè, spiega Piano, “la scommessa è interpretare la sostenibilità come linguaggio e non solo come tecnica da applicare in maniera più o meno appropriata a un contenitore concepito diversamente”. Anche in questo caso, la cultura del progetto e la cultura del prodotto trovano originale sintesi. In fabbrica, appunto. Ma non solo in fabbrica.

Il ragionamento di Piano si può ripetere infatti anche per l’ultima delle sue opere, il Muse, il Museo della Scienza di Trento, inaugurato sabato 27 luglio. Vetro, legno, acciaio, cemento, una struttura di esposizione e ricerca, una raccolta di materiali per raccontare la natura e gli interventi dell’uomo. “Luogo di incontro tra ricerca e impresa”, dicono i responsabili del Muse, costruito là dove c’era un vecchio stabilimento industriale (ex componenti per pneumatici Michelin) e adatto a rappresentare il passaggio dall’antica economia industriale alla stagione dell’”economia della conoscenza”, che innerva attività produttive che hanno bisogno, proprio in chiave di competitività dei territori, di fare un salto di competenze culturali, tecnologiche, scientifiche.

Un Museo della Scienza, dunque, come strumento di narrazione che lega conoscenza, formazione, produzione. Un sistema aperto su un territorio, il Trentino e il Nord Est, con forte vocazione produttiva. Uno stimolo a costruire, nel corso del tempo, inediti collegamenti tra la scienza e le sue applicazioni.

C’è proprio in questo, un nesso stretto tra luoghi della produzione e luoghi della rappresentazione. Piano ne è ottimo interprete. E sta nelle sue opere, come “la fabbrica bella” e sostenibile e il museo di cui stiamo parlando, non solo la versione contemporanea del “kalòs kai agathòs”, ma anche l’indicazione del buon futuribile italiano: lo sviluppo di qualità ha un’anima tecnologica e, insieme, poetica.

Creatività e organizzazione. Cosa nasce?

Non c’è dubbio. L’anima dell’innovazione è anche la creatività, la voglia di fare, lo spirito dell’inventare. Ma qualsiasi spirito creativo – per essere anche produttivo, soprattutto dal punto di vista economico e dell’impresa -, deve essere posto in un’organizzazione che ne sappia sfruttare le peculiarità positive, lo incanali lungo la strada giusta, non ne disperda gli spunti ma, al contrario, li riconduca ad uno scopo. Equilibrio instabile, quello della creatività in azienda, esso è alla base di molte innovazioni e, in definitiva, del successo di molte imprese.

Allora, le relazioni fra la creatività nelle aziende, l’organizzazione e la cultura d’impresa presente nelle medesime, sono da capire a fondo per comprendere perché alcune di esse hanno successo e altre no.

E’ ciò che hanno fatto due ricercatori universitari e un consulente d’impresa. Baek-Kyoo Joo (della Winona State University del Minnesota,USA), Baiyin Yang (della Tsinghua University di Pechino) e Gary N. McLean (della McLean Global Consuling di St. Paul, nel Minnesota), nel loro  “Creativity and Human Resource Development: An Integrative Literature Review and a Conceptual Framework for Future Research” appena apparso su Human Resource Development Review.

L’assunto dal quale partono gli autori è che la creatività nelle imprese è aumentata negli ultimi due decenni a causa del turbinio dei cambiamenti nel contesto imprenditoriale e nei mercati, così come per l’esplodere dell’economia basata sulla conoscenza. Ma per capire come oggi creatività e organizzazione si uniscono e a quali risultati arrivino, è importante darsi degli schemi di interpretazione e di analisi.

L’articolo discute quindi la storia e il cambiamento delle interpretazioni e delle ricerche sulla creatività basate su tre punti di vista: le caratteristiche personali di chi in azienda lavora, le prospettive del contesto nel quale le imprese agiscono, le prospettive d’integrazione fra spinte creative e schemi organizzativi.  Ad essere esaminata è perciò la letteratura empirica pubblicata nel 2001-2012. Ne nasce una sintesi, importante e utile, dei metodi con i quali è possibili comprendere a fondo come e perché la creatività nelle imprese può agire con successo.

Download pdf

Creativity and Human Resource Development: An Integrative Literature Review and a Conceptual Framework for Future Research

Baek-Kyoo Joo, Gary N. McLean, Baiyin Yang

Human Resource Development Review, Luglio 2013.

Non c’è dubbio. L’anima dell’innovazione è anche la creatività, la voglia di fare, lo spirito dell’inventare. Ma qualsiasi spirito creativo – per essere anche produttivo, soprattutto dal punto di vista economico e dell’impresa -, deve essere posto in un’organizzazione che ne sappia sfruttare le peculiarità positive, lo incanali lungo la strada giusta, non ne disperda gli spunti ma, al contrario, li riconduca ad uno scopo. Equilibrio instabile, quello della creatività in azienda, esso è alla base di molte innovazioni e, in definitiva, del successo di molte imprese.

Allora, le relazioni fra la creatività nelle aziende, l’organizzazione e la cultura d’impresa presente nelle medesime, sono da capire a fondo per comprendere perché alcune di esse hanno successo e altre no.

E’ ciò che hanno fatto due ricercatori universitari e un consulente d’impresa. Baek-Kyoo Joo (della Winona State University del Minnesota,USA), Baiyin Yang (della Tsinghua University di Pechino) e Gary N. McLean (della McLean Global Consuling di St. Paul, nel Minnesota), nel loro  “Creativity and Human Resource Development: An Integrative Literature Review and a Conceptual Framework for Future Research” appena apparso su Human Resource Development Review.

L’assunto dal quale partono gli autori è che la creatività nelle imprese è aumentata negli ultimi due decenni a causa del turbinio dei cambiamenti nel contesto imprenditoriale e nei mercati, così come per l’esplodere dell’economia basata sulla conoscenza. Ma per capire come oggi creatività e organizzazione si uniscono e a quali risultati arrivino, è importante darsi degli schemi di interpretazione e di analisi.

L’articolo discute quindi la storia e il cambiamento delle interpretazioni e delle ricerche sulla creatività basate su tre punti di vista: le caratteristiche personali di chi in azienda lavora, le prospettive del contesto nel quale le imprese agiscono, le prospettive d’integrazione fra spinte creative e schemi organizzativi.  Ad essere esaminata è perciò la letteratura empirica pubblicata nel 2001-2012. Ne nasce una sintesi, importante e utile, dei metodi con i quali è possibili comprendere a fondo come e perché la creatività nelle imprese può agire con successo.

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Creativity and Human Resource Development: An Integrative Literature Review and a Conceptual Framework for Future Research

Baek-Kyoo Joo, Gary N. McLean, Baiyin Yang

Human Resource Development Review, Luglio 2013.

Contro gli “ignoranti istruiti”

Il futuro passa anche per la rinascita e il consolidamento di un nuovo umanesimo, attento all’uomo e al tutto, ai risvolti dell’economia che non sono solo numeri ma anche persone e voglia di intraprendere. Occorre – si dice – rompere gli schemi, compiere un salto in avanti (ma non nel vuoto), esercitare la fantasia con i piedi ben piantati per terra. E’ il nuovo approccio che sempre di più si sta diffondendo in risposta alla crisi iniziata nel 2008, al buco dell’alta finanza, all’intendere la produzione e l’impresa come altro rispetto alla manifattura e all’iniziativa dei singoli. Tutto questo passa anche per uomini e donne capaci di guardare più in là del loro dito e in grado di sostituire quegli specialisti che, in realtà, appaiono come degli “ignoranti istruiti”.

E’ quanto ha fatto Giuliano da Empoli – scrittore e Presidente del Gabinetto Vieusseux di Firenze –  nel suo “Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo” che rappresenta un’avventura della mente in tutti i mondi della conoscenza umana: dall’arte alla produzione materiale, dalla storia alla politica attuale, dalla filosofia all’economia, passando per l’informatica, per la finanza, per lo sport e per molto altro ancora. Il libro di da Empoli – meno di 150 pagine che si leggono d’un fiato -, racconta come gli specialisti in tutte le discipline abbiano impoverito il futuro della società, della produzione e del lavoro e di come, invece, oggi vi sia una sorta di rivincita di chi – imprenditore, politico, economista, scienziato e filosofo -, riesce a ragionare e ad agire guardando non ai particolari ma all’intero muoversi della realtà nella quale vive e lavora. Nel volume, quindi, si parla di banane e ketchup (perché lo si scoprirà leggendo), ma anche di Ortega y Gasset, Aristotele, Smith, Leonardo da Vinci, Taylor, Jobs e tanti altri sconosciuti specialisti e non specialisti, passando in rassegna tutta la classe vecchia e nuova di politici e di studiosi che hanno messo mano all’economia, all’impresa e  alle istituzioni dell’oggi.

Contro gli specialisti” è una lettura “strana”, diversa, anticonformista dei problemi che stringono la nostra società e il nostro modo di produrre, ma è anche e soprattutto, un grido positivo di fronte alle peripezie alle quali siamo chiamati tutti.

Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo.

Giuliano da Empoli.

Marsilio, 2013.

Il futuro passa anche per la rinascita e il consolidamento di un nuovo umanesimo, attento all’uomo e al tutto, ai risvolti dell’economia che non sono solo numeri ma anche persone e voglia di intraprendere. Occorre – si dice – rompere gli schemi, compiere un salto in avanti (ma non nel vuoto), esercitare la fantasia con i piedi ben piantati per terra. E’ il nuovo approccio che sempre di più si sta diffondendo in risposta alla crisi iniziata nel 2008, al buco dell’alta finanza, all’intendere la produzione e l’impresa come altro rispetto alla manifattura e all’iniziativa dei singoli. Tutto questo passa anche per uomini e donne capaci di guardare più in là del loro dito e in grado di sostituire quegli specialisti che, in realtà, appaiono come degli “ignoranti istruiti”.

E’ quanto ha fatto Giuliano da Empoli – scrittore e Presidente del Gabinetto Vieusseux di Firenze –  nel suo “Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo” che rappresenta un’avventura della mente in tutti i mondi della conoscenza umana: dall’arte alla produzione materiale, dalla storia alla politica attuale, dalla filosofia all’economia, passando per l’informatica, per la finanza, per lo sport e per molto altro ancora. Il libro di da Empoli – meno di 150 pagine che si leggono d’un fiato -, racconta come gli specialisti in tutte le discipline abbiano impoverito il futuro della società, della produzione e del lavoro e di come, invece, oggi vi sia una sorta di rivincita di chi – imprenditore, politico, economista, scienziato e filosofo -, riesce a ragionare e ad agire guardando non ai particolari ma all’intero muoversi della realtà nella quale vive e lavora. Nel volume, quindi, si parla di banane e ketchup (perché lo si scoprirà leggendo), ma anche di Ortega y Gasset, Aristotele, Smith, Leonardo da Vinci, Taylor, Jobs e tanti altri sconosciuti specialisti e non specialisti, passando in rassegna tutta la classe vecchia e nuova di politici e di studiosi che hanno messo mano all’economia, all’impresa e  alle istituzioni dell’oggi.

Contro gli specialisti” è una lettura “strana”, diversa, anticonformista dei problemi che stringono la nostra società e il nostro modo di produrre, ma è anche e soprattutto, un grido positivo di fronte alle peripezie alle quali siamo chiamati tutti.

Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo.

Giuliano da Empoli.

Marsilio, 2013.

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