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Quel filo che lega Kant, Marc’Aurelio e l’impresa

Fa l’imprenditore dell’abbigliamento, un caso di successo internazionale del made in Italy. Ha fabbrica in un borgo trecentesco dalle parti di Perugia. Dedica tempo, ogni giorno, alla lettura d’un libro, dichiarando d’appassionarsi alle “Memorie di Adriano” della Yourcenar e ai dialoghi di Platone su Socrate, ai “Ricordi” di Marco Aurelio e ai “Quaderni dal carcere” di Gramsci, a san Benedetto che insegna a  essere “rigoroso e dolce, esigente maestro e amabile padre” e a Kant ammirato “dal cielo stellato sopra di me e dalla legge morale dentro di me”, alla lezione della tolleranza di Federico II e a quel passo della Bibbia in cui il profeta Ezechiele chiede alla sentinella: “Quanto è lunga, la notte?”, per sentirsi rispondere: “Non è né lunga né corta, ma l’aurora sta per arrivare”.

Si chiama Brunello Cucinelli e a chi lo intervista (“La Stampa”, 15 giugno) testimonia l’importanza di una grande passione culturale per fare bene l’imprenditore. Serve cultura, infatti, per essere competitivi. Cultura tecnica (le produzioni, i prodotti). E cultura generale (i contesti, le visioni del futuro, l’anima di chi produce e di chi consuma beni e servizi). L’innovazione si esprime infatti attraverso le tecnologie. Ma le tecnologie non sono altro che pensiero che lega i percorsi della mente alle capacità delle mani. Ed è proprio la lunga storia dell’impresa in Italia a documentare come la chiave del successo stia sempre nella straordinaria capacità adattativa delle produzioni alle mutazioni di bisogni, culture, costumi e consumi dei vari pubblici, su mercati in continuo cambiamento.

Cucinelli, da imprenditore “umanista”, è l’ennesima riprova della correttezza della definizione di un grande storico come Carlo M. Cipolla sull’attitudine italiana “a fare cose belle, che piacciono al mondo”. Ed è necessario avere nel cuore profondo della propria identità i colori di Tiziano, le eresie sulla luce di Caravaggio, la curiosità spregiudicata di Giordano Bruno e Galileo, le passioni morali di Leopardi e lo scrupolo della ricerca di Giulio Natta (anche senza esplicita consapevolezza degli esatti rimandi culturali) per potere fare crescere imprese che proprio su gusto, cultura, qualità fondano la propria ragione competitiva.

Tecnica uguale pensiero”, scriveva appunto “Il Sole24Ore” recensendo, pochi mesi fa (4 novembre 2012) la ripubblicazione, da parte di Bollati Boringhieri, della “Storia della tecnologia” curata da Singer, Holmyard, Hall e Williams nel 1954, un “classico” che ha ancora molto da dire. Cosa? Per esempio, che l’istruzione scientifica delle nuove generazioni non coincide con la semplice formazione tecnica, che la tecnologia ha strettissime parentele con la scienza, declinandola nella dimensione della “ricerca applicata” e che sono necessarie, certamente, le capacità di approfondimento specialistico, ma senza mai dimenticare l’essenzialità della visione generale. Come ogni buon filosofo della scienza sa benissimo (e come dimenticano i fanatici della tecnologia).

Importante, dunque, ragionare in modo aperto di tecnologie, di maggiore diffusione della cultura scientifica, di più fertili relazioni tra formazione universitaria e bisogni del mercato del lavoro, cioè delle imprese. Senza dimenticare, appunto, la testimonianza di Cucinelli (e le storie imprenditoriali Olivetti e Pirelli, per ampiare il discorso). E senza cadere nella trappola della contrapposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica, ma facendo semmai tesoro dell’esperienza maturata nelle “grandes écoles” francesi, dove gli ingegneri hanno, tra le materie obbligatorie di studio, la filosofia, il teatro, la scrittura. Pensiero generale, appunto. Per non essere tecnici. Ma buoni tecnologi, capaci di pensare una macchina, i suoi effetti produttivi, le relazioni con chi le adopera, le ricadute economiche, sociali, ambientali. Come sanno bene anche i Politecnici italiani. Cultura è impresa. Così come impresa è cultura.

Fa l’imprenditore dell’abbigliamento, un caso di successo internazionale del made in Italy. Ha fabbrica in un borgo trecentesco dalle parti di Perugia. Dedica tempo, ogni giorno, alla lettura d’un libro, dichiarando d’appassionarsi alle “Memorie di Adriano” della Yourcenar e ai dialoghi di Platone su Socrate, ai “Ricordi” di Marco Aurelio e ai “Quaderni dal carcere” di Gramsci, a san Benedetto che insegna a  essere “rigoroso e dolce, esigente maestro e amabile padre” e a Kant ammirato “dal cielo stellato sopra di me e dalla legge morale dentro di me”, alla lezione della tolleranza di Federico II e a quel passo della Bibbia in cui il profeta Ezechiele chiede alla sentinella: “Quanto è lunga, la notte?”, per sentirsi rispondere: “Non è né lunga né corta, ma l’aurora sta per arrivare”.

Si chiama Brunello Cucinelli e a chi lo intervista (“La Stampa”, 15 giugno) testimonia l’importanza di una grande passione culturale per fare bene l’imprenditore. Serve cultura, infatti, per essere competitivi. Cultura tecnica (le produzioni, i prodotti). E cultura generale (i contesti, le visioni del futuro, l’anima di chi produce e di chi consuma beni e servizi). L’innovazione si esprime infatti attraverso le tecnologie. Ma le tecnologie non sono altro che pensiero che lega i percorsi della mente alle capacità delle mani. Ed è proprio la lunga storia dell’impresa in Italia a documentare come la chiave del successo stia sempre nella straordinaria capacità adattativa delle produzioni alle mutazioni di bisogni, culture, costumi e consumi dei vari pubblici, su mercati in continuo cambiamento.

Cucinelli, da imprenditore “umanista”, è l’ennesima riprova della correttezza della definizione di un grande storico come Carlo M. Cipolla sull’attitudine italiana “a fare cose belle, che piacciono al mondo”. Ed è necessario avere nel cuore profondo della propria identità i colori di Tiziano, le eresie sulla luce di Caravaggio, la curiosità spregiudicata di Giordano Bruno e Galileo, le passioni morali di Leopardi e lo scrupolo della ricerca di Giulio Natta (anche senza esplicita consapevolezza degli esatti rimandi culturali) per potere fare crescere imprese che proprio su gusto, cultura, qualità fondano la propria ragione competitiva.

Tecnica uguale pensiero”, scriveva appunto “Il Sole24Ore” recensendo, pochi mesi fa (4 novembre 2012) la ripubblicazione, da parte di Bollati Boringhieri, della “Storia della tecnologia” curata da Singer, Holmyard, Hall e Williams nel 1954, un “classico” che ha ancora molto da dire. Cosa? Per esempio, che l’istruzione scientifica delle nuove generazioni non coincide con la semplice formazione tecnica, che la tecnologia ha strettissime parentele con la scienza, declinandola nella dimensione della “ricerca applicata” e che sono necessarie, certamente, le capacità di approfondimento specialistico, ma senza mai dimenticare l’essenzialità della visione generale. Come ogni buon filosofo della scienza sa benissimo (e come dimenticano i fanatici della tecnologia).

Importante, dunque, ragionare in modo aperto di tecnologie, di maggiore diffusione della cultura scientifica, di più fertili relazioni tra formazione universitaria e bisogni del mercato del lavoro, cioè delle imprese. Senza dimenticare, appunto, la testimonianza di Cucinelli (e le storie imprenditoriali Olivetti e Pirelli, per ampiare il discorso). E senza cadere nella trappola della contrapposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica, ma facendo semmai tesoro dell’esperienza maturata nelle “grandes écoles” francesi, dove gli ingegneri hanno, tra le materie obbligatorie di studio, la filosofia, il teatro, la scrittura. Pensiero generale, appunto. Per non essere tecnici. Ma buoni tecnologi, capaci di pensare una macchina, i suoi effetti produttivi, le relazioni con chi le adopera, le ricadute economiche, sociali, ambientali. Come sanno bene anche i Politecnici italiani. Cultura è impresa. Così come impresa è cultura.

Quale politica industriale?

L’industria italiana perde competitività, in tutti i comparti i livelli produttivi sono inferiori a quelli precedenti la crisi e, con l’eccezione dell’alimentare e del farmaceutico, la perdita di produzione ha assunto dimensioni preoccupanti. Accanto agli effetti della congiuntura, c’è poi il declinare storico del tessile e delle calzature, ma anche quelli di settori chiave come l’elettronica e gli autoveicoli. E’ di fronte ad un quadro di questo genere – che mina alle fondamenta la stessa cultura del fare impresa in Italia -,  che da tempo è scattata una sola domanda: che fare?

Fra le risposte, è da tenere in particolare conto quanto arriva da un gruppo di otto ricercatori di Banca d’Italia che in uno studio sull’evoluzione del sistema industriale italiano appena pubblicato propongono tre linee d’azione per tentare di risollevare le sorti del nostro sistema produttivo.

Antonio Accetturo, Antonio Bassanetti, Matteo Bugamelli, Ivan Faiella, Paolo Finaldi Russo, Daniele Franco, Silvia Giacomelli e Massimo Omiccioli – nel loro “Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi” – partono da una constatazione di fondo: nel 2012 l’industria ha prodotto 257 miliardi di valore aggiunto, occupato 4,7 milioni di addetti, è una fonte “fondamentale di innovazione e competitività” (con oltre il 70% della spesa per ricerca e sviluppo del settore privato) e ha “un ruolo decisivo nell’equilibrio dei conti con l’estero”. Quindi non si può rimanere a guardare.

Da qui le proposte. Prima di tutto fare selezione cioè “intervenire sui meccanismi di allocazione delle risorse dai settori e dalle imprese meno produttive a quelli più produttivi, dalle lavorazioni in cui la pressione competitiva dei paesi emergenti non è sostenibile ad altre più avanzate e complesse”. Un compito che passa dalla revisione del sistema di ammortizzatori sociali e delle  politiche attive per il lavoro, dalla revisione delle capacità del sistema finanziario, dal rifacimento della tassazione d’impresa. In secondo luogo, “vanno ridotti i costi sopportati dalle imprese italiane” (energia, burocrazia, infrastrutture e servizi pubblici sono sul banco degli imputati). Terzo, “occorre rendere le politiche industriali meno invasive e frammentarie”, che significa, di fatto, mirare meglio gli interventi, puntando sulla crescita delle dimensioni, sulla R&S ma anche su un riassetto dell’attività pubblica di sostegno all’internazionalizzazione.

Certo, si tratta di proposte condensate in 70 pagine di ragionamenti, numeri e grafici. Ma si tratta di idee chiare. Quello che ci vuole per iniziare a capire di più.

Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi

Antonio Accetturo, Antonio Bassanetti, Matteo Bugamelli, Ivan Faiella, Paolo Finaldi Russo, Daniele Franco, Silvia Giacomelli, Massimo Omiccioli

Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza (Occasional papers), 193, luglio, 2013

L’industria italiana perde competitività, in tutti i comparti i livelli produttivi sono inferiori a quelli precedenti la crisi e, con l’eccezione dell’alimentare e del farmaceutico, la perdita di produzione ha assunto dimensioni preoccupanti. Accanto agli effetti della congiuntura, c’è poi il declinare storico del tessile e delle calzature, ma anche quelli di settori chiave come l’elettronica e gli autoveicoli. E’ di fronte ad un quadro di questo genere – che mina alle fondamenta la stessa cultura del fare impresa in Italia -,  che da tempo è scattata una sola domanda: che fare?

Fra le risposte, è da tenere in particolare conto quanto arriva da un gruppo di otto ricercatori di Banca d’Italia che in uno studio sull’evoluzione del sistema industriale italiano appena pubblicato propongono tre linee d’azione per tentare di risollevare le sorti del nostro sistema produttivo.

Antonio Accetturo, Antonio Bassanetti, Matteo Bugamelli, Ivan Faiella, Paolo Finaldi Russo, Daniele Franco, Silvia Giacomelli e Massimo Omiccioli – nel loro “Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi” – partono da una constatazione di fondo: nel 2012 l’industria ha prodotto 257 miliardi di valore aggiunto, occupato 4,7 milioni di addetti, è una fonte “fondamentale di innovazione e competitività” (con oltre il 70% della spesa per ricerca e sviluppo del settore privato) e ha “un ruolo decisivo nell’equilibrio dei conti con l’estero”. Quindi non si può rimanere a guardare.

Da qui le proposte. Prima di tutto fare selezione cioè “intervenire sui meccanismi di allocazione delle risorse dai settori e dalle imprese meno produttive a quelli più produttivi, dalle lavorazioni in cui la pressione competitiva dei paesi emergenti non è sostenibile ad altre più avanzate e complesse”. Un compito che passa dalla revisione del sistema di ammortizzatori sociali e delle  politiche attive per il lavoro, dalla revisione delle capacità del sistema finanziario, dal rifacimento della tassazione d’impresa. In secondo luogo, “vanno ridotti i costi sopportati dalle imprese italiane” (energia, burocrazia, infrastrutture e servizi pubblici sono sul banco degli imputati). Terzo, “occorre rendere le politiche industriali meno invasive e frammentarie”, che significa, di fatto, mirare meglio gli interventi, puntando sulla crescita delle dimensioni, sulla R&S ma anche su un riassetto dell’attività pubblica di sostegno all’internazionalizzazione.

Certo, si tratta di proposte condensate in 70 pagine di ragionamenti, numeri e grafici. Ma si tratta di idee chiare. Quello che ci vuole per iniziare a capire di più.

Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi

Antonio Accetturo, Antonio Bassanetti, Matteo Bugamelli, Ivan Faiella, Paolo Finaldi Russo, Daniele Franco, Silvia Giacomelli, Massimo Omiccioli

Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza (Occasional papers), 193, luglio, 2013

Innovare come e perché

Innovare oppure morire. La sintesi – estrema – della condizione in cui si trova tanta parte (non tutta), del sistema industriale italiano può essere questa. Siamo, non è un segreto, in carenza d’innovazione per tanti motivi. Ciò che occorre, è capire come agire per colmare il divario che ci separa dall’industria che, invece, ha fatto dell’innovazione il suo cavallo di battaglia. Partendo, per esempio, dal concetto di open innovation coniato da Henry Chesbrough di cui che recentemente è uscito in Italia “Open. Modelli di business per l’innovazione”.

Chesbrough è direttore esecutivo del Center of the Open Innovation e professore alla Haas School of Business, dell’Università di Berkeley in California, ma soprattutto è stato capace di raccordare teoria e pratica per dare indicazioni nuove a manager e imprenditori.

Open innovation, dunque, cioè l’idea secondo la quale in un mondo in cui le fonti della conoscenza sono sempre più distribuite e diffuse, per spingere la crescita bisogna cogliere le buone opportunità al di fuori delle mura aziendali. Detto in altre parole, secondo Chesbrough, le imprese – di ogni dimensione – devono imparare a gestire un processo innovativo “aperto” agli stimoli esterni, capace al contempo di esportare quelle idee che all’interno non verrebbero messe a frutto. Dalla teoria, come è ovvio, occorrono però strumenti ed esempi per passare alla pratica.

Ed è proprio ciò che indica Chesbrough nella sua ultima fatica. “Open” – 280 pagine nella sua edizione italiana -, contiene due cose: una serie di strumenti utili per capire ostacoli e rischi del “percorso di apertura” di un’impresa all’innovazione e una serie di esempi di aziende che questo percorso lo hanno già intrapreso. Si parla così di CR Firenze, Ferrovie dello Stato e SIA/SSB (che hanno avuto una spinta innovativa dal cambiamento di alcune direttive europee), oppure di Intesa Sanpaolo (spinta a cambiare dal cambiamento dell’assetto societario), ma anche di Almaviva, Elsag e Xerox (che hanno innovato condividendo i rischi con i clienti), e di piccole realtà come EDRA e Loccioni (che sono cambiate per distinguersi e competere con imprese molto più grandi di loro). E altri casi toccati sono quelli di STMicroelectronics, Fiat, Brembo e Tiscali, Finmeccanica.

“Open”, quindi, è tutto da leggere. E da mettere in pratica. Partendo dalle peculiarità delle imprese nazionali.

Open. Modelli di business per l’innovazione

Henry Chesbrough

Egea, 2013.

Innovare oppure morire. La sintesi – estrema – della condizione in cui si trova tanta parte (non tutta), del sistema industriale italiano può essere questa. Siamo, non è un segreto, in carenza d’innovazione per tanti motivi. Ciò che occorre, è capire come agire per colmare il divario che ci separa dall’industria che, invece, ha fatto dell’innovazione il suo cavallo di battaglia. Partendo, per esempio, dal concetto di open innovation coniato da Henry Chesbrough di cui che recentemente è uscito in Italia “Open. Modelli di business per l’innovazione”.

Chesbrough è direttore esecutivo del Center of the Open Innovation e professore alla Haas School of Business, dell’Università di Berkeley in California, ma soprattutto è stato capace di raccordare teoria e pratica per dare indicazioni nuove a manager e imprenditori.

Open innovation, dunque, cioè l’idea secondo la quale in un mondo in cui le fonti della conoscenza sono sempre più distribuite e diffuse, per spingere la crescita bisogna cogliere le buone opportunità al di fuori delle mura aziendali. Detto in altre parole, secondo Chesbrough, le imprese – di ogni dimensione – devono imparare a gestire un processo innovativo “aperto” agli stimoli esterni, capace al contempo di esportare quelle idee che all’interno non verrebbero messe a frutto. Dalla teoria, come è ovvio, occorrono però strumenti ed esempi per passare alla pratica.

Ed è proprio ciò che indica Chesbrough nella sua ultima fatica. “Open” – 280 pagine nella sua edizione italiana -, contiene due cose: una serie di strumenti utili per capire ostacoli e rischi del “percorso di apertura” di un’impresa all’innovazione e una serie di esempi di aziende che questo percorso lo hanno già intrapreso. Si parla così di CR Firenze, Ferrovie dello Stato e SIA/SSB (che hanno avuto una spinta innovativa dal cambiamento di alcune direttive europee), oppure di Intesa Sanpaolo (spinta a cambiare dal cambiamento dell’assetto societario), ma anche di Almaviva, Elsag e Xerox (che hanno innovato condividendo i rischi con i clienti), e di piccole realtà come EDRA e Loccioni (che sono cambiate per distinguersi e competere con imprese molto più grandi di loro). E altri casi toccati sono quelli di STMicroelectronics, Fiat, Brembo e Tiscali, Finmeccanica.

“Open”, quindi, è tutto da leggere. E da mettere in pratica. Partendo dalle peculiarità delle imprese nazionali.

Open. Modelli di business per l’innovazione

Henry Chesbrough

Egea, 2013.

Ulisse politecnico per la sintesi di nuove culture

Il vero sapere, spiega Giulio Giorello, filosofo della scienza tra i più autorevoli in Europa, somiglia a Ulisse: “Un poeta che ha il coraggio di navigare sotto costellazioni diverse da quelle dei pregiudizi conosciuti”. Ed ecco dunque l’obiettivo: “Stipulare una sorta di nuovo patto, una inedita alleanza tra chi sviluppa la conoscenza fin quasi al confine delle capacità del nostro pensiero e chi nutre una testarda volontà di comprendere i segreti della filosofia e dell’arte” (Corriere della Sera, 11 luglio). Un patto, insomma, tra lo scienziato le l’artista. Un esempio di “cultura politecnica”. Nella italianissima accezione del miglior Umanesimo, che viveva di sintesi tra saperi diversi, secondo la lezione di Piero della Francesca (straordinario matematico, oltre che grande pittore), Leon Battista Alberti, Leonardo e così via continuando, sino al corso controverso del Novecento, quando le conoscenze umanistiche e quelle scientifiche si separano e si afferma la intollerabile vulgata delle “due culture”. Adesso, invece, quei saperi vanno ricomposti. Per dare risposte alla complessità della Grande Crisi, che ha messo in discussione i tradizionali paradigmi della produzione, dello scambio, del consumo, e impone di trovare una migliore sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo economico.

E’ questa, infatti, la nuova sfida della cultura d’impresa. Avere una strategia di scoperta di nuovi punti di vista, di originali modi di costruire ricchezza e lavoro. Acquisire dimestichezza con i processi tipici della ricerca scientifica (fare ipotesi, trovare conferme, sottoporle alla “prova dell’errore” secondo i metodi della “falsificazione” cari al pensiero di Karl Popper, andare avanti verso nuove sintesi e così via all’infinito). E impegnarsi nei processi di produzione di beni e servizi con l’occhio vigile al cambiamento, alla trasformazione, ai nuovi equilibri. Cultura d’impresa come cultura della metamorfosi.

Servono, lungo questa strada, ingegneri, chimici, fisici, biologi, matematici, ben più numerosi di quelli che l’università italiana sforna ogni anno (le imprese italiane avrebbero bisogno di altri 40mila laureati “tecnici”). Ma anche filosofi capaci di decrittare la complessità. E umanisti in grado di lavorare con i segni dell’arte contemporanea, che individuano il mutare delle relazioni, dei bisogni, dei sogni, dei loro simboli. Servono, in altri termini, ingegneri filosofi, proprio come la migliore cultura italiana è stata tradizionalmente in grado di offrire alle proprie imprese, ai laboratori di ricerca, ai mercati, al mondo. E’ questo il senso, d’altronde, della scelta fatta da tempo dai Politecnici di Milano e Torino, scuole d’eccellenza per formare classe dirigente, di avviare dei sofisticati corsi di filosofia e di collaborare, per esempio, con imprese e fondazioni scientifiche e con una grande istituzione culturale come il Piccolo Teatro di Milano, per una serie di iniziative battezzate “Teatro Scienza”. Indagine sulla conoscenza. E rappresentazione.

Ci sono d’altronde proprio parole che rivelano le sorprendenti sinergie: “laboratorio”, si dice, per parlare di teatro, di università, di centri di ricerca nelle strutture di formazione e in quelle di produzione. Il laboratorio del Piccolo. Il laboratorio del Politecnico. Il laboratorio della Pirelli. Pensare, progettare, fare, raccontare.

In questo senso va intesa l’innovazione. Che non significa nuove tecnologia. Ma innanzitutto nuovo pensiero, nuovo punto di vista, nuove relazioni di senso e rappresentazione. Un pensiero che elabora anche tecnologie e se ne serve. Intelligenza. E strumento. Mestiere da ingegneri filosofi, appunto. E da conseguenti costruttori. Un “Ulisse politecnico”.

Il vero sapere, spiega Giulio Giorello, filosofo della scienza tra i più autorevoli in Europa, somiglia a Ulisse: “Un poeta che ha il coraggio di navigare sotto costellazioni diverse da quelle dei pregiudizi conosciuti”. Ed ecco dunque l’obiettivo: “Stipulare una sorta di nuovo patto, una inedita alleanza tra chi sviluppa la conoscenza fin quasi al confine delle capacità del nostro pensiero e chi nutre una testarda volontà di comprendere i segreti della filosofia e dell’arte” (Corriere della Sera, 11 luglio). Un patto, insomma, tra lo scienziato le l’artista. Un esempio di “cultura politecnica”. Nella italianissima accezione del miglior Umanesimo, che viveva di sintesi tra saperi diversi, secondo la lezione di Piero della Francesca (straordinario matematico, oltre che grande pittore), Leon Battista Alberti, Leonardo e così via continuando, sino al corso controverso del Novecento, quando le conoscenze umanistiche e quelle scientifiche si separano e si afferma la intollerabile vulgata delle “due culture”. Adesso, invece, quei saperi vanno ricomposti. Per dare risposte alla complessità della Grande Crisi, che ha messo in discussione i tradizionali paradigmi della produzione, dello scambio, del consumo, e impone di trovare una migliore sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo economico.

E’ questa, infatti, la nuova sfida della cultura d’impresa. Avere una strategia di scoperta di nuovi punti di vista, di originali modi di costruire ricchezza e lavoro. Acquisire dimestichezza con i processi tipici della ricerca scientifica (fare ipotesi, trovare conferme, sottoporle alla “prova dell’errore” secondo i metodi della “falsificazione” cari al pensiero di Karl Popper, andare avanti verso nuove sintesi e così via all’infinito). E impegnarsi nei processi di produzione di beni e servizi con l’occhio vigile al cambiamento, alla trasformazione, ai nuovi equilibri. Cultura d’impresa come cultura della metamorfosi.

Servono, lungo questa strada, ingegneri, chimici, fisici, biologi, matematici, ben più numerosi di quelli che l’università italiana sforna ogni anno (le imprese italiane avrebbero bisogno di altri 40mila laureati “tecnici”). Ma anche filosofi capaci di decrittare la complessità. E umanisti in grado di lavorare con i segni dell’arte contemporanea, che individuano il mutare delle relazioni, dei bisogni, dei sogni, dei loro simboli. Servono, in altri termini, ingegneri filosofi, proprio come la migliore cultura italiana è stata tradizionalmente in grado di offrire alle proprie imprese, ai laboratori di ricerca, ai mercati, al mondo. E’ questo il senso, d’altronde, della scelta fatta da tempo dai Politecnici di Milano e Torino, scuole d’eccellenza per formare classe dirigente, di avviare dei sofisticati corsi di filosofia e di collaborare, per esempio, con imprese e fondazioni scientifiche e con una grande istituzione culturale come il Piccolo Teatro di Milano, per una serie di iniziative battezzate “Teatro Scienza”. Indagine sulla conoscenza. E rappresentazione.

Ci sono d’altronde proprio parole che rivelano le sorprendenti sinergie: “laboratorio”, si dice, per parlare di teatro, di università, di centri di ricerca nelle strutture di formazione e in quelle di produzione. Il laboratorio del Piccolo. Il laboratorio del Politecnico. Il laboratorio della Pirelli. Pensare, progettare, fare, raccontare.

In questo senso va intesa l’innovazione. Che non significa nuove tecnologia. Ma innanzitutto nuovo pensiero, nuovo punto di vista, nuove relazioni di senso e rappresentazione. Un pensiero che elabora anche tecnologie e se ne serve. Intelligenza. E strumento. Mestiere da ingegneri filosofi, appunto. E da conseguenti costruttori. Un “Ulisse politecnico”.

Ad ogni impresa la sua conoscenza e la sua innovazione

La capacità di innovare e di migliorare la conoscenza del mondo in cui ci si muove, sono due degli strumenti che rendono più forte l’impresa. Soprattutto in un momento – come quello che l’economia e la produzione stanno vivendo -, nel quale sempre di più “chi sta fermo retrocede”.  Ma come innovare? E come conoscere meglio? Soprattutto, poi, c’è da chiedersi se l’innovazione e le metodologie della conoscenza siano uguali per tutti, anche prescindendo dal tipo di impresa che si impegna in un percorso di cambiamento.

Ad esplorare questo campo della gestione  della cultura d’impresa ci si sono provati David Price, Michael Stoica e Robert J. Boncella tre ricercatori della Washburn University (di Topeka nel Kansas) con il loro “The relationship between innovation, knowledge, and performance in family and non-family firms: an analysis of SMEs” pubblicato nello scorso giugno dal Journal of Innovation and Entrepreneurship.

Lo studio ragiona sul rapporto tra innovazione e conoscenza nelle imprese familiari e in quelle “non-familiari” e sui riflessi che questo ha in termini di risultati d’impresa oltre che di approccio alle decisioni gestionali. A far da base al ragionamento l’analisi dei dati provenienti da 430 piccole e medie imprese di tutti i comparti produttivi.

I tre studiosi del Kansas arrivano ad una conclusione che solo apparentemente è ovvia: innovazione e conoscenza possono essere per davvero strumenti di vantaggio competitivo per le imprese; per tutte, ma soprattutto per quelle medio-piccole. Ma è dal delicato equilibrio fra gestione aziendale, spirito e cultura d’impresa, coinvolgimento dei collaboratori, attenzione al mercato e alle tecnologie che può nascere per davvero il successo. La conoscenza fine a se’ stessa non basta, così come l’innovazione avulsa dall’azienda nella quale dovrebbe essere applicata.  Senza contare che – come spiegano i tre autori – ogni azienda e ogni imprenditore riescono a compiere una particolare sintesi di conoscenze e innovazioni anche partendo da una base comune ad altre aziende e altri imprenditori. E, forse, è in questo che si distingue lo spirito proprio di ogni impresa: la capacità di creare qualcosa di nuovo partendo dall’esistente.

The relationship between innovation, knowledge, and performance in family and non-family firms: an analysis of SMEs

David Price, Michael Stoica e Robert J. Boncella

Journal of Innovation and Entrepreneurship, giugno 2013

La capacità di innovare e di migliorare la conoscenza del mondo in cui ci si muove, sono due degli strumenti che rendono più forte l’impresa. Soprattutto in un momento – come quello che l’economia e la produzione stanno vivendo -, nel quale sempre di più “chi sta fermo retrocede”.  Ma come innovare? E come conoscere meglio? Soprattutto, poi, c’è da chiedersi se l’innovazione e le metodologie della conoscenza siano uguali per tutti, anche prescindendo dal tipo di impresa che si impegna in un percorso di cambiamento.

Ad esplorare questo campo della gestione  della cultura d’impresa ci si sono provati David Price, Michael Stoica e Robert J. Boncella tre ricercatori della Washburn University (di Topeka nel Kansas) con il loro “The relationship between innovation, knowledge, and performance in family and non-family firms: an analysis of SMEs” pubblicato nello scorso giugno dal Journal of Innovation and Entrepreneurship.

Lo studio ragiona sul rapporto tra innovazione e conoscenza nelle imprese familiari e in quelle “non-familiari” e sui riflessi che questo ha in termini di risultati d’impresa oltre che di approccio alle decisioni gestionali. A far da base al ragionamento l’analisi dei dati provenienti da 430 piccole e medie imprese di tutti i comparti produttivi.

I tre studiosi del Kansas arrivano ad una conclusione che solo apparentemente è ovvia: innovazione e conoscenza possono essere per davvero strumenti di vantaggio competitivo per le imprese; per tutte, ma soprattutto per quelle medio-piccole. Ma è dal delicato equilibrio fra gestione aziendale, spirito e cultura d’impresa, coinvolgimento dei collaboratori, attenzione al mercato e alle tecnologie che può nascere per davvero il successo. La conoscenza fine a se’ stessa non basta, così come l’innovazione avulsa dall’azienda nella quale dovrebbe essere applicata.  Senza contare che – come spiegano i tre autori – ogni azienda e ogni imprenditore riescono a compiere una particolare sintesi di conoscenze e innovazioni anche partendo da una base comune ad altre aziende e altri imprenditori. E, forse, è in questo che si distingue lo spirito proprio di ogni impresa: la capacità di creare qualcosa di nuovo partendo dall’esistente.

The relationship between innovation, knowledge, and performance in family and non-family firms: an analysis of SMEs

David Price, Michael Stoica e Robert J. Boncella

Journal of Innovation and Entrepreneurship, giugno 2013

Guardare al futuro in 11 modi diversi

Che fare per andare avanti? La domanda è una di quelle che aziende e imprenditori, cittadini e Istituzioni si pongono sempre più spesso. La risposta è complessa, non univoca, necessariamente composta da più parti, coinvolge aspetti tecnici ma anche cultura del fare impresa così come del vivere sociale.

Servono, quindi, strumenti per ragionare in maniera differente da prima. Come “11 idee per l’Italia” appena pubblicato da Marsilio con la prefazione di Aldo Bonomi che scrive: “Per me quello che il lettore ha in mano è, in primo luogo, un repertorio di tracce di futuro”. Anche per le imprese, così come per l’economia in senso più lato. E partendo da una constatazione: qui non si tratta di affrontare una crisi e basta, ma una cesura storica. E non occorre pensare alla crescita, ma allo sviluppo (cosa ben più complessa e affascinante).

A cimentarsi con le idee che potrebbero essere valide per un compito di questo genere, sono autori sui generis (nel senso che tutti di mestiere fanno anche altro oltre che scrivere), che avanzano 11 proposte su altrettanti temi dell’economia e della società, anche inusuali. Si tratta, per esempio, dell’idea di riciclare i capannoni e i siti industriali dismessi per eventi culturali (Mario Brunello), di applicare alle carceri la sperimentazione di nuovi modelli abitativi dando anche una formazione in più ai detenuti (Aldo Cibic), di passare dai contratti di lavoro collettivi al “contratto personale” fra imprenditore e lavoratore (Gigi Copiello e Luca Vignaga), di assumere i grandi eventi come motore di sviluppo dell’economia nazionale e locale (Roberto Daneo), di razionalizzazione l’intervento delle Amministrazioni Locali, con gli esempi di chi lo ha già fatto (Silvia Fattore), di metter mano razionalizzandolo al sistema-moda in Italia dandogli  connotati più economici ed efficienti (Maria Luisa Frisa), ugualmente di lavorare per una maggiore efficienza economica del sistema museale nazionale sfruttando meglio le sue ricadute economiche (Guido Guerzoni). Ma il libro contiene anche proposte su come “salvare” le banche italiane collegandole all’edilizia attraverso il social housing (Massimo Malvestio), su come “comunicare” meglio l’Italia abbandonando gli stereotipi e guardando di più alla produzione reale del Paese (Davide Rampello), su come riutilizzare gli sprechi alimentari dando vita ad un nuovo comparto produttivo (Andrea Segrè)e, infine, su come sia possibile tornare nel paese a fare ricerca scientifica (Ester Zito).

Ciò che ne emerge è una sintesi – il volume non arriva a 140 pagine -, succosa e stimolante, di quanto potrebbe essere intrapreso per ridare luce alle prospettive nazionali, partendo dall’economia insieme alla cultura, dall’imprenditorialità applicata in maniera magari diversa alla produzione e al territorio.

In tutto ciò, è importante un altro passaggio della prefazione di Bonomi che parla della necessità di porre attenzione alla figura degli imprenditori, alle loro crisi e alle loro domande di cambiamento per cambiare essi stessi arrivando ad essere nuovi  imprenditori  adatti “ad assumere  l’onere della transizione”.

11 idee per l’Italia

AA.VV., prefazione di Aldo Bonomi

Marsilio, giugno 2013.

Che fare per andare avanti? La domanda è una di quelle che aziende e imprenditori, cittadini e Istituzioni si pongono sempre più spesso. La risposta è complessa, non univoca, necessariamente composta da più parti, coinvolge aspetti tecnici ma anche cultura del fare impresa così come del vivere sociale.

Servono, quindi, strumenti per ragionare in maniera differente da prima. Come “11 idee per l’Italia” appena pubblicato da Marsilio con la prefazione di Aldo Bonomi che scrive: “Per me quello che il lettore ha in mano è, in primo luogo, un repertorio di tracce di futuro”. Anche per le imprese, così come per l’economia in senso più lato. E partendo da una constatazione: qui non si tratta di affrontare una crisi e basta, ma una cesura storica. E non occorre pensare alla crescita, ma allo sviluppo (cosa ben più complessa e affascinante).

A cimentarsi con le idee che potrebbero essere valide per un compito di questo genere, sono autori sui generis (nel senso che tutti di mestiere fanno anche altro oltre che scrivere), che avanzano 11 proposte su altrettanti temi dell’economia e della società, anche inusuali. Si tratta, per esempio, dell’idea di riciclare i capannoni e i siti industriali dismessi per eventi culturali (Mario Brunello), di applicare alle carceri la sperimentazione di nuovi modelli abitativi dando anche una formazione in più ai detenuti (Aldo Cibic), di passare dai contratti di lavoro collettivi al “contratto personale” fra imprenditore e lavoratore (Gigi Copiello e Luca Vignaga), di assumere i grandi eventi come motore di sviluppo dell’economia nazionale e locale (Roberto Daneo), di razionalizzazione l’intervento delle Amministrazioni Locali, con gli esempi di chi lo ha già fatto (Silvia Fattore), di metter mano razionalizzandolo al sistema-moda in Italia dandogli  connotati più economici ed efficienti (Maria Luisa Frisa), ugualmente di lavorare per una maggiore efficienza economica del sistema museale nazionale sfruttando meglio le sue ricadute economiche (Guido Guerzoni). Ma il libro contiene anche proposte su come “salvare” le banche italiane collegandole all’edilizia attraverso il social housing (Massimo Malvestio), su come “comunicare” meglio l’Italia abbandonando gli stereotipi e guardando di più alla produzione reale del Paese (Davide Rampello), su come riutilizzare gli sprechi alimentari dando vita ad un nuovo comparto produttivo (Andrea Segrè)e, infine, su come sia possibile tornare nel paese a fare ricerca scientifica (Ester Zito).

Ciò che ne emerge è una sintesi – il volume non arriva a 140 pagine -, succosa e stimolante, di quanto potrebbe essere intrapreso per ridare luce alle prospettive nazionali, partendo dall’economia insieme alla cultura, dall’imprenditorialità applicata in maniera magari diversa alla produzione e al territorio.

In tutto ciò, è importante un altro passaggio della prefazione di Bonomi che parla della necessità di porre attenzione alla figura degli imprenditori, alle loro crisi e alle loro domande di cambiamento per cambiare essi stessi arrivando ad essere nuovi  imprenditori  adatti “ad assumere  l’onere della transizione”.

11 idee per l’Italia

AA.VV., prefazione di Aldo Bonomi

Marsilio, giugno 2013.

L’Italia ha poco “capitale d’innovazione” e perde competività

Si chiama “capitale d’innovazione”. E’ una sintesi tra capacità delle persone, tecnologie d’avanguardia e infrastrutture. E determina la maggiore o minore produttività dei Paesi e dunque la loro competitività internazionale. L’Italia, anche da questo punto di vista, è fanalino di coda in Europa, secondo uno studio appena pubblicato dalla McKinsey (e raccontato dal “Corriere della Sera” il 28 giugno). Abbiamo buone imprese, innovative e competitive, grazie a una cultura d’impresa flessibile (“resiliente”, adattabile ai cambiamenti, direbbero gli economisti) e apprezzata nel mondo. E la nostra manifattura (automazione meccanica, agro-alimentare, arredamento e abbigliamento, “automotive”, chimica, gomma) è da primato internazionale. Eppure l’Italia cresce da tempo poco e male. E le nostre “eccellenze produttive” fanno fatica a tener testa a una competività di imprese e sistemi-Paese su mercati in rapido cambiamento. Perché? Colpa del deficit del “capitale d’innovazione”, appunto.

Lo studio McKinsey spiega che a comporre il “capitale d’innovazione” contribuiscono per il 16% gli investimenti pubblici e privati per le infrastutture ad alta tecnologia (la “banda larga”, per esempio). Poi c’è, per il 60%, il “capitale di conoscenza”: ricerca e sviluppo, software, architettura e design, pubblicità e marketing, innovazione finanziaria, spese culturali, etc. Infine, per il 24%, ecco il “capitale umano”: istruzione universitaria, training e formazione d’impresa, investimenti per il miglioramento delle organizzazioni. Tutto questo complesso di “capitale d’innovazione”, nei sedici paesi analizzati dallo studio McKinsey (Usa, Gran Bretagna, Svezia, Germania, Francia, Spagna, Italia, Danimarca, etc.) vale 14mila miliardi di dollari: una ricca “economia dell’intangibile” equivalente al 42% dei loro Pil e in crescita, dal 1995 al 2007, del 4,6% all’anno. Dei tre tipi di capitale quello che rende di più è il terzo, il “capitale umano”, con un ritorno del 40% superiore allo stesso “capitale di conoscenza”.

Il “capitale d’innovazione” ha determinato, nel lungo periodo 1995-2007, il 53% della crescita di produttività. Un ruolo determinante, dunque. Con un’Italia in crisi, dato che la nostra produttività è cresciuta appena dello 0,5% all’anno, mentre quella tedesca dell’1,7% e quella inglese del 2,8%. Perché? Se si guarda ai singoli paesi, si scoprono meglio le differenze. Quel “capitale d’innovazione”, infatti, ha pesato per il 25% del Pil in Italia, per il 34% in Germania, per il 35% in Francia, per il 40% in Gran Bretagna, per il 51% negli Usa. “L’Italia non investe sul futuro”, sentenzia Leonardo Totaro, managing director di McKinsey per i paesi del Mediterraneo. Non punta sull’innovazione. Trascura formazione e conoscenza (lo testimoniano anche i dati più recenti sugli investimenti in  ricerca e innovazione, meno dell’1% del Pil,  mentre i finanziamenti pubblci per la cultura, dallo Stato alle regioni agli enti locali, sono passati dai 7,5 miliardi del 2005 ai 5.8 del 2012). Un’Italia, in sintesi, più ignorante, meno innovativa, meno produttiva, meno competitiva.

C’è dunque una condizione di marginalità crescente da ribaltare. Con riforme che valorizzino appunto il “capitale d’innovazione” e soprattutto il “capitale umano”, di cui l’Italia è ricca, ma non capace di sfruttarlo a dovere. Che fare? McKinsey spiega: abbattere le barriere agli investimenti internazionali (che portano ricerca e innovazione), stimolare anche fiscalmente imprese e istituzioni che fanno ricerca, proteggere meglio i diritti di proprietà intellettuale e i brevetti, agovolare l’imprenditorialità, fare crescere una robusta cultura d’impresa dell’intraprendenza e del premio al merito. Innovare per crescere, appunto. Ricetta nota da tempo. Adesso, da fare diventare buona politica.

Si chiama “capitale d’innovazione”. E’ una sintesi tra capacità delle persone, tecnologie d’avanguardia e infrastrutture. E determina la maggiore o minore produttività dei Paesi e dunque la loro competitività internazionale. L’Italia, anche da questo punto di vista, è fanalino di coda in Europa, secondo uno studio appena pubblicato dalla McKinsey (e raccontato dal “Corriere della Sera” il 28 giugno). Abbiamo buone imprese, innovative e competitive, grazie a una cultura d’impresa flessibile (“resiliente”, adattabile ai cambiamenti, direbbero gli economisti) e apprezzata nel mondo. E la nostra manifattura (automazione meccanica, agro-alimentare, arredamento e abbigliamento, “automotive”, chimica, gomma) è da primato internazionale. Eppure l’Italia cresce da tempo poco e male. E le nostre “eccellenze produttive” fanno fatica a tener testa a una competività di imprese e sistemi-Paese su mercati in rapido cambiamento. Perché? Colpa del deficit del “capitale d’innovazione”, appunto.

Lo studio McKinsey spiega che a comporre il “capitale d’innovazione” contribuiscono per il 16% gli investimenti pubblici e privati per le infrastutture ad alta tecnologia (la “banda larga”, per esempio). Poi c’è, per il 60%, il “capitale di conoscenza”: ricerca e sviluppo, software, architettura e design, pubblicità e marketing, innovazione finanziaria, spese culturali, etc. Infine, per il 24%, ecco il “capitale umano”: istruzione universitaria, training e formazione d’impresa, investimenti per il miglioramento delle organizzazioni. Tutto questo complesso di “capitale d’innovazione”, nei sedici paesi analizzati dallo studio McKinsey (Usa, Gran Bretagna, Svezia, Germania, Francia, Spagna, Italia, Danimarca, etc.) vale 14mila miliardi di dollari: una ricca “economia dell’intangibile” equivalente al 42% dei loro Pil e in crescita, dal 1995 al 2007, del 4,6% all’anno. Dei tre tipi di capitale quello che rende di più è il terzo, il “capitale umano”, con un ritorno del 40% superiore allo stesso “capitale di conoscenza”.

Il “capitale d’innovazione” ha determinato, nel lungo periodo 1995-2007, il 53% della crescita di produttività. Un ruolo determinante, dunque. Con un’Italia in crisi, dato che la nostra produttività è cresciuta appena dello 0,5% all’anno, mentre quella tedesca dell’1,7% e quella inglese del 2,8%. Perché? Se si guarda ai singoli paesi, si scoprono meglio le differenze. Quel “capitale d’innovazione”, infatti, ha pesato per il 25% del Pil in Italia, per il 34% in Germania, per il 35% in Francia, per il 40% in Gran Bretagna, per il 51% negli Usa. “L’Italia non investe sul futuro”, sentenzia Leonardo Totaro, managing director di McKinsey per i paesi del Mediterraneo. Non punta sull’innovazione. Trascura formazione e conoscenza (lo testimoniano anche i dati più recenti sugli investimenti in  ricerca e innovazione, meno dell’1% del Pil,  mentre i finanziamenti pubblci per la cultura, dallo Stato alle regioni agli enti locali, sono passati dai 7,5 miliardi del 2005 ai 5.8 del 2012). Un’Italia, in sintesi, più ignorante, meno innovativa, meno produttiva, meno competitiva.

C’è dunque una condizione di marginalità crescente da ribaltare. Con riforme che valorizzino appunto il “capitale d’innovazione” e soprattutto il “capitale umano”, di cui l’Italia è ricca, ma non capace di sfruttarlo a dovere. Che fare? McKinsey spiega: abbattere le barriere agli investimenti internazionali (che portano ricerca e innovazione), stimolare anche fiscalmente imprese e istituzioni che fanno ricerca, proteggere meglio i diritti di proprietà intellettuale e i brevetti, agovolare l’imprenditorialità, fare crescere una robusta cultura d’impresa dell’intraprendenza e del premio al merito. Innovare per crescere, appunto. Ricetta nota da tempo. Adesso, da fare diventare buona politica.

Uomo o donna, basta che d’impresa ci si intenda davvero

Che sia donna o che sia uomo, l’imprenditore è sempre tale. Nel senso che lo spirito d’impresa, il suo essere centro di produzione e innovazione, i traguardi economici raggiunti, sono sempre tali, al di là del sesso di chi guida l’azienda. Insomma, chi è imprenditore lo è e basta. Possono però cambiare – a seconda del genere -, le cornici, i contorni, le circostanze dell’azione, le relazioni personali, gli umori, le interpretazioni della funzione imprenditoriale. La cultura dell’impresa muta anche a seconda di chi la guida.

Con tutto ciò che ne consegue in termini di risultati di mercato e di bilancio. Per comprendere occorre allora confrontare – per quanto possibile -, situazioni ed esperienze d’impresa differenti. Il dibattito è aperto.

Certo, ne va della retorica delle aziende al femminile e al maschile. Ma ne guadagna la corretta visione delle imprese.

Contribuiscono a tutto questo due ricerche che appaiono a poca distanza l’una dall’altra. Uno studio di Banca d’Italia che, numeri alla mano, dimostra come “in termini di redditività e di produttività, anche controllando per il settore e per la dimensione d’impresa, non sembrano emergere differenze significative tra imprese maschili e femminili”. E un lavoro della Bocconi e dell’ Universitat Autonoma de Barcelona, che spiega – anche qui numeri alla mano -, che quando “un’amministratrice delegata può interagire con altre donne nel consiglio di amministrazione, si crea un’alchimia che porta a incrementi dei profitti che può raggiungere il 18%”.

Alla prima conclusione sono arrivati Domenico Depalo e Francesca Lotti (che lavorano all’Ufficio Studi di Banca d’Italia), che nel loro “Che genere di impresa? Differenziali di performance tra imprese maschili e femminili” conducono un’analisi, oltre che sulla letteratura più importante dedicata al tema delle cosiddette differenze di genere, anche sulla realtà dei numeri. Ad essere setacciati i bilanci e i relativi indici  delle società di persone e di capitale, sulla base dei dati Infocamere.

Alessandro Minichilli e Mario Daniele Amore (Dipartimento di Management e Tecnologia) insieme a Orsola Garofalo (Universitat Autonoma de Barcelona), in “Gender Interactions within the Family Firm” –  di prossima pubblicazione in Management Science – arrivano invece alla seconda conclusione. “Quando l’amministratore delegato è donna, le imprese con un consiglio di amministrazione a prevalenza femminile registrano in media un incremento dei profitti del 18%, mentre un aumento della presenza femminile dal 25° al 75° percentile si traduce in una crescita dei profitti del 12%”. A questo traguardo, i tre ricercatori giungono attraverso un complesso metodo di indagine sulle imprese familiari con un fattura di almeno 50 milioni di euro.

Rimane, come è naturale, ciò che i numeri non possono rivelare se non in parte e cioè l’approccio non quantificabile alla gestione d’impresa, quella parte immateriale che ogni imprenditore – se è davvero tale – dà alla propria azienda. Ma, a ben vedere, si sta parlando di qualcosa che non c’entra nulla con i numeri, ma ha molto a che fare con le qualità intrinseche della persona e dell’essere imprenditore, maschio o femmina che sia.

Che genere di impresa? Differenziali di performance tra imprese maschili e femminili

Domenico Depalo, Francesca Lotti

Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza (Occasional papers), 184 – giugno 2013

Gender Interactions within the Family Firm

Alessandro Minichilli, Mario Daniele Amore, Orsola Garofalo

Management Science (prossima pubblicazione).

Che sia donna o che sia uomo, l’imprenditore è sempre tale. Nel senso che lo spirito d’impresa, il suo essere centro di produzione e innovazione, i traguardi economici raggiunti, sono sempre tali, al di là del sesso di chi guida l’azienda. Insomma, chi è imprenditore lo è e basta. Possono però cambiare – a seconda del genere -, le cornici, i contorni, le circostanze dell’azione, le relazioni personali, gli umori, le interpretazioni della funzione imprenditoriale. La cultura dell’impresa muta anche a seconda di chi la guida.

Con tutto ciò che ne consegue in termini di risultati di mercato e di bilancio. Per comprendere occorre allora confrontare – per quanto possibile -, situazioni ed esperienze d’impresa differenti. Il dibattito è aperto.

Certo, ne va della retorica delle aziende al femminile e al maschile. Ma ne guadagna la corretta visione delle imprese.

Contribuiscono a tutto questo due ricerche che appaiono a poca distanza l’una dall’altra. Uno studio di Banca d’Italia che, numeri alla mano, dimostra come “in termini di redditività e di produttività, anche controllando per il settore e per la dimensione d’impresa, non sembrano emergere differenze significative tra imprese maschili e femminili”. E un lavoro della Bocconi e dell’ Universitat Autonoma de Barcelona, che spiega – anche qui numeri alla mano -, che quando “un’amministratrice delegata può interagire con altre donne nel consiglio di amministrazione, si crea un’alchimia che porta a incrementi dei profitti che può raggiungere il 18%”.

Alla prima conclusione sono arrivati Domenico Depalo e Francesca Lotti (che lavorano all’Ufficio Studi di Banca d’Italia), che nel loro “Che genere di impresa? Differenziali di performance tra imprese maschili e femminili” conducono un’analisi, oltre che sulla letteratura più importante dedicata al tema delle cosiddette differenze di genere, anche sulla realtà dei numeri. Ad essere setacciati i bilanci e i relativi indici  delle società di persone e di capitale, sulla base dei dati Infocamere.

Alessandro Minichilli e Mario Daniele Amore (Dipartimento di Management e Tecnologia) insieme a Orsola Garofalo (Universitat Autonoma de Barcelona), in “Gender Interactions within the Family Firm” –  di prossima pubblicazione in Management Science – arrivano invece alla seconda conclusione. “Quando l’amministratore delegato è donna, le imprese con un consiglio di amministrazione a prevalenza femminile registrano in media un incremento dei profitti del 18%, mentre un aumento della presenza femminile dal 25° al 75° percentile si traduce in una crescita dei profitti del 12%”. A questo traguardo, i tre ricercatori giungono attraverso un complesso metodo di indagine sulle imprese familiari con un fattura di almeno 50 milioni di euro.

Rimane, come è naturale, ciò che i numeri non possono rivelare se non in parte e cioè l’approccio non quantificabile alla gestione d’impresa, quella parte immateriale che ogni imprenditore – se è davvero tale – dà alla propria azienda. Ma, a ben vedere, si sta parlando di qualcosa che non c’entra nulla con i numeri, ma ha molto a che fare con le qualità intrinseche della persona e dell’essere imprenditore, maschio o femmina che sia.

Che genere di impresa? Differenziali di performance tra imprese maschili e femminili

Domenico Depalo, Francesca Lotti

Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza (Occasional papers), 184 – giugno 2013

Gender Interactions within the Family Firm

Alessandro Minichilli, Mario Daniele Amore, Orsola Garofalo

Management Science (prossima pubblicazione).

La “fabbrica personale”

Fabbrica tradizionale addio, ma non subito. Anche se la prospettiva – a sentire alcuni ricercatori – è più che concreta e potrebbe realizzarsi prima di quanto si possa pensare, soprattutto se si guarda alla cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, quella dei “makers”, gli artigiani digitali. In gioco, naturalmente, non c’è solo il futuro della manifattura, ma anche la sua stessa cultura, il modo di leggere e pensare la produzione e il lavoro. Si tratta di un futuro prossimo per alcuni, distante per molti. Ma certamente da studiare e comprendere.

Per questo è importante leggere l’ultima fatica di Chris Anderson  – giornalista, scrittore, esperto di nuove tecnologie, per dieci anni direttore di Wired USA – che in qualche centinaio di pagine racconta come sia nata e come si stia espandendo la, appunto, terza rivoluzione industriale in virtù dell’avvento e della diffusione delle stampanti 3D (che consentono di stampare oggetti come si stamperebbe un foglio). In “Makers. Il ritorno dei produttori”, non c’è però la semplice storia di una nuova macchina, ma, soprattutto, il racconto di come questa potrebbe assolvere alla stessa funzione delle applicazioni del  vapore che hanno provocato la prima rivoluzione industriale. Con una aggiunta: oggi, secondo Anderson, potrebbe essere rimessa al centro del dibattito della cultura d’impresa la creatività umana.

Anderson è però prima di tutto uno che le cose le sa raccontare. Il libro quindi, inizia con una introduzione autobiografica – il lavoro dell’autore in un garage a trasformare pezzi di metallo in componenti di alta precisione -, per poi passare ad una serie di esempi basati sull’uso delle nuove tecnologie di progettazione e produzione. Si parla quindi di iniziative come Tesla (super-auto elettriche) o Local Motors (la possibilità di creare auto personalizzate), ma anche della  3D Robotics (droni telecomandati) e dell’italiano Arduino, un processore che promette sviluppi importanti per il mondo dell’ICT.

Certo, “Makers” è un libro visionario, ma affascinante, da leggere per capire come potrebbe cambiare la cultura stessa del produrre quando nascerà la “fabbrica personale”, quel luogo ancora indefinito nel quale sarà possibile – secondo Anderson -, fabbricare e distribuire da soli, sfruttando il web e le nuove tecnologie e capovolgendo il mondo della produzione industriale.

Makers. Il ritorno dei produttori

Chris Anderson

Rizzoli Etas, 2013.

Fabbrica tradizionale addio, ma non subito. Anche se la prospettiva – a sentire alcuni ricercatori – è più che concreta e potrebbe realizzarsi prima di quanto si possa pensare, soprattutto se si guarda alla cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, quella dei “makers”, gli artigiani digitali. In gioco, naturalmente, non c’è solo il futuro della manifattura, ma anche la sua stessa cultura, il modo di leggere e pensare la produzione e il lavoro. Si tratta di un futuro prossimo per alcuni, distante per molti. Ma certamente da studiare e comprendere.

Per questo è importante leggere l’ultima fatica di Chris Anderson  – giornalista, scrittore, esperto di nuove tecnologie, per dieci anni direttore di Wired USA – che in qualche centinaio di pagine racconta come sia nata e come si stia espandendo la, appunto, terza rivoluzione industriale in virtù dell’avvento e della diffusione delle stampanti 3D (che consentono di stampare oggetti come si stamperebbe un foglio). In “Makers. Il ritorno dei produttori”, non c’è però la semplice storia di una nuova macchina, ma, soprattutto, il racconto di come questa potrebbe assolvere alla stessa funzione delle applicazioni del  vapore che hanno provocato la prima rivoluzione industriale. Con una aggiunta: oggi, secondo Anderson, potrebbe essere rimessa al centro del dibattito della cultura d’impresa la creatività umana.

Anderson è però prima di tutto uno che le cose le sa raccontare. Il libro quindi, inizia con una introduzione autobiografica – il lavoro dell’autore in un garage a trasformare pezzi di metallo in componenti di alta precisione -, per poi passare ad una serie di esempi basati sull’uso delle nuove tecnologie di progettazione e produzione. Si parla quindi di iniziative come Tesla (super-auto elettriche) o Local Motors (la possibilità di creare auto personalizzate), ma anche della  3D Robotics (droni telecomandati) e dell’italiano Arduino, un processore che promette sviluppi importanti per il mondo dell’ICT.

Certo, “Makers” è un libro visionario, ma affascinante, da leggere per capire come potrebbe cambiare la cultura stessa del produrre quando nascerà la “fabbrica personale”, quel luogo ancora indefinito nel quale sarà possibile – secondo Anderson -, fabbricare e distribuire da soli, sfruttando il web e le nuove tecnologie e capovolgendo il mondo della produzione industriale.

Makers. Il ritorno dei produttori

Chris Anderson

Rizzoli Etas, 2013.

“Milanesiana”, parlare di scienza e filosofia in ambienti industriali

Saperi che si incrociano. Quelli della manifattura e delle macchine. E quelli analitici della filosofia che cerca di trovare originali chiavi interpretative per navigare nelle complessità di società e mercati in continuo cambiamento. Quelli dei laboratori di ricerca e sviluppo, in cui si sperimentano le basi di nuovi prodotti e nuovi sistemi di produzione. E quelli della creatività artistica. Nell’Italia che faticosamente prova a uscire dalla crisi, ancora densa di effetti sociali devastanti (perdita di lavoro, caduta dei redditi, affievolirsi delle speranze, soprattutto per le nuove generazioni) la strategia della “manifacturing reinassance” (se ne parla del blog dell’8 gennaio) ha appunto bisogno di mettere insieme competenze diverse, in grado di rendere più ricchi il capitale umano e il capitale sociale indispensabili allo sviluppo sostenibile, ambientalmente e socialmente.

Nota giustamente il sociologo Aldo Bonomi, teorico del “capitalismo molecolare” e della “città infinita” delle reti intelligenti di manifatture e servizi diffuse sul territorio: “Il ‘made in Italy’ dovrà farsi ‘rimade in Italy’ per inaugurare una quarta stagione, dopo quelle delle bottega, del capannone e dei distretti: per le filiere produttive dovrà aprirsi un tempo in cui il territorio sia fonte di valore nella sua dimensione di bene comune da rigenerare. Non più solo deposito di saperi, tradizioni, risorse da prelevare dentro un modello di crescita puramente quantitativa fondata sul consumo di territorio e sul dumping sociale. Ma qualcosa che pone il problema del carattere sociale e cooperativo dell’attività di investimento nell’economia della conoscenza. Dove, per ricostruire le basi del valore, la manifattura ha bisogno di impollinare la cultura della fabbrica con saperi scientifici e sociali di cui sono portatori i creativi, i professionisti, i giovani ‘indigeni digitali’. I quali, a  loro volta, se vogliono tradurre gli investimenti formativi in redditi e lavori corrispondenti non possono continuare a coltivare l’utopia di un capitalismo virtuale e deindustrializzato” (“La sfida della crisi e le cinque metamorfosi”, IlSole24Ore, 23 giugno).

Quelli posti da Bonomi sono proprio i temi cari alla cultura d’impresa Pirelli, più volte approfonditi sulle pagine di questo blog e vissuti come basi di progetti e realizzazioni. Sintesi di competenze diverse interne al sistema produttivo. E dialoghi tra l’interno dell’industria e l’esterno.

Un esempio? I luoghi di lavoro innervati da dibattiti su temi generali della filosofia e della scienza, come è appena accaduto, negli ultimi giorni di giugno, ospitando nell’Auditorium dell’Head Quarter di Pirelli, in Bicocca, una sezione della “Milanesiana”, diretta da Elisabetta Sgarbi, dedicata a “La filosofia, il cinema, il segreto” (con  la partecipazione, tra i tanti, di Massimo Cacciari, Remo Bodei, Umberto Veronesi, Marco Bellocchio, Tzevan Todorov ed Emanuele Severino). O gli scambi di esperienze tra artisti impegnati nella costruzione di grandi istallazioni all’HangarBicocca (Carsten Nicolai, Tomàs Saraceno, Micol Assael, Wilfredo Prieto) e gli ingegneri e i tecnologi dei Laboratori Pirelli (lunghe e appassionate discussioni sulle nanotecnologie e la luce, l’elettricità e le tensioni meccaniche, applicate all’arte o alla sperimentazione di nuovi materiali per le mescole di gomma). Il teatro e la musica in fabbrica, nel nuovo stabilimento di Settimo Torinese, con la struttura dei servizi e dei laboratori di ricerca progettati da Renzo Piano, secondo criteri da “fabbrica bella”, immersa nel verde, ecologicamente ammirevole. O la fabbrica che diventa materia per racconti di lavoro che danno forma a libri e opere teatrali (in collaborazione con editori come Mondadori e  Laterza o con il Piccolo Teatro di Milano). O le mostre in Fondazione Pirelli e i lavori di “education” di Fondazione Pirelli e HangarBicocca con migliaia di bambini delle scuole di Milano, per rinsaldare e rinnovare le relazioni tra l’industria e lo studio, il lavoro e la formazione. E’ tutto un mescolarsi di sguardi e competenze, di domande di culture diverse e di risposte ricche di “fertilizzazioni incrociate”.

Un lavorìo intenso. In vista di una migliore qualità della metropoli come luogo di competenze innovative e produzioni di alta gamma, nel contesto dell’”economia della conoscenza” e, appunto, dell’industria come cardine di sviluppo di qualità. Un altro modo per fare vivere la cultura d’impresa e l’impresa come luogo di cultura, aperto alla cultura, produttore di cultura. Anche questo è lavorare per una “manifacturing reinassance”.

Saperi che si incrociano. Quelli della manifattura e delle macchine. E quelli analitici della filosofia che cerca di trovare originali chiavi interpretative per navigare nelle complessità di società e mercati in continuo cambiamento. Quelli dei laboratori di ricerca e sviluppo, in cui si sperimentano le basi di nuovi prodotti e nuovi sistemi di produzione. E quelli della creatività artistica. Nell’Italia che faticosamente prova a uscire dalla crisi, ancora densa di effetti sociali devastanti (perdita di lavoro, caduta dei redditi, affievolirsi delle speranze, soprattutto per le nuove generazioni) la strategia della “manifacturing reinassance” (se ne parla del blog dell’8 gennaio) ha appunto bisogno di mettere insieme competenze diverse, in grado di rendere più ricchi il capitale umano e il capitale sociale indispensabili allo sviluppo sostenibile, ambientalmente e socialmente.

Nota giustamente il sociologo Aldo Bonomi, teorico del “capitalismo molecolare” e della “città infinita” delle reti intelligenti di manifatture e servizi diffuse sul territorio: “Il ‘made in Italy’ dovrà farsi ‘rimade in Italy’ per inaugurare una quarta stagione, dopo quelle delle bottega, del capannone e dei distretti: per le filiere produttive dovrà aprirsi un tempo in cui il territorio sia fonte di valore nella sua dimensione di bene comune da rigenerare. Non più solo deposito di saperi, tradizioni, risorse da prelevare dentro un modello di crescita puramente quantitativa fondata sul consumo di territorio e sul dumping sociale. Ma qualcosa che pone il problema del carattere sociale e cooperativo dell’attività di investimento nell’economia della conoscenza. Dove, per ricostruire le basi del valore, la manifattura ha bisogno di impollinare la cultura della fabbrica con saperi scientifici e sociali di cui sono portatori i creativi, i professionisti, i giovani ‘indigeni digitali’. I quali, a  loro volta, se vogliono tradurre gli investimenti formativi in redditi e lavori corrispondenti non possono continuare a coltivare l’utopia di un capitalismo virtuale e deindustrializzato” (“La sfida della crisi e le cinque metamorfosi”, IlSole24Ore, 23 giugno).

Quelli posti da Bonomi sono proprio i temi cari alla cultura d’impresa Pirelli, più volte approfonditi sulle pagine di questo blog e vissuti come basi di progetti e realizzazioni. Sintesi di competenze diverse interne al sistema produttivo. E dialoghi tra l’interno dell’industria e l’esterno.

Un esempio? I luoghi di lavoro innervati da dibattiti su temi generali della filosofia e della scienza, come è appena accaduto, negli ultimi giorni di giugno, ospitando nell’Auditorium dell’Head Quarter di Pirelli, in Bicocca, una sezione della “Milanesiana”, diretta da Elisabetta Sgarbi, dedicata a “La filosofia, il cinema, il segreto” (con  la partecipazione, tra i tanti, di Massimo Cacciari, Remo Bodei, Umberto Veronesi, Marco Bellocchio, Tzevan Todorov ed Emanuele Severino). O gli scambi di esperienze tra artisti impegnati nella costruzione di grandi istallazioni all’HangarBicocca (Carsten Nicolai, Tomàs Saraceno, Micol Assael, Wilfredo Prieto) e gli ingegneri e i tecnologi dei Laboratori Pirelli (lunghe e appassionate discussioni sulle nanotecnologie e la luce, l’elettricità e le tensioni meccaniche, applicate all’arte o alla sperimentazione di nuovi materiali per le mescole di gomma). Il teatro e la musica in fabbrica, nel nuovo stabilimento di Settimo Torinese, con la struttura dei servizi e dei laboratori di ricerca progettati da Renzo Piano, secondo criteri da “fabbrica bella”, immersa nel verde, ecologicamente ammirevole. O la fabbrica che diventa materia per racconti di lavoro che danno forma a libri e opere teatrali (in collaborazione con editori come Mondadori e  Laterza o con il Piccolo Teatro di Milano). O le mostre in Fondazione Pirelli e i lavori di “education” di Fondazione Pirelli e HangarBicocca con migliaia di bambini delle scuole di Milano, per rinsaldare e rinnovare le relazioni tra l’industria e lo studio, il lavoro e la formazione. E’ tutto un mescolarsi di sguardi e competenze, di domande di culture diverse e di risposte ricche di “fertilizzazioni incrociate”.

Un lavorìo intenso. In vista di una migliore qualità della metropoli come luogo di competenze innovative e produzioni di alta gamma, nel contesto dell’”economia della conoscenza” e, appunto, dell’industria come cardine di sviluppo di qualità. Un altro modo per fare vivere la cultura d’impresa e l’impresa come luogo di cultura, aperto alla cultura, produttore di cultura. Anche questo è lavorare per una “manifacturing reinassance”.

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?