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Troppo pochi laureati e maltrattati, per reggere la sfida “humanifacturing”

Troppo pochi laureati, in Italia. E bistrattati, pagati male, costretti a fare lavori inadeguati. E’ questa la sintesi, sui media italiani, del recente Rapporto Ocse su “Strategia per le competenze” (6 ottobre). Con una conclusione sconfortante: in tempi in cui la competitività si gioca soprattutto sul “capitale umano”, il Paese continua a perdere preziose opportunità di sviluppo. E parecchi dei nostri giovani migliori scelgono d’andare via, cercando altrove migliori condizioni di lavoro e di vita. Sono i “cervelli in fuga”, centinaia di migliaia di “talenti” nel corso degli ultimi anni, un’emorragia che in un anno vale un punto di Pil: 14 miliardi, tra spese dello Stato e delle famiglie per formare ragazzi che poi vanno all’estero e quasi sempre non tornano più (indagine del Centro Studi Confindustria, ne abbiamo parlato nel blog del 19 settembre).

I dati dell’Ocse dicono che solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni completano il corso di studi universitari, contro una media Ocse del 30%. E l’Italia è l’unico paese del G7 in cui la quota di laureati in mansioni di routine è più alta di quella di laureati impiegati in processi complessi e con poteri decisionali. In generale, il 30% dei lavoratori hanno “competenze in eccesso” o sono “sovraqualificati” rispetto alle mansioni cui sono addetti. Eccola, l’inadeguatezza.

L’Ocse conferma un “mismatch” tra formazione e lavoro. E in precedenti analisi ha anche notato un eccesso di lauree in materie umanistiche (comprese quelle giuridiche) e una carenza grave di laureati “stem” (le iniziali di science, technology, engineering e mathematics). Un disastro, insomma. Una gravissima disfunzione del nostro sistema educativo, in cui spendiamo comunque troppo poco, il 4% del Pil contro il 5,2% della media Ocse. Poco. E male.

Ecco il secondo punto: la qualità dell’università. Le recenti cronache dei media sono state affollate dal nuovo scandalo detto “concorsopoli”: un sistema distorto, in moltissimi atenei, per favorire l’assegnazione di cattedre e incarichi a familiari, raccomandati, addetti fedeli a scuole accademiche e cordate di potere e interessi. Non è il primo scandalo, probabilmente non sarà l’ultimo. La magistratura indaga. Ma in attesa di giustizia, il giudizio che molti giovani possono ricavarne è terribile: l’Italia, ancora una volta, conferma d’essere il paese che premia le clientele e non il merito. Meglio, molto meglio, andarsene via.

Pochi laureati, bistrattati e umiliati, nel cuore dell’Accademia, il luogo della ricerca e della formazione più elevata, dai figli e dai protetti dei “baroni”.

Su cosa fare, il dibattito è aperto. Investimenti e riforme sull’istruzione (i governi recenti hanno cominciato a cambiare qualcosa). Premio per le università che, applicando al meglio i margini consentiti ai consigli d’amministrazione e ai Senati accademici dalla Riforma Gelmini in termini di autonomia, chiamano in cattedra insegnanti e ricercatori di qualità, anche dall’estero. E stimoli per una migliore collaborazione tra atenei e imprese che investono sui “talenti” e l’innovazione. Anche da questo punto di vista da Milano possono arrivare utili indicazioni: nelle università della metropoli aumenta il numero degli studenti che vengono qui a studiare dall’estero e le sue università più esposte alla competizione e ai paragoni internazionali (Bocconi, Politecnico, Humanitas, etc.) crescono facendo buona selezione tra docenti e allievi. Ne risentono positivamente l’attrattività e la competitività di tutto il territorio.

La sfida dello sviluppo è concentrata sull’utilizzo delle intelligenze. Sono tempi di “humanifacturing”, scrive Luca De Biase su “IlSole24Ore” (8 ottobre), parlando dei progetti di una delle migliori multinazionali italiane, Comau, con un efficace neologismo di sintesi tra “humanities”, le competenze umanistiche a cominciare dalla filosofia e delle “scienze del bello” e “manifacturing”, la straordinaria vocazione italiana alla manifattura di qualità. Servono “specializzazioni forti e apertura mentale ampia”, dicono in Comau. Tutt’altro che una contraddizione. Spiega Maurizio Cremonini, responsabile marketing di Comau: “Pensare, realizzare, fare funzionare l’architettura della fabbrica oggi è un lavoro complesso che richiede fortissime competenze tecniche. Ma le tecnologie evolvono velocemente e le pur necessarie specializzazioni diventano obsolete: senza una preparazione ampia è difficile stare al passo”. Ampia e cioè capace di capire e riorganizzare le complessità, rimodulare meccanismi, riscrivere relazioni e connessioni, dare forma mobile al cambiamento, ritracciare su misura macchine e competenze.

Industry4.0”, big data, cloud computing, robotica d’avanguardia, sistemi digital stanno modificando produzione, prodotti, lavoro. Lungo la prossima frontiera del futuro, la “meccatronica”, cresce solo chi innova. Chi cioè sa mettere in campo risorse per una nuova “civiltà delle macchine”, capaci di essere in linea con l’organizzazione digitale del lavoro e con le “connessioni” che già adesso segnano le nostre metropoli, tra dimensioni da “smart city” e sfide economiche e culturali da “sharing economy” (per averne idea, vale la pena leggere “La città di domani – Come le Reti stanno cambiando il futuro urbano” di Carlo Ratti, Einaudi e “Cambio di paradigma – Uscire dalla crisi pensando il futuro” di Mauro Magatti, Feltrinelli). Robotica a misura umana. E nuove scelte da “economia civile”.

“Ingegneri filosofi” e “ingegneri poeti”, abbiamo scritto più volte in questo blog. “Cultura politecnica”. E’ la sfida di frontiera per le nostre università e le nostre imprese: più laureati, migliori e meglio trattati. La chiave vera per lo sviluppo.

Troppo pochi laureati, in Italia. E bistrattati, pagati male, costretti a fare lavori inadeguati. E’ questa la sintesi, sui media italiani, del recente Rapporto Ocse su “Strategia per le competenze” (6 ottobre). Con una conclusione sconfortante: in tempi in cui la competitività si gioca soprattutto sul “capitale umano”, il Paese continua a perdere preziose opportunità di sviluppo. E parecchi dei nostri giovani migliori scelgono d’andare via, cercando altrove migliori condizioni di lavoro e di vita. Sono i “cervelli in fuga”, centinaia di migliaia di “talenti” nel corso degli ultimi anni, un’emorragia che in un anno vale un punto di Pil: 14 miliardi, tra spese dello Stato e delle famiglie per formare ragazzi che poi vanno all’estero e quasi sempre non tornano più (indagine del Centro Studi Confindustria, ne abbiamo parlato nel blog del 19 settembre).

I dati dell’Ocse dicono che solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni completano il corso di studi universitari, contro una media Ocse del 30%. E l’Italia è l’unico paese del G7 in cui la quota di laureati in mansioni di routine è più alta di quella di laureati impiegati in processi complessi e con poteri decisionali. In generale, il 30% dei lavoratori hanno “competenze in eccesso” o sono “sovraqualificati” rispetto alle mansioni cui sono addetti. Eccola, l’inadeguatezza.

L’Ocse conferma un “mismatch” tra formazione e lavoro. E in precedenti analisi ha anche notato un eccesso di lauree in materie umanistiche (comprese quelle giuridiche) e una carenza grave di laureati “stem” (le iniziali di science, technology, engineering e mathematics). Un disastro, insomma. Una gravissima disfunzione del nostro sistema educativo, in cui spendiamo comunque troppo poco, il 4% del Pil contro il 5,2% della media Ocse. Poco. E male.

Ecco il secondo punto: la qualità dell’università. Le recenti cronache dei media sono state affollate dal nuovo scandalo detto “concorsopoli”: un sistema distorto, in moltissimi atenei, per favorire l’assegnazione di cattedre e incarichi a familiari, raccomandati, addetti fedeli a scuole accademiche e cordate di potere e interessi. Non è il primo scandalo, probabilmente non sarà l’ultimo. La magistratura indaga. Ma in attesa di giustizia, il giudizio che molti giovani possono ricavarne è terribile: l’Italia, ancora una volta, conferma d’essere il paese che premia le clientele e non il merito. Meglio, molto meglio, andarsene via.

Pochi laureati, bistrattati e umiliati, nel cuore dell’Accademia, il luogo della ricerca e della formazione più elevata, dai figli e dai protetti dei “baroni”.

Su cosa fare, il dibattito è aperto. Investimenti e riforme sull’istruzione (i governi recenti hanno cominciato a cambiare qualcosa). Premio per le università che, applicando al meglio i margini consentiti ai consigli d’amministrazione e ai Senati accademici dalla Riforma Gelmini in termini di autonomia, chiamano in cattedra insegnanti e ricercatori di qualità, anche dall’estero. E stimoli per una migliore collaborazione tra atenei e imprese che investono sui “talenti” e l’innovazione. Anche da questo punto di vista da Milano possono arrivare utili indicazioni: nelle università della metropoli aumenta il numero degli studenti che vengono qui a studiare dall’estero e le sue università più esposte alla competizione e ai paragoni internazionali (Bocconi, Politecnico, Humanitas, etc.) crescono facendo buona selezione tra docenti e allievi. Ne risentono positivamente l’attrattività e la competitività di tutto il territorio.

La sfida dello sviluppo è concentrata sull’utilizzo delle intelligenze. Sono tempi di “humanifacturing”, scrive Luca De Biase su “IlSole24Ore” (8 ottobre), parlando dei progetti di una delle migliori multinazionali italiane, Comau, con un efficace neologismo di sintesi tra “humanities”, le competenze umanistiche a cominciare dalla filosofia e delle “scienze del bello” e “manifacturing”, la straordinaria vocazione italiana alla manifattura di qualità. Servono “specializzazioni forti e apertura mentale ampia”, dicono in Comau. Tutt’altro che una contraddizione. Spiega Maurizio Cremonini, responsabile marketing di Comau: “Pensare, realizzare, fare funzionare l’architettura della fabbrica oggi è un lavoro complesso che richiede fortissime competenze tecniche. Ma le tecnologie evolvono velocemente e le pur necessarie specializzazioni diventano obsolete: senza una preparazione ampia è difficile stare al passo”. Ampia e cioè capace di capire e riorganizzare le complessità, rimodulare meccanismi, riscrivere relazioni e connessioni, dare forma mobile al cambiamento, ritracciare su misura macchine e competenze.

Industry4.0”, big data, cloud computing, robotica d’avanguardia, sistemi digital stanno modificando produzione, prodotti, lavoro. Lungo la prossima frontiera del futuro, la “meccatronica”, cresce solo chi innova. Chi cioè sa mettere in campo risorse per una nuova “civiltà delle macchine”, capaci di essere in linea con l’organizzazione digitale del lavoro e con le “connessioni” che già adesso segnano le nostre metropoli, tra dimensioni da “smart city” e sfide economiche e culturali da “sharing economy” (per averne idea, vale la pena leggere “La città di domani – Come le Reti stanno cambiando il futuro urbano” di Carlo Ratti, Einaudi e “Cambio di paradigma – Uscire dalla crisi pensando il futuro” di Mauro Magatti, Feltrinelli). Robotica a misura umana. E nuove scelte da “economia civile”.

“Ingegneri filosofi” e “ingegneri poeti”, abbiamo scritto più volte in questo blog. “Cultura politecnica”. E’ la sfida di frontiera per le nostre università e le nostre imprese: più laureati, migliori e meglio trattati. La chiave vera per lo sviluppo.

Casualità oppure disegno?

Una analisi appena pubblicata racconta da un punto di vista particolare la storia dell’economia italiana negli ultimi 150 anni

Istituzioni e imprese. I legami ci sono e sono evidenti. Occorre analizzarli e capirli per comprendere poi quale strada abbiano davanti le aziende e, intanto, cosa le istituzioni debbano fare fornire sempre un contesto utile alla crescita.  Analisi e valutazione, quindi, non solo dell’oggi ma anche (forse soprattutto in alcuni casi), del passato. Analisi che deve essere compiuta con attenzione anche da chi si occupa d’impresa.

“Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano” è uno di quei libri utili per compiere quanto appena accennato. Fra l’analisi storica e quella economica e sociale, il volume è stato scritto a più mani ma curato da Paolo Di Martino (senior lecturer di International Business History nell’Università di Birmingham) e Michelangelo Vasta (professore di Storia economica nell’Università di Siena) e si muovo lungo un sentiero chiaramente tracciato dall’inizio del cammino. Nel secolo e mezzo trascorso dall’unificazione, è la tesi degli autori, l’Italia ha raggiunto livelli di ricchezza simili a quelli dei maggiori paesi industrializzati. Poi tutto si è improvvisamente fermato.  L’ondata di globalizzazione degli ultimi decenni ha però fatto emergere la debolezza del nostro sistema produttivo. Alla base di quanto è accanto, secondo chi ha composto il libro,  c’è una condizione: il capitalismo italiano è stato negativamente influenzato da istituzioni inefficienti, che hanno avuto un forte impatto sulle dimensioni e sulla governance delle imprese, come anche sulla formazione di capitale umano e sulla capacità innovativa. Ed è proprio da lì (capitale umano, innovazione, imprese) che occorre ripartire.

Il libro ha una struttura semplice. Il primo capitolo racconta l’evoluzione storica dell’economia italiana, il secondo e il terzo analizzano le istituzioni dal punto di vista dell’istruzione e delle attività di ricerca.  I successivi di capitoli guardano al resto delle istituzioni per arrivare a fissare da dove occorre iniziare per dare un futuro al Paese.

Quanto scritto dal gruppo di ricercatori coordinato da Di Martino e Vasta fornisce una visione certamente pessimista della storia e del presente dell’Italia. “Ricchi per caso”, appunto. E’ evidente che si tratta di un’interpretazione con la quale si può non essere d’accordo (in tutto o in parte), ed è anche chiaro come alcuni elementi della fotografia scattata dell’Italia siano lasciati in ombra oppure sfocati. Ma certamente quanto coordinato da Di Martino e Vasta ha due grandi pregi: si fa leggere con chiarezza ed espone ragionamenti che vanno considerati con grande attenzione e serietà. Belle e utili le citazioni varie poste all’inizio di ogni capitolo da Gramsci a Wilde passando per Eliot, Tocqueville, Mastronardi, Lewis fino  a “La grande bellezza”.

Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano

Paolo Di Martino, Michelangelo Vasta (a cura di)

il Mulino, 2017

Una analisi appena pubblicata racconta da un punto di vista particolare la storia dell’economia italiana negli ultimi 150 anni

Istituzioni e imprese. I legami ci sono e sono evidenti. Occorre analizzarli e capirli per comprendere poi quale strada abbiano davanti le aziende e, intanto, cosa le istituzioni debbano fare fornire sempre un contesto utile alla crescita.  Analisi e valutazione, quindi, non solo dell’oggi ma anche (forse soprattutto in alcuni casi), del passato. Analisi che deve essere compiuta con attenzione anche da chi si occupa d’impresa.

“Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano” è uno di quei libri utili per compiere quanto appena accennato. Fra l’analisi storica e quella economica e sociale, il volume è stato scritto a più mani ma curato da Paolo Di Martino (senior lecturer di International Business History nell’Università di Birmingham) e Michelangelo Vasta (professore di Storia economica nell’Università di Siena) e si muovo lungo un sentiero chiaramente tracciato dall’inizio del cammino. Nel secolo e mezzo trascorso dall’unificazione, è la tesi degli autori, l’Italia ha raggiunto livelli di ricchezza simili a quelli dei maggiori paesi industrializzati. Poi tutto si è improvvisamente fermato.  L’ondata di globalizzazione degli ultimi decenni ha però fatto emergere la debolezza del nostro sistema produttivo. Alla base di quanto è accanto, secondo chi ha composto il libro,  c’è una condizione: il capitalismo italiano è stato negativamente influenzato da istituzioni inefficienti, che hanno avuto un forte impatto sulle dimensioni e sulla governance delle imprese, come anche sulla formazione di capitale umano e sulla capacità innovativa. Ed è proprio da lì (capitale umano, innovazione, imprese) che occorre ripartire.

Il libro ha una struttura semplice. Il primo capitolo racconta l’evoluzione storica dell’economia italiana, il secondo e il terzo analizzano le istituzioni dal punto di vista dell’istruzione e delle attività di ricerca.  I successivi di capitoli guardano al resto delle istituzioni per arrivare a fissare da dove occorre iniziare per dare un futuro al Paese.

Quanto scritto dal gruppo di ricercatori coordinato da Di Martino e Vasta fornisce una visione certamente pessimista della storia e del presente dell’Italia. “Ricchi per caso”, appunto. E’ evidente che si tratta di un’interpretazione con la quale si può non essere d’accordo (in tutto o in parte), ed è anche chiaro come alcuni elementi della fotografia scattata dell’Italia siano lasciati in ombra oppure sfocati. Ma certamente quanto coordinato da Di Martino e Vasta ha due grandi pregi: si fa leggere con chiarezza ed espone ragionamenti che vanno considerati con grande attenzione e serietà. Belle e utili le citazioni varie poste all’inizio di ogni capitolo da Gramsci a Wilde passando per Eliot, Tocqueville, Mastronardi, Lewis fino  a “La grande bellezza”.

Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano

Paolo Di Martino, Michelangelo Vasta (a cura di)

il Mulino, 2017

Impegno sociale d’impresa

L’insieme delle ricerche condotte dal CERIIS fotografa l’Italia delle aziende dal punto di vista dell’innovazione sociale

 

Imprese attente a cosa accade intorno a loro. Non solo dal punto di vista economico. E’ il vasto campo di attività che solo apparentemente hanno poco a che fare con i risultati aziendali, ma che, in realtà, sono strettamente collegate ai “numeri” con i quali si misura la gestione dell’organizzazione della produzione.

Una buona fotografica di quanto sta accadendo in Italia da questo punto di vista, è quella scattata da “L’innovazione delle imprese leader per creare valore sociale”, il terzo rapporto CERIIS sull’innovazione sociale in Italia curato da Matteo G. Caroli (ordinario di gestione delle imprese all’Università Luiss Guido Carli). Si tratta di una serie di ricerche e analisi  che hanno un obiettivo comune: focalizzare l’attenzione sulle diverse dimensioni e sfumature che la social innovation assume in Italia, ripercorrendo, anche se in maniera indiretta, le peculiarità di sviluppo delle differenti aree del Paese e dei rispettivi “ecosistemi di innovazione”.

La raccolta di ricerche è organizzata in tre parti. Nella prima sono presentati i risultati di un’indagine empirica condotta su un campione di grandi aziende italiane per comprendere il loro coinvolgimento nell’innovazione sociale; nella seconda, sono illustrati i risultati dell’insieme dei progetti e delle attività di innovazione sociale nel Paese. La terza parte, infine, ospita alcuni contributi scritti da dirigenti d’impresa che illustrano le politiche e le principali esperienze delle loro aziende di appartenenza tra politiche di sostenibilità e innovazione sociale.

Importanti, al di là della teoria, sono le diverse storie d’impresa che vengono raccontate: AXA Italia, BNP Paribas, ENEL, Salvatore Ferragamo, Wind; ma anche l’illustrazione delle caratteristiche dell’innovazione sociale in Italia, che emergono dall’analisi del database costruito dal CERIIS a partire dal 2014, affinato e ampliato nel corso del 2016. Una raccolta di 578 osservazioni relative a progetti e attività che rientrano nel perimetro dell’innovazione sociale.

Due le indicazioni di fondo che emergono dall’insieme delle indagini effettuate. Prima di tutto la vivacità delle attività di innovazione sociale d’impresa in Italia e, poi, la capacità delle grandi aziende, quando ben condotte, di avere un ruolo importante in questo ambito.

La raccolta di ricerche coordinate da Caroli non è sempre di immediata lettura, ma costituisce un buon bagaglio di informazioni per comprendere meglio le relazioni fra imprese (grandi) e impegno sociale.

L’innovazione delle imprese leader per creare valore sociale. Terzo rapporto CERIIS sull’innovazione sociale

a cura di Matteo G. Caroli

Franco Angeli, 2016

L’insieme delle ricerche condotte dal CERIIS fotografa l’Italia delle aziende dal punto di vista dell’innovazione sociale

 

Imprese attente a cosa accade intorno a loro. Non solo dal punto di vista economico. E’ il vasto campo di attività che solo apparentemente hanno poco a che fare con i risultati aziendali, ma che, in realtà, sono strettamente collegate ai “numeri” con i quali si misura la gestione dell’organizzazione della produzione.

Una buona fotografica di quanto sta accadendo in Italia da questo punto di vista, è quella scattata da “L’innovazione delle imprese leader per creare valore sociale”, il terzo rapporto CERIIS sull’innovazione sociale in Italia curato da Matteo G. Caroli (ordinario di gestione delle imprese all’Università Luiss Guido Carli). Si tratta di una serie di ricerche e analisi  che hanno un obiettivo comune: focalizzare l’attenzione sulle diverse dimensioni e sfumature che la social innovation assume in Italia, ripercorrendo, anche se in maniera indiretta, le peculiarità di sviluppo delle differenti aree del Paese e dei rispettivi “ecosistemi di innovazione”.

La raccolta di ricerche è organizzata in tre parti. Nella prima sono presentati i risultati di un’indagine empirica condotta su un campione di grandi aziende italiane per comprendere il loro coinvolgimento nell’innovazione sociale; nella seconda, sono illustrati i risultati dell’insieme dei progetti e delle attività di innovazione sociale nel Paese. La terza parte, infine, ospita alcuni contributi scritti da dirigenti d’impresa che illustrano le politiche e le principali esperienze delle loro aziende di appartenenza tra politiche di sostenibilità e innovazione sociale.

Importanti, al di là della teoria, sono le diverse storie d’impresa che vengono raccontate: AXA Italia, BNP Paribas, ENEL, Salvatore Ferragamo, Wind; ma anche l’illustrazione delle caratteristiche dell’innovazione sociale in Italia, che emergono dall’analisi del database costruito dal CERIIS a partire dal 2014, affinato e ampliato nel corso del 2016. Una raccolta di 578 osservazioni relative a progetti e attività che rientrano nel perimetro dell’innovazione sociale.

Due le indicazioni di fondo che emergono dall’insieme delle indagini effettuate. Prima di tutto la vivacità delle attività di innovazione sociale d’impresa in Italia e, poi, la capacità delle grandi aziende, quando ben condotte, di avere un ruolo importante in questo ambito.

La raccolta di ricerche coordinate da Caroli non è sempre di immediata lettura, ma costituisce un buon bagaglio di informazioni per comprendere meglio le relazioni fra imprese (grandi) e impegno sociale.

L’innovazione delle imprese leader per creare valore sociale. Terzo rapporto CERIIS sull’innovazione sociale

a cura di Matteo G. Caroli

Franco Angeli, 2016

Pirelli. Storie di corse

Fondazione Pirelli Educational al V Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese

La Fondazione Pirelli partecipa alla quinta edizione del Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese, sostenuto da Pirelli già da quattro anni e che include tra gli eventi anche L’importanza dei pneumatici della F1 2017, incontro tra l’ex pilota Ferrari Ivan Capelli e Mario Isola, attuale racing manager Formula 1 Pirelli.

L’ora di chimica è il tema attorno al quale ruotano gli eventi che dal 15 al 22 ottobre popoleranno la cittadina piemontese che accoglie lo stabilimento Pirelli tecnologicamente più avanzato.

La Biblioteca Archimede ospiterà i laboratori didattici di Fondazione Pirelli Educational ideati appositamente per le scuole e per bambini accompagnati dalle famiglie.

Nel corso della mattina di venerdì 19 ottobre si svolgeranno: Per fare un pneumatico ci vuole un albero dedicato alle scuole primarie e Viaggio alla scoperta della gomma per le scuole secondarie di primo grado. Durante l’attività gli studenti impareranno le caratteristiche e la provenienza  della gomma, quanti e quali sono gli ingredienti chimici che compongono la ricetta di uno pneumatico e quali sono le principali fasi della sua produzione. Dovranno quindi impegnarsi a ideare e realizzare autonomamente con diversi materiali il loro esclusivo pneumatico colorato e gomme da cancellare personalizzabili.

Ai bambini dai 6 agli 11 anni sono invece dedicate le attività del pomeriggio di sabato 20 ottobre: Pneumatici  a colori! è il laboratorio che mostrerà ai partecipanti alcuni esperimenti con i colori, progettati in collaborazione con i colleghi dei laboratori chimici Pirelli, e che permetterà poi loro, amalgamando gli ingredienti a disposizione, di realizzare un nuovo esclusivo pneumatico.

La partecipazione al festival si inserisce all’interno dell’offerta di Fondazione Pirelli Educational che dal 2013 propone percorsi volti a promuovere anche tra i più giovani l’importanza della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico, valori su cui si basa la cultura d’impresa di Pirelli fin dalla sua costituzione.

In particolare nel ricco programma formativo è data la possibilità agli studenti delle scuole secondarie di visitare il centro di Ricerca e Sviluppo Pirelli presso la sede di Milano Bicocca, dove possono osservare da vicino i diversi test a cui sono sottoposti i pneumatici prima di essere immessi sul mercato e scoprire all’interno dei laboratori Chimici tutti i materiali che li compongono. I ragazzi hanno inoltre l’occasione di entrare nel Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese e nel reparto milanese che utilizza l’innovativo sistema di robot digitali Next Mirs (Modular Integrated Robotized System).

La partecipazione ai laboratori proposti da Fondazione Pirelli è gratuita.

Per maggiori informazioni  e per consultare il programma completo del festival visitate il sito www.festivaldellinnovazione.settimo-torinese.it

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V Festival dell’Innovazione e della Scienza

La Fondazione Pirelli partecipa alla quinta edizione del Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese, sostenuto da Pirelli già da quattro anni e che include tra gli eventi anche L’importanza dei pneumatici della F1 2017, incontro tra l’ex pilota Ferrari Ivan Capelli e Mario Isola, attuale racing manager Formula 1 Pirelli.

L’ora di chimica è il tema attorno al quale ruotano gli eventi che dal 15 al 22 ottobre popoleranno la cittadina piemontese che accoglie lo stabilimento Pirelli tecnologicamente più avanzato.

La Biblioteca Archimede ospiterà i laboratori didattici di Fondazione Pirelli Educational ideati appositamente per le scuole e per bambini accompagnati dalle famiglie.

Nel corso della mattina di venerdì 19 ottobre si svolgeranno: Per fare un pneumatico ci vuole un albero dedicato alle scuole primarie e Viaggio alla scoperta della gomma per le scuole secondarie di primo grado. Durante l’attività gli studenti impareranno le caratteristiche e la provenienza  della gomma, quanti e quali sono gli ingredienti chimici che compongono la ricetta di uno pneumatico e quali sono le principali fasi della sua produzione. Dovranno quindi impegnarsi a ideare e realizzare autonomamente con diversi materiali il loro esclusivo pneumatico colorato e gomme da cancellare personalizzabili.

Ai bambini dai 6 agli 11 anni sono invece dedicate le attività del pomeriggio di sabato 20 ottobre: Pneumatici  a colori! è il laboratorio che mostrerà ai partecipanti alcuni esperimenti con i colori, progettati in collaborazione con i colleghi dei laboratori chimici Pirelli, e che permetterà poi loro, amalgamando gli ingredienti a disposizione, di realizzare un nuovo esclusivo pneumatico.

La partecipazione al festival si inserisce all’interno dell’offerta di Fondazione Pirelli Educational che dal 2013 propone percorsi volti a promuovere anche tra i più giovani l’importanza della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico, valori su cui si basa la cultura d’impresa di Pirelli fin dalla sua costituzione.

In particolare nel ricco programma formativo è data la possibilità agli studenti delle scuole secondarie di visitare il centro di Ricerca e Sviluppo Pirelli presso la sede di Milano Bicocca, dove possono osservare da vicino i diversi test a cui sono sottoposti i pneumatici prima di essere immessi sul mercato e scoprire all’interno dei laboratori Chimici tutti i materiali che li compongono. I ragazzi hanno inoltre l’occasione di entrare nel Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese e nel reparto milanese che utilizza l’innovativo sistema di robot digitali Next Mirs (Modular Integrated Robotized System).

La partecipazione ai laboratori proposti da Fondazione Pirelli è gratuita.

Per maggiori informazioni  e per consultare il programma completo del festival visitate il sito www.festivaldellinnovazione.settimo-torinese.it

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V Festival dell’Innovazione e della Scienza

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Tecnologia umanistica

Un breve ma intenso libro riesce a cogliere con chiarezza i legami fra le nuove tecnologie digitali e la cultura dell’uomo

La cultura dell’impresa si fa nel tempo e recependo quanto arriva dall’interno e dall’esterno di essa. Umanità e tecnologia in un intreccio in mutamento continuo. Sapere umanistico e sapere tecnologico collegati per dare origine a qualcosa di unico per ogni organizzazione della produzione. Ed è proprio dall’equilibrio dell’intreccio fra tecnologia (digitale adesso, meccanica un tempo), e umanesimo che prende forma ogni buona cultura del produrre. Strettamente “annodata” a quella generale del tempo. Comprendere i nessi fra culture è quindi fondamentale. E aiuta in questo senso leggere “L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia” di Lorenzo Tomasin.

Il libro indaga sui legami delle tecnologie digitali con la cultura umanistica. Scontri, più che legami, in effetti. Che prendono forma nel momento in cui le nuove tecnologie da strumenti diventano fini che arrivano a prevaricare  il corretto ragionamento dell’uomo. A sorreggere le pagine di Tomasin (che insegna Filologia romanza e Storia della lingua italiana a Losanna), è la constatazione che la tecnologia sta influendo profondamente sulla cultura umanistica: dalla formazione di base alla ricerca avanzata, essa non offre solo preziosi strumenti al servizio delle scienze, e delle scienze umane in particolare, ma in molti casi tende a riscriverne obiettivi e linguaggi, ponendone in discussione il ruolo nella società e nel sistema dei saperi. Anziché come proficuo mezzo a disposizione di tutte le discipline, la tecnologia si pone – come si è detto -, quale fine o centro del discorso culturale.

Per dimostrare tutto questo, l’autore in sette capitoli affronta altrettanti aspetti dell’incontro-scontro delle tecnologie digitali con la comune esperienza umana. Passati in rassegna rapidamente (ma non in maniera superficiale), sono temi come il ruolo di Internet e della rete, il rapporto fra la digitalizzazione delle informazioni e i libri, il ruolo e il potere degli acronimi, l’estensione dell’uso dell’inglese, le difficoltà delle “lettere” e le relazioni fra passato e presente. L’autore non indica il ricorso alla tecnofobia come soluzione, ma una strada diversa nella quale la tecnica sia ricondotta a strumento.

Tomasin scrive bene e acutamente, prende la mente di chi legge, necessita però di attenzione: le sue pagine scorrono veloci ma non sono da prendere correndo.

Apparentemente breve (poco più di cento pagine), eppure da gustare lungamente quanto scritto da Tomasin aiuta certamente anche la cultura d’impresa a crescere meglio.

L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia

Lorenzo Tomasin

Carocci editore, 2017

Un breve ma intenso libro riesce a cogliere con chiarezza i legami fra le nuove tecnologie digitali e la cultura dell’uomo

La cultura dell’impresa si fa nel tempo e recependo quanto arriva dall’interno e dall’esterno di essa. Umanità e tecnologia in un intreccio in mutamento continuo. Sapere umanistico e sapere tecnologico collegati per dare origine a qualcosa di unico per ogni organizzazione della produzione. Ed è proprio dall’equilibrio dell’intreccio fra tecnologia (digitale adesso, meccanica un tempo), e umanesimo che prende forma ogni buona cultura del produrre. Strettamente “annodata” a quella generale del tempo. Comprendere i nessi fra culture è quindi fondamentale. E aiuta in questo senso leggere “L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia” di Lorenzo Tomasin.

Il libro indaga sui legami delle tecnologie digitali con la cultura umanistica. Scontri, più che legami, in effetti. Che prendono forma nel momento in cui le nuove tecnologie da strumenti diventano fini che arrivano a prevaricare  il corretto ragionamento dell’uomo. A sorreggere le pagine di Tomasin (che insegna Filologia romanza e Storia della lingua italiana a Losanna), è la constatazione che la tecnologia sta influendo profondamente sulla cultura umanistica: dalla formazione di base alla ricerca avanzata, essa non offre solo preziosi strumenti al servizio delle scienze, e delle scienze umane in particolare, ma in molti casi tende a riscriverne obiettivi e linguaggi, ponendone in discussione il ruolo nella società e nel sistema dei saperi. Anziché come proficuo mezzo a disposizione di tutte le discipline, la tecnologia si pone – come si è detto -, quale fine o centro del discorso culturale.

Per dimostrare tutto questo, l’autore in sette capitoli affronta altrettanti aspetti dell’incontro-scontro delle tecnologie digitali con la comune esperienza umana. Passati in rassegna rapidamente (ma non in maniera superficiale), sono temi come il ruolo di Internet e della rete, il rapporto fra la digitalizzazione delle informazioni e i libri, il ruolo e il potere degli acronimi, l’estensione dell’uso dell’inglese, le difficoltà delle “lettere” e le relazioni fra passato e presente. L’autore non indica il ricorso alla tecnofobia come soluzione, ma una strada diversa nella quale la tecnica sia ricondotta a strumento.

Tomasin scrive bene e acutamente, prende la mente di chi legge, necessita però di attenzione: le sue pagine scorrono veloci ma non sono da prendere correndo.

Apparentemente breve (poco più di cento pagine), eppure da gustare lungamente quanto scritto da Tomasin aiuta certamente anche la cultura d’impresa a crescere meglio.

L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia

Lorenzo Tomasin

Carocci editore, 2017

Buon clima d’impresa

Una ricerca dell’Università G. D’Annunzio fa luce sull’importanza dei legami fra ambiente di fabbrica, apprendimento e identità lavorativa

Clima di fabbrica e di ufficio. E’ indubbio, si impara e si produce meglio in un posto dove si sta meglio. Compatibilmente con le esigenze tecnologiche del caso, certo. Ma oltre alla dotazione di capitali e di tecnologie, il clima d’impresa – fatto d’uomini e donne e meccanismi relazionali -, conta alla pari e in alcuni casi più dei tradizionali “fattori della produzione”. Coglierne gli aspetti non è facile però. Michela Cortini, Teresa Galanti e Stefania Fantinelli (dell’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara), hanno provato a farlo con “Quando gli apprendisti apprendono? Una riflessione sull’importanza del clima di apprendimento”, ricerca che applica il ragionamento sul clima di fabbrica e d’impresa, ad una parte importante dell’organizzazione della produzione: quella dell’apprendimento applicata agli apprendisti.

Spiegano le tre autrici nell’introduzione  all’indagine: “Diverse sono le variabili in grado di influenzare il processo di apprendimento all’interno di un’organizzazione. Alcune di esse sono da attribuire alle competenze del lavoratore, cioè a quelle caratteristiche individuali intrinseche, causalmente collegate a una performance efficace e/o superiore in una mansione o in una situazione e che possono essere quindi misurate sulla base di criteri prestabiliti. Altre invece dipendono da condizioni estrinseche al lavoratore, appartenenti piuttosto all’organizzazione in cui egli è inserito. Tra queste la recente letteratura attribuisce grande importanza alla dimensione del clima di apprendimento, per il ruolo che esso assume rispetto alla soddisfazione lavorativa”.

Clima, apprendimento e soddisfazione lavorativa come elementi strettamente correlati e in vista di due obiettivi: il miglioramento dei risultati produttivi e della vivibilità della produzione . Per meglio comprendere i legami fra clima d’impresa e di apprendimento e crescita dell’organizzazione produttiva, la ricerca ripercorre allora i tratti principali della teoria arrivando ad individuare tre dimensioni diverse di cui tenere conto: la facilitazione, l’apprezzamento e la gestione degli errori nel corso del processo di apprendimento. Ma non basta, perché  Cortini, Galanti e Fantinelli ricordano anche l’importanza della soddisfazione lavorativa che porta alla definizione di una precisa identità sul posto di lavoro. Non numeri e sigle, quindi, ma nomi e cognomi, tratti umani e non meccanici.

Cortini, Galanti e Fantinelli applicano questi concetti alla particolare condizione dell’apprendistato individuando proprio nella fase di formazione il punto debole di questo rapporto di lavoro.

La ricerca che arriva dall’Università G. D’Annunzio non apporta profonde innovazioni nella materia che collega apprendimento e clima d’impresa, ma ha il grande merito di parlar chiaro e di arrivare subito all’obiettivo.

Quando gli apprendisti apprendono? Una riflessione sull’importanza del clima di apprendimento

Michela Cortini, Teresa Galanti, Stefania Fantinelli

Atti del convegno “Work in progress” for a better quality of life

DOI code: 10.1285/9788883051289p41

Una ricerca dell’Università G. D’Annunzio fa luce sull’importanza dei legami fra ambiente di fabbrica, apprendimento e identità lavorativa

Clima di fabbrica e di ufficio. E’ indubbio, si impara e si produce meglio in un posto dove si sta meglio. Compatibilmente con le esigenze tecnologiche del caso, certo. Ma oltre alla dotazione di capitali e di tecnologie, il clima d’impresa – fatto d’uomini e donne e meccanismi relazionali -, conta alla pari e in alcuni casi più dei tradizionali “fattori della produzione”. Coglierne gli aspetti non è facile però. Michela Cortini, Teresa Galanti e Stefania Fantinelli (dell’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara), hanno provato a farlo con “Quando gli apprendisti apprendono? Una riflessione sull’importanza del clima di apprendimento”, ricerca che applica il ragionamento sul clima di fabbrica e d’impresa, ad una parte importante dell’organizzazione della produzione: quella dell’apprendimento applicata agli apprendisti.

Spiegano le tre autrici nell’introduzione  all’indagine: “Diverse sono le variabili in grado di influenzare il processo di apprendimento all’interno di un’organizzazione. Alcune di esse sono da attribuire alle competenze del lavoratore, cioè a quelle caratteristiche individuali intrinseche, causalmente collegate a una performance efficace e/o superiore in una mansione o in una situazione e che possono essere quindi misurate sulla base di criteri prestabiliti. Altre invece dipendono da condizioni estrinseche al lavoratore, appartenenti piuttosto all’organizzazione in cui egli è inserito. Tra queste la recente letteratura attribuisce grande importanza alla dimensione del clima di apprendimento, per il ruolo che esso assume rispetto alla soddisfazione lavorativa”.

Clima, apprendimento e soddisfazione lavorativa come elementi strettamente correlati e in vista di due obiettivi: il miglioramento dei risultati produttivi e della vivibilità della produzione . Per meglio comprendere i legami fra clima d’impresa e di apprendimento e crescita dell’organizzazione produttiva, la ricerca ripercorre allora i tratti principali della teoria arrivando ad individuare tre dimensioni diverse di cui tenere conto: la facilitazione, l’apprezzamento e la gestione degli errori nel corso del processo di apprendimento. Ma non basta, perché  Cortini, Galanti e Fantinelli ricordano anche l’importanza della soddisfazione lavorativa che porta alla definizione di una precisa identità sul posto di lavoro. Non numeri e sigle, quindi, ma nomi e cognomi, tratti umani e non meccanici.

Cortini, Galanti e Fantinelli applicano questi concetti alla particolare condizione dell’apprendistato individuando proprio nella fase di formazione il punto debole di questo rapporto di lavoro.

La ricerca che arriva dall’Università G. D’Annunzio non apporta profonde innovazioni nella materia che collega apprendimento e clima d’impresa, ma ha il grande merito di parlar chiaro e di arrivare subito all’obiettivo.

Quando gli apprendisti apprendono? Una riflessione sull’importanza del clima di apprendimento

Michela Cortini, Teresa Galanti, Stefania Fantinelli

Atti del convegno “Work in progress” for a better quality of life

DOI code: 10.1285/9788883051289p41

Dalla fabbrica allo sviluppo sostenibile, ecco le iniziative per “l’economia civile”

Dalla fabbrica degli oggetti alla fabbrica delle idee. Per fare funzionare meglio le fabbriche italiane, cardine di crescita economica e sociale nella stagione di “Industria 4.0”. E dare un contributo qualificato allo “sviluppo sostenibile”. E’ un circuito virtuoso, tra cultura e manifattura. Di cui proprio in questi giorni si notano significative testimonianze, da Torino a Ivrea, da Bologna a Milano.

Vediamo meglio. A Torino riaprono le Ogr, le Officine Grandi Riparazioni: una volta lì si aggiustavano i treni, da oggi invece sono incubatori di nuove tecnologie e nuovi linguaggi, restando comunque come punto di saldatura l’idea del viaggio dentro la modernità: dalle locomotive alle strutture “digital” che tengono insieme macchine e idee. Le grandi figure di persone e apparecchiature industriali della “Procession of Reparationists” di William Kentridge ne sono simbolo artistico di straordinaria vitalità: “Per domare macchinari e locomotive bisognava conoscerli. Il lavoro non era e non è automatico”, sostiene Kentridge. Fabbrica e cultura, ancora una volta. E’ l’eco attuale della “civiltà delle macchine”, una dimensione tutta italiana della grande cultura industriale e civile, dalla Finmeccanica pubblica alla Pirelli e alla Olivetti.

Ecco, l’attualità Olivetti. A Ivrea, in uno degli ex palazzi del gruppo guidato da Adriano Olivetti, lungo via Jervis (segnata da stabilimenti e uffici progettati da alcuni dei maggiori architetti del Novecento e amatissima da Le Corbusier, che vi leggeva la straordinaria sintesi tra bellezza architettonica e funzionalità industriale), sono cominciate, alla fine della scorsa settimana, le “Conversazioni sull’economia civile”, promosse da “Il Quinto ampliamento”, un’associazione che riunisce imprenditori (la Confindustria del Canavese), economisti, professionisti e personalità della cultura e dell’università (dalla Fondazione Olivetti a Legambiente) per discutere di qualità dello sviluppo, industria hi tech, ambiente, socialità (ne parleremo più a lungo tra poco).

A Bologna, alla Fondazione Mast (un’iniziativa sostenuta dal gruppo Seragnoli, uno dei protagonisti della migliore meccatronica italiana) si inaugura la “Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro”, con immagini, tra gli altri, di Mimmo Jodice, Ruff, Koudelka, Friedlander, Rodchenko, Jodice: il lavoro industriale e l’evoluzione della sua rappresentazione.

E a Milano, mentre va avanti, con grandi riconoscimenti di critica e pubblico, l’attività del Pirelli HangarBicocca, un’ex fabbrica Ansaldo diventata uno dei maggiori centri dell’arte contemporanea internazionale (in mostra, adesso, le installazioni di Lucio Fontana), proprio su ex aree industriali si progettano i luoghi d’eccellenza terziaria (servizi, ricerca, formazione, “life sciences”) d’una metropoli che sull’incrocio di meccatronica e digital economy rafforza il proprio ruolo di cuore innovativo europeo.

“Sviluppo sostenibile”, è una idea cardine che risuona in tutti questi appuntamenti, in tante attività. Un modo di pensare l’economia che lega competitività e qualità della vita. Come conferma il secondo Rapposto dell’Asvis (l’Alleanza per lo Sviluppo sostenibile” guidata da Enrico Giovannini, statistico di fama internazionale ed ex ministro del Lavoro). Presentato a Roma la scorsa settimana, il Rapporto insiste sui 17 obiettivi della sostenibilità indicati dall’Agenda Onu 2030 e dell’Italia rileva un “miglioramento” per 9 obiettivi (alimentazione, salute, educazione, uguaglianza di genere, infrastrutture, modelli sostenibili di consumo, riduzione dei gas serra, tutela dei mari e giustizia), “un sensibile peggioramento” per 4 (povertà, gestione delle acque, disuguaglianze ed ecosistema terrestre), “mentre la situazione resta statica” per i restanti 4 (energia, occupazione, città sostenibili e cooperazione internazionale). Ma anche per le aree dove si registrano miglioramenti, la distanza rispetto all’Agenda Onu per il 2020 e il 2030 resta “molto ampia”. In sintesi: “L’Italia non è su un sentiero di sviluppo sostenibile e la ripresa economica, da sola, non risolverà i problemi” che ci vedono “tra i Paesi europei con le peggiori performance economiche, sociali e ambientali”. Non basta insomma fare crescere il Pil, il prodotto interno lordo e accontentarsi dell’1,5% previsto quest’anno, bisogna mettersi in linea con il Bes, l’indice di sviluppo equo e sostenibile (Il Documento di Economia e Finanza che il ministro Padoan sta preparando per portarlo nello prossime settimane in Parlamento ne comincia a tenere conto).

Si ragiona di qualità dell’economia. Di nuovi e migliori equilibri. C’è un mondo industriale e culturale in movimento, dopo gli anni della crisi. Ed è tornata nel vocabolario essenziale del discorso pubblico la parola “fabbrica” che sino a pochi anni fa risuonava solo nelle pagine di pochi appassionati dell’”orgoglio industriale”.

Cultura politecnica, per usare ancora una volta una sintesi frequente in questo blog. L’eco è stata evidente nelle discussioni de “Il Quinto ampliamento” (il nome prende spunto dal progetto di Adriano Olivetti di fare crescere ancora gli stabilimenti di Ivrea, prima che un malessere lo stroncasse sul treno per Losanna, il 27 febbraio 1960). L’obiettivo è “recuperare una cultura d’impresa che lega competitività e inclusione sociale”, un’idea cara al alcuni dei migliori capitani d’impresa nell’Italia degli anni Cinquanta e Settanta (gli Olivetti, i Pirelli, i Borghi e altri ancora, anche in imprese di piccole e medie dimensioni, il cardine dello sviluppo italiano). E una sintesi da approfondire è quella del paradigma dell’”economia civile”. Come? Lo spiega Stefano Zamagni, economista e presidente del Quinto ampliamento, citando il patrimonio ideale di Adriano Olivetti: “L’idea è quella dell’impresa civile: l’impresa come agente di trasformazione non solo della sfera economica, ma anche di quella sociale e civile della società. Troppo riduttivo sarebbe pensare all’impresa come semplice ‘macchina da profitto’ e non anche come ‘luogo in cui si forma il carattere dell’uomo’, come aveva anticipato il grande Alfred Marshall già nel 1890”. La lezione resta attuale.

Dalla fabbrica degli oggetti alla fabbrica delle idee. Per fare funzionare meglio le fabbriche italiane, cardine di crescita economica e sociale nella stagione di “Industria 4.0”. E dare un contributo qualificato allo “sviluppo sostenibile”. E’ un circuito virtuoso, tra cultura e manifattura. Di cui proprio in questi giorni si notano significative testimonianze, da Torino a Ivrea, da Bologna a Milano.

Vediamo meglio. A Torino riaprono le Ogr, le Officine Grandi Riparazioni: una volta lì si aggiustavano i treni, da oggi invece sono incubatori di nuove tecnologie e nuovi linguaggi, restando comunque come punto di saldatura l’idea del viaggio dentro la modernità: dalle locomotive alle strutture “digital” che tengono insieme macchine e idee. Le grandi figure di persone e apparecchiature industriali della “Procession of Reparationists” di William Kentridge ne sono simbolo artistico di straordinaria vitalità: “Per domare macchinari e locomotive bisognava conoscerli. Il lavoro non era e non è automatico”, sostiene Kentridge. Fabbrica e cultura, ancora una volta. E’ l’eco attuale della “civiltà delle macchine”, una dimensione tutta italiana della grande cultura industriale e civile, dalla Finmeccanica pubblica alla Pirelli e alla Olivetti.

Ecco, l’attualità Olivetti. A Ivrea, in uno degli ex palazzi del gruppo guidato da Adriano Olivetti, lungo via Jervis (segnata da stabilimenti e uffici progettati da alcuni dei maggiori architetti del Novecento e amatissima da Le Corbusier, che vi leggeva la straordinaria sintesi tra bellezza architettonica e funzionalità industriale), sono cominciate, alla fine della scorsa settimana, le “Conversazioni sull’economia civile”, promosse da “Il Quinto ampliamento”, un’associazione che riunisce imprenditori (la Confindustria del Canavese), economisti, professionisti e personalità della cultura e dell’università (dalla Fondazione Olivetti a Legambiente) per discutere di qualità dello sviluppo, industria hi tech, ambiente, socialità (ne parleremo più a lungo tra poco).

A Bologna, alla Fondazione Mast (un’iniziativa sostenuta dal gruppo Seragnoli, uno dei protagonisti della migliore meccatronica italiana) si inaugura la “Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro”, con immagini, tra gli altri, di Mimmo Jodice, Ruff, Koudelka, Friedlander, Rodchenko, Jodice: il lavoro industriale e l’evoluzione della sua rappresentazione.

E a Milano, mentre va avanti, con grandi riconoscimenti di critica e pubblico, l’attività del Pirelli HangarBicocca, un’ex fabbrica Ansaldo diventata uno dei maggiori centri dell’arte contemporanea internazionale (in mostra, adesso, le installazioni di Lucio Fontana), proprio su ex aree industriali si progettano i luoghi d’eccellenza terziaria (servizi, ricerca, formazione, “life sciences”) d’una metropoli che sull’incrocio di meccatronica e digital economy rafforza il proprio ruolo di cuore innovativo europeo.

“Sviluppo sostenibile”, è una idea cardine che risuona in tutti questi appuntamenti, in tante attività. Un modo di pensare l’economia che lega competitività e qualità della vita. Come conferma il secondo Rapposto dell’Asvis (l’Alleanza per lo Sviluppo sostenibile” guidata da Enrico Giovannini, statistico di fama internazionale ed ex ministro del Lavoro). Presentato a Roma la scorsa settimana, il Rapporto insiste sui 17 obiettivi della sostenibilità indicati dall’Agenda Onu 2030 e dell’Italia rileva un “miglioramento” per 9 obiettivi (alimentazione, salute, educazione, uguaglianza di genere, infrastrutture, modelli sostenibili di consumo, riduzione dei gas serra, tutela dei mari e giustizia), “un sensibile peggioramento” per 4 (povertà, gestione delle acque, disuguaglianze ed ecosistema terrestre), “mentre la situazione resta statica” per i restanti 4 (energia, occupazione, città sostenibili e cooperazione internazionale). Ma anche per le aree dove si registrano miglioramenti, la distanza rispetto all’Agenda Onu per il 2020 e il 2030 resta “molto ampia”. In sintesi: “L’Italia non è su un sentiero di sviluppo sostenibile e la ripresa economica, da sola, non risolverà i problemi” che ci vedono “tra i Paesi europei con le peggiori performance economiche, sociali e ambientali”. Non basta insomma fare crescere il Pil, il prodotto interno lordo e accontentarsi dell’1,5% previsto quest’anno, bisogna mettersi in linea con il Bes, l’indice di sviluppo equo e sostenibile (Il Documento di Economia e Finanza che il ministro Padoan sta preparando per portarlo nello prossime settimane in Parlamento ne comincia a tenere conto).

Si ragiona di qualità dell’economia. Di nuovi e migliori equilibri. C’è un mondo industriale e culturale in movimento, dopo gli anni della crisi. Ed è tornata nel vocabolario essenziale del discorso pubblico la parola “fabbrica” che sino a pochi anni fa risuonava solo nelle pagine di pochi appassionati dell’”orgoglio industriale”.

Cultura politecnica, per usare ancora una volta una sintesi frequente in questo blog. L’eco è stata evidente nelle discussioni de “Il Quinto ampliamento” (il nome prende spunto dal progetto di Adriano Olivetti di fare crescere ancora gli stabilimenti di Ivrea, prima che un malessere lo stroncasse sul treno per Losanna, il 27 febbraio 1960). L’obiettivo è “recuperare una cultura d’impresa che lega competitività e inclusione sociale”, un’idea cara al alcuni dei migliori capitani d’impresa nell’Italia degli anni Cinquanta e Settanta (gli Olivetti, i Pirelli, i Borghi e altri ancora, anche in imprese di piccole e medie dimensioni, il cardine dello sviluppo italiano). E una sintesi da approfondire è quella del paradigma dell’”economia civile”. Come? Lo spiega Stefano Zamagni, economista e presidente del Quinto ampliamento, citando il patrimonio ideale di Adriano Olivetti: “L’idea è quella dell’impresa civile: l’impresa come agente di trasformazione non solo della sfera economica, ma anche di quella sociale e civile della società. Troppo riduttivo sarebbe pensare all’impresa come semplice ‘macchina da profitto’ e non anche come ‘luogo in cui si forma il carattere dell’uomo’, come aveva anticipato il grande Alfred Marshall già nel 1890”. La lezione resta attuale.

Il virtuoso mercante veneziano e le regole tra etica e affari

Un’arte, fare il mercante. Una scelta di vita civile e morale, fondare e far crescere un’impresa. E una relazione virtuosa tra il “buon mercante” e il “buon cittadino”. Ne scrive, con lucida intelligenza, Benedetto Cotrugli, mercante di successo a metà del Quattrocento, in un libro riscoperto di recente e appena pubblicato in inglese da Palgrave Macmillan, a cura di Carlo Carraro e Giovanni Favero dell’università Ca’ Foscari di Venezia e con una brillante introduzione di Niall Ferguson, uno dei maggiori storici contemporanei. “Libro de l’arte della mercatura”, è il suo titolo. E’ stato scritto nel 1475 in italiano “volgare”, elegante ed essenziale, ed è edito dalle Edizioni Ca’ Foscari a cura di Vera Ribaudo e Tiziano Zanato (si può trovare in digitale a questo cliccando qui  Il commercio e la sua anima (se ne discusso alcune sere fa al Canova Club di Milano, davanti a un pubblico di imprenditori, manager, donne e uomini della finanza e della comunicazione). Le regole di vita del buon mercante (che deve vestirsi “in modo sobrio ed elegante”). Le prudenze nel fare ed esigere credito (un’accorta diversificazione del rischio e un corretto calcolo ei tempi). I principi della contabilità (si intravvedono i canoni che poi Luca Pacioli definirà con la “partita doppia”), l’affidabilità, la formazione dei figli per il mondo degli affari, la cura per la rete degli scambi, il senso del rischio ma anche la necessità di stare in guardia contro gli eccessi dell’avidità. E i rapporti con la politica (starne alla larga, avverte il mercante). E’ di radici veneziane, Cotrugli (nato a Ragusa, l’attuale Dubrovnik in Croazia, nel 1416, allora dominio della Repubblica di Venezia). Ha studiato filosofia all’università di Bologna. E’ vissuto facendo buoni affari e teorizzandone valore e senso. Traccia l’ideale del “mercante perfetto”. E lega appunto, in un patto virtuoso e di reciproche convenienze, etica e affari. Fare soldi ha una sua moralità, una responsabilità “pubblica”.

C’è, nella storia italiana, pur se altalenante, una profonda dimensione etica che segna “lo spirito del capitalismo”. Un’idea alta dell’impresa, nella consapevolezza che comunque competizione e confronto sui mercati sono un gioco ruvido, spigoloso, duro, ma da seguire in un contesto di regole chiare ed efficaci. Il libro di Cotrugli ne è testimonianza manifesta. E tutt’altro che unica.

Si può fare un passo indietro, d’oltre un secolo, per leggere il “Costituto” approvato nel 1309 come norma fondante della città di Siena, già allora ricca di mercanti, banchieri, imprenditori: chi governa deve avere a cuore “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini” (un testo che Ermete Realacci, presidente di Symbola e presidente della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, ama citare spesso, come testimonianza storica della “qualità” dello sviluppo economico).

Bellezza, dunque. E prosperità. Estetica con funzione etica e convenienza economica. L’ispirazione è filosofica, nella relazione virtuosa del “kalòs kai agathòs” caro ai greci, il “bello e buono” che sa di virtù e valore. La portata è appunto economica, di orgoglio identitario e convenienza.  Pochi anni dopo quel “Costituto”, tra il 1338 e il 1339, Ambrogio Lorenzetti dipingerà, nella Sala dei Nove  del Palazzo Pubblico di Siena, una delle opere più significative dell’arte italiana, l’”Allegoria ed Effetti del Buon e del Cattivo Governo”: nella città ben governata prosperano affari, scambi, manifatture, la vita civile è piacevole, fioriscono arti e mestieri. Altrimenti, con “il cattivo governo”, tutto va in rovina.

La relazione virtuosa tra etica e affari resta forte, nel tempo. Vive nella Firenze di Cosimo il Vecchio e nelle signorie dei principi e dei mercanti mecenati. Riprende vigore negli scritti dell’illuminismo, tra la Milano dei Verri con la loro rivista “Il Caffè” e la Napoli dei sofisticati economisti di respiro europeo, l’abate Ferdinando Galliani buon frequentatore dei salotti di Parigi con Diderot e Voltaire (“Noi francesi non abbiamo che gli spiccoli dell’esprit, a Napoli hanno i lingotti”, si diceva di lui) e Antonio Genovesi con le sue lungimiranti “Lezioni di economia civile”. Torna alla ribalta, negli anni dinamici del boom economico, con Adriano Olivetti (“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia… Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica… A volte, quando lavoro fino a tardi, vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza”). E con Leopoldo Pirelli, con “Le dieci regole del buon imprenditore” scritte nell’autunno del 1986 (“La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi fra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita”). Parole molto chiare, ancora oggi d’attualità, in tempi in cui si ragiona di “fabbrica bella”, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e dunque anche per queste ragioni competitiva. Benedetto Cotrugli, con la sua sapienza lungimirante sul “buon mercante”, sarebbe d’accordo.

Un’arte, fare il mercante. Una scelta di vita civile e morale, fondare e far crescere un’impresa. E una relazione virtuosa tra il “buon mercante” e il “buon cittadino”. Ne scrive, con lucida intelligenza, Benedetto Cotrugli, mercante di successo a metà del Quattrocento, in un libro riscoperto di recente e appena pubblicato in inglese da Palgrave Macmillan, a cura di Carlo Carraro e Giovanni Favero dell’università Ca’ Foscari di Venezia e con una brillante introduzione di Niall Ferguson, uno dei maggiori storici contemporanei. “Libro de l’arte della mercatura”, è il suo titolo. E’ stato scritto nel 1475 in italiano “volgare”, elegante ed essenziale, ed è edito dalle Edizioni Ca’ Foscari a cura di Vera Ribaudo e Tiziano Zanato (si può trovare in digitale a questo cliccando qui  Il commercio e la sua anima (se ne discusso alcune sere fa al Canova Club di Milano, davanti a un pubblico di imprenditori, manager, donne e uomini della finanza e della comunicazione). Le regole di vita del buon mercante (che deve vestirsi “in modo sobrio ed elegante”). Le prudenze nel fare ed esigere credito (un’accorta diversificazione del rischio e un corretto calcolo ei tempi). I principi della contabilità (si intravvedono i canoni che poi Luca Pacioli definirà con la “partita doppia”), l’affidabilità, la formazione dei figli per il mondo degli affari, la cura per la rete degli scambi, il senso del rischio ma anche la necessità di stare in guardia contro gli eccessi dell’avidità. E i rapporti con la politica (starne alla larga, avverte il mercante). E’ di radici veneziane, Cotrugli (nato a Ragusa, l’attuale Dubrovnik in Croazia, nel 1416, allora dominio della Repubblica di Venezia). Ha studiato filosofia all’università di Bologna. E’ vissuto facendo buoni affari e teorizzandone valore e senso. Traccia l’ideale del “mercante perfetto”. E lega appunto, in un patto virtuoso e di reciproche convenienze, etica e affari. Fare soldi ha una sua moralità, una responsabilità “pubblica”.

C’è, nella storia italiana, pur se altalenante, una profonda dimensione etica che segna “lo spirito del capitalismo”. Un’idea alta dell’impresa, nella consapevolezza che comunque competizione e confronto sui mercati sono un gioco ruvido, spigoloso, duro, ma da seguire in un contesto di regole chiare ed efficaci. Il libro di Cotrugli ne è testimonianza manifesta. E tutt’altro che unica.

Si può fare un passo indietro, d’oltre un secolo, per leggere il “Costituto” approvato nel 1309 come norma fondante della città di Siena, già allora ricca di mercanti, banchieri, imprenditori: chi governa deve avere a cuore “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini” (un testo che Ermete Realacci, presidente di Symbola e presidente della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, ama citare spesso, come testimonianza storica della “qualità” dello sviluppo economico).

Bellezza, dunque. E prosperità. Estetica con funzione etica e convenienza economica. L’ispirazione è filosofica, nella relazione virtuosa del “kalòs kai agathòs” caro ai greci, il “bello e buono” che sa di virtù e valore. La portata è appunto economica, di orgoglio identitario e convenienza.  Pochi anni dopo quel “Costituto”, tra il 1338 e il 1339, Ambrogio Lorenzetti dipingerà, nella Sala dei Nove  del Palazzo Pubblico di Siena, una delle opere più significative dell’arte italiana, l’”Allegoria ed Effetti del Buon e del Cattivo Governo”: nella città ben governata prosperano affari, scambi, manifatture, la vita civile è piacevole, fioriscono arti e mestieri. Altrimenti, con “il cattivo governo”, tutto va in rovina.

La relazione virtuosa tra etica e affari resta forte, nel tempo. Vive nella Firenze di Cosimo il Vecchio e nelle signorie dei principi e dei mercanti mecenati. Riprende vigore negli scritti dell’illuminismo, tra la Milano dei Verri con la loro rivista “Il Caffè” e la Napoli dei sofisticati economisti di respiro europeo, l’abate Ferdinando Galliani buon frequentatore dei salotti di Parigi con Diderot e Voltaire (“Noi francesi non abbiamo che gli spiccoli dell’esprit, a Napoli hanno i lingotti”, si diceva di lui) e Antonio Genovesi con le sue lungimiranti “Lezioni di economia civile”. Torna alla ribalta, negli anni dinamici del boom economico, con Adriano Olivetti (“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia… Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica… A volte, quando lavoro fino a tardi, vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza”). E con Leopoldo Pirelli, con “Le dieci regole del buon imprenditore” scritte nell’autunno del 1986 (“La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi fra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita”). Parole molto chiare, ancora oggi d’attualità, in tempi in cui si ragiona di “fabbrica bella”, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e dunque anche per queste ragioni competitiva. Benedetto Cotrugli, con la sua sapienza lungimirante sul “buon mercante”, sarebbe d’accordo.

Una storia (solo) italiana

La narrazione delle relazioni fra industria e politica alle origini dello Stato unitario

 

Ogni impresa ha una storia. E l’insieme delle imprese ha una storia. E la comprensione della storia complessiva delle imprese di un territorio, è importante per comprenderne meglio le prospettive e la cultura della produzione che lo rende vivo e in grado di crescere.

E’ quanto accade leggendo l’ultimo prodotto della capacità letteraria di Patrizio Bianchi, professore ordinario di Economia applicata nell’Università di Ferrara (dove è stato rettore fino al 2010), ma soprattutto importante conoscitore della storia economica italiana oltre che capace narratore di quest’ultima. Nel suo “Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea”, appena pubblicato Bianchi traccia la storia economica dell’Italia dall’unità ai primi anni del ‘900, guardando soprattutto all’industria e raccontando in modo chiaro e completo l’origine di molti degli attuali problemi che ancora devono essere superati.

L’intento più particolare di Bianchi è quello di offrire una lettura prospettica dei processi di trasformazione delle istituzioni prendendo come “caso di studio” le vicende della nascita e della prima evoluzione del regno d’Italia, visto come una sorta di laboratorio delle trasformazioni di una società e delle sue istituzioni. L’ipotesi – in buona parte condivisibile -, è che il modo stesso in cui si trasformano le istituzioni possa definire  poi le modalità con cui il sistema economico e sociale si muoverà nel tempo.

Bianchi quindi inizia analizzando la politica economica di Cavour per poi sintetizzare (e bene), in una trentina di pagine la nascita dell’Italia unita e quindi quelle che, secondo l’autore, sono le “radici della malattia italiana”. Successivamente sono approfonditi i particolari della situazione economica nazionale postunitaria e delle politiche messe in atto per intervenire su di essa fino, come si è detto, ai primi del ‘900.

Dense e importanti sono poi le conclusioni, con il ricorrere, per Bianchi, di temi che da quell’epoca si ritrovano intatti tutti ancora oggi: il centralismo versus le autonomie locali, la qualità delle istituzioni e il loro ruolo, il rapporto tra governabilità e rappresentatività.

Scrive Bianchi proprio alla conclusione del suo libro: “Camminando si compie il cammino, e voltandosi indietro si vede il percorso che mai più si ritornerà a calpestare. La lunga crisi, non solo economica, che sta segnando questa nostra vita collettiva evidenzia quanto, dopo centocinquant’anni, il tema dell’unificazione civile e morale dell’intero paese e di tutta la sua società torni a essere cruciale per lo sviluppo democratico”.

E bella è la citazione all’inizio e alla fine del libro di un passo di Antonio Machado, intenso poeta spagnolo, che calza perfettamente sulla vicenda italiana: “Tu che cammini, sappi che non esiste un sentiero preordinato dinnanzi a noi, il sentiero si fa camminando, sono le tue orme il sentiero e nulla più”.

Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea

Patrizio Bianchi

il Mulino, 2017

La narrazione delle relazioni fra industria e politica alle origini dello Stato unitario

 

Ogni impresa ha una storia. E l’insieme delle imprese ha una storia. E la comprensione della storia complessiva delle imprese di un territorio, è importante per comprenderne meglio le prospettive e la cultura della produzione che lo rende vivo e in grado di crescere.

E’ quanto accade leggendo l’ultimo prodotto della capacità letteraria di Patrizio Bianchi, professore ordinario di Economia applicata nell’Università di Ferrara (dove è stato rettore fino al 2010), ma soprattutto importante conoscitore della storia economica italiana oltre che capace narratore di quest’ultima. Nel suo “Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea”, appena pubblicato Bianchi traccia la storia economica dell’Italia dall’unità ai primi anni del ‘900, guardando soprattutto all’industria e raccontando in modo chiaro e completo l’origine di molti degli attuali problemi che ancora devono essere superati.

L’intento più particolare di Bianchi è quello di offrire una lettura prospettica dei processi di trasformazione delle istituzioni prendendo come “caso di studio” le vicende della nascita e della prima evoluzione del regno d’Italia, visto come una sorta di laboratorio delle trasformazioni di una società e delle sue istituzioni. L’ipotesi – in buona parte condivisibile -, è che il modo stesso in cui si trasformano le istituzioni possa definire  poi le modalità con cui il sistema economico e sociale si muoverà nel tempo.

Bianchi quindi inizia analizzando la politica economica di Cavour per poi sintetizzare (e bene), in una trentina di pagine la nascita dell’Italia unita e quindi quelle che, secondo l’autore, sono le “radici della malattia italiana”. Successivamente sono approfonditi i particolari della situazione economica nazionale postunitaria e delle politiche messe in atto per intervenire su di essa fino, come si è detto, ai primi del ‘900.

Dense e importanti sono poi le conclusioni, con il ricorrere, per Bianchi, di temi che da quell’epoca si ritrovano intatti tutti ancora oggi: il centralismo versus le autonomie locali, la qualità delle istituzioni e il loro ruolo, il rapporto tra governabilità e rappresentatività.

Scrive Bianchi proprio alla conclusione del suo libro: “Camminando si compie il cammino, e voltandosi indietro si vede il percorso che mai più si ritornerà a calpestare. La lunga crisi, non solo economica, che sta segnando questa nostra vita collettiva evidenzia quanto, dopo centocinquant’anni, il tema dell’unificazione civile e morale dell’intero paese e di tutta la sua società torni a essere cruciale per lo sviluppo democratico”.

E bella è la citazione all’inizio e alla fine del libro di un passo di Antonio Machado, intenso poeta spagnolo, che calza perfettamente sulla vicenda italiana: “Tu che cammini, sappi che non esiste un sentiero preordinato dinnanzi a noi, il sentiero si fa camminando, sono le tue orme il sentiero e nulla più”.

Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea

Patrizio Bianchi

il Mulino, 2017

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