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Dalla fabbrica allo sviluppo sostenibile, ecco le iniziative per “l’economia civile”

Dalla fabbrica degli oggetti alla fabbrica delle idee. Per fare funzionare meglio le fabbriche italiane, cardine di crescita economica e sociale nella stagione di “Industria 4.0”. E dare un contributo qualificato allo “sviluppo sostenibile”. E’ un circuito virtuoso, tra cultura e manifattura. Di cui proprio in questi giorni si notano significative testimonianze, da Torino a Ivrea, da Bologna a Milano.

Vediamo meglio. A Torino riaprono le Ogr, le Officine Grandi Riparazioni: una volta lì si aggiustavano i treni, da oggi invece sono incubatori di nuove tecnologie e nuovi linguaggi, restando comunque come punto di saldatura l’idea del viaggio dentro la modernità: dalle locomotive alle strutture “digital” che tengono insieme macchine e idee. Le grandi figure di persone e apparecchiature industriali della “Procession of Reparationists” di William Kentridge ne sono simbolo artistico di straordinaria vitalità: “Per domare macchinari e locomotive bisognava conoscerli. Il lavoro non era e non è automatico”, sostiene Kentridge. Fabbrica e cultura, ancora una volta. E’ l’eco attuale della “civiltà delle macchine”, una dimensione tutta italiana della grande cultura industriale e civile, dalla Finmeccanica pubblica alla Pirelli e alla Olivetti.

Ecco, l’attualità Olivetti. A Ivrea, in uno degli ex palazzi del gruppo guidato da Adriano Olivetti, lungo via Jervis (segnata da stabilimenti e uffici progettati da alcuni dei maggiori architetti del Novecento e amatissima da Le Corbusier, che vi leggeva la straordinaria sintesi tra bellezza architettonica e funzionalità industriale), sono cominciate, alla fine della scorsa settimana, le “Conversazioni sull’economia civile”, promosse da “Il Quinto ampliamento”, un’associazione che riunisce imprenditori (la Confindustria del Canavese), economisti, professionisti e personalità della cultura e dell’università (dalla Fondazione Olivetti a Legambiente) per discutere di qualità dello sviluppo, industria hi tech, ambiente, socialità (ne parleremo più a lungo tra poco).

A Bologna, alla Fondazione Mast (un’iniziativa sostenuta dal gruppo Seragnoli, uno dei protagonisti della migliore meccatronica italiana) si inaugura la “Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro”, con immagini, tra gli altri, di Mimmo Jodice, Ruff, Koudelka, Friedlander, Rodchenko, Jodice: il lavoro industriale e l’evoluzione della sua rappresentazione.

E a Milano, mentre va avanti, con grandi riconoscimenti di critica e pubblico, l’attività del Pirelli HangarBicocca, un’ex fabbrica Ansaldo diventata uno dei maggiori centri dell’arte contemporanea internazionale (in mostra, adesso, le installazioni di Lucio Fontana), proprio su ex aree industriali si progettano i luoghi d’eccellenza terziaria (servizi, ricerca, formazione, “life sciences”) d’una metropoli che sull’incrocio di meccatronica e digital economy rafforza il proprio ruolo di cuore innovativo europeo.

“Sviluppo sostenibile”, è una idea cardine che risuona in tutti questi appuntamenti, in tante attività. Un modo di pensare l’economia che lega competitività e qualità della vita. Come conferma il secondo Rapposto dell’Asvis (l’Alleanza per lo Sviluppo sostenibile” guidata da Enrico Giovannini, statistico di fama internazionale ed ex ministro del Lavoro). Presentato a Roma la scorsa settimana, il Rapporto insiste sui 17 obiettivi della sostenibilità indicati dall’Agenda Onu 2030 e dell’Italia rileva un “miglioramento” per 9 obiettivi (alimentazione, salute, educazione, uguaglianza di genere, infrastrutture, modelli sostenibili di consumo, riduzione dei gas serra, tutela dei mari e giustizia), “un sensibile peggioramento” per 4 (povertà, gestione delle acque, disuguaglianze ed ecosistema terrestre), “mentre la situazione resta statica” per i restanti 4 (energia, occupazione, città sostenibili e cooperazione internazionale). Ma anche per le aree dove si registrano miglioramenti, la distanza rispetto all’Agenda Onu per il 2020 e il 2030 resta “molto ampia”. In sintesi: “L’Italia non è su un sentiero di sviluppo sostenibile e la ripresa economica, da sola, non risolverà i problemi” che ci vedono “tra i Paesi europei con le peggiori performance economiche, sociali e ambientali”. Non basta insomma fare crescere il Pil, il prodotto interno lordo e accontentarsi dell’1,5% previsto quest’anno, bisogna mettersi in linea con il Bes, l’indice di sviluppo equo e sostenibile (Il Documento di Economia e Finanza che il ministro Padoan sta preparando per portarlo nello prossime settimane in Parlamento ne comincia a tenere conto).

Si ragiona di qualità dell’economia. Di nuovi e migliori equilibri. C’è un mondo industriale e culturale in movimento, dopo gli anni della crisi. Ed è tornata nel vocabolario essenziale del discorso pubblico la parola “fabbrica” che sino a pochi anni fa risuonava solo nelle pagine di pochi appassionati dell’”orgoglio industriale”.

Cultura politecnica, per usare ancora una volta una sintesi frequente in questo blog. L’eco è stata evidente nelle discussioni de “Il Quinto ampliamento” (il nome prende spunto dal progetto di Adriano Olivetti di fare crescere ancora gli stabilimenti di Ivrea, prima che un malessere lo stroncasse sul treno per Losanna, il 27 febbraio 1960). L’obiettivo è “recuperare una cultura d’impresa che lega competitività e inclusione sociale”, un’idea cara al alcuni dei migliori capitani d’impresa nell’Italia degli anni Cinquanta e Settanta (gli Olivetti, i Pirelli, i Borghi e altri ancora, anche in imprese di piccole e medie dimensioni, il cardine dello sviluppo italiano). E una sintesi da approfondire è quella del paradigma dell’”economia civile”. Come? Lo spiega Stefano Zamagni, economista e presidente del Quinto ampliamento, citando il patrimonio ideale di Adriano Olivetti: “L’idea è quella dell’impresa civile: l’impresa come agente di trasformazione non solo della sfera economica, ma anche di quella sociale e civile della società. Troppo riduttivo sarebbe pensare all’impresa come semplice ‘macchina da profitto’ e non anche come ‘luogo in cui si forma il carattere dell’uomo’, come aveva anticipato il grande Alfred Marshall già nel 1890”. La lezione resta attuale.

Dalla fabbrica degli oggetti alla fabbrica delle idee. Per fare funzionare meglio le fabbriche italiane, cardine di crescita economica e sociale nella stagione di “Industria 4.0”. E dare un contributo qualificato allo “sviluppo sostenibile”. E’ un circuito virtuoso, tra cultura e manifattura. Di cui proprio in questi giorni si notano significative testimonianze, da Torino a Ivrea, da Bologna a Milano.

Vediamo meglio. A Torino riaprono le Ogr, le Officine Grandi Riparazioni: una volta lì si aggiustavano i treni, da oggi invece sono incubatori di nuove tecnologie e nuovi linguaggi, restando comunque come punto di saldatura l’idea del viaggio dentro la modernità: dalle locomotive alle strutture “digital” che tengono insieme macchine e idee. Le grandi figure di persone e apparecchiature industriali della “Procession of Reparationists” di William Kentridge ne sono simbolo artistico di straordinaria vitalità: “Per domare macchinari e locomotive bisognava conoscerli. Il lavoro non era e non è automatico”, sostiene Kentridge. Fabbrica e cultura, ancora una volta. E’ l’eco attuale della “civiltà delle macchine”, una dimensione tutta italiana della grande cultura industriale e civile, dalla Finmeccanica pubblica alla Pirelli e alla Olivetti.

Ecco, l’attualità Olivetti. A Ivrea, in uno degli ex palazzi del gruppo guidato da Adriano Olivetti, lungo via Jervis (segnata da stabilimenti e uffici progettati da alcuni dei maggiori architetti del Novecento e amatissima da Le Corbusier, che vi leggeva la straordinaria sintesi tra bellezza architettonica e funzionalità industriale), sono cominciate, alla fine della scorsa settimana, le “Conversazioni sull’economia civile”, promosse da “Il Quinto ampliamento”, un’associazione che riunisce imprenditori (la Confindustria del Canavese), economisti, professionisti e personalità della cultura e dell’università (dalla Fondazione Olivetti a Legambiente) per discutere di qualità dello sviluppo, industria hi tech, ambiente, socialità (ne parleremo più a lungo tra poco).

A Bologna, alla Fondazione Mast (un’iniziativa sostenuta dal gruppo Seragnoli, uno dei protagonisti della migliore meccatronica italiana) si inaugura la “Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro”, con immagini, tra gli altri, di Mimmo Jodice, Ruff, Koudelka, Friedlander, Rodchenko, Jodice: il lavoro industriale e l’evoluzione della sua rappresentazione.

E a Milano, mentre va avanti, con grandi riconoscimenti di critica e pubblico, l’attività del Pirelli HangarBicocca, un’ex fabbrica Ansaldo diventata uno dei maggiori centri dell’arte contemporanea internazionale (in mostra, adesso, le installazioni di Lucio Fontana), proprio su ex aree industriali si progettano i luoghi d’eccellenza terziaria (servizi, ricerca, formazione, “life sciences”) d’una metropoli che sull’incrocio di meccatronica e digital economy rafforza il proprio ruolo di cuore innovativo europeo.

“Sviluppo sostenibile”, è una idea cardine che risuona in tutti questi appuntamenti, in tante attività. Un modo di pensare l’economia che lega competitività e qualità della vita. Come conferma il secondo Rapposto dell’Asvis (l’Alleanza per lo Sviluppo sostenibile” guidata da Enrico Giovannini, statistico di fama internazionale ed ex ministro del Lavoro). Presentato a Roma la scorsa settimana, il Rapporto insiste sui 17 obiettivi della sostenibilità indicati dall’Agenda Onu 2030 e dell’Italia rileva un “miglioramento” per 9 obiettivi (alimentazione, salute, educazione, uguaglianza di genere, infrastrutture, modelli sostenibili di consumo, riduzione dei gas serra, tutela dei mari e giustizia), “un sensibile peggioramento” per 4 (povertà, gestione delle acque, disuguaglianze ed ecosistema terrestre), “mentre la situazione resta statica” per i restanti 4 (energia, occupazione, città sostenibili e cooperazione internazionale). Ma anche per le aree dove si registrano miglioramenti, la distanza rispetto all’Agenda Onu per il 2020 e il 2030 resta “molto ampia”. In sintesi: “L’Italia non è su un sentiero di sviluppo sostenibile e la ripresa economica, da sola, non risolverà i problemi” che ci vedono “tra i Paesi europei con le peggiori performance economiche, sociali e ambientali”. Non basta insomma fare crescere il Pil, il prodotto interno lordo e accontentarsi dell’1,5% previsto quest’anno, bisogna mettersi in linea con il Bes, l’indice di sviluppo equo e sostenibile (Il Documento di Economia e Finanza che il ministro Padoan sta preparando per portarlo nello prossime settimane in Parlamento ne comincia a tenere conto).

Si ragiona di qualità dell’economia. Di nuovi e migliori equilibri. C’è un mondo industriale e culturale in movimento, dopo gli anni della crisi. Ed è tornata nel vocabolario essenziale del discorso pubblico la parola “fabbrica” che sino a pochi anni fa risuonava solo nelle pagine di pochi appassionati dell’”orgoglio industriale”.

Cultura politecnica, per usare ancora una volta una sintesi frequente in questo blog. L’eco è stata evidente nelle discussioni de “Il Quinto ampliamento” (il nome prende spunto dal progetto di Adriano Olivetti di fare crescere ancora gli stabilimenti di Ivrea, prima che un malessere lo stroncasse sul treno per Losanna, il 27 febbraio 1960). L’obiettivo è “recuperare una cultura d’impresa che lega competitività e inclusione sociale”, un’idea cara al alcuni dei migliori capitani d’impresa nell’Italia degli anni Cinquanta e Settanta (gli Olivetti, i Pirelli, i Borghi e altri ancora, anche in imprese di piccole e medie dimensioni, il cardine dello sviluppo italiano). E una sintesi da approfondire è quella del paradigma dell’”economia civile”. Come? Lo spiega Stefano Zamagni, economista e presidente del Quinto ampliamento, citando il patrimonio ideale di Adriano Olivetti: “L’idea è quella dell’impresa civile: l’impresa come agente di trasformazione non solo della sfera economica, ma anche di quella sociale e civile della società. Troppo riduttivo sarebbe pensare all’impresa come semplice ‘macchina da profitto’ e non anche come ‘luogo in cui si forma il carattere dell’uomo’, come aveva anticipato il grande Alfred Marshall già nel 1890”. La lezione resta attuale.

Il virtuoso mercante veneziano e le regole tra etica e affari

Un’arte, fare il mercante. Una scelta di vita civile e morale, fondare e far crescere un’impresa. E una relazione virtuosa tra il “buon mercante” e il “buon cittadino”. Ne scrive, con lucida intelligenza, Benedetto Cotrugli, mercante di successo a metà del Quattrocento, in un libro riscoperto di recente e appena pubblicato in inglese da Palgrave Macmillan, a cura di Carlo Carraro e Giovanni Favero dell’università Ca’ Foscari di Venezia e con una brillante introduzione di Niall Ferguson, uno dei maggiori storici contemporanei. “Libro de l’arte della mercatura”, è il suo titolo. E’ stato scritto nel 1475 in italiano “volgare”, elegante ed essenziale, ed è edito dalle Edizioni Ca’ Foscari a cura di Vera Ribaudo e Tiziano Zanato (si può trovare in digitale a questo cliccando qui  Il commercio e la sua anima (se ne discusso alcune sere fa al Canova Club di Milano, davanti a un pubblico di imprenditori, manager, donne e uomini della finanza e della comunicazione). Le regole di vita del buon mercante (che deve vestirsi “in modo sobrio ed elegante”). Le prudenze nel fare ed esigere credito (un’accorta diversificazione del rischio e un corretto calcolo ei tempi). I principi della contabilità (si intravvedono i canoni che poi Luca Pacioli definirà con la “partita doppia”), l’affidabilità, la formazione dei figli per il mondo degli affari, la cura per la rete degli scambi, il senso del rischio ma anche la necessità di stare in guardia contro gli eccessi dell’avidità. E i rapporti con la politica (starne alla larga, avverte il mercante). E’ di radici veneziane, Cotrugli (nato a Ragusa, l’attuale Dubrovnik in Croazia, nel 1416, allora dominio della Repubblica di Venezia). Ha studiato filosofia all’università di Bologna. E’ vissuto facendo buoni affari e teorizzandone valore e senso. Traccia l’ideale del “mercante perfetto”. E lega appunto, in un patto virtuoso e di reciproche convenienze, etica e affari. Fare soldi ha una sua moralità, una responsabilità “pubblica”.

C’è, nella storia italiana, pur se altalenante, una profonda dimensione etica che segna “lo spirito del capitalismo”. Un’idea alta dell’impresa, nella consapevolezza che comunque competizione e confronto sui mercati sono un gioco ruvido, spigoloso, duro, ma da seguire in un contesto di regole chiare ed efficaci. Il libro di Cotrugli ne è testimonianza manifesta. E tutt’altro che unica.

Si può fare un passo indietro, d’oltre un secolo, per leggere il “Costituto” approvato nel 1309 come norma fondante della città di Siena, già allora ricca di mercanti, banchieri, imprenditori: chi governa deve avere a cuore “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini” (un testo che Ermete Realacci, presidente di Symbola e presidente della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, ama citare spesso, come testimonianza storica della “qualità” dello sviluppo economico).

Bellezza, dunque. E prosperità. Estetica con funzione etica e convenienza economica. L’ispirazione è filosofica, nella relazione virtuosa del “kalòs kai agathòs” caro ai greci, il “bello e buono” che sa di virtù e valore. La portata è appunto economica, di orgoglio identitario e convenienza.  Pochi anni dopo quel “Costituto”, tra il 1338 e il 1339, Ambrogio Lorenzetti dipingerà, nella Sala dei Nove  del Palazzo Pubblico di Siena, una delle opere più significative dell’arte italiana, l’”Allegoria ed Effetti del Buon e del Cattivo Governo”: nella città ben governata prosperano affari, scambi, manifatture, la vita civile è piacevole, fioriscono arti e mestieri. Altrimenti, con “il cattivo governo”, tutto va in rovina.

La relazione virtuosa tra etica e affari resta forte, nel tempo. Vive nella Firenze di Cosimo il Vecchio e nelle signorie dei principi e dei mercanti mecenati. Riprende vigore negli scritti dell’illuminismo, tra la Milano dei Verri con la loro rivista “Il Caffè” e la Napoli dei sofisticati economisti di respiro europeo, l’abate Ferdinando Galliani buon frequentatore dei salotti di Parigi con Diderot e Voltaire (“Noi francesi non abbiamo che gli spiccoli dell’esprit, a Napoli hanno i lingotti”, si diceva di lui) e Antonio Genovesi con le sue lungimiranti “Lezioni di economia civile”. Torna alla ribalta, negli anni dinamici del boom economico, con Adriano Olivetti (“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia… Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica… A volte, quando lavoro fino a tardi, vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza”). E con Leopoldo Pirelli, con “Le dieci regole del buon imprenditore” scritte nell’autunno del 1986 (“La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi fra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita”). Parole molto chiare, ancora oggi d’attualità, in tempi in cui si ragiona di “fabbrica bella”, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e dunque anche per queste ragioni competitiva. Benedetto Cotrugli, con la sua sapienza lungimirante sul “buon mercante”, sarebbe d’accordo.

Un’arte, fare il mercante. Una scelta di vita civile e morale, fondare e far crescere un’impresa. E una relazione virtuosa tra il “buon mercante” e il “buon cittadino”. Ne scrive, con lucida intelligenza, Benedetto Cotrugli, mercante di successo a metà del Quattrocento, in un libro riscoperto di recente e appena pubblicato in inglese da Palgrave Macmillan, a cura di Carlo Carraro e Giovanni Favero dell’università Ca’ Foscari di Venezia e con una brillante introduzione di Niall Ferguson, uno dei maggiori storici contemporanei. “Libro de l’arte della mercatura”, è il suo titolo. E’ stato scritto nel 1475 in italiano “volgare”, elegante ed essenziale, ed è edito dalle Edizioni Ca’ Foscari a cura di Vera Ribaudo e Tiziano Zanato (si può trovare in digitale a questo cliccando qui  Il commercio e la sua anima (se ne discusso alcune sere fa al Canova Club di Milano, davanti a un pubblico di imprenditori, manager, donne e uomini della finanza e della comunicazione). Le regole di vita del buon mercante (che deve vestirsi “in modo sobrio ed elegante”). Le prudenze nel fare ed esigere credito (un’accorta diversificazione del rischio e un corretto calcolo ei tempi). I principi della contabilità (si intravvedono i canoni che poi Luca Pacioli definirà con la “partita doppia”), l’affidabilità, la formazione dei figli per il mondo degli affari, la cura per la rete degli scambi, il senso del rischio ma anche la necessità di stare in guardia contro gli eccessi dell’avidità. E i rapporti con la politica (starne alla larga, avverte il mercante). E’ di radici veneziane, Cotrugli (nato a Ragusa, l’attuale Dubrovnik in Croazia, nel 1416, allora dominio della Repubblica di Venezia). Ha studiato filosofia all’università di Bologna. E’ vissuto facendo buoni affari e teorizzandone valore e senso. Traccia l’ideale del “mercante perfetto”. E lega appunto, in un patto virtuoso e di reciproche convenienze, etica e affari. Fare soldi ha una sua moralità, una responsabilità “pubblica”.

C’è, nella storia italiana, pur se altalenante, una profonda dimensione etica che segna “lo spirito del capitalismo”. Un’idea alta dell’impresa, nella consapevolezza che comunque competizione e confronto sui mercati sono un gioco ruvido, spigoloso, duro, ma da seguire in un contesto di regole chiare ed efficaci. Il libro di Cotrugli ne è testimonianza manifesta. E tutt’altro che unica.

Si può fare un passo indietro, d’oltre un secolo, per leggere il “Costituto” approvato nel 1309 come norma fondante della città di Siena, già allora ricca di mercanti, banchieri, imprenditori: chi governa deve avere a cuore “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini” (un testo che Ermete Realacci, presidente di Symbola e presidente della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, ama citare spesso, come testimonianza storica della “qualità” dello sviluppo economico).

Bellezza, dunque. E prosperità. Estetica con funzione etica e convenienza economica. L’ispirazione è filosofica, nella relazione virtuosa del “kalòs kai agathòs” caro ai greci, il “bello e buono” che sa di virtù e valore. La portata è appunto economica, di orgoglio identitario e convenienza.  Pochi anni dopo quel “Costituto”, tra il 1338 e il 1339, Ambrogio Lorenzetti dipingerà, nella Sala dei Nove  del Palazzo Pubblico di Siena, una delle opere più significative dell’arte italiana, l’”Allegoria ed Effetti del Buon e del Cattivo Governo”: nella città ben governata prosperano affari, scambi, manifatture, la vita civile è piacevole, fioriscono arti e mestieri. Altrimenti, con “il cattivo governo”, tutto va in rovina.

La relazione virtuosa tra etica e affari resta forte, nel tempo. Vive nella Firenze di Cosimo il Vecchio e nelle signorie dei principi e dei mercanti mecenati. Riprende vigore negli scritti dell’illuminismo, tra la Milano dei Verri con la loro rivista “Il Caffè” e la Napoli dei sofisticati economisti di respiro europeo, l’abate Ferdinando Galliani buon frequentatore dei salotti di Parigi con Diderot e Voltaire (“Noi francesi non abbiamo che gli spiccoli dell’esprit, a Napoli hanno i lingotti”, si diceva di lui) e Antonio Genovesi con le sue lungimiranti “Lezioni di economia civile”. Torna alla ribalta, negli anni dinamici del boom economico, con Adriano Olivetti (“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia… Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica… A volte, quando lavoro fino a tardi, vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza”). E con Leopoldo Pirelli, con “Le dieci regole del buon imprenditore” scritte nell’autunno del 1986 (“La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi fra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita”). Parole molto chiare, ancora oggi d’attualità, in tempi in cui si ragiona di “fabbrica bella”, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e dunque anche per queste ragioni competitiva. Benedetto Cotrugli, con la sua sapienza lungimirante sul “buon mercante”, sarebbe d’accordo.

Una storia (solo) italiana

La narrazione delle relazioni fra industria e politica alle origini dello Stato unitario

 

Ogni impresa ha una storia. E l’insieme delle imprese ha una storia. E la comprensione della storia complessiva delle imprese di un territorio, è importante per comprenderne meglio le prospettive e la cultura della produzione che lo rende vivo e in grado di crescere.

E’ quanto accade leggendo l’ultimo prodotto della capacità letteraria di Patrizio Bianchi, professore ordinario di Economia applicata nell’Università di Ferrara (dove è stato rettore fino al 2010), ma soprattutto importante conoscitore della storia economica italiana oltre che capace narratore di quest’ultima. Nel suo “Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea”, appena pubblicato Bianchi traccia la storia economica dell’Italia dall’unità ai primi anni del ‘900, guardando soprattutto all’industria e raccontando in modo chiaro e completo l’origine di molti degli attuali problemi che ancora devono essere superati.

L’intento più particolare di Bianchi è quello di offrire una lettura prospettica dei processi di trasformazione delle istituzioni prendendo come “caso di studio” le vicende della nascita e della prima evoluzione del regno d’Italia, visto come una sorta di laboratorio delle trasformazioni di una società e delle sue istituzioni. L’ipotesi – in buona parte condivisibile -, è che il modo stesso in cui si trasformano le istituzioni possa definire  poi le modalità con cui il sistema economico e sociale si muoverà nel tempo.

Bianchi quindi inizia analizzando la politica economica di Cavour per poi sintetizzare (e bene), in una trentina di pagine la nascita dell’Italia unita e quindi quelle che, secondo l’autore, sono le “radici della malattia italiana”. Successivamente sono approfonditi i particolari della situazione economica nazionale postunitaria e delle politiche messe in atto per intervenire su di essa fino, come si è detto, ai primi del ‘900.

Dense e importanti sono poi le conclusioni, con il ricorrere, per Bianchi, di temi che da quell’epoca si ritrovano intatti tutti ancora oggi: il centralismo versus le autonomie locali, la qualità delle istituzioni e il loro ruolo, il rapporto tra governabilità e rappresentatività.

Scrive Bianchi proprio alla conclusione del suo libro: “Camminando si compie il cammino, e voltandosi indietro si vede il percorso che mai più si ritornerà a calpestare. La lunga crisi, non solo economica, che sta segnando questa nostra vita collettiva evidenzia quanto, dopo centocinquant’anni, il tema dell’unificazione civile e morale dell’intero paese e di tutta la sua società torni a essere cruciale per lo sviluppo democratico”.

E bella è la citazione all’inizio e alla fine del libro di un passo di Antonio Machado, intenso poeta spagnolo, che calza perfettamente sulla vicenda italiana: “Tu che cammini, sappi che non esiste un sentiero preordinato dinnanzi a noi, il sentiero si fa camminando, sono le tue orme il sentiero e nulla più”.

Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea

Patrizio Bianchi

il Mulino, 2017

La narrazione delle relazioni fra industria e politica alle origini dello Stato unitario

 

Ogni impresa ha una storia. E l’insieme delle imprese ha una storia. E la comprensione della storia complessiva delle imprese di un territorio, è importante per comprenderne meglio le prospettive e la cultura della produzione che lo rende vivo e in grado di crescere.

E’ quanto accade leggendo l’ultimo prodotto della capacità letteraria di Patrizio Bianchi, professore ordinario di Economia applicata nell’Università di Ferrara (dove è stato rettore fino al 2010), ma soprattutto importante conoscitore della storia economica italiana oltre che capace narratore di quest’ultima. Nel suo “Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea”, appena pubblicato Bianchi traccia la storia economica dell’Italia dall’unità ai primi anni del ‘900, guardando soprattutto all’industria e raccontando in modo chiaro e completo l’origine di molti degli attuali problemi che ancora devono essere superati.

L’intento più particolare di Bianchi è quello di offrire una lettura prospettica dei processi di trasformazione delle istituzioni prendendo come “caso di studio” le vicende della nascita e della prima evoluzione del regno d’Italia, visto come una sorta di laboratorio delle trasformazioni di una società e delle sue istituzioni. L’ipotesi – in buona parte condivisibile -, è che il modo stesso in cui si trasformano le istituzioni possa definire  poi le modalità con cui il sistema economico e sociale si muoverà nel tempo.

Bianchi quindi inizia analizzando la politica economica di Cavour per poi sintetizzare (e bene), in una trentina di pagine la nascita dell’Italia unita e quindi quelle che, secondo l’autore, sono le “radici della malattia italiana”. Successivamente sono approfonditi i particolari della situazione economica nazionale postunitaria e delle politiche messe in atto per intervenire su di essa fino, come si è detto, ai primi del ‘900.

Dense e importanti sono poi le conclusioni, con il ricorrere, per Bianchi, di temi che da quell’epoca si ritrovano intatti tutti ancora oggi: il centralismo versus le autonomie locali, la qualità delle istituzioni e il loro ruolo, il rapporto tra governabilità e rappresentatività.

Scrive Bianchi proprio alla conclusione del suo libro: “Camminando si compie il cammino, e voltandosi indietro si vede il percorso che mai più si ritornerà a calpestare. La lunga crisi, non solo economica, che sta segnando questa nostra vita collettiva evidenzia quanto, dopo centocinquant’anni, il tema dell’unificazione civile e morale dell’intero paese e di tutta la sua società torni a essere cruciale per lo sviluppo democratico”.

E bella è la citazione all’inizio e alla fine del libro di un passo di Antonio Machado, intenso poeta spagnolo, che calza perfettamente sulla vicenda italiana: “Tu che cammini, sappi che non esiste un sentiero preordinato dinnanzi a noi, il sentiero si fa camminando, sono le tue orme il sentiero e nulla più”.

Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea

Patrizio Bianchi

il Mulino, 2017

Economia e impresa al servizio dell’uomo

In un intervento del Governatore di Banca d’Italia, la sintesi delle relazioni fra sviluppo economico, crescita d’impresa e capitale umano

L’azienda e l’impresa, l’organizzazione produttiva e il risultato di questa crescono con la consapevolezza dell’importanza della valorizzazione del ruolo umano nella produzione. Lo ha spiegato bene Ignazio Visco – Governatore della Banca d’Italia -, che in uno dei suoi ultimi interventi ha molto insistito sul significato delle relazioni fra uomo e nuova economia.

In “Un’economia a servizio dell’uomo” – intervento al convegno “Terre-moto cosa fare? Terza tappa: sicurezza, lavoro, economia” il 15 settembre scorso ad Assisi -, Visco ragiona partendo dalla attuale situazione dell’economia italiana per passare quindi alle misure messe in campo in termini di politica industriale per arrivare al significato e al peso degli aspetti umani dell’economia e della produzione.

Assolutamente importante – spiega il Governatore -, è la partecipazione delle imprese italiane alla “rivoluzione digitale”, premessa ormai imprescindibile per riagguantare in maniera solida la ripresa. Ma Visco aggiunge subito dopo: “Come ho sostenuto in altre occasioni, affinché un’offerta di lavoro più ampia e più qualificata possa trovare pieno utilizzo in impieghi che soddisfino le legittime aspettative delle nuove generazioni, occorre un salto di qualità che richiede il concorso convinto di tutti: imprenditori, lavoratori, amministratori pubblici. Servono investimenti robusti in conoscenze ampie e diffuse, in competenze nuove e interconnesse, ingredienti essenziali per far fronte ai rischi per l’occupazione e attenuare le disuguaglianze che la rivoluzione digitale rischia di accentuare”.

Istruzione e cultura, quindi, come elementi di crescita economica e sociale. Principio fondamentale anche per una buona cultura d’impresa che sia davvero cultura a tutto tondo e non solamente calcolo economico. E principio quindi che deve essere nutrito anche di investimenti importanti.

Concetto, questo, sul quale sempre Visco poche righe dopo insiste spiegando che “investire in cultura, in conoscenza, acquisire nuove competenze crea cittadini più consapevoli e lavoratori capaci di affrontare compiti e funzioni in rapido mutamento. È una condizione essenziale anche per rendere più equa la distribuzione del lavoro e della sua remunerazione. Bisogna essere consapevoli che sempre più sarà necessario investire nel ‘capitale umano’ nel corso dell’intera vita lavorativa. Sarà particolarmente importante imparare a far fronte a situazioni nuove, spesso inedite, non di routine. Bisognerà sempre più essere in grado di risolvere problemi, esercitare il pensiero critico, essere aperti all’innovazione e alla collaborazione con gli altri”.

Cittadini consapevoli, dunque, e quindi partecipi di una crescita economica che, sempre seguendo Visco nel suo intervento ad Assisi, significa anche crescita di un “capitale sociale” accanto a quello “umano”, fatto di valori civici e fiducia negli altri, di buona distribuzione della ricchezza e di correttezza nei rapporti fra lavoro e impresa e fra questa e le istituzioni.

Quanto espresso da Ignazio Visco ad Assisi a metà settembre scorso, è cosa da leggere e ragionare.

Un’economia a servizio dell’uomo

Ignazio Visco

Banca d’Italia, Intervento al convegno “Terre-moto cosa fare? Terza tappa: sicurezza, lavoro, economia”, 15 settembre 2017, Assisi

In un intervento del Governatore di Banca d’Italia, la sintesi delle relazioni fra sviluppo economico, crescita d’impresa e capitale umano

L’azienda e l’impresa, l’organizzazione produttiva e il risultato di questa crescono con la consapevolezza dell’importanza della valorizzazione del ruolo umano nella produzione. Lo ha spiegato bene Ignazio Visco – Governatore della Banca d’Italia -, che in uno dei suoi ultimi interventi ha molto insistito sul significato delle relazioni fra uomo e nuova economia.

In “Un’economia a servizio dell’uomo” – intervento al convegno “Terre-moto cosa fare? Terza tappa: sicurezza, lavoro, economia” il 15 settembre scorso ad Assisi -, Visco ragiona partendo dalla attuale situazione dell’economia italiana per passare quindi alle misure messe in campo in termini di politica industriale per arrivare al significato e al peso degli aspetti umani dell’economia e della produzione.

Assolutamente importante – spiega il Governatore -, è la partecipazione delle imprese italiane alla “rivoluzione digitale”, premessa ormai imprescindibile per riagguantare in maniera solida la ripresa. Ma Visco aggiunge subito dopo: “Come ho sostenuto in altre occasioni, affinché un’offerta di lavoro più ampia e più qualificata possa trovare pieno utilizzo in impieghi che soddisfino le legittime aspettative delle nuove generazioni, occorre un salto di qualità che richiede il concorso convinto di tutti: imprenditori, lavoratori, amministratori pubblici. Servono investimenti robusti in conoscenze ampie e diffuse, in competenze nuove e interconnesse, ingredienti essenziali per far fronte ai rischi per l’occupazione e attenuare le disuguaglianze che la rivoluzione digitale rischia di accentuare”.

Istruzione e cultura, quindi, come elementi di crescita economica e sociale. Principio fondamentale anche per una buona cultura d’impresa che sia davvero cultura a tutto tondo e non solamente calcolo economico. E principio quindi che deve essere nutrito anche di investimenti importanti.

Concetto, questo, sul quale sempre Visco poche righe dopo insiste spiegando che “investire in cultura, in conoscenza, acquisire nuove competenze crea cittadini più consapevoli e lavoratori capaci di affrontare compiti e funzioni in rapido mutamento. È una condizione essenziale anche per rendere più equa la distribuzione del lavoro e della sua remunerazione. Bisogna essere consapevoli che sempre più sarà necessario investire nel ‘capitale umano’ nel corso dell’intera vita lavorativa. Sarà particolarmente importante imparare a far fronte a situazioni nuove, spesso inedite, non di routine. Bisognerà sempre più essere in grado di risolvere problemi, esercitare il pensiero critico, essere aperti all’innovazione e alla collaborazione con gli altri”.

Cittadini consapevoli, dunque, e quindi partecipi di una crescita economica che, sempre seguendo Visco nel suo intervento ad Assisi, significa anche crescita di un “capitale sociale” accanto a quello “umano”, fatto di valori civici e fiducia negli altri, di buona distribuzione della ricchezza e di correttezza nei rapporti fra lavoro e impresa e fra questa e le istituzioni.

Quanto espresso da Ignazio Visco ad Assisi a metà settembre scorso, è cosa da leggere e ragionare.

Un’economia a servizio dell’uomo

Ignazio Visco

Banca d’Italia, Intervento al convegno “Terre-moto cosa fare? Terza tappa: sicurezza, lavoro, economia”, 15 settembre 2017, Assisi

Intangibile forza d’impresa

Un’indagine condotta a più mani svela situazione, problemi e prospettive del sistema industriale italiano di fronte agli Intangible assets

Produzione, benessere e profitti si fanno anche con elementi organizzativi intangibili. Cultura d’impresa ai massimi livelli, dunque. Apporti, modi di essere, approcci  al prodotto e al suo processo di realizzazione che fanno parte del patrimonio di ogni impresa e che danno un’impronta diversa a seconda delle circostanze, della storia e della condizione attuale di ogni organizzazione della produzione.  Formazione e condivisione, quindi, ma non solo. Si tratta di ciò che – in termini sintetici -, viene riassunto sotto l’indicazione di Intangible assets e che è stato studiato in una indagine collettiva condotta dall’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) nato dopo la trasformazione dell’ISFOL con il ruolo di verificare e orientare le politiche sociali e del lavoro in Italia.

“Intangible assets survey. I risultati della Rilevazione statistica sugli investimenti intangibili delle imprese” è quindi una ricerca condotta a più mani su uno degli aspetti più importanti della gestione e dell’essenza stessa delle imprese.

Dopo un necessario inquadramento dello stato di fatto degli investimenti  intangibili in Italia e nel resto d’Europa, l’indagine fissa subito i suoi obiettivi conoscitivi e approfondisce quindi le caratteristiche degli investimenti in formazione aziendale. Viene posta attenzione ai livelli di spesa sostenuti dalle imprese e alle determinanti che conducono alle scelte di investimento, per poi passare  ad identificare più da vicino la situazione delle imprese italiane di fronte a questo aspetto della loro organizzazione e gestione. Il testo non è sempre di facile lettura, che tuttavia viene agevolata da un apparato importante di schemi e tabelle (istruttivo, per esempio, è lo schema che mette in relazione il settore industriale indagato con la graduatoria di rilevanza degli investimenti intangibili in termini di spesa per addetto).

Ciò che ne emerge non è un quadro composto solo da difficoltà. Scrivono gli autori: “Se, da una parte, gli investimenti intangibili delle imprese italiane non hanno ancora raggiunto un livello ottimale, dall’altra, si sta diffondendo fra le imprese una consapevolezza crescente della rilevanza di tali investimenti per il miglioramento dei propri obiettivi di performance in termini di competitività e internazionalizzazione”. Cultura d’impresa che si forma e si evolve, quindi. Con tutto ciò che rimane ancora da fare. Scrivono infatti ancora gli autori: “La formazione aziendale è l’attività intangibile più diffusa fra le imprese italiane ma si tende ad investire soprattutto in corsi di formazione anziché nelle modalità formative meno strutturate, capaci di favorire l’apprendimento informale, mostrando una strutturazione metodologica poco innovativa”.

Intangible assets survey. I risultati della Rilevazione statistica sugli investimenti intangibili delle imprese

AA.VV.

Inapp (ex Isfol), 2017

Un’indagine condotta a più mani svela situazione, problemi e prospettive del sistema industriale italiano di fronte agli Intangible assets

Produzione, benessere e profitti si fanno anche con elementi organizzativi intangibili. Cultura d’impresa ai massimi livelli, dunque. Apporti, modi di essere, approcci  al prodotto e al suo processo di realizzazione che fanno parte del patrimonio di ogni impresa e che danno un’impronta diversa a seconda delle circostanze, della storia e della condizione attuale di ogni organizzazione della produzione.  Formazione e condivisione, quindi, ma non solo. Si tratta di ciò che – in termini sintetici -, viene riassunto sotto l’indicazione di Intangible assets e che è stato studiato in una indagine collettiva condotta dall’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) nato dopo la trasformazione dell’ISFOL con il ruolo di verificare e orientare le politiche sociali e del lavoro in Italia.

“Intangible assets survey. I risultati della Rilevazione statistica sugli investimenti intangibili delle imprese” è quindi una ricerca condotta a più mani su uno degli aspetti più importanti della gestione e dell’essenza stessa delle imprese.

Dopo un necessario inquadramento dello stato di fatto degli investimenti  intangibili in Italia e nel resto d’Europa, l’indagine fissa subito i suoi obiettivi conoscitivi e approfondisce quindi le caratteristiche degli investimenti in formazione aziendale. Viene posta attenzione ai livelli di spesa sostenuti dalle imprese e alle determinanti che conducono alle scelte di investimento, per poi passare  ad identificare più da vicino la situazione delle imprese italiane di fronte a questo aspetto della loro organizzazione e gestione. Il testo non è sempre di facile lettura, che tuttavia viene agevolata da un apparato importante di schemi e tabelle (istruttivo, per esempio, è lo schema che mette in relazione il settore industriale indagato con la graduatoria di rilevanza degli investimenti intangibili in termini di spesa per addetto).

Ciò che ne emerge non è un quadro composto solo da difficoltà. Scrivono gli autori: “Se, da una parte, gli investimenti intangibili delle imprese italiane non hanno ancora raggiunto un livello ottimale, dall’altra, si sta diffondendo fra le imprese una consapevolezza crescente della rilevanza di tali investimenti per il miglioramento dei propri obiettivi di performance in termini di competitività e internazionalizzazione”. Cultura d’impresa che si forma e si evolve, quindi. Con tutto ciò che rimane ancora da fare. Scrivono infatti ancora gli autori: “La formazione aziendale è l’attività intangibile più diffusa fra le imprese italiane ma si tende ad investire soprattutto in corsi di formazione anziché nelle modalità formative meno strutturate, capaci di favorire l’apprendimento informale, mostrando una strutturazione metodologica poco innovativa”.

Intangible assets survey. I risultati della Rilevazione statistica sugli investimenti intangibili delle imprese

AA.VV.

Inapp (ex Isfol), 2017

Innovazione organizzativa e trasformazione digitale d’impresa

Condensati in un libro gli elementi essenziali per conoscere e applicare le nuove frontiere dell’organizzazione aziendale

L’impresa che vuole svilupparsi deve rinnovarsi anche dal punto di vista organizzativo. Anzi, l’innovazione organizzativa pare essere una delle vie maestre per arrivare a traguardi di sviluppo e di crescita sempre più alti. Un metodo – quello dell’innovazione organizzativa – che pare oggi avere dalla sua uno strumento di grande forza: la trasformazione digitale delle organizzazioni. Risultato dell’unione delle nuove tecnologie digitali con competenze e processi aziendali, la trasformazione digitale delle imprese è uno di quei temi complessi e spesso confusamente esplorati che hanno bisogno di schemi di interpretazione validi e affidabili.

E’ quanto ha provato a fare Francesco Venier (professore e ricercatore di Organizzazione aziendale  presso l’Università di Trieste), con il suo “Trasformazione digitale e capacità organizzativa. Le aziende italiane e la sfida del cambiamento” pubblicato da qualche settimana.  

L’autore affronta l’argomento con uno schema semplice. Prima di tutto approfondisce gli aspetti legati all’analisi della situazione  e cioè alla necessità e capacità di comprendere bene cosa sta accadendo attorno a dentro le imprese. Poi Venier  considera la capacità di progettazione organizzativa necessaria per saper cogliere le opportunità della trasformazione digitale. Infine, vengono esplorate le capacità di reale applicazione dei cambiamenti che la trasformazione digitale può provocare nelle organizzazioni della produzione.

Tutto naturalmente è poi condizionato dalle condizioni soggettive nelle quali ogni imprese si trova. Scrive per questo Venier: “Dal momento che tutte le imprese possono accedere allo stesso repertorio di conoscenze, frutto dell’elaborazione scientifica, dell’educazione scolastica, della formazione, della letteratura manageriale, ne risulta che, ceteris paribus, tutte le imprese dovrebbero poter godere delle medesime capacità di generare risultato economico durevole o per lo meno convergere verso uno stesso modello organizzativo. Tutto questo, però, non accade perché i sistemi organizzativi vengono disegnati ed agiti dagli attori seguendo si le regole della grammatica organizzativa, ma anche le regole non scritte e incorporate nella dimensione sociale dell’organizzazione che la rendono unica”.

Il libro non è sempre di immediata comprensione , ma ha ragione Giovanni Costa (Professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova), che nella sua prefazione definisce la fatica letteraria di Venier come una sorta di bussola per imprenditori e manager.

Trasformazione digitale e capacità organizzativa. Le aziende italiane e la sfida del cambiamento

Francesco Venier

Eut Edizioni Università di Trieste, 2017

Condensati in un libro gli elementi essenziali per conoscere e applicare le nuove frontiere dell’organizzazione aziendale

L’impresa che vuole svilupparsi deve rinnovarsi anche dal punto di vista organizzativo. Anzi, l’innovazione organizzativa pare essere una delle vie maestre per arrivare a traguardi di sviluppo e di crescita sempre più alti. Un metodo – quello dell’innovazione organizzativa – che pare oggi avere dalla sua uno strumento di grande forza: la trasformazione digitale delle organizzazioni. Risultato dell’unione delle nuove tecnologie digitali con competenze e processi aziendali, la trasformazione digitale delle imprese è uno di quei temi complessi e spesso confusamente esplorati che hanno bisogno di schemi di interpretazione validi e affidabili.

E’ quanto ha provato a fare Francesco Venier (professore e ricercatore di Organizzazione aziendale  presso l’Università di Trieste), con il suo “Trasformazione digitale e capacità organizzativa. Le aziende italiane e la sfida del cambiamento” pubblicato da qualche settimana.  

L’autore affronta l’argomento con uno schema semplice. Prima di tutto approfondisce gli aspetti legati all’analisi della situazione  e cioè alla necessità e capacità di comprendere bene cosa sta accadendo attorno a dentro le imprese. Poi Venier  considera la capacità di progettazione organizzativa necessaria per saper cogliere le opportunità della trasformazione digitale. Infine, vengono esplorate le capacità di reale applicazione dei cambiamenti che la trasformazione digitale può provocare nelle organizzazioni della produzione.

Tutto naturalmente è poi condizionato dalle condizioni soggettive nelle quali ogni imprese si trova. Scrive per questo Venier: “Dal momento che tutte le imprese possono accedere allo stesso repertorio di conoscenze, frutto dell’elaborazione scientifica, dell’educazione scolastica, della formazione, della letteratura manageriale, ne risulta che, ceteris paribus, tutte le imprese dovrebbero poter godere delle medesime capacità di generare risultato economico durevole o per lo meno convergere verso uno stesso modello organizzativo. Tutto questo, però, non accade perché i sistemi organizzativi vengono disegnati ed agiti dagli attori seguendo si le regole della grammatica organizzativa, ma anche le regole non scritte e incorporate nella dimensione sociale dell’organizzazione che la rendono unica”.

Il libro non è sempre di immediata comprensione , ma ha ragione Giovanni Costa (Professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova), che nella sua prefazione definisce la fatica letteraria di Venier come una sorta di bussola per imprenditori e manager.

Trasformazione digitale e capacità organizzativa. Le aziende italiane e la sfida del cambiamento

Francesco Venier

Eut Edizioni Università di Trieste, 2017

Troppo pochi laureati, troppi cervelli in fuga: ecco perché l’Italia innova e cresce lentamente  

Sono troppo pochi, i laureati in Italia. Soprattutto nei settori che riguardano l’innovazione digitale, vero cardine di sviluppo economico, nel cosiddetto mondo Stem (science, technology, engineering e mathematics). E troppi, tra quei laureati, coloro che vanno all’estero a cercare nuove e migliori opportunità di lavoro e di vita. E’ questo il quadro di sintesi di recenti ricerche e statistiche in giorni in cui ci si rallegra per una crescita economica migliore del previsto (+1,5% di Pil nel 2017 e forse altrettanto nel 2018, secondo le più recenti analisi di Bankitalia e Centro Studi Confindustria) ma si deve comunque prendere atto che è la crescita minore tra i grandi paesi Ue e senza riuscire ancora a intaccare radicalmente il nodo della crisi sociale: la carenza di lavoro e dunque di futuro tra le giovani generazioni.

Guardiamo alcuni dati. Secondo il rapporto annuale “Education at a Glance 2017” dell’Ocse, il 30% dei laureati italiani (nelle classi fra i 25 e i 64 anni, la popolazione in età da lavoro) ha un titolo di studio in discipline umanistiche, scienze sociali e informazione e solo il 24% nelle discipline Stem (in Germania, invece, il 35%): troppi avvocati, professori e comunicatori, pochi ingegneri e matematici, troppa cultura classica tradizionale e poca scientifica, per dirla in grande sintesi. Certo, dopo i dati sul titolo di studio, bisognerebbe anche discutere sui contenuti degli studi e sulla loro qualità. E varrebbe anche la pena ricordare (lo abbiamo fatto spesso in questo blog) che proprio le caratteristiche dell’innovazione in corso chiedono soprattutto studi multidisciplinari, culture “politecniche”, ingegneri-filosofi e umanisti memori del grande valore scientifico della stagione d’oro dell’Umanesimo. Resta il fatto che di ingegneri ne abbiamo pochi e ne servirebbero molti di più.

Ancora qualche dato dal Rapporto Ocse: solo il 18% degli italiani da 25 a 64 anni ha una laurea, rispetto alla media Ocse del 37% (siamo fanalino di coda); e se si guarda alle generazioni più giovani, 25-34 anni, il divario resta ampio: 26% di laureati in Italia contro il 57% della media Ocse. D’altronde, continuiamo a investire troppo poco nell’istruzione: il 4% appena del Pil, contro il 5,2% della media Ocse. Se la competitività si misura sul capitale umano, non stiamo affatto bene.

Nel “Global Human Capital Report 2017” del World Economic Forum l’Italia è solo al 35° posto, per una bassa partecipazione al mercato del lavoro, dovuta soprattutto al “gender gap” (poche le donne, anche se in percentuali crescenti negli anni e in gran parte concentrate nelle lauree in processi educativi) e alla larga disoccupazione giovanile, aggravata dal forte fenomeno dei “neet” (i ragazzi che non studiano e non lavorano, un triste primato italiano in Europa: il 19,9%, dati Ue, luglio 2017).

Potremmo fare molto meglio, suggerisce il World Economic Forum, se investissimo per migliorare le prestazioni del nostro capitale umano sulla scia di quel che fanno le economie più avanzate. Si torna anche da questo punto di vista alla relazione tra formazione di qualità, soprattutto nelle materie scientifiche, e opportunità di lavoro e di crescita. E’ sempre il Rapporto Ocse a ricordare che il tasso di occupazione dei laureati adulti in Italia varia dal 71% delle “belle arti” all’85% per “ingegneria, produzione industriale ed edilizia”.

Nel disequilibrio tra domanda e offerta, ad appesantire la condizione italiana e a rallentare i processi di sviluppo economico (l’economia finalmente cresce, dopo un decennio di crisi, ma poco) si aggiunge il fenomeno della “fuga dei talenti”: dal 2008 al 2015 (analisi del Centro Studi Confindustria/ “IlSole24Ore” 15 settembre) il 51% degli italiani che hanno spostato la residenza all’estero aveva un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, 260mila persone. In gran parte con alto titolo di studio. E dunque con un altissimo costo per il Paese. Fare studiare tanti giovani (calcola sempre il Centro Studi Confindustria) è costato alle famiglie e al sistema pubblico 42,8 miliardi di euro. In altri termini: quasi 43 miliardi di investimenti pubblici e privati in formazione di cui beneficeranno quei Paesi in cui i nostri giovani sono andati a lavorare e vivere. 43 miliardi “bruciati” per l’economia italiana. Il peggio è che quel dato si fa via via più pesante: 14 miliardi solo nel 2015. Un punto di Pil. La “fuga dei talenti” costa un punto di Pil, di ricchezza, di sviluppo. Tutto induce a pensare che nel 2016 e nel 2017 il fenomeno resti di analoghe allarmanti dimensioni.

Che fare? Investire sull’innovazione. E sulla formazione. Sulle scuole superiori (con occhi molto più attenti alle scuole tecniche) e sulle università, migliorando la qualità degli studi e la loro relazione con l’evoluzione del mondo digitale (anche per dare ai ragazzi le conoscenze critiche e le competenze necessarie e capire e “governare” le trasformazioni in corso). E continuare a stimolare le imprese perché anche i loro investimenti in ricerca, innovazione e tecnologie digitali vadano avanti. La competitività ha come leva essenziale un capitale umano che sappia non solo reggere le sfide dell’innovazione, ma definirle, anticiparle, dare loro “forma”.

Può essere utile rileggere Keynes: “Siamo colpiti da un nuovo malessere… la disoccupazione tecnologica. Una forma di disoccupazione causata dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore a quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare il lavoro. Ma è soltanto un disallineamento temporaneo”. Era il 1930, quando Keynes scriveva un libro di grande successo, “Possibilità economiche per i nostri nipoti”. Adesso, a quasi novant’anni di distanza, vale la pena riflettere sulla ancora più rapida trasformazione tecnologica in corso e sulla velocità di cambiamenti e problemi. Il “disallineamento temporaneo”, come Keynes, interventista in economia, sapeva benissimo, va governato. Appunto con politiche dell’innovazione e del lavoro.

Nel dibattito in corso sulle caratteristiche e le conseguenze dell’economia digitale, sugli effetti di “Industry4.0”, si confrontano opinioni diverse, non solo tra gli economisti, ma anche tra gli imprenditori hi tech: se i robot distruggano lavoro o ne stimolino anche di nuovi, se e come avvenga il “riallineamento” keynesiano. Un fatto è certo: non innovare non crea lavoro. O, ribaltando il concetto, “solo l’innovazione può creare i nuovi posti” (Luca De Biase, “IlSole24Ore, 20 agosto). Dunque, meglio investire. L’economia digitale non è la terra promessa. Ma va comunque seguita.

Sono troppo pochi, i laureati in Italia. Soprattutto nei settori che riguardano l’innovazione digitale, vero cardine di sviluppo economico, nel cosiddetto mondo Stem (science, technology, engineering e mathematics). E troppi, tra quei laureati, coloro che vanno all’estero a cercare nuove e migliori opportunità di lavoro e di vita. E’ questo il quadro di sintesi di recenti ricerche e statistiche in giorni in cui ci si rallegra per una crescita economica migliore del previsto (+1,5% di Pil nel 2017 e forse altrettanto nel 2018, secondo le più recenti analisi di Bankitalia e Centro Studi Confindustria) ma si deve comunque prendere atto che è la crescita minore tra i grandi paesi Ue e senza riuscire ancora a intaccare radicalmente il nodo della crisi sociale: la carenza di lavoro e dunque di futuro tra le giovani generazioni.

Guardiamo alcuni dati. Secondo il rapporto annuale “Education at a Glance 2017” dell’Ocse, il 30% dei laureati italiani (nelle classi fra i 25 e i 64 anni, la popolazione in età da lavoro) ha un titolo di studio in discipline umanistiche, scienze sociali e informazione e solo il 24% nelle discipline Stem (in Germania, invece, il 35%): troppi avvocati, professori e comunicatori, pochi ingegneri e matematici, troppa cultura classica tradizionale e poca scientifica, per dirla in grande sintesi. Certo, dopo i dati sul titolo di studio, bisognerebbe anche discutere sui contenuti degli studi e sulla loro qualità. E varrebbe anche la pena ricordare (lo abbiamo fatto spesso in questo blog) che proprio le caratteristiche dell’innovazione in corso chiedono soprattutto studi multidisciplinari, culture “politecniche”, ingegneri-filosofi e umanisti memori del grande valore scientifico della stagione d’oro dell’Umanesimo. Resta il fatto che di ingegneri ne abbiamo pochi e ne servirebbero molti di più.

Ancora qualche dato dal Rapporto Ocse: solo il 18% degli italiani da 25 a 64 anni ha una laurea, rispetto alla media Ocse del 37% (siamo fanalino di coda); e se si guarda alle generazioni più giovani, 25-34 anni, il divario resta ampio: 26% di laureati in Italia contro il 57% della media Ocse. D’altronde, continuiamo a investire troppo poco nell’istruzione: il 4% appena del Pil, contro il 5,2% della media Ocse. Se la competitività si misura sul capitale umano, non stiamo affatto bene.

Nel “Global Human Capital Report 2017” del World Economic Forum l’Italia è solo al 35° posto, per una bassa partecipazione al mercato del lavoro, dovuta soprattutto al “gender gap” (poche le donne, anche se in percentuali crescenti negli anni e in gran parte concentrate nelle lauree in processi educativi) e alla larga disoccupazione giovanile, aggravata dal forte fenomeno dei “neet” (i ragazzi che non studiano e non lavorano, un triste primato italiano in Europa: il 19,9%, dati Ue, luglio 2017).

Potremmo fare molto meglio, suggerisce il World Economic Forum, se investissimo per migliorare le prestazioni del nostro capitale umano sulla scia di quel che fanno le economie più avanzate. Si torna anche da questo punto di vista alla relazione tra formazione di qualità, soprattutto nelle materie scientifiche, e opportunità di lavoro e di crescita. E’ sempre il Rapporto Ocse a ricordare che il tasso di occupazione dei laureati adulti in Italia varia dal 71% delle “belle arti” all’85% per “ingegneria, produzione industriale ed edilizia”.

Nel disequilibrio tra domanda e offerta, ad appesantire la condizione italiana e a rallentare i processi di sviluppo economico (l’economia finalmente cresce, dopo un decennio di crisi, ma poco) si aggiunge il fenomeno della “fuga dei talenti”: dal 2008 al 2015 (analisi del Centro Studi Confindustria/ “IlSole24Ore” 15 settembre) il 51% degli italiani che hanno spostato la residenza all’estero aveva un’età compresa tra i 15 e i 39 anni, 260mila persone. In gran parte con alto titolo di studio. E dunque con un altissimo costo per il Paese. Fare studiare tanti giovani (calcola sempre il Centro Studi Confindustria) è costato alle famiglie e al sistema pubblico 42,8 miliardi di euro. In altri termini: quasi 43 miliardi di investimenti pubblici e privati in formazione di cui beneficeranno quei Paesi in cui i nostri giovani sono andati a lavorare e vivere. 43 miliardi “bruciati” per l’economia italiana. Il peggio è che quel dato si fa via via più pesante: 14 miliardi solo nel 2015. Un punto di Pil. La “fuga dei talenti” costa un punto di Pil, di ricchezza, di sviluppo. Tutto induce a pensare che nel 2016 e nel 2017 il fenomeno resti di analoghe allarmanti dimensioni.

Che fare? Investire sull’innovazione. E sulla formazione. Sulle scuole superiori (con occhi molto più attenti alle scuole tecniche) e sulle università, migliorando la qualità degli studi e la loro relazione con l’evoluzione del mondo digitale (anche per dare ai ragazzi le conoscenze critiche e le competenze necessarie e capire e “governare” le trasformazioni in corso). E continuare a stimolare le imprese perché anche i loro investimenti in ricerca, innovazione e tecnologie digitali vadano avanti. La competitività ha come leva essenziale un capitale umano che sappia non solo reggere le sfide dell’innovazione, ma definirle, anticiparle, dare loro “forma”.

Può essere utile rileggere Keynes: “Siamo colpiti da un nuovo malessere… la disoccupazione tecnologica. Una forma di disoccupazione causata dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore a quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare il lavoro. Ma è soltanto un disallineamento temporaneo”. Era il 1930, quando Keynes scriveva un libro di grande successo, “Possibilità economiche per i nostri nipoti”. Adesso, a quasi novant’anni di distanza, vale la pena riflettere sulla ancora più rapida trasformazione tecnologica in corso e sulla velocità di cambiamenti e problemi. Il “disallineamento temporaneo”, come Keynes, interventista in economia, sapeva benissimo, va governato. Appunto con politiche dell’innovazione e del lavoro.

Nel dibattito in corso sulle caratteristiche e le conseguenze dell’economia digitale, sugli effetti di “Industry4.0”, si confrontano opinioni diverse, non solo tra gli economisti, ma anche tra gli imprenditori hi tech: se i robot distruggano lavoro o ne stimolino anche di nuovi, se e come avvenga il “riallineamento” keynesiano. Un fatto è certo: non innovare non crea lavoro. O, ribaltando il concetto, “solo l’innovazione può creare i nuovi posti” (Luca De Biase, “IlSole24Ore, 20 agosto). Dunque, meglio investire. L’economia digitale non è la terra promessa. Ma va comunque seguita.

“Il Canto della fabbrica” dove industria digitale e musica si incontrano

Si sono conclusi con successo i due appuntamenti del concerto “La fabbrica tra i ciliegi”, diretto dal Maestro Salvatore Accardo con gli archi dell’Orchestra da Camera Italiana nell’ambito del Festival Mito SettembreMusica.

Due le location che hanno ospitato il Maestro e l’orchestra: il Piccolo Teatro Studio Melato di Milano e il Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese.

Affollatissima e applaudita l’esecuzione del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, con 900 spettatori che hanno ascoltato le musiche di Bach e Čajkovskij e l’esecuzione in prima assoluta del brano “Il Canto della fabbrica”, suonato proprio nel luogo in cui il compositore maestro e violinista Francesco Fiore si era fatto ispirare per comporne note e melodie, e dove le macchine e i pneumatici sono state quinte silenziose dell’esecuzione.

La serata al Polo di Settimo Torinese era stata preceduta dall’esecuzione milanese del 7 settembre al Piccolo Teatro Studio di Milano, davanti a 350 spettatori.

Si sono conclusi con successo i due appuntamenti del concerto “La fabbrica tra i ciliegi”, diretto dal Maestro Salvatore Accardo con gli archi dell’Orchestra da Camera Italiana nell’ambito del Festival Mito SettembreMusica.

Due le location che hanno ospitato il Maestro e l’orchestra: il Piccolo Teatro Studio Melato di Milano e il Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese.

Affollatissima e applaudita l’esecuzione del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, con 900 spettatori che hanno ascoltato le musiche di Bach e Čajkovskij e l’esecuzione in prima assoluta del brano “Il Canto della fabbrica”, suonato proprio nel luogo in cui il compositore maestro e violinista Francesco Fiore si era fatto ispirare per comporne note e melodie, e dove le macchine e i pneumatici sono state quinte silenziose dell’esecuzione.

La serata al Polo di Settimo Torinese era stata preceduta dall’esecuzione milanese del 7 settembre al Piccolo Teatro Studio di Milano, davanti a 350 spettatori.

Alcuni momenti della serata al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano - 7 settembre 2017

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Alcuni momenti delle prove e del concerto “La fabbrica tra i ciliegi” - Polo Industriale Pirelli a Settimo Torinese - 8 settembre 2017

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Essere sociale d’impresa

Un libro appena pubblicato racconta l’evoluzione delle organizzazioni della produzione viste come istituzioni sociali

 

L’impresa come “essere” sociale. Entità viva, non meccanica. Altro dalla perfetta organizzazione di una macchina. Eppure capace di organizzare la produzione e rispondere efficacemente di fronte agli imprevisti. Concetti apparentemente scontati, eppure da comprendere meglio.

E’ quanto ha fatto Paola De Vivo (che insegna Sociologia economica e Politiche per lo sviluppo territoriale presso l’Università di Napoli Federico II), con il suo “L’impresa come istituzione sociale” apparso in questi giorni. Un libro di studio, ma anche per chi, protagonista d’impresa, vuole sistematizzare ciò che ogni giorno vive.

Il testo parte da una considerazione. Le scienze sociali hanno gradualmente sottratto il tema dell’impresa e dell’azione imprenditoriale al campo di trattazione esclusivo della scienza economica. L’impresa quindi non è solo economia, ma anche (e spesso soprattutto) altro. L’impresa è un’istituzione storica e sociale dotata di specifiche modalità di organizzazione, fondate su rapporti di cooperazione e di conflitto tra gli attori sociali che le danno vita. Ed è anche, naturalmente, una istituzione complessa, che deve essere governata da regole (non sempre formali), che tutte insieme sostanziano l’azione imprenditoriale, le logiche di interazione tra gli attori che vi partecipano e gli esiti individuali e collettivi a cui pervengono. E’ da tutto questo che, fra l’altro, nasce, cresce, si forma la cultura propria di ogni impresa: sintesi di ogni particolare di fabbrica e d’ufficio, d’estro produttivo e calcolo.

Paola De Vivo racconta quindi il ruolo sociale e umano dell’impresa iniziando dal Medioevo, passando  alla rivoluzione industriale e arrivando quindi all’emergere del capitalismo familiare e manageriale. Si passa poi alla fase critica del capitalismo (con la crisi del ’29) e il passaggio dall’economia di mercato a quella di Stato. De Vivo affronta poi la crisi degli anni Settanta e il ruolo delle imprese con la conseguente regolazione sociale dell’economia. L’ultima parte del libro è dedicata alle relazioni fra impresa, istituzioni e sviluppo.

Ciò che emerge dal libro (anche per la capacità di scrittura dell’autrice), è una storia della cultura d’impresa nel tempo. Belle le ultime righe: “Le diversità storiche non soltanto non vanno rimosse, ma anzi costituiscono le basi da cui le istituzioni e le organizzazioni sociali traggono alimento per adattare e plasmare i propri comportamenti. Le imprese, in questa prospettiva, diventano delle istituzioni sociali e non solo un anonimo soggetto del mercato”.

 

L’impresa come istituzione sociale

Paola De Vivo

Il Mulino, 2017

Un libro appena pubblicato racconta l’evoluzione delle organizzazioni della produzione viste come istituzioni sociali

 

L’impresa come “essere” sociale. Entità viva, non meccanica. Altro dalla perfetta organizzazione di una macchina. Eppure capace di organizzare la produzione e rispondere efficacemente di fronte agli imprevisti. Concetti apparentemente scontati, eppure da comprendere meglio.

E’ quanto ha fatto Paola De Vivo (che insegna Sociologia economica e Politiche per lo sviluppo territoriale presso l’Università di Napoli Federico II), con il suo “L’impresa come istituzione sociale” apparso in questi giorni. Un libro di studio, ma anche per chi, protagonista d’impresa, vuole sistematizzare ciò che ogni giorno vive.

Il testo parte da una considerazione. Le scienze sociali hanno gradualmente sottratto il tema dell’impresa e dell’azione imprenditoriale al campo di trattazione esclusivo della scienza economica. L’impresa quindi non è solo economia, ma anche (e spesso soprattutto) altro. L’impresa è un’istituzione storica e sociale dotata di specifiche modalità di organizzazione, fondate su rapporti di cooperazione e di conflitto tra gli attori sociali che le danno vita. Ed è anche, naturalmente, una istituzione complessa, che deve essere governata da regole (non sempre formali), che tutte insieme sostanziano l’azione imprenditoriale, le logiche di interazione tra gli attori che vi partecipano e gli esiti individuali e collettivi a cui pervengono. E’ da tutto questo che, fra l’altro, nasce, cresce, si forma la cultura propria di ogni impresa: sintesi di ogni particolare di fabbrica e d’ufficio, d’estro produttivo e calcolo.

Paola De Vivo racconta quindi il ruolo sociale e umano dell’impresa iniziando dal Medioevo, passando  alla rivoluzione industriale e arrivando quindi all’emergere del capitalismo familiare e manageriale. Si passa poi alla fase critica del capitalismo (con la crisi del ’29) e il passaggio dall’economia di mercato a quella di Stato. De Vivo affronta poi la crisi degli anni Settanta e il ruolo delle imprese con la conseguente regolazione sociale dell’economia. L’ultima parte del libro è dedicata alle relazioni fra impresa, istituzioni e sviluppo.

Ciò che emerge dal libro (anche per la capacità di scrittura dell’autrice), è una storia della cultura d’impresa nel tempo. Belle le ultime righe: “Le diversità storiche non soltanto non vanno rimosse, ma anzi costituiscono le basi da cui le istituzioni e le organizzazioni sociali traggono alimento per adattare e plasmare i propri comportamenti. Le imprese, in questa prospettiva, diventano delle istituzioni sociali e non solo un anonimo soggetto del mercato”.

 

L’impresa come istituzione sociale

Paola De Vivo

Il Mulino, 2017

Come produrre benessere d’impresa

Una serie di ricerche correlate racconta le diverse modalità per mettere a punto e gestire con efficacia il welfare aziendale

La buona impresa produce benessere. E non solo attraverso ciò che direttamente ottiene attraverso la sua organizzazione produttiva. C’è anche dell’altro. Presenza fissa – non solo da oggi -, in un’azienda gestita correttamente, ciò che adesso viene indicato come welfare aziendale è ormai uno degli elementi fondanti una cultura d’impresa che sia davvero a tutto tondo. Con tutte le sfaccettature del caso, dettate dal territorio, dagli ambienti, dalle storie umane. Raccontarne le esperienze e importante, leggerne le vicende è anche interessante. Per questo è utile la raccolta di ricerche contenute in “Progettare un welfare aziendale condiviso” curata da Marino Cavallo e Daniela Oliva.

Le indagini ruotano attorno alla attività di riflessione e testimonianza maturata nel corso di alcuni progetti e attività che hanno visto la Città Metropolitana (e prima Provincia) di Bologna protagonista e sostenitrice attiva di politiche pubbliche finalizzate a sostenere e valorizzare il lavoro, con particolare attenzione a quello femminile, a promuovere sinergie con le politiche delle imprese sui temi della conciliazione tra vita professionale e privata, delle pari opportunità di genere, del welfare aziendale e, più in generale, della responsabilità sociale. Punto concreto d’azione, sono stati “laboratori” di volta in volta attivati d’accordo fra Istituzioni e imprese e che vengono analizzati dalle indagini stesse di cui la raccolta dà conto.  Chi legge, oltre ad un buon inquadramento teorico e di metodo sul significato del welfare aziendale e dei meccanismi di collaborazione fra pubblico e privato, trova anche una serie di esempi d’impresa. E’ il caso del Gruppo Hera (una delle aziende energetiche più importanti del Paese), Domus Nova (un ospedale privato di Ravenna), Crif Bologna (azienda che si occupa di analisi e servizi per il sistema bancario e finanziario).

L’insieme delle ricerche delinea così una sorta di circolo virtuoso i cui effetti ricadono sulle comunità locali e che è composto da politiche pubbliche e private orientate entrambe all’accrescimento del ruolo sociale della produzione e dei sistemi di produzione. Welfare aziendale, appunto, che diventa condiviso al di là della fabbrica e dell’ufficio.

Progettare un welfare aziendale condiviso

A cura di Marino Cavallo e Daniela Oliva

CLUEB, 2017

Una serie di ricerche correlate racconta le diverse modalità per mettere a punto e gestire con efficacia il welfare aziendale

La buona impresa produce benessere. E non solo attraverso ciò che direttamente ottiene attraverso la sua organizzazione produttiva. C’è anche dell’altro. Presenza fissa – non solo da oggi -, in un’azienda gestita correttamente, ciò che adesso viene indicato come welfare aziendale è ormai uno degli elementi fondanti una cultura d’impresa che sia davvero a tutto tondo. Con tutte le sfaccettature del caso, dettate dal territorio, dagli ambienti, dalle storie umane. Raccontarne le esperienze e importante, leggerne le vicende è anche interessante. Per questo è utile la raccolta di ricerche contenute in “Progettare un welfare aziendale condiviso” curata da Marino Cavallo e Daniela Oliva.

Le indagini ruotano attorno alla attività di riflessione e testimonianza maturata nel corso di alcuni progetti e attività che hanno visto la Città Metropolitana (e prima Provincia) di Bologna protagonista e sostenitrice attiva di politiche pubbliche finalizzate a sostenere e valorizzare il lavoro, con particolare attenzione a quello femminile, a promuovere sinergie con le politiche delle imprese sui temi della conciliazione tra vita professionale e privata, delle pari opportunità di genere, del welfare aziendale e, più in generale, della responsabilità sociale. Punto concreto d’azione, sono stati “laboratori” di volta in volta attivati d’accordo fra Istituzioni e imprese e che vengono analizzati dalle indagini stesse di cui la raccolta dà conto.  Chi legge, oltre ad un buon inquadramento teorico e di metodo sul significato del welfare aziendale e dei meccanismi di collaborazione fra pubblico e privato, trova anche una serie di esempi d’impresa. E’ il caso del Gruppo Hera (una delle aziende energetiche più importanti del Paese), Domus Nova (un ospedale privato di Ravenna), Crif Bologna (azienda che si occupa di analisi e servizi per il sistema bancario e finanziario).

L’insieme delle ricerche delinea così una sorta di circolo virtuoso i cui effetti ricadono sulle comunità locali e che è composto da politiche pubbliche e private orientate entrambe all’accrescimento del ruolo sociale della produzione e dei sistemi di produzione. Welfare aziendale, appunto, che diventa condiviso al di là della fabbrica e dell’ufficio.

Progettare un welfare aziendale condiviso

A cura di Marino Cavallo e Daniela Oliva

CLUEB, 2017

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?