Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Affascinante e complessa CSR

Un libro scritto a quattro mani organizza e rende più chiare le informazioni relative alla responsabilità sociale d’impresa

Ci possono essere tante responsabilità sociali d’impresa (CSR), quante sono le imprese che adottano questo particolare approccio aziendale al mondo circostante. Cosa naturale, visto che le imprese sono fatte di uomini e donne ognuno dei quali può avere una particolare visione del ruolo della propria impresa nel mondo. Generalizzare, quindi, è facile ma anche pericoloso. Il libro scritto da Silvio de Girolamo Paolo D’Anselmi è allora un utile strumento per orientarsi fra interpretazioni e visioni diverse della CSR.

“La responsabilità sociale delle organizzazioni. L’impresa sostenibile e lo sviluppo competitivo”, prende le mosse da una costatazione: la responsabilità sociale delle imprese  riguarda tutte le implicazioni di carattere etico inerenti l’attività imprenditoriale. Ma il suo significato cambia secondo i punti di vista: per molte aziende è un’attività che si mette in atto solo per compiacere cittadini e stakeholder, ricevendone in cambio un “ritorno di immagine”. Per altre aziende e per i governi, l’obiettivo è una crescita sostenibile e la creazione di occupazione durevole nel medio e lungo termine. Per cittadini e lavoratori, la posta in gioco è alta: si tratta di difendere i diritti fondamentali alla salute, alla sicurezza e al posto di lavoro.

Tante CSR, dunque, quante sono le persone coinvolte. Il libro quindi mette a confronto i punti di vista di due esperti: un manager del settore privato – esperto di corporate governance e sostenibilità – e un consulente di direzione aziendale che mette in evidenza il ruolo della concorrenza all’interno dei diversi settori dell’economia, inclusa l’amministrazione pubblica. Silvio de Girolamo, infatti, è  Chief Audit e Sustainability Executive del Gruppo Autogrill e anche Vicepresidente dell’AIIA (Ass. Italiana Internal Auditors); Paolo D’Anselmi, è consulente di organizzazione aziendale.

Il libro inizia con una quadro generale sul tema e passa poi subito alle questioni relative alla “misura” e alla rendicontazione della responsabilità sociale d’impresa. Successivamente i due autori esaminano come integrare la responsabilità sociale nella “missione” dell’azienda e poi affrontano il tema degli stakeholders. De Girolamo e D’Anselmi parlano poi di comunicazione e CSR per arrivare  ai rapporti con la collettività e alla creazione della “buona reputazione” d’impresa. Particolare attenzione viene rivolta anche al “popolo della Rete” e ai social network che stanno modificando i rapporti fra consumatori e aziende, nonché al ruolo crescente della Pubblica Amministrazione nella CSR.
Tutto infine viene orientato verso il 2020 e quindi verso la sostenibilità della presenza delle imprese nel sistema economico e sociale oltre che ambientale.

Ciò che si coglie alla fine della lettura della fatica letteraria dei due ricercatori è la visione completa delle trasformazioni in atto nei meccanismi concorrenziali e nei rapporti tra imprese, società civile e organizzazioni non profit.  “La responsabilità sociale delle organizzazioni” è appunto una buona guida per sapersi orientare e partire per un viaggio lungo e complesso.

 

 

La responsabilità sociale delle organizzazioni. L’impresa sostenibile e lo sviluppo competitivo

Silvio de Girolamo Paolo D’Anselmi

Franco Angeli, 2017

Un libro scritto a quattro mani organizza e rende più chiare le informazioni relative alla responsabilità sociale d’impresa

Ci possono essere tante responsabilità sociali d’impresa (CSR), quante sono le imprese che adottano questo particolare approccio aziendale al mondo circostante. Cosa naturale, visto che le imprese sono fatte di uomini e donne ognuno dei quali può avere una particolare visione del ruolo della propria impresa nel mondo. Generalizzare, quindi, è facile ma anche pericoloso. Il libro scritto da Silvio de Girolamo Paolo D’Anselmi è allora un utile strumento per orientarsi fra interpretazioni e visioni diverse della CSR.

“La responsabilità sociale delle organizzazioni. L’impresa sostenibile e lo sviluppo competitivo”, prende le mosse da una costatazione: la responsabilità sociale delle imprese  riguarda tutte le implicazioni di carattere etico inerenti l’attività imprenditoriale. Ma il suo significato cambia secondo i punti di vista: per molte aziende è un’attività che si mette in atto solo per compiacere cittadini e stakeholder, ricevendone in cambio un “ritorno di immagine”. Per altre aziende e per i governi, l’obiettivo è una crescita sostenibile e la creazione di occupazione durevole nel medio e lungo termine. Per cittadini e lavoratori, la posta in gioco è alta: si tratta di difendere i diritti fondamentali alla salute, alla sicurezza e al posto di lavoro.

Tante CSR, dunque, quante sono le persone coinvolte. Il libro quindi mette a confronto i punti di vista di due esperti: un manager del settore privato – esperto di corporate governance e sostenibilità – e un consulente di direzione aziendale che mette in evidenza il ruolo della concorrenza all’interno dei diversi settori dell’economia, inclusa l’amministrazione pubblica. Silvio de Girolamo, infatti, è  Chief Audit e Sustainability Executive del Gruppo Autogrill e anche Vicepresidente dell’AIIA (Ass. Italiana Internal Auditors); Paolo D’Anselmi, è consulente di organizzazione aziendale.

Il libro inizia con una quadro generale sul tema e passa poi subito alle questioni relative alla “misura” e alla rendicontazione della responsabilità sociale d’impresa. Successivamente i due autori esaminano come integrare la responsabilità sociale nella “missione” dell’azienda e poi affrontano il tema degli stakeholders. De Girolamo e D’Anselmi parlano poi di comunicazione e CSR per arrivare  ai rapporti con la collettività e alla creazione della “buona reputazione” d’impresa. Particolare attenzione viene rivolta anche al “popolo della Rete” e ai social network che stanno modificando i rapporti fra consumatori e aziende, nonché al ruolo crescente della Pubblica Amministrazione nella CSR.
Tutto infine viene orientato verso il 2020 e quindi verso la sostenibilità della presenza delle imprese nel sistema economico e sociale oltre che ambientale.

Ciò che si coglie alla fine della lettura della fatica letteraria dei due ricercatori è la visione completa delle trasformazioni in atto nei meccanismi concorrenziali e nei rapporti tra imprese, società civile e organizzazioni non profit.  “La responsabilità sociale delle organizzazioni” è appunto una buona guida per sapersi orientare e partire per un viaggio lungo e complesso.

 

 

La responsabilità sociale delle organizzazioni. L’impresa sostenibile e lo sviluppo competitivo

Silvio de Girolamo Paolo D’Anselmi

Franco Angeli, 2017

Milano ha “i numeri” per costruire politiche di sviluppo: a confronto con l’Europa

Ragionare su dati e fatti. Costruire politiche documentate. Ed essere capaci d’un “discorso pubblico” ben informato, secondo la dialettica democratica critica-proposta. Sta qui la sfida dell’”Osservatorio Milano”, uno strumento di analisi e misurazione della metropoli, a paragone con analoghe altre aree europee, Monaco e Stoccarda, Barcellona e Lione.

Realizzato da Assolombarda in stretta collaborazione con il Comune di Milano e con il contributo attivo di una serie di centri studi (tra gli altri, Banca d’Italia, Camera di Commercio, Intesa San Paolo, Fondazione Ambrosianeum, Confcommercio, ma anche Google e Mastercard) e presentato il 3 maggio, lo “Scoreboard” misura attrattività, reputazione e competitività di Milano, usando 214 indicatori diversi (un centinaio originali) su redditi, lavoro, istruzione, investimenti, imprese, consumi, salute, ambiente, traffico (anche del bike sharing, per esempio), abitazioni, efficienza della pubblica amministrazione, cultura e tempo libero, etc. Per raccontare, nel tempo, come cambia Milano, guardando sia al resto d’Italia che al cuore più dinamico dell’Europa. Dati e fatti, appunto. Che documentano come oggi Milano, in una delle stagioni migliori della sua storia, vanti un primato internazionale per reputazione, forte di eccellente offerta culturale e d’iniziative di qualità per moda e design, e sia al top per qualità dell’offerta universitaria, ma resti ancora indietro per innovazione, ricerca, occupazione giovanile.

Numeri importanti, per impostare policy pubbliche, iniziative di governo del territorio, strategie di crescita aziendale, programmi per un futuro migliore. E strumenti via via aggiornati per una “conoscenza azionabile”, per usare la pertinente definizione di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda. Conoscere per decidere. Disegnare un futuro con competenza. Un paradigma di buona politica che da Milano può fornire utili indicazioni al governo italiano ma anche a Bruxelles.

Ci sono due considerazioni da fare. La prima, generale, riguarda qualità e responsabilità delle classi dirigenti. La seconda, i meccanismi di sviluppo di Milano come metropoli europea in grado di dare un impulso decisivo a tutta la crescita italiana.

La classe dirigente, innanzitutto. Viviamo in tempi di “asinocrazia”, per usare la definizione tagliente di Giovanni Sartori, maestro di studi politici, gran liberale, morto poche settimane fa (una critica fondata non sul disprezzo della politica, tutt’altro, ma proprio sull’insofferenza per il degrado della buona politica democratica per carenze di competenze e capacità d’ascolto, d’indirizzo, di governo). O anche in condizioni di “mediocrazia”, per dirla con le analisi di Alain Deneault, filosofo politico canadese (“Una qualità modesta…uno stato medio tendente al banale, all’incolore… ma innalzato al rango d’autorità”).

Sia la lezione di Sartori che l’analisi di Deneault tornano in mente leggendo le pagine di uno dei libri più interessanti appena usciti, “La fine del dibattito pubblico” di Mark Thompson, edito da Feltrinelli, ovvero “come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia”. Thompson conosce bene le relazioni tra linguaggio e potere: è stato direttore generale della Bbc a Londra, adesso è amministratore delegato del “New York Times”. Sa che la “retorica” è in origine arte nobile dell’uso della parola e che il “discorso pubblico”, strumento cardine della buona politica democratica, deve avere la forza del ragionamento e delle emozioni e deve saper essere ascoltato con capacità critiche, dialettiche. Racconta che la democrazia è una forma, un insieme di parole dense, significanti. Ma oggi proprio la parola è in crisi, perché banalizzata o inquinata dall’uso delle fake news, delle falsificazioni, da una propaganda sbrigativa che fa perno sulle emozioni più radicali e viene velocemente amplificata, senza critica competente, dai media digitali. Si crea un cortocircuito di disinformazione. Le istituzioni liberali, gli organi d’informazione di qualità e la politica ne soffrono. Si allarga lo spazio di poteri irresponsabili e spesso incompetenti. Abili nell’arte della propaganda. Il contrario della democrazia.

Ragionare su dati e fatti è un’attività che attiene direttamente all’impegno di ricostruire affidabilità di classi dirigenti, condizioni di fiducia, dunque credibilità della democrazia stessa. Conoscere e interpretare i numeri di quel che c’è.  Misurare i cambiamenti. Non indulgere dunque alla propaganda. Ma “fare i conti” e “dare conto”. Democrazia trasparente ed efficace, appunto. Una scelta coraggiosa. Fondata su competenza, concretezza, responsabilità. Milano può avere ruolo esemplare.

Che Milano valorizzare e fare crescere, dunque? Una Milano “competitiva ma anche inclusiva, perché solo tranquillità sociale e inclusione garantiscono lo sviluppo”, sostiene il sindaco Beppe Sala, che sull’attrattività della metropoli gioca molte delle sue carte e che dichiara grande fiducia nell’”Osservatorio Milano” di cui stiamo parlando. “Le attese dei milanesi – aggiunge – sono alte e c’è gran voglia di fare. Non dobbiamo frustrare la volontà e il coraggio dei nostri cittadini”.

Ci sono “specializzazioni” di Milano, ribadite dall’Osservatorio, su cui insistere: scienze della vita, industria agroalimentare, manifattura 4.0 nel contesto di una grande trasformazione digitale dell’industria e dei servizi, finanza, sinergie tra arte, design e cultura. Il capitale umano è il crescita. Il capitale sociale si rafforza. Milano, è vero, è città difficile. Ma oggi ha tutti “i numeri” per potere costruire politiche di sviluppo. Imprese. Iniziative solidali. I “numeri”, sono la chiave della sua buona politica.

Ragionare su dati e fatti. Costruire politiche documentate. Ed essere capaci d’un “discorso pubblico” ben informato, secondo la dialettica democratica critica-proposta. Sta qui la sfida dell’”Osservatorio Milano”, uno strumento di analisi e misurazione della metropoli, a paragone con analoghe altre aree europee, Monaco e Stoccarda, Barcellona e Lione.

Realizzato da Assolombarda in stretta collaborazione con il Comune di Milano e con il contributo attivo di una serie di centri studi (tra gli altri, Banca d’Italia, Camera di Commercio, Intesa San Paolo, Fondazione Ambrosianeum, Confcommercio, ma anche Google e Mastercard) e presentato il 3 maggio, lo “Scoreboard” misura attrattività, reputazione e competitività di Milano, usando 214 indicatori diversi (un centinaio originali) su redditi, lavoro, istruzione, investimenti, imprese, consumi, salute, ambiente, traffico (anche del bike sharing, per esempio), abitazioni, efficienza della pubblica amministrazione, cultura e tempo libero, etc. Per raccontare, nel tempo, come cambia Milano, guardando sia al resto d’Italia che al cuore più dinamico dell’Europa. Dati e fatti, appunto. Che documentano come oggi Milano, in una delle stagioni migliori della sua storia, vanti un primato internazionale per reputazione, forte di eccellente offerta culturale e d’iniziative di qualità per moda e design, e sia al top per qualità dell’offerta universitaria, ma resti ancora indietro per innovazione, ricerca, occupazione giovanile.

Numeri importanti, per impostare policy pubbliche, iniziative di governo del territorio, strategie di crescita aziendale, programmi per un futuro migliore. E strumenti via via aggiornati per una “conoscenza azionabile”, per usare la pertinente definizione di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda. Conoscere per decidere. Disegnare un futuro con competenza. Un paradigma di buona politica che da Milano può fornire utili indicazioni al governo italiano ma anche a Bruxelles.

Ci sono due considerazioni da fare. La prima, generale, riguarda qualità e responsabilità delle classi dirigenti. La seconda, i meccanismi di sviluppo di Milano come metropoli europea in grado di dare un impulso decisivo a tutta la crescita italiana.

La classe dirigente, innanzitutto. Viviamo in tempi di “asinocrazia”, per usare la definizione tagliente di Giovanni Sartori, maestro di studi politici, gran liberale, morto poche settimane fa (una critica fondata non sul disprezzo della politica, tutt’altro, ma proprio sull’insofferenza per il degrado della buona politica democratica per carenze di competenze e capacità d’ascolto, d’indirizzo, di governo). O anche in condizioni di “mediocrazia”, per dirla con le analisi di Alain Deneault, filosofo politico canadese (“Una qualità modesta…uno stato medio tendente al banale, all’incolore… ma innalzato al rango d’autorità”).

Sia la lezione di Sartori che l’analisi di Deneault tornano in mente leggendo le pagine di uno dei libri più interessanti appena usciti, “La fine del dibattito pubblico” di Mark Thompson, edito da Feltrinelli, ovvero “come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia”. Thompson conosce bene le relazioni tra linguaggio e potere: è stato direttore generale della Bbc a Londra, adesso è amministratore delegato del “New York Times”. Sa che la “retorica” è in origine arte nobile dell’uso della parola e che il “discorso pubblico”, strumento cardine della buona politica democratica, deve avere la forza del ragionamento e delle emozioni e deve saper essere ascoltato con capacità critiche, dialettiche. Racconta che la democrazia è una forma, un insieme di parole dense, significanti. Ma oggi proprio la parola è in crisi, perché banalizzata o inquinata dall’uso delle fake news, delle falsificazioni, da una propaganda sbrigativa che fa perno sulle emozioni più radicali e viene velocemente amplificata, senza critica competente, dai media digitali. Si crea un cortocircuito di disinformazione. Le istituzioni liberali, gli organi d’informazione di qualità e la politica ne soffrono. Si allarga lo spazio di poteri irresponsabili e spesso incompetenti. Abili nell’arte della propaganda. Il contrario della democrazia.

Ragionare su dati e fatti è un’attività che attiene direttamente all’impegno di ricostruire affidabilità di classi dirigenti, condizioni di fiducia, dunque credibilità della democrazia stessa. Conoscere e interpretare i numeri di quel che c’è.  Misurare i cambiamenti. Non indulgere dunque alla propaganda. Ma “fare i conti” e “dare conto”. Democrazia trasparente ed efficace, appunto. Una scelta coraggiosa. Fondata su competenza, concretezza, responsabilità. Milano può avere ruolo esemplare.

Che Milano valorizzare e fare crescere, dunque? Una Milano “competitiva ma anche inclusiva, perché solo tranquillità sociale e inclusione garantiscono lo sviluppo”, sostiene il sindaco Beppe Sala, che sull’attrattività della metropoli gioca molte delle sue carte e che dichiara grande fiducia nell’”Osservatorio Milano” di cui stiamo parlando. “Le attese dei milanesi – aggiunge – sono alte e c’è gran voglia di fare. Non dobbiamo frustrare la volontà e il coraggio dei nostri cittadini”.

Ci sono “specializzazioni” di Milano, ribadite dall’Osservatorio, su cui insistere: scienze della vita, industria agroalimentare, manifattura 4.0 nel contesto di una grande trasformazione digitale dell’industria e dei servizi, finanza, sinergie tra arte, design e cultura. Il capitale umano è il crescita. Il capitale sociale si rafforza. Milano, è vero, è città difficile. Ma oggi ha tutti “i numeri” per potere costruire politiche di sviluppo. Imprese. Iniziative solidali. I “numeri”, sono la chiave della sua buona politica.

“Semplicità intelligente”

Un libro appena pubblicato propone poche regole per gestire la complessità aziendale senza creare inutili complicazioni e originando più efficienza

Ogni impresa ha dentro una struttura organizzativa che le permette di funzionare. È questa deve essere funzionale e cioè anche con il giusto grado di complessità tale da funzionare senza intoppi. Cosa apparentemente semplice, questa, è in realtà una delle condizioni più difficili da ottenere. Di fronte alla sfida dei mercati e della concorrenza, spesso le imprese complicano la loro vita e diventano inefficienti invece di affinare la loro effIcacia d’azione. Ma le strade per semplificare e rendere più competitiva l’azione d’impresa ci sono. È quanto spiega “Smart simplicity. Sei regole per gestire la complessità senza diventare complicati” di Yves Morieux e Peter Tollman. Il libro parte da una constatazione. Secondo il Complexity index di The Boston Consulting Group, la complessità del sistema della produzione è cresciuto di sei volte negli ultimi sessant’anni. Contemporaneamente la complicatezza organizzativa (cioè il numero di strutture, processi, comitati, sistemi) è aumentata di ben trentacinque volte: nel tentativo di rispondere a obiettivi sempre più complessi, sono stati creati labirinti organizzativi che rendono sempre più difficile migliorare la produttività e promuovere l’innovazione, e sono causa di demotivazione e scarso coinvolgimento nei collaboratori. Eppure, è la tesi dei due autori, affrontare la complessità con la semplicità si può. Morieux e Tollman individuano quindi sei regole di semplicità per gestire la complessità senza diventare complicati. Attraverso numerosi esempi che ne dimostrano in modo tangibile l’efficacia, svelano perché queste regole funzionano e come applicarle. E autonomia e cooperazione sono gli elementi chiave di quanto proposto. Sarebbero queste le due qualità più importanti per affrontare quella che sembra essere una complessità apparentemente infinita.

Il libro si legge con facilità e affascinanti sono anche alcuni passaggi dell’introduzione, che fissano concetti-chiave per capire meglio. Occorre, per esempio, saper distinguere tra complessità e complicatezza: la prima intesa come elemento ineludibile della vita e del business , la seconda come risposta umana a tutti gli elementi che derivano da questa complessità. Ed è necessario anche riuscire ad arrivare ad una “semplicità intelligente” che non è una condizione semplicistica e nemmeno utopica, ma la base per poter gestire con saggezza un’impresa.
Quanto scritto da Morieux e Tollman è cosa utile da leggere e magari rileggere mentre si cerca di lavorare nelle organizzazioni come indicato nel libro.

Smart simplicity. Sei regole per gestire la complessità senza diventare complicati
Yves Morieux, Peter Tollman.
Egea, 2017

Un libro appena pubblicato propone poche regole per gestire la complessità aziendale senza creare inutili complicazioni e originando più efficienza

Ogni impresa ha dentro una struttura organizzativa che le permette di funzionare. È questa deve essere funzionale e cioè anche con il giusto grado di complessità tale da funzionare senza intoppi. Cosa apparentemente semplice, questa, è in realtà una delle condizioni più difficili da ottenere. Di fronte alla sfida dei mercati e della concorrenza, spesso le imprese complicano la loro vita e diventano inefficienti invece di affinare la loro effIcacia d’azione. Ma le strade per semplificare e rendere più competitiva l’azione d’impresa ci sono. È quanto spiega “Smart simplicity. Sei regole per gestire la complessità senza diventare complicati” di Yves Morieux e Peter Tollman. Il libro parte da una constatazione. Secondo il Complexity index di The Boston Consulting Group, la complessità del sistema della produzione è cresciuto di sei volte negli ultimi sessant’anni. Contemporaneamente la complicatezza organizzativa (cioè il numero di strutture, processi, comitati, sistemi) è aumentata di ben trentacinque volte: nel tentativo di rispondere a obiettivi sempre più complessi, sono stati creati labirinti organizzativi che rendono sempre più difficile migliorare la produttività e promuovere l’innovazione, e sono causa di demotivazione e scarso coinvolgimento nei collaboratori. Eppure, è la tesi dei due autori, affrontare la complessità con la semplicità si può. Morieux e Tollman individuano quindi sei regole di semplicità per gestire la complessità senza diventare complicati. Attraverso numerosi esempi che ne dimostrano in modo tangibile l’efficacia, svelano perché queste regole funzionano e come applicarle. E autonomia e cooperazione sono gli elementi chiave di quanto proposto. Sarebbero queste le due qualità più importanti per affrontare quella che sembra essere una complessità apparentemente infinita.

Il libro si legge con facilità e affascinanti sono anche alcuni passaggi dell’introduzione, che fissano concetti-chiave per capire meglio. Occorre, per esempio, saper distinguere tra complessità e complicatezza: la prima intesa come elemento ineludibile della vita e del business , la seconda come risposta umana a tutti gli elementi che derivano da questa complessità. Ed è necessario anche riuscire ad arrivare ad una “semplicità intelligente” che non è una condizione semplicistica e nemmeno utopica, ma la base per poter gestire con saggezza un’impresa.
Quanto scritto da Morieux e Tollman è cosa utile da leggere e magari rileggere mentre si cerca di lavorare nelle organizzazioni come indicato nel libro.

Smart simplicity. Sei regole per gestire la complessità senza diventare complicati
Yves Morieux, Peter Tollman.
Egea, 2017

Reddito garantito e attività d’impresa

Una raccolta di ricerche indaga le relazioni fra nuove tecnologie della produzione e lavoro

L’impresa ha nel lavoro uno dei suoi pilastri. E il lavoro deve essere adeguatamente svolto e difeso oltre che remunerato. Corretti rapporti fra imprenditore e lavoratore sono, tutto sommato, alla base dello sviluppo di ogni organizzazione della produzione. Ma la natura del lavoro cambia a seconda della tipologia d’azienda nel quale si applica, così come delle tecnologie che vengono usate. Capire le relazioni fra le diverse tipologie di reddito, il lavoro e la natura dell’impresa alla quale si riferisce, è cosa importante sotto tutti gli aspetti. Serve quindi leggere “Reddito garantito e innovazione tecnologica, tra algoritmi e robotica”, insieme di ricerche e di analisi attorno al tema del lavoro, della robotica e delle nuove tecnologie ICT, del tempo di lavoro e della produzione. Il filo logico che unisce questo complesso di indagini è la ricerca dei legami fra reddito (di base, di cittadinanza, di lavoro), con le nuove tecnologie. Il percorso che chi legge compie è quindi vario e complesso è parte della considerazione degli aspetti legati al reddito garantito, al reddito base e alle tipologie lavorative per arrivare alle implicazioni della robotica ma anche dell’evoluzione dei rapporti di lavoro in relazione alle attuali norme di legge che comunque vanno seguite.

Alla base dei ragionamenti condotti dalle singole indagini, è comunque la constatazione dell’intreccio fra vecchie norme legislative, nuove modalità di produzione, differenziazione delle esigenze e delle tipologie di reddito, richieste dei mercati e quindi delle imprese. Soprattutto però, l’insieme delle ricerche proposte da questa raccolta, pone di fronte chi legge alle incognite create dalle nuove tecnologie (e quindi anche dai robot), nei confronti della giusta remunerazione del lavoro oltre che della difesa della sua dignità. “Reddito garantito e innovazione tecnologica, tra algoritmi e robotica” non è certo l’insieme perfetto di indagini su un tema così complesso come quello delle relazioni fra innovazione tecnologica e lavoro, ma è un ottimo strumento per soffermarsi a riflettere su uno degli aspetti più pregnanti delle attuali organizzazioni produttive.

Reddito garantito e innovazione tecnologica, tra algoritmi e robotica
AA.VV.
BIN – Quaderni per il reddito, 07 – marzo 2017

Una raccolta di ricerche indaga le relazioni fra nuove tecnologie della produzione e lavoro

L’impresa ha nel lavoro uno dei suoi pilastri. E il lavoro deve essere adeguatamente svolto e difeso oltre che remunerato. Corretti rapporti fra imprenditore e lavoratore sono, tutto sommato, alla base dello sviluppo di ogni organizzazione della produzione. Ma la natura del lavoro cambia a seconda della tipologia d’azienda nel quale si applica, così come delle tecnologie che vengono usate. Capire le relazioni fra le diverse tipologie di reddito, il lavoro e la natura dell’impresa alla quale si riferisce, è cosa importante sotto tutti gli aspetti. Serve quindi leggere “Reddito garantito e innovazione tecnologica, tra algoritmi e robotica”, insieme di ricerche e di analisi attorno al tema del lavoro, della robotica e delle nuove tecnologie ICT, del tempo di lavoro e della produzione. Il filo logico che unisce questo complesso di indagini è la ricerca dei legami fra reddito (di base, di cittadinanza, di lavoro), con le nuove tecnologie. Il percorso che chi legge compie è quindi vario e complesso è parte della considerazione degli aspetti legati al reddito garantito, al reddito base e alle tipologie lavorative per arrivare alle implicazioni della robotica ma anche dell’evoluzione dei rapporti di lavoro in relazione alle attuali norme di legge che comunque vanno seguite.

Alla base dei ragionamenti condotti dalle singole indagini, è comunque la constatazione dell’intreccio fra vecchie norme legislative, nuove modalità di produzione, differenziazione delle esigenze e delle tipologie di reddito, richieste dei mercati e quindi delle imprese. Soprattutto però, l’insieme delle ricerche proposte da questa raccolta, pone di fronte chi legge alle incognite create dalle nuove tecnologie (e quindi anche dai robot), nei confronti della giusta remunerazione del lavoro oltre che della difesa della sua dignità. “Reddito garantito e innovazione tecnologica, tra algoritmi e robotica” non è certo l’insieme perfetto di indagini su un tema così complesso come quello delle relazioni fra innovazione tecnologica e lavoro, ma è un ottimo strumento per soffermarsi a riflettere su uno degli aspetti più pregnanti delle attuali organizzazioni produttive.

Reddito garantito e innovazione tecnologica, tra algoritmi e robotica
AA.VV.
BIN – Quaderni per il reddito, 07 – marzo 2017

L’Italia provinciale che parla male di sé e le imprese che innovano e investono

È una delle più grandi passioni degli italiani, parlar male dell’Italia. Ma anche offendersi con coloro che la criticano. Tifoserie. Chiacchiere da Bar Sport elevate a valori politici. Insistenza nel proclamare, alla Bartali, “tutto sbagliato, tutto da rifare” (ma senza la sua ruvida bonomia) . O prendersela con i “gufi” e “chi rema contro”. “Provincialismo“, sentenzia sul “Corriere della Sera” Angelo Panebianco, contestando giustamente “i lamenti dell’Italia immobile”.

Meglio, invece, guardare senza passioni partigiane dati e fatti. Costruire critiche consapevoli. Apprezzare il lavoro di quegli italiani che fanno e non maledicono. E applicare nella vita quotidiana (e nell’impegno politico, amministrativo, culturale) la lezione civile di Italo Calvino, nelle ultime pagine de “Le città invisibili“: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Vediamo meglio, allora, in quest’Italia ipercriticata ma anche, troppo spesso, ostile ai cambiamenti e alle riforme (ne abbiamo parlato più volte, nei nostri blog), cosa “non è inferno” e a cosa “dare spazio”.

Un dato, innanzitutto: la ripresa degli investimenti delle imprese industriali in nuovi macchinari. Segno positivo di attivismo, intraprendenza, volontà non rassegnata al declino.

Dopo anni di stasi, gli ordini di macchine utensili sono saliti del 22% nel primo trimestre ’17 (rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) sul mercato interno e di quasi l’1% sui mercati internazionali (dati Ucimu, l’associazione confindustriale del settore). Cosa vuol dire questa ripresa? Che l’industria italiana ha finalmente preso atto d’avere in casa macchinari vecchi (13 anni, l’età media degli impianti) e ha deciso che era oramai tempo di giocare la carta dell’innovazione. Carta obbligata, per fare fronte alla competitività internazionale. E positivamente stimolata dagli incentivi fiscali per il “Piano Industria 4.0” del governo: i super-ammortamenti al 120% e gli iper-ammortamenti al 140%.

C’è insomma una combinazione virtuosa tra iniziativa privata e politica industriale (positive, le scelte dei governi Renzi e poi Gentiloni e l’impegno del ministro Calenda). E cresce la consapevolezza della parte più dinamica della manifattura italiana di dover cogliere l’opportunità della svolta “digital” dell’industria: produzione hi tech e di qualità, servizi, utilizzo dei big data, tutto l’universo innovativo di “Industria 4.0“, appunto. Su cui l’impresa italiana sta giocando una robusta capacità competitiva. Quanta parte dell’industria? Un quinto o, al massimo, un quarto, dice chi conosce la forza di imprese, filiere e reti produttive, distretti, medie imprese d’eccellenza della meccatronica e della gomma, della farmaceutica e della chimica, dei nuovi materiali e dell’agro-alimentare più sofisticato. E il resto dell’industria? Cambiamenti selettivi in corso. Un mondo, comunque, in movimento. Il 20% delle imprese fa l’80% dell’export e del suo valore aggiunto. Il resto arranca, anche se a diversi livelli di velocità. La sfida (di cultura d’impresa e di politica industriale) è fare crescere quel 20%. Insistere insomma su innovazione e competitività.

C’è un altro dato sul “non inferno” su cui vale la pena riflettere. Ed è quello della fiducia delle imprese, finalmente migliorata. L’indice di fiducia mensile rilevato dall’Istat ha segnato ad aprile un valore di 107,4 punti, rispetto a 100,8 del dicembre 2016: è il più alto dall’ottobre 2007, vigilia della Grande Crisi (durante la quale l’industria italiana ha perso il 25% della sua capacità produttiva, ha sofferto in termini di attività e posti di lavoro, ha cominciato a riprendersi investendo, innovando, trovando nuovi spazi sui mercati internazionali: protagonismo da apprezzare e a cui “dare spazio”). Fiducia, dunque. Che stimola anche quegli investimenti di lungo periodo, in impianti e macchinari, di cui abbiamo detto.

Le imprese migliori sono insomma in movimento. Il loro dato di fiducia va letto accanto a un altro dato, quello della caduta della fiducia dei consumatori. In arretramento. “Italia bipolare. Aziende e famiglie, le strade si dividono”, commenta Paolo Bricco su “IlSole24Ore” (28 aprile). L’Istat parla di 7,2 milioni di italiani che “vivono in gravi condizioni economiche”. I consumi non crescono se non marginalmente. Il mercato interno è fermo. Le imprese che operano soprattutto su questo mercato soffrono (l’edilizia è in caduta per il decimo anno, qualcosa si muove solo nelle grandi città del Nord, a cominciare da Milano).

In un clima del genere, sfide politiche, economiche e sociali si incrociano. Il futuro dello sviluppo sta nelle imprese più dinamiche, nella capacità di traino da parte della manifattura hi tech e medium tech delle aree settentrionali, le più “europee”. Ma non c’è settore né area geo-economica che possa fare da locomotiva, se tutto il sistema Paese non entra nell’ordine di idee di una forte e decisa scelta di riforme di lungo periodo. Proprio quello che sinora ha rifiutato di fare. Eccola dunque la “sfida del non inferno”. Senza parlare male di noi stessi. Senza stolido ottimismo. Ma facendo crescere quel che sappiamo “fare, e fare bene”. Meritiamo di meglio che non chiacchiere al vento.

È una delle più grandi passioni degli italiani, parlar male dell’Italia. Ma anche offendersi con coloro che la criticano. Tifoserie. Chiacchiere da Bar Sport elevate a valori politici. Insistenza nel proclamare, alla Bartali, “tutto sbagliato, tutto da rifare” (ma senza la sua ruvida bonomia) . O prendersela con i “gufi” e “chi rema contro”. “Provincialismo“, sentenzia sul “Corriere della Sera” Angelo Panebianco, contestando giustamente “i lamenti dell’Italia immobile”.

Meglio, invece, guardare senza passioni partigiane dati e fatti. Costruire critiche consapevoli. Apprezzare il lavoro di quegli italiani che fanno e non maledicono. E applicare nella vita quotidiana (e nell’impegno politico, amministrativo, culturale) la lezione civile di Italo Calvino, nelle ultime pagine de “Le città invisibili“: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Vediamo meglio, allora, in quest’Italia ipercriticata ma anche, troppo spesso, ostile ai cambiamenti e alle riforme (ne abbiamo parlato più volte, nei nostri blog), cosa “non è inferno” e a cosa “dare spazio”.

Un dato, innanzitutto: la ripresa degli investimenti delle imprese industriali in nuovi macchinari. Segno positivo di attivismo, intraprendenza, volontà non rassegnata al declino.

Dopo anni di stasi, gli ordini di macchine utensili sono saliti del 22% nel primo trimestre ’17 (rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) sul mercato interno e di quasi l’1% sui mercati internazionali (dati Ucimu, l’associazione confindustriale del settore). Cosa vuol dire questa ripresa? Che l’industria italiana ha finalmente preso atto d’avere in casa macchinari vecchi (13 anni, l’età media degli impianti) e ha deciso che era oramai tempo di giocare la carta dell’innovazione. Carta obbligata, per fare fronte alla competitività internazionale. E positivamente stimolata dagli incentivi fiscali per il “Piano Industria 4.0” del governo: i super-ammortamenti al 120% e gli iper-ammortamenti al 140%.

C’è insomma una combinazione virtuosa tra iniziativa privata e politica industriale (positive, le scelte dei governi Renzi e poi Gentiloni e l’impegno del ministro Calenda). E cresce la consapevolezza della parte più dinamica della manifattura italiana di dover cogliere l’opportunità della svolta “digital” dell’industria: produzione hi tech e di qualità, servizi, utilizzo dei big data, tutto l’universo innovativo di “Industria 4.0“, appunto. Su cui l’impresa italiana sta giocando una robusta capacità competitiva. Quanta parte dell’industria? Un quinto o, al massimo, un quarto, dice chi conosce la forza di imprese, filiere e reti produttive, distretti, medie imprese d’eccellenza della meccatronica e della gomma, della farmaceutica e della chimica, dei nuovi materiali e dell’agro-alimentare più sofisticato. E il resto dell’industria? Cambiamenti selettivi in corso. Un mondo, comunque, in movimento. Il 20% delle imprese fa l’80% dell’export e del suo valore aggiunto. Il resto arranca, anche se a diversi livelli di velocità. La sfida (di cultura d’impresa e di politica industriale) è fare crescere quel 20%. Insistere insomma su innovazione e competitività.

C’è un altro dato sul “non inferno” su cui vale la pena riflettere. Ed è quello della fiducia delle imprese, finalmente migliorata. L’indice di fiducia mensile rilevato dall’Istat ha segnato ad aprile un valore di 107,4 punti, rispetto a 100,8 del dicembre 2016: è il più alto dall’ottobre 2007, vigilia della Grande Crisi (durante la quale l’industria italiana ha perso il 25% della sua capacità produttiva, ha sofferto in termini di attività e posti di lavoro, ha cominciato a riprendersi investendo, innovando, trovando nuovi spazi sui mercati internazionali: protagonismo da apprezzare e a cui “dare spazio”). Fiducia, dunque. Che stimola anche quegli investimenti di lungo periodo, in impianti e macchinari, di cui abbiamo detto.

Le imprese migliori sono insomma in movimento. Il loro dato di fiducia va letto accanto a un altro dato, quello della caduta della fiducia dei consumatori. In arretramento. “Italia bipolare. Aziende e famiglie, le strade si dividono”, commenta Paolo Bricco su “IlSole24Ore” (28 aprile). L’Istat parla di 7,2 milioni di italiani che “vivono in gravi condizioni economiche”. I consumi non crescono se non marginalmente. Il mercato interno è fermo. Le imprese che operano soprattutto su questo mercato soffrono (l’edilizia è in caduta per il decimo anno, qualcosa si muove solo nelle grandi città del Nord, a cominciare da Milano).

In un clima del genere, sfide politiche, economiche e sociali si incrociano. Il futuro dello sviluppo sta nelle imprese più dinamiche, nella capacità di traino da parte della manifattura hi tech e medium tech delle aree settentrionali, le più “europee”. Ma non c’è settore né area geo-economica che possa fare da locomotiva, se tutto il sistema Paese non entra nell’ordine di idee di una forte e decisa scelta di riforme di lungo periodo. Proprio quello che sinora ha rifiutato di fare. Eccola dunque la “sfida del non inferno”. Senza parlare male di noi stessi. Senza stolido ottimismo. Ma facendo crescere quel che sappiamo “fare, e fare bene”. Meritiamo di meglio che non chiacchiere al vento.

Concorrenza e imprese frenate da lobby e burocrazie. Ma la “mossa del cavallo”…

Piace poco, alla maggior parte degli italiani, la concorrenza. Trova consensi minoritari, ancora adesso, la cultura del mercato. Hanno spazio crescente, invece, clientele, corporazioni, lobby, sodalizi che invocano l’assistenza pubblica (le recenti vicende Alitalia ne sono testimonianza). Nel mare incerto della crisi economica, nella difficile età delle transizioni tecnologiche con forti impatti sociali, si va in cerca di protezioni. In tempi così confusi, c’è perfino chi propone bizzarramente di “tassare i robot”: non promuovere l’innovazione, ma giocare a una sorta di “neo-luddismo” (la distruzione delle macchine industriali) per via fiscale. Propaganda e conservazione, non intelligente senso di responsabilità critica.

Al di là dell’esperienza quotidiana di ognuno di noi, una conferma della cultura anti-concorrenza arriva da un’autorevole raccolta di studi curata da Alfredo Gigliobianco e Gianni Toniolo per la Collana Storica della Banca d’Italia, edita da Marsilio: “Concorrenza, mercato e crescita in Italia: il lungo periodo“. Nel corso di un secolo e mezzo dall’Unità, le fasi più dinamiche dell’economia sono state determinate dall’iniziativa di imprenditori con sguardo internazionale (l’avvio dell’industrializzazione nella seconda metà dell’Ottocento, gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento) e da un intreccio virtuoso tra industria, territori di antiche e nuove competenze manifatturiere, intraprendenza sui mercati esteri e dinamismo del mercato interno, con innovative relazioni industriali e un forte senso di impegno “generale” delle parti sociali (imprese e sindacati), come nel cuore della grande crisi di metà anni Settanta e poi nelle difficoltà sociali e finanziarie del 1992, per prendere poi l’abbrivio verso l’ingresso nell’euro (scelta lungimirante e responsabile, anche se in parte mal gestita). E’ sempre forte, comunque, la tentazione della prevalenza della mano pubblica, delle protezioni corporative, delle sicurezze, della ricerca di garanzie del posto di lavoro (il che spesso ha bloccato la creazione di nuovo lavoro).

“Tengo famiglia”, è un diffuso sentimento nazionale. Intendendo “famiglia” nel senso più ampio del termine.

Le norme sulla tutela della concorrenza non hanno trovato spazio nella Costituzione, la legge antitrust arriva solo nel 1990, un efficace quadro legislativo a tutela delle imprese che competono su un mercato trasparente e ben regolato tarda a essere compiuto (privatizzazioni mal fatte, annunci di “lenzuolate” di liberalizzazioni, poche realizzazioni). E ancora adesso la proposta di legge governativa (governo Renzi) sulla concorrenza è bloccata in Parlamento e guardata con ostilità dal partito di maggioranza (il Pd guidato da Renzi): cedimento politico di corto respiro a responsabili riforme di sistema.

Il risultato è evidente, proprio nei numeri sulla limitatissima crescita economica dell’Italia negli ultimi vent’anni. Va bene la manifattura, quella parte che, tra investimenti e innovazione, ha imparato a competere sui mercato internazionali. Vanno male i servizi, i più legati al mercato interno, poco aperto, farraginosamente regolato, scarsamente competitivo. E dominato da lobby, corporazioni. E burocrazie. Soprattutto nel Mezzogiorno, in cui l’economia è sempre più dipendente dalle decisioni degli apparati pubblici e dalle distorsioni della spesa pubblica, con effetto negativo sullo sviluppo: più clientele, più apparati impiegatizi, meno mercato, meno opportunità di investimenti, creazione e crescita d’impresa, innovazione, lavoro.

Ecco un tema, messo in luce anche dai saggi curati da Gigliobianco e Toniolo per la Banca d’Italia, cui abbiamo fatto riferimento: la forza frenante della burocrazia. Un ostacolo alle riforme, al mercato, allo sviluppo. Lobby diffusa. In grado di impantanare ogni tentativo di crescita dinamica e “libera“, ogni esercizio del premio al merito, ogni reale competitività.

Lobby antica. E purtroppo attuale.

Per averne un quadro, usando gli strumenti della buona letteratura, si può anche leggere con divertimento (e naturalmente con amaro disappunto sulle conseguenze) anche uno dei migliori romanzi di Andrea Camilleri, “La mossa del cavallo“, edito la prima volta da Rcs nel 1999 e acutamente ripubblicato adesso la Sellerio. In scena non c’è il commissario Montalbano ma personaggi di storia e invenzione della Sicilia del tardo Ottocento, come ne “Il birraio di Preston” o “La concessione del telefono”, in un gioco ironico che intreccia furbizie, corruzione, rigidità burocratiche (i funzionari del nuovo Stato unitario estranei ai meandri meridionali, ma anche gli amministratori pubblici ex borbonici, furbamente riconvertiti alle forme delle regole piemontesi), buone intenzioni, interessi di soldi e potere e prepotenze mafiose.

Si muove in modo speciale, il cavallo, nel gioco degli scacchi. Può scavalcare, unico, gli altri pezzi, in orizzontale e in verticale. Parte da una casella nera e finisce in una bianca o viceversa. Un capovolgimento, appunto. Proprio ciò che succede al protagonista del libro, Giovanni Bovara, ispettore capo dei mulini, un funzionario del fisco dunque, siciliano d’origine e genovese d’educazione, che arriva a Vigàta, nell’autunno del 1877, per prendere il posto di due colleghi, entrambi assassinati. Deve controllare l’applicazione dell’impopolare tassa sul macinato, si muove con severità, incurante di lusinghe e minacce (che arrivano da don Cocò Afflitto, capomafia, ma anche da avvocati e poliziotti, oltre che direttamente dall’Intendente di Finanza, il suo capo). Raccoglie le ultime parole d’un prete, don Carnazza, libertino e usuraio, abbattuto a fucilate, che gli indica l’assassino. Decide di testimoniare. E in un complicato gioco di “mosse del cavallo” e capovolgimenti di ruolo, si ritrova imputato proprio di quell’omicidio. L’inganno contro la ragione. Il potere contro il diritto. La burocrazia che ostacola modernizzazione e idee di buon governo. Ma il cavallo…

Troverà mai, la cultura della concorrenza, la sua “mossa del cavallo”?

Piace poco, alla maggior parte degli italiani, la concorrenza. Trova consensi minoritari, ancora adesso, la cultura del mercato. Hanno spazio crescente, invece, clientele, corporazioni, lobby, sodalizi che invocano l’assistenza pubblica (le recenti vicende Alitalia ne sono testimonianza). Nel mare incerto della crisi economica, nella difficile età delle transizioni tecnologiche con forti impatti sociali, si va in cerca di protezioni. In tempi così confusi, c’è perfino chi propone bizzarramente di “tassare i robot”: non promuovere l’innovazione, ma giocare a una sorta di “neo-luddismo” (la distruzione delle macchine industriali) per via fiscale. Propaganda e conservazione, non intelligente senso di responsabilità critica.

Al di là dell’esperienza quotidiana di ognuno di noi, una conferma della cultura anti-concorrenza arriva da un’autorevole raccolta di studi curata da Alfredo Gigliobianco e Gianni Toniolo per la Collana Storica della Banca d’Italia, edita da Marsilio: “Concorrenza, mercato e crescita in Italia: il lungo periodo“. Nel corso di un secolo e mezzo dall’Unità, le fasi più dinamiche dell’economia sono state determinate dall’iniziativa di imprenditori con sguardo internazionale (l’avvio dell’industrializzazione nella seconda metà dell’Ottocento, gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento) e da un intreccio virtuoso tra industria, territori di antiche e nuove competenze manifatturiere, intraprendenza sui mercati esteri e dinamismo del mercato interno, con innovative relazioni industriali e un forte senso di impegno “generale” delle parti sociali (imprese e sindacati), come nel cuore della grande crisi di metà anni Settanta e poi nelle difficoltà sociali e finanziarie del 1992, per prendere poi l’abbrivio verso l’ingresso nell’euro (scelta lungimirante e responsabile, anche se in parte mal gestita). E’ sempre forte, comunque, la tentazione della prevalenza della mano pubblica, delle protezioni corporative, delle sicurezze, della ricerca di garanzie del posto di lavoro (il che spesso ha bloccato la creazione di nuovo lavoro).

“Tengo famiglia”, è un diffuso sentimento nazionale. Intendendo “famiglia” nel senso più ampio del termine.

Le norme sulla tutela della concorrenza non hanno trovato spazio nella Costituzione, la legge antitrust arriva solo nel 1990, un efficace quadro legislativo a tutela delle imprese che competono su un mercato trasparente e ben regolato tarda a essere compiuto (privatizzazioni mal fatte, annunci di “lenzuolate” di liberalizzazioni, poche realizzazioni). E ancora adesso la proposta di legge governativa (governo Renzi) sulla concorrenza è bloccata in Parlamento e guardata con ostilità dal partito di maggioranza (il Pd guidato da Renzi): cedimento politico di corto respiro a responsabili riforme di sistema.

Il risultato è evidente, proprio nei numeri sulla limitatissima crescita economica dell’Italia negli ultimi vent’anni. Va bene la manifattura, quella parte che, tra investimenti e innovazione, ha imparato a competere sui mercato internazionali. Vanno male i servizi, i più legati al mercato interno, poco aperto, farraginosamente regolato, scarsamente competitivo. E dominato da lobby, corporazioni. E burocrazie. Soprattutto nel Mezzogiorno, in cui l’economia è sempre più dipendente dalle decisioni degli apparati pubblici e dalle distorsioni della spesa pubblica, con effetto negativo sullo sviluppo: più clientele, più apparati impiegatizi, meno mercato, meno opportunità di investimenti, creazione e crescita d’impresa, innovazione, lavoro.

Ecco un tema, messo in luce anche dai saggi curati da Gigliobianco e Toniolo per la Banca d’Italia, cui abbiamo fatto riferimento: la forza frenante della burocrazia. Un ostacolo alle riforme, al mercato, allo sviluppo. Lobby diffusa. In grado di impantanare ogni tentativo di crescita dinamica e “libera“, ogni esercizio del premio al merito, ogni reale competitività.

Lobby antica. E purtroppo attuale.

Per averne un quadro, usando gli strumenti della buona letteratura, si può anche leggere con divertimento (e naturalmente con amaro disappunto sulle conseguenze) anche uno dei migliori romanzi di Andrea Camilleri, “La mossa del cavallo“, edito la prima volta da Rcs nel 1999 e acutamente ripubblicato adesso la Sellerio. In scena non c’è il commissario Montalbano ma personaggi di storia e invenzione della Sicilia del tardo Ottocento, come ne “Il birraio di Preston” o “La concessione del telefono”, in un gioco ironico che intreccia furbizie, corruzione, rigidità burocratiche (i funzionari del nuovo Stato unitario estranei ai meandri meridionali, ma anche gli amministratori pubblici ex borbonici, furbamente riconvertiti alle forme delle regole piemontesi), buone intenzioni, interessi di soldi e potere e prepotenze mafiose.

Si muove in modo speciale, il cavallo, nel gioco degli scacchi. Può scavalcare, unico, gli altri pezzi, in orizzontale e in verticale. Parte da una casella nera e finisce in una bianca o viceversa. Un capovolgimento, appunto. Proprio ciò che succede al protagonista del libro, Giovanni Bovara, ispettore capo dei mulini, un funzionario del fisco dunque, siciliano d’origine e genovese d’educazione, che arriva a Vigàta, nell’autunno del 1877, per prendere il posto di due colleghi, entrambi assassinati. Deve controllare l’applicazione dell’impopolare tassa sul macinato, si muove con severità, incurante di lusinghe e minacce (che arrivano da don Cocò Afflitto, capomafia, ma anche da avvocati e poliziotti, oltre che direttamente dall’Intendente di Finanza, il suo capo). Raccoglie le ultime parole d’un prete, don Carnazza, libertino e usuraio, abbattuto a fucilate, che gli indica l’assassino. Decide di testimoniare. E in un complicato gioco di “mosse del cavallo” e capovolgimenti di ruolo, si ritrova imputato proprio di quell’omicidio. L’inganno contro la ragione. Il potere contro il diritto. La burocrazia che ostacola modernizzazione e idee di buon governo. Ma il cavallo…

Troverà mai, la cultura della concorrenza, la sua “mossa del cavallo”?

L’impresa orchestrata

Un  Working paper della Fondazione Merloni indica la nuova figura dell’imprenditore-orchestratore come sintesi risultato delle nuove sfide poste di fronte alle organizzazioni della produzione

L’impresa come un’orchestra. L’imprenditore più di un direttore che ispira, coordina, mette insieme singoli strumenti per arrivare al prodotto finale. L’impresa che tutto sommato ha il fascino di un grande gruppo d’artisti. E’ anche questa l’immagine che oggi – ma tutto sommato non solo oggi -, può essere data dell’impresa. Qualcosa di vivo e non solamente di meccanico. Con l’imprenditore-orchestratore, appunto.

Ed è proprio su questa base che si sviluppa l’indagine che Donato Iacobucci (dell’Università Politecnica delle Marche), ha da poco condensato in uno dei Working papers della Fondazione Merloni.

Scrive l’autore nell’introduzione a “L’imprenditore orchestratore”: “Ciò che serve agli imprenditori non è solo individuare il ‘business model’ vincente, che potrebbe diventare rapidamente obsoleto. Occorre cambiare nel profondo il modo di fare impresa al fine di adeguarlo alle nuove sfide; queste implicano non solo la scelta di un business model adeguato ma anche la sua continua ridefinizione in funzione dei cambiamenti di contesto. Nel cambiare il modo di fare impresa occorre anche ripensare al ruolo dell’imprenditore. In sintesi l’imprenditore dovrà passare dal tradizionale ruolo di proprietario-manager di un’impresa a quello di orchestratore di progetti d’impresa”. Figura dinamica, quindi, quella dell’imprenditore (e di fatto dei suoi manager), che plasma di se’ l’impresa ma ne deve cogliere ogni giorno tutte le sfide.

Iacobucci quindi prende in considerazione i diversi aspetti della moderna gestione dell’impresa-orchestra partendo dai suoi risultati – cioè il il prodotto e il servizio -, per arrivare all’evoluzione del modo di fare organizzare la produzione. Quest’ultimo viene studiato nei suoi aspetti più importanti: i modelli di innovazione,  il problema del reperimento delle risorse finanziarie, le modalità di governo dell’organizzazione. Tutto per arrivare ad una conclusione: “L’imprenditore – scrive Iacobucci -, deve cambiare il suo ruolo da proprietario-manager a orchestratore”. Ben più, come si diceva all’inizio, di un direttore (che viene equiparato ad un buon manager). “L’imprenditore orchestratore ha un ruolo diverso – scrive ancora Iacobucci -. A lui spetta il compito di decidere di quali risorse dotarsi, in quale tipologia di esecuzione vuole impegnarli, chi è in grado di assicurare una interpretazione creativa della partitura in modo da ottenere il meglio dalle risorse a disposizione e la maggiore efficacia nell’esecuzione finale. E naturalmente dovrà continuamente verificare se e quando cambiare la tipologia di musica che intende suonare, oppure la singola partitura, modificare l’orchestra, cambiare il direttore”. Da qui l’autore parte per elencare ed analizzare le caratteristiche del buon imprenditore-orchestratore. Qualità che sono la capacità di definire le risorse chiave e le modalità di acquisizione delle stesse, oltre che mantenere il controllo dei risultati.

Alla fine di tutto, poi, Iacobucci indica una condizione determinante: il salto culturale che l’imprenditore deve compiere per ridefinire i suoi valori.

Il contributo di Iacobucci ha un merito: quello di essere chiaro e sintetico. Cosa di non poco conto in un ambito come quello degli studi d’impresa.

L’imprenditore orchestratore

Donato Iacobucci, Università Politecnica delle Marche

Fondazione Merloni, Working papers, 2017, 02.

Un  Working paper della Fondazione Merloni indica la nuova figura dell’imprenditore-orchestratore come sintesi risultato delle nuove sfide poste di fronte alle organizzazioni della produzione

L’impresa come un’orchestra. L’imprenditore più di un direttore che ispira, coordina, mette insieme singoli strumenti per arrivare al prodotto finale. L’impresa che tutto sommato ha il fascino di un grande gruppo d’artisti. E’ anche questa l’immagine che oggi – ma tutto sommato non solo oggi -, può essere data dell’impresa. Qualcosa di vivo e non solamente di meccanico. Con l’imprenditore-orchestratore, appunto.

Ed è proprio su questa base che si sviluppa l’indagine che Donato Iacobucci (dell’Università Politecnica delle Marche), ha da poco condensato in uno dei Working papers della Fondazione Merloni.

Scrive l’autore nell’introduzione a “L’imprenditore orchestratore”: “Ciò che serve agli imprenditori non è solo individuare il ‘business model’ vincente, che potrebbe diventare rapidamente obsoleto. Occorre cambiare nel profondo il modo di fare impresa al fine di adeguarlo alle nuove sfide; queste implicano non solo la scelta di un business model adeguato ma anche la sua continua ridefinizione in funzione dei cambiamenti di contesto. Nel cambiare il modo di fare impresa occorre anche ripensare al ruolo dell’imprenditore. In sintesi l’imprenditore dovrà passare dal tradizionale ruolo di proprietario-manager di un’impresa a quello di orchestratore di progetti d’impresa”. Figura dinamica, quindi, quella dell’imprenditore (e di fatto dei suoi manager), che plasma di se’ l’impresa ma ne deve cogliere ogni giorno tutte le sfide.

Iacobucci quindi prende in considerazione i diversi aspetti della moderna gestione dell’impresa-orchestra partendo dai suoi risultati – cioè il il prodotto e il servizio -, per arrivare all’evoluzione del modo di fare organizzare la produzione. Quest’ultimo viene studiato nei suoi aspetti più importanti: i modelli di innovazione,  il problema del reperimento delle risorse finanziarie, le modalità di governo dell’organizzazione. Tutto per arrivare ad una conclusione: “L’imprenditore – scrive Iacobucci -, deve cambiare il suo ruolo da proprietario-manager a orchestratore”. Ben più, come si diceva all’inizio, di un direttore (che viene equiparato ad un buon manager). “L’imprenditore orchestratore ha un ruolo diverso – scrive ancora Iacobucci -. A lui spetta il compito di decidere di quali risorse dotarsi, in quale tipologia di esecuzione vuole impegnarli, chi è in grado di assicurare una interpretazione creativa della partitura in modo da ottenere il meglio dalle risorse a disposizione e la maggiore efficacia nell’esecuzione finale. E naturalmente dovrà continuamente verificare se e quando cambiare la tipologia di musica che intende suonare, oppure la singola partitura, modificare l’orchestra, cambiare il direttore”. Da qui l’autore parte per elencare ed analizzare le caratteristiche del buon imprenditore-orchestratore. Qualità che sono la capacità di definire le risorse chiave e le modalità di acquisizione delle stesse, oltre che mantenere il controllo dei risultati.

Alla fine di tutto, poi, Iacobucci indica una condizione determinante: il salto culturale che l’imprenditore deve compiere per ridefinire i suoi valori.

Il contributo di Iacobucci ha un merito: quello di essere chiaro e sintetico. Cosa di non poco conto in un ambito come quello degli studi d’impresa.

L’imprenditore orchestratore

Donato Iacobucci, Università Politecnica delle Marche

Fondazione Merloni, Working papers, 2017, 02.

Corretta comunicazione per buone imprese

In un libro riassunti tutti gli aspetti del moderno sistema del comunicare

L’impresa comunica con l’esterno. Aspetto cruciale, quello della comunicazione e dell’erogazione di informazioni, troppo spesso poco compreso, travisato, confuso con altre caselle dell’organizzazione della produzione. Comunicare bene, d’altra parte, è parte essenziale di una buona cultura d’impresa, attenta non solo alla qualità del prodotto ma anche al contesto e al territorio. Senza contare le ormai tante aziende che della comunicazione hanno fatto il proprio prodotto.

“Le professioni della comunicazione 2017” appena pubblicato è una buona lettura da fare per capire meglio e con più precisione la natura e gli strumenti della comunicazione a disposizione anche delle imprese. Scritto a più mani e a cura di Ruggero Eugeni (professore di Semiotica dei media presso l’Università Cattolica di Milano), e di Nicoletta Vittadini  (professore di Sociologia della comunicazione e di Web e social Media presso l’Università Cattolica), il libro ha l’obiettivo di rispondere all’interrogativo su su come stiano cambiando le professioni della comunicazione. Il traguardo più generale che il volume vuole raggiungere, è quello di arrivare a  “disegnare per la prima volta in Italia una mappa dei mondi professionali della comunicazione e cogliere i cambiamenti in atto al suo interno”.
All’interno quindi, vengono prima di tutto delineate le nuove figure e le nuove competenze che si sono delineate nel settore dei media e della comunicazione approfondendo poi la comunicazione d’impresa e del prodotto per passare poi alla comunicazione propria dei “venditori” e arrivando quindi alla comunicazione digitale e audiovisiva. Particolare attenzione viene anche posta sul mondo dell’editoria  e dell’organizzazione degli eventi.

Frutto di numerose ricerche e interventi di professionisti, aziende e associazioni del settore – coordinato da Almed, Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Cattolica -, il libro è scritto con un linguaggio immediato e quasi in presa diretta. Una buona porta d’ingresso ad un mondo che evolve in continuazione, e i cui strumenti imprenditori e manager  devono conoscere bene per poterli usare adeguatamente.

Libro bianco de Le professioni della comunicazione 2017

Ruggero Eugeni, Nicoletta Vittadini (a cura di)

Franco Angeli, 2017

In un libro riassunti tutti gli aspetti del moderno sistema del comunicare

L’impresa comunica con l’esterno. Aspetto cruciale, quello della comunicazione e dell’erogazione di informazioni, troppo spesso poco compreso, travisato, confuso con altre caselle dell’organizzazione della produzione. Comunicare bene, d’altra parte, è parte essenziale di una buona cultura d’impresa, attenta non solo alla qualità del prodotto ma anche al contesto e al territorio. Senza contare le ormai tante aziende che della comunicazione hanno fatto il proprio prodotto.

“Le professioni della comunicazione 2017” appena pubblicato è una buona lettura da fare per capire meglio e con più precisione la natura e gli strumenti della comunicazione a disposizione anche delle imprese. Scritto a più mani e a cura di Ruggero Eugeni (professore di Semiotica dei media presso l’Università Cattolica di Milano), e di Nicoletta Vittadini  (professore di Sociologia della comunicazione e di Web e social Media presso l’Università Cattolica), il libro ha l’obiettivo di rispondere all’interrogativo su su come stiano cambiando le professioni della comunicazione. Il traguardo più generale che il volume vuole raggiungere, è quello di arrivare a  “disegnare per la prima volta in Italia una mappa dei mondi professionali della comunicazione e cogliere i cambiamenti in atto al suo interno”.
All’interno quindi, vengono prima di tutto delineate le nuove figure e le nuove competenze che si sono delineate nel settore dei media e della comunicazione approfondendo poi la comunicazione d’impresa e del prodotto per passare poi alla comunicazione propria dei “venditori” e arrivando quindi alla comunicazione digitale e audiovisiva. Particolare attenzione viene anche posta sul mondo dell’editoria  e dell’organizzazione degli eventi.

Frutto di numerose ricerche e interventi di professionisti, aziende e associazioni del settore – coordinato da Almed, Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Cattolica -, il libro è scritto con un linguaggio immediato e quasi in presa diretta. Una buona porta d’ingresso ad un mondo che evolve in continuazione, e i cui strumenti imprenditori e manager  devono conoscere bene per poterli usare adeguatamente.

Libro bianco de Le professioni della comunicazione 2017

Ruggero Eugeni, Nicoletta Vittadini (a cura di)

Franco Angeli, 2017

Il “dividendo Milano” tra Human Technopole, manifattura 4.0 e iniziative per libri e cultura

Il “dividendo di Milano” (il vantaggio di stare in una città sempre più attiva sulla ribalta del mondo) lo si può riconoscere anche in un particolare: una luminosa fotografia del Duomo usata come “screen saver” sul computer portatile d’un ragazzo inglese in aereo da Linate verso Palermo. Milano nel cuore digitale. Quel ragazzo ha padre inglese e madre italiana (sta andando in vacanza dai nonni in Sicilia), studi universitari a Milano e a Londra, interessi per le imprese hi tech e della moda, una consapevolezza chiara: Milano, per un giovane intraprendente, è in questi anni straordinariamente attraente. Proprio “the place to be”, per riprendere l’efficace sintesi fatta dal “New York Times” durante l’Expo.

La metropoli in movimento (ne abbiamo parlato a proposito della sua “felicità” nel blog della scorsa settimana) si può guardare adesso anche da altri tre punti di vista: l’andamento del progetto per Human Technopole sull’area ex Expo, gli investimenti del Comune per “Milano Manifattura 4.0”, l’avvio della manifestazione “Tempo di libri” dal 19 al 23 aprile. Sullo sfondo, un giudizio di Mauro Magatti, sociologo: “Se succedono cose che riguardano il futuro in Italia, o succedono a Milano o non succedono” (“La Lettura” del “Corriere della Sera”, 16 aprile).

Vediamo meglio, punto per punto. Per rilanciare l’area dell’Expo i lavori vanno avanti. Parte la gara per scegliere la società che si occuperà dello sviluppo immobiliare. E già si sa che lì, oltre alle facoltà scientifiche della Statale, a un grande ospedale creato dal Galeazzi e dalla Clinica Sant’Ambrogio e ai centri di ricerca di Human Technopole, hanno espresso interesse ad andare una quarantina di imprese multinazionali hi tech, tra cui la Bayer, l’Ibm, la Nokia, la Novartis. E forse saranno presenti anche la Scala con magazzini e laboratori e Altagamma con la “Scuola del saper fare italiano”.

C’è tutto un gran movimento, insomma. Cui, oltre al Comune, alla Regione e alle Università, guardano con attenzione istituzioni d’impresa come Assolombarda, che ne fa cardine del suo progetto di Milano “Steam” (dalle iniziali di science, technology, environment ed education, arts e manifacturing). Resta ancora da chiarire il ruolo dell’Istituto Italiano di Tecnologia, un’eccellenza dell’innovazione italiana, che il governo Renzi, nel 2015, subito dopo l’Expo, aveva indicato come guida del post Expo e che adesso rischia d’essere tagliato fuori (sarebbe un grave errore). Ma la strada, in generale, è chiara: scienza, cultura politecnica e innovazione, come cardini di Milano locomotiva dello sviluppo italiano. Con sintesi originali tra pubblico e privato, università e imprese, ricerca e trasferimento tecnologico. Intelligenza che crea ricchezza (la lezione sempre attuale di Carlo Cattaneo, citata nel blog della scorsa settimana).

Sostiene Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Humanitas e professore alla Humanitas University: “In una mappa mondiale di trenta zone dell’innovazione, l’unica area che si accende in Italia è quella di Milano. Me l’hanno di recente mostrata all’Università di Lovanio, in Belgio”. E ancora: “Usando gli indicatori della produttività scientifica e immaginando la ricerca come una riedizione della storica partita di calcio Italia-Germania, battiamo i tedeschi: se facciamo 100 la Germania, noi siamo a 125. Così come nel ranking internazionale di Scimago, che classifica cinquemila istituzioni impegnate nella ricerca biomedica, le istituzioni concentrate nell’area milanese, allargata fino al San Matteo di Pavia, si giocano la sfida alla pari con le altre grandi aree del mondo” (“La Lettura”, 16 aprile). Milano competitiva, dunque. Per ricerca, “life sciences”, qualità della vita. E in grado, anche da questo punto di vista, di avere un ruolo di primo piano nella battaglia per la nuova sede dell’Ema, l’Agenzia Ue per il farmaco, che lascerà Londra dopo Brexit.

Dinamismo culturale e creativo, dunque. Intraprendenza. Imprese, fra tradizione industriale e – riecco la parola chiave – innovazione. Il Comune ha presentato giovedì 13 aprile il suo programma “Milano Manifattura 4.0“, dieci milioni di euro d’investimenti, aree pubbliche destinate a start up (Milano ne è già capitale, ospitando più di mille di quelle innovative, delle 7mila nazionali) che lavorino su manifattura, artigianato, stampanti 3D, prodotti e servizi su misura. Formazione e voglia di “fare, e fare bene”. Attrazione e stimolo per investimenti. Leva su capitale umano e capitale sociale. Intelligenze che continuano ad arrivare a Milano dal resto del mondo. Il “dividendo di Milano”, appunto.

Quell’attrattività, già evidente nei giorni del Salone del Mobile, può ripetersi, più in piccolo naturalmente, anche per “Tempo di libri”, dal 19 al 23 aprile, appuntamento per editoria, scrittura, lettura, 700 incontri con scrittori e personalità della cultura tra gli spazi della Fiera a Rho-Pero e altre zone in città, una serie di eventi che, nella Milano che ha già visto da anni il successo di BookCity, possono rafforzare l’identità della metropoli come capitale dell’editoria, della comunicazione, delle attività culturali contemporaneamente popolari e di qualità (resta aperta la sfida con il Salone del Libro di Torino, a maggio: chi ha a cuore la crescita della cultura italiana non può che augurarsi che al più presto si rilanci la collaborazione tra tutte le iniziative che, in Italia, da Mantova a Pordenone, da Roma a Ragusa, da Bologna a Genova e a tanti altri posti ancora, sono dedicate alla promozione del libro e della lettura).

Milano, anche da questo punto di vista, è città di sintesi. Industria della cultura. Rapporti tra industria e cultura, in relazioni di collaborazione che vanno avanti (su musica, teatro, arte, etc.). L’industria che, nel fondarsi competitivamente su scienza e tecnica, è in se stessa cultura. Quel che resta al fondo dei cambiamenti di Milano è il suo saper costruire un futuro.

Il “dividendo di Milano” (il vantaggio di stare in una città sempre più attiva sulla ribalta del mondo) lo si può riconoscere anche in un particolare: una luminosa fotografia del Duomo usata come “screen saver” sul computer portatile d’un ragazzo inglese in aereo da Linate verso Palermo. Milano nel cuore digitale. Quel ragazzo ha padre inglese e madre italiana (sta andando in vacanza dai nonni in Sicilia), studi universitari a Milano e a Londra, interessi per le imprese hi tech e della moda, una consapevolezza chiara: Milano, per un giovane intraprendente, è in questi anni straordinariamente attraente. Proprio “the place to be”, per riprendere l’efficace sintesi fatta dal “New York Times” durante l’Expo.

La metropoli in movimento (ne abbiamo parlato a proposito della sua “felicità” nel blog della scorsa settimana) si può guardare adesso anche da altri tre punti di vista: l’andamento del progetto per Human Technopole sull’area ex Expo, gli investimenti del Comune per “Milano Manifattura 4.0”, l’avvio della manifestazione “Tempo di libri” dal 19 al 23 aprile. Sullo sfondo, un giudizio di Mauro Magatti, sociologo: “Se succedono cose che riguardano il futuro in Italia, o succedono a Milano o non succedono” (“La Lettura” del “Corriere della Sera”, 16 aprile).

Vediamo meglio, punto per punto. Per rilanciare l’area dell’Expo i lavori vanno avanti. Parte la gara per scegliere la società che si occuperà dello sviluppo immobiliare. E già si sa che lì, oltre alle facoltà scientifiche della Statale, a un grande ospedale creato dal Galeazzi e dalla Clinica Sant’Ambrogio e ai centri di ricerca di Human Technopole, hanno espresso interesse ad andare una quarantina di imprese multinazionali hi tech, tra cui la Bayer, l’Ibm, la Nokia, la Novartis. E forse saranno presenti anche la Scala con magazzini e laboratori e Altagamma con la “Scuola del saper fare italiano”.

C’è tutto un gran movimento, insomma. Cui, oltre al Comune, alla Regione e alle Università, guardano con attenzione istituzioni d’impresa come Assolombarda, che ne fa cardine del suo progetto di Milano “Steam” (dalle iniziali di science, technology, environment ed education, arts e manifacturing). Resta ancora da chiarire il ruolo dell’Istituto Italiano di Tecnologia, un’eccellenza dell’innovazione italiana, che il governo Renzi, nel 2015, subito dopo l’Expo, aveva indicato come guida del post Expo e che adesso rischia d’essere tagliato fuori (sarebbe un grave errore). Ma la strada, in generale, è chiara: scienza, cultura politecnica e innovazione, come cardini di Milano locomotiva dello sviluppo italiano. Con sintesi originali tra pubblico e privato, università e imprese, ricerca e trasferimento tecnologico. Intelligenza che crea ricchezza (la lezione sempre attuale di Carlo Cattaneo, citata nel blog della scorsa settimana).

Sostiene Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Humanitas e professore alla Humanitas University: “In una mappa mondiale di trenta zone dell’innovazione, l’unica area che si accende in Italia è quella di Milano. Me l’hanno di recente mostrata all’Università di Lovanio, in Belgio”. E ancora: “Usando gli indicatori della produttività scientifica e immaginando la ricerca come una riedizione della storica partita di calcio Italia-Germania, battiamo i tedeschi: se facciamo 100 la Germania, noi siamo a 125. Così come nel ranking internazionale di Scimago, che classifica cinquemila istituzioni impegnate nella ricerca biomedica, le istituzioni concentrate nell’area milanese, allargata fino al San Matteo di Pavia, si giocano la sfida alla pari con le altre grandi aree del mondo” (“La Lettura”, 16 aprile). Milano competitiva, dunque. Per ricerca, “life sciences”, qualità della vita. E in grado, anche da questo punto di vista, di avere un ruolo di primo piano nella battaglia per la nuova sede dell’Ema, l’Agenzia Ue per il farmaco, che lascerà Londra dopo Brexit.

Dinamismo culturale e creativo, dunque. Intraprendenza. Imprese, fra tradizione industriale e – riecco la parola chiave – innovazione. Il Comune ha presentato giovedì 13 aprile il suo programma “Milano Manifattura 4.0“, dieci milioni di euro d’investimenti, aree pubbliche destinate a start up (Milano ne è già capitale, ospitando più di mille di quelle innovative, delle 7mila nazionali) che lavorino su manifattura, artigianato, stampanti 3D, prodotti e servizi su misura. Formazione e voglia di “fare, e fare bene”. Attrazione e stimolo per investimenti. Leva su capitale umano e capitale sociale. Intelligenze che continuano ad arrivare a Milano dal resto del mondo. Il “dividendo di Milano”, appunto.

Quell’attrattività, già evidente nei giorni del Salone del Mobile, può ripetersi, più in piccolo naturalmente, anche per “Tempo di libri”, dal 19 al 23 aprile, appuntamento per editoria, scrittura, lettura, 700 incontri con scrittori e personalità della cultura tra gli spazi della Fiera a Rho-Pero e altre zone in città, una serie di eventi che, nella Milano che ha già visto da anni il successo di BookCity, possono rafforzare l’identità della metropoli come capitale dell’editoria, della comunicazione, delle attività culturali contemporaneamente popolari e di qualità (resta aperta la sfida con il Salone del Libro di Torino, a maggio: chi ha a cuore la crescita della cultura italiana non può che augurarsi che al più presto si rilanci la collaborazione tra tutte le iniziative che, in Italia, da Mantova a Pordenone, da Roma a Ragusa, da Bologna a Genova e a tanti altri posti ancora, sono dedicate alla promozione del libro e della lettura).

Milano, anche da questo punto di vista, è città di sintesi. Industria della cultura. Rapporti tra industria e cultura, in relazioni di collaborazione che vanno avanti (su musica, teatro, arte, etc.). L’industria che, nel fondarsi competitivamente su scienza e tecnica, è in se stessa cultura. Quel che resta al fondo dei cambiamenti di Milano è il suo saper costruire un futuro.

Nuove imprese di fronte alle nuove economie

Un libro cerca di conciliare le esigenze dettate dalla rivoluzione digitale con quelle dell’organizzazione della produzione

In tempi di economia liquida e veloce, le imprese sono costrette a cambiare rapidamente. Questione di organizzazione flessibile, ma anche di cultura che deve sapersi adattare con facilità al nuovo senza però perdere il nocciolo originario del suo carattere. Questione anche di persone e quindi di politiche organizzative e umane che sappiano cogliere le necessità di adattamento e trasformarle in opportunità. È di fronte a questa situazione che può servire dotarsi di occhiali nuovi per guardare la realtà. Ed è per questo che può essere utile leggere “HRevolution. HR nell’epoca della social e digital transformation” di Alessandro Donadio appena pubblicato. Il libro parte da una constatazione. La società cambia velocemente sotto la spinta della grande rivoluzione tecnologica. Nuovi e dirompenti modelli di business stanno modificando lo scenario industriale mentre le organizzazioni devono rispondere a domande di innovazione costante, di gestione e cura di un cliente sempre più parte attiva e consapevole dei processi di creazione dei prodotti e dei servizi.
Si tratta di una sorta di tempesta di eventi che ha cambiato le relazioni fra le persone, sia all’interno delle aziende che tra queste e l’esterno. Secondo l’autore è proprio qui che la funzione HR (cioè quella parte dell’organizzazione aziendale che si rivolge alla relazioni umane), diventa ancora più importante è chiamata a occupare un posto strategico: deve diventare un vero e potente agente del cambiamento, attraverso nuove competenze, modelli e strumenti. E deve cominciare questa trasformazione a partire da se stessa. Donadio indica tutto questo come una sfida. E ha ragione. Per affrontare un compito così complesso, l’autore ridefinisce prima il campo da gioco in cui operano i reponsabili delle risorse umane, ogni pratica HR viene quindi destrutturata e ricomposta dal punto di vista del processo, delle competenze che la funzione deve sviluppare, delle tecnologie che può utilizzare per essere efficace. Vengono quindi individuati i passaggi cruciali attraverso alcuni vocaboli: incontro, conversazione, ingaggio, patto, collaborazione, sviluppo, valorizzazione. Ogni tappa del percorso viene poi arricchita da testimonianze di casi aziendali e di manager. Il libro di Donadio è una buona tappa del percorso che tutte le imprese devono ormai compiere e che porta dalla tradizionale organizzazione della produzione a qualcosa di più evoluto e flessibile. Cultura d’impresa che cambia, appunto.

HRevolution. HR nell’epoca della social e digital transformation
Alessandro Donadio
Franco Angeli, 2017

Un libro cerca di conciliare le esigenze dettate dalla rivoluzione digitale con quelle dell’organizzazione della produzione

In tempi di economia liquida e veloce, le imprese sono costrette a cambiare rapidamente. Questione di organizzazione flessibile, ma anche di cultura che deve sapersi adattare con facilità al nuovo senza però perdere il nocciolo originario del suo carattere. Questione anche di persone e quindi di politiche organizzative e umane che sappiano cogliere le necessità di adattamento e trasformarle in opportunità. È di fronte a questa situazione che può servire dotarsi di occhiali nuovi per guardare la realtà. Ed è per questo che può essere utile leggere “HRevolution. HR nell’epoca della social e digital transformation” di Alessandro Donadio appena pubblicato. Il libro parte da una constatazione. La società cambia velocemente sotto la spinta della grande rivoluzione tecnologica. Nuovi e dirompenti modelli di business stanno modificando lo scenario industriale mentre le organizzazioni devono rispondere a domande di innovazione costante, di gestione e cura di un cliente sempre più parte attiva e consapevole dei processi di creazione dei prodotti e dei servizi.
Si tratta di una sorta di tempesta di eventi che ha cambiato le relazioni fra le persone, sia all’interno delle aziende che tra queste e l’esterno. Secondo l’autore è proprio qui che la funzione HR (cioè quella parte dell’organizzazione aziendale che si rivolge alla relazioni umane), diventa ancora più importante è chiamata a occupare un posto strategico: deve diventare un vero e potente agente del cambiamento, attraverso nuove competenze, modelli e strumenti. E deve cominciare questa trasformazione a partire da se stessa. Donadio indica tutto questo come una sfida. E ha ragione. Per affrontare un compito così complesso, l’autore ridefinisce prima il campo da gioco in cui operano i reponsabili delle risorse umane, ogni pratica HR viene quindi destrutturata e ricomposta dal punto di vista del processo, delle competenze che la funzione deve sviluppare, delle tecnologie che può utilizzare per essere efficace. Vengono quindi individuati i passaggi cruciali attraverso alcuni vocaboli: incontro, conversazione, ingaggio, patto, collaborazione, sviluppo, valorizzazione. Ogni tappa del percorso viene poi arricchita da testimonianze di casi aziendali e di manager. Il libro di Donadio è una buona tappa del percorso che tutte le imprese devono ormai compiere e che porta dalla tradizionale organizzazione della produzione a qualcosa di più evoluto e flessibile. Cultura d’impresa che cambia, appunto.

HRevolution. HR nell’epoca della social e digital transformation
Alessandro Donadio
Franco Angeli, 2017

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?