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Università: più risorse e formazione migliore per rispondere alle sfide dell’industria digitale

Sta nell’industria, il futuro dell’Italia. In quella dimensione che ibrida manifattura e “digital“, insiste sull’innovazione “hi tech” e “medium tech” e sulle sintesi originali tra produzione e servizi tecnologicamente sofisticati e si definisce come “Industry 4.0”, in una formula oramai entrata nel linguaggio economico comune. Lo abbiamo scritto molte volte, su questo blog. Vale la pena ripeterlo, insistendo sulle responsabilità di governo (scelte politiche adeguate) e degli imprenditori (investimenti) per poter fare crescere il Paese.

Per reggere le nuove sfide competitive, le risorse principali, com’è noto, sono legate al “capitale umano”: conoscenze, competenze, cultura critica, capacità di avere idee originali e poi tradurle in prodotti e servizi. Giocando sempre su innovazione e cambiamento. Una sfida dell’intelligenza, insomma. E sta proprio qui la crisi dell’Italia. Siamo un paese d’antica e robusta cultura politecnica, con una solida capacità di mettere insieme conoscenze umanistiche, creatività e attitudini scientifiche. Ma usiamo poco e male la nostra storia culturale. E formiamo in modo insufficiente, in quantità e qualità, le nostre persone.

Alcuni dati, per capire meglio. Si laureano ogni anno circa 300mila persone. Un numero costante da anni. E diminuisce, da un decennio, il numero di iscritti all’università: erano 1,8 milioni nel 2008, oggi sono 1,65 (più marcata la crisi di iscrizioni nel Mezzogiorno). Pochi, comunque. Secondo le statistiche dell’Ocse, i laureati in Italia, nella fascia d’età 25-34 anni, sono solo il 25% della popolazione, contro una media Ue del 40% e del 43% per l’Ocse. Se si guarda alla fascia d’età di tutta la vita lavorativa (25-64 anni) in Italia siamo appena al 17%, contro il 32% Ue e il 35% Ocse. Migliora, insomma, la nostra media, ma sempre con un forte divario con gli altri paesi economicamente più sviluppati.

D’altronde, per l’università investiamo molto poco: l’1% appena del Pil, contro l’1,4% della media Ue e l’1,6% dell’Ocse. Pochi soldi. E nemmeno spesi bene. Scarso premio alla buona ricerca, alla qualità dell’insegnamento, al merito di docenti e ricercatori (anche se qualcosa sta cambiando, almeno nelle università meglio amministrate). Eccesso di rispetto per corporazioni accademiche e “clientele e parentele” (le cronache sono piene di storie di buoni “cervelli in fuga” e di scadenti figli e familiari di potenti professori protetti in immeritate carriere).

Anche dal punto di vista delle imprese, ci sono gravi lacune. Evidenziate proprio dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia nella relazione alla recente assemblea dell’organizzazione degli imprenditori (24 maggio): la quota di imprese che non impiegano laureati è del 41%, contro il 18% della Spagna e il 20% della Germania. E anche tra le imprese che innovano, solo il 20% impiega quote di laureati superiore al 10% della mano d’opera, contro il 60% in Spagna e il 50% in Germania. Pochi laureati, lavorazioni a basso valore aggiunto. E limitata competitività. Scarse conoscenze, bassa produttività. E’ il problema dell’industria italiana. Cui da troppo tempo non si pone rimedio.

Un altro dato, per riflettere meglio: ci sono in Italia 4 milioni di posti di lavoro (industria e servizi) che non si riesce a coprire, perché mancano le competenze adeguate (“La Stampa”, 19 maggio). Servirebbero laureati e diplomati in grado di fronteggiare le esigenze di produzione e innovazione legate soprattutto all’economia digitale. Ma non li abbiamo. Anche per questo, l’Italia cresce poco (lo stentato 1% del Pil, quota peggiore in tutta la Ue).

La “questione universitaria” è dunque cardine di ogni discorso di sviluppo. Lo ha ribadito l’Associazione TreeLLLe (una delle più autorevoli think tanks italiane sulle questioni della formazione) in un recente convegno a Milano (23 maggio) dal titolo: “Dopo la riforma: università italiana, università europea?”, illustrando una serie di proposte sensate sul miglioramento della formazione terziaria. Più laureati, maggiore spessore e integrazione europea, maggiori fondi (portando in un triennio la spesa per l’università almeno dall’1% attuale all’1,1% del Pil e poi puntando a raggiungere rapidamente la media Ue dell’1,4%), maggiore autonomia universitaria e premio agli atenei migliori per ricerca e formazione (secondo le certificazioni dell’Anvur, da rafforzare e tenere sempre più come riferimento). Oltre che naturalmente rapporto più stretto tra formazione ed evoluzione del mercato del lavoro.

Ci sono, infatti, nuove competenze da formare, legate all’economia digitale e alla gestione dei “big data“, con nuovi corsi e specializzazione da avviare. Ma c’è anche l’esigenza di una  formazione trasversale: di fronte alle crescenti complessità delle relazioni internazionali, politiche ed economiche e alla rapida e continua innovazione dei meccanismi produttivi, occorre definire nuove formule di formazione che tengano insieme, in modo originale, attitudini critiche e competenze specialistiche. Per dirla con formula di sintesi: ingegneri-filosofi capaci di decrittare e governare inedite complessità.

Non basta una laurea né una formazione una volta per sempre. Cambiano conoscenze e competenze. E vale dunque la pena insistere su accordi tra università e imprese per sistemi di “long life learning”, sia per tenere testa alle innovative trasformazione digitali di industria e servizi sia per riqualificare quote crescenti di mano d’opera espulsa dalla crescente digitalizzazione dei sistemi produttivi.

C’è un paradigma positivo in questa prospettiva: il recente contratto dei metalmeccanici, firmato da Federmeccanica/Confindustria e sindacati (sottoscritto da tutti e tre: Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil) con ampi stanziamenti per la formazione e l’aggiornamento aziendale. E’ un contratto importante, che può fare da riferimento di lungo periodo: imprese e sindacati parlano sì di salario, orario e condizioni di lavoro, ma si impegnano soprattutto sul tema cardine della formazione. Proprio il tema di cui stiamo discutendo: maggiori e migliori competenze, maggiore competitività, migliore futuro delle aziende e del sistema Paese. Una scelta strategica di grande spessore.

C’è un altro punto, emerso dal convegno TreeLLLe, da sottolineare: l’insistenza sulla formazione d’eccellenza con respiro europeo: accordi formativi e di ricerca tra le migliori università italiane (Politecnici di Milano e Torino, Bocconi, Cattolica, Normale di Pisa, Sant’Anna, Luiss) e le Grandes Écoles francesi e gli atenei economici inglesi per un “modello universitario europeo” come paradigma per accordi in Cina, in Brasile, nelle aree internazionali più dinamiche, anche con scambi di docenti, ricercatori, studenti nell’ambito di programmi comuni di formazione e ricerca.

Per le università italiana: ambiziosi programmi di attrazione di talenti, sia tra i docenti che tra gli studenti. I paradigmi positivi di Milano (200mila studenti, 15mila circa internazionali), le opportunità offerte a Milano da Human Technopole come centro di riferimento per le “life sciences” e la genomica, le relazioni virtuose con l’IIT (Istituto italiano di tecnologia di Genova) sono puniti di riferimento importanti. Altrettante chiavi di sviluppo.

Sta nell’industria, il futuro dell’Italia. In quella dimensione che ibrida manifattura e “digital“, insiste sull’innovazione “hi tech” e “medium tech” e sulle sintesi originali tra produzione e servizi tecnologicamente sofisticati e si definisce come “Industry 4.0”, in una formula oramai entrata nel linguaggio economico comune. Lo abbiamo scritto molte volte, su questo blog. Vale la pena ripeterlo, insistendo sulle responsabilità di governo (scelte politiche adeguate) e degli imprenditori (investimenti) per poter fare crescere il Paese.

Per reggere le nuove sfide competitive, le risorse principali, com’è noto, sono legate al “capitale umano”: conoscenze, competenze, cultura critica, capacità di avere idee originali e poi tradurle in prodotti e servizi. Giocando sempre su innovazione e cambiamento. Una sfida dell’intelligenza, insomma. E sta proprio qui la crisi dell’Italia. Siamo un paese d’antica e robusta cultura politecnica, con una solida capacità di mettere insieme conoscenze umanistiche, creatività e attitudini scientifiche. Ma usiamo poco e male la nostra storia culturale. E formiamo in modo insufficiente, in quantità e qualità, le nostre persone.

Alcuni dati, per capire meglio. Si laureano ogni anno circa 300mila persone. Un numero costante da anni. E diminuisce, da un decennio, il numero di iscritti all’università: erano 1,8 milioni nel 2008, oggi sono 1,65 (più marcata la crisi di iscrizioni nel Mezzogiorno). Pochi, comunque. Secondo le statistiche dell’Ocse, i laureati in Italia, nella fascia d’età 25-34 anni, sono solo il 25% della popolazione, contro una media Ue del 40% e del 43% per l’Ocse. Se si guarda alla fascia d’età di tutta la vita lavorativa (25-64 anni) in Italia siamo appena al 17%, contro il 32% Ue e il 35% Ocse. Migliora, insomma, la nostra media, ma sempre con un forte divario con gli altri paesi economicamente più sviluppati.

D’altronde, per l’università investiamo molto poco: l’1% appena del Pil, contro l’1,4% della media Ue e l’1,6% dell’Ocse. Pochi soldi. E nemmeno spesi bene. Scarso premio alla buona ricerca, alla qualità dell’insegnamento, al merito di docenti e ricercatori (anche se qualcosa sta cambiando, almeno nelle università meglio amministrate). Eccesso di rispetto per corporazioni accademiche e “clientele e parentele” (le cronache sono piene di storie di buoni “cervelli in fuga” e di scadenti figli e familiari di potenti professori protetti in immeritate carriere).

Anche dal punto di vista delle imprese, ci sono gravi lacune. Evidenziate proprio dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia nella relazione alla recente assemblea dell’organizzazione degli imprenditori (24 maggio): la quota di imprese che non impiegano laureati è del 41%, contro il 18% della Spagna e il 20% della Germania. E anche tra le imprese che innovano, solo il 20% impiega quote di laureati superiore al 10% della mano d’opera, contro il 60% in Spagna e il 50% in Germania. Pochi laureati, lavorazioni a basso valore aggiunto. E limitata competitività. Scarse conoscenze, bassa produttività. E’ il problema dell’industria italiana. Cui da troppo tempo non si pone rimedio.

Un altro dato, per riflettere meglio: ci sono in Italia 4 milioni di posti di lavoro (industria e servizi) che non si riesce a coprire, perché mancano le competenze adeguate (“La Stampa”, 19 maggio). Servirebbero laureati e diplomati in grado di fronteggiare le esigenze di produzione e innovazione legate soprattutto all’economia digitale. Ma non li abbiamo. Anche per questo, l’Italia cresce poco (lo stentato 1% del Pil, quota peggiore in tutta la Ue).

La “questione universitaria” è dunque cardine di ogni discorso di sviluppo. Lo ha ribadito l’Associazione TreeLLLe (una delle più autorevoli think tanks italiane sulle questioni della formazione) in un recente convegno a Milano (23 maggio) dal titolo: “Dopo la riforma: università italiana, università europea?”, illustrando una serie di proposte sensate sul miglioramento della formazione terziaria. Più laureati, maggiore spessore e integrazione europea, maggiori fondi (portando in un triennio la spesa per l’università almeno dall’1% attuale all’1,1% del Pil e poi puntando a raggiungere rapidamente la media Ue dell’1,4%), maggiore autonomia universitaria e premio agli atenei migliori per ricerca e formazione (secondo le certificazioni dell’Anvur, da rafforzare e tenere sempre più come riferimento). Oltre che naturalmente rapporto più stretto tra formazione ed evoluzione del mercato del lavoro.

Ci sono, infatti, nuove competenze da formare, legate all’economia digitale e alla gestione dei “big data“, con nuovi corsi e specializzazione da avviare. Ma c’è anche l’esigenza di una  formazione trasversale: di fronte alle crescenti complessità delle relazioni internazionali, politiche ed economiche e alla rapida e continua innovazione dei meccanismi produttivi, occorre definire nuove formule di formazione che tengano insieme, in modo originale, attitudini critiche e competenze specialistiche. Per dirla con formula di sintesi: ingegneri-filosofi capaci di decrittare e governare inedite complessità.

Non basta una laurea né una formazione una volta per sempre. Cambiano conoscenze e competenze. E vale dunque la pena insistere su accordi tra università e imprese per sistemi di “long life learning”, sia per tenere testa alle innovative trasformazione digitali di industria e servizi sia per riqualificare quote crescenti di mano d’opera espulsa dalla crescente digitalizzazione dei sistemi produttivi.

C’è un paradigma positivo in questa prospettiva: il recente contratto dei metalmeccanici, firmato da Federmeccanica/Confindustria e sindacati (sottoscritto da tutti e tre: Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil) con ampi stanziamenti per la formazione e l’aggiornamento aziendale. E’ un contratto importante, che può fare da riferimento di lungo periodo: imprese e sindacati parlano sì di salario, orario e condizioni di lavoro, ma si impegnano soprattutto sul tema cardine della formazione. Proprio il tema di cui stiamo discutendo: maggiori e migliori competenze, maggiore competitività, migliore futuro delle aziende e del sistema Paese. Una scelta strategica di grande spessore.

C’è un altro punto, emerso dal convegno TreeLLLe, da sottolineare: l’insistenza sulla formazione d’eccellenza con respiro europeo: accordi formativi e di ricerca tra le migliori università italiane (Politecnici di Milano e Torino, Bocconi, Cattolica, Normale di Pisa, Sant’Anna, Luiss) e le Grandes Écoles francesi e gli atenei economici inglesi per un “modello universitario europeo” come paradigma per accordi in Cina, in Brasile, nelle aree internazionali più dinamiche, anche con scambi di docenti, ricercatori, studenti nell’ambito di programmi comuni di formazione e ricerca.

Per le università italiana: ambiziosi programmi di attrazione di talenti, sia tra i docenti che tra gli studenti. I paradigmi positivi di Milano (200mila studenti, 15mila circa internazionali), le opportunità offerte a Milano da Human Technopole come centro di riferimento per le “life sciences” e la genomica, le relazioni virtuose con l’IIT (Istituto italiano di tecnologia di Genova) sono puniti di riferimento importanti. Altrettante chiavi di sviluppo.

Fondazione Pirelli per Milano PhotoWeek: visite guidate e laboratori fotografici per celebrare i 110 anni di corse nel segno della P lunga

Dopo Museocity dello scorso marzo, Fondazione Pirelli partecipa alla prima edizione della Milano PhotoWeek, l’iniziativa promossa e coordinata dal Comune di Milano per avvicinare il pubblico al mondo della fotografia: una settimana — dal 5 all’11 giugno 2017 — di mostre, incontri, visite guidate, laboratori, progetti editoriali, opening o finissage, proiezioni urbane dedicati alla fotografia.

In occasione di questo evento Fondazione Pirelli propone visite guidate e laboratori dedicati ai bambini.

Per celebrare i centodieci anni di corse sotto il segno della P lunga, l’8 giugno alle ore 18, è prevista la visita “Si va che è un incanto” con approfondimenti fotografici sulla storia del racing: dalla prima gara internazionale “Pechino-Parigi” del 1907 alle gare di F1. Migliaia di fotografie tra negativi su lastre e su pellicola, stampe, diapositive conservati nell’Archivio storico aziendale raccolgono la testimonianza di oltre un secolo di vittorie con le case automobilistiche italiane e internazionali più prestigiose e con i grandi piloti che hanno fatto la storia dell’automobilismo tra i quali Nino Farina, Antonio e Albero Ascari, Tazio Nuvolari, Juan Manuel Fangio. La visita dalla durata di circa un’ora sarà seguita da un aperitivo.

Iniziative anche per i più piccoli: sabato 10 giugno verranno organizzati due laboratori creativi alle ore 10 e alle ore 11.30: Pronti, partenza… stampa!: il laboratorio per i bambini tra i 6 e 9 anni. I bambini saranno guidati alla scoperta delle migliaia di fotografie conservate in Fondazione Pirelli per conoscere meglio la storia degli pneumatici che hanno portato alla vittoria le automobili di tante epoche diverse: dalle gomme usate nella prima gara internazionale “Pechino-Parigi” nel 1907 agli pneumatici delle gare di F1. I bambini saranno invitati a realizzare delle stampe creative partendo da una lastra di gelatina per raccontare le più divertenti gare automobilistiche su pneumatici Pirelli. E il laboraotorio Un incredibile viaggio da Pechino a Parigi! pensato per i bambini dagli 8 ai 11 anni: grazie alle fotografie conservate in Fondazione Pirelli potremo rivivere insieme l’incredibile viaggio percorso nel 1907 dalla macchina Itala gommata Pirelli. 17.000 chilometri di strada attraverso paesaggi e culture differenti. I bambini, con coraggio e fantasia, dovranno immaginare di ripercorrere oggi la strada che porta da Pechino a Parigi e realizzare il loro personale diario di viaggio.

Per tutte le iniziative prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti.

Chiamando 0264423971 e iscrivendosi a visite@fondazionepirelli.org per la visita del 8 giugno e scuole@fondazionepirelli.org per iscriversi ai laboratori del 10 giugno (specificando il nome del laboratorio)

Per conoscere il programma completo di tutte le iniziative della Photoweek vai sul sito www.photoweekmilano.it

Dopo Museocity dello scorso marzo, Fondazione Pirelli partecipa alla prima edizione della Milano PhotoWeek, l’iniziativa promossa e coordinata dal Comune di Milano per avvicinare il pubblico al mondo della fotografia: una settimana — dal 5 all’11 giugno 2017 — di mostre, incontri, visite guidate, laboratori, progetti editoriali, opening o finissage, proiezioni urbane dedicati alla fotografia.

In occasione di questo evento Fondazione Pirelli propone visite guidate e laboratori dedicati ai bambini.

Per celebrare i centodieci anni di corse sotto il segno della P lunga, l’8 giugno alle ore 18, è prevista la visita “Si va che è un incanto” con approfondimenti fotografici sulla storia del racing: dalla prima gara internazionale “Pechino-Parigi” del 1907 alle gare di F1. Migliaia di fotografie tra negativi su lastre e su pellicola, stampe, diapositive conservati nell’Archivio storico aziendale raccolgono la testimonianza di oltre un secolo di vittorie con le case automobilistiche italiane e internazionali più prestigiose e con i grandi piloti che hanno fatto la storia dell’automobilismo tra i quali Nino Farina, Antonio e Albero Ascari, Tazio Nuvolari, Juan Manuel Fangio. La visita dalla durata di circa un’ora sarà seguita da un aperitivo.

Iniziative anche per i più piccoli: sabato 10 giugno verranno organizzati due laboratori creativi alle ore 10 e alle ore 11.30: Pronti, partenza… stampa!: il laboratorio per i bambini tra i 6 e 9 anni. I bambini saranno guidati alla scoperta delle migliaia di fotografie conservate in Fondazione Pirelli per conoscere meglio la storia degli pneumatici che hanno portato alla vittoria le automobili di tante epoche diverse: dalle gomme usate nella prima gara internazionale “Pechino-Parigi” nel 1907 agli pneumatici delle gare di F1. I bambini saranno invitati a realizzare delle stampe creative partendo da una lastra di gelatina per raccontare le più divertenti gare automobilistiche su pneumatici Pirelli. E il laboraotorio Un incredibile viaggio da Pechino a Parigi! pensato per i bambini dagli 8 ai 11 anni: grazie alle fotografie conservate in Fondazione Pirelli potremo rivivere insieme l’incredibile viaggio percorso nel 1907 dalla macchina Itala gommata Pirelli. 17.000 chilometri di strada attraverso paesaggi e culture differenti. I bambini, con coraggio e fantasia, dovranno immaginare di ripercorrere oggi la strada che porta da Pechino a Parigi e realizzare il loro personale diario di viaggio.

Per tutte le iniziative prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti.

Chiamando 0264423971 e iscrivendosi a visite@fondazionepirelli.org per la visita del 8 giugno e scuole@fondazionepirelli.org per iscriversi ai laboratori del 10 giugno (specificando il nome del laboratorio)

Per conoscere il programma completo di tutte le iniziative della Photoweek vai sul sito www.photoweekmilano.it

Strategica fantasia d’impresa

Un lavoro presentato alla Ca’ Foscari, rivede i concetti di innovazione e strategia tenendo conto anche della necessità di coerenza con la cultura dell’impresa

Le imprese devono vincere sul mercato. E per riuscirci devono fare buoni prodotti, ma anche adottare strategie consone al momento, al contesto, alla concorrenza. Non è facile, nemmeno per le grandi aziende. E’ questione di fiuto imprenditoriale, ma anche di capacità strategica  e innovativa.

E’ attorno a questo nodo di temi che si svolge “L’Innovazione Strategica. Per la (in)coerente rappresentazione del Modello di Business” lavoro di Elena Trovò che nelle prime righe spiega tutto il senso dell’indagine. “L’impresa deve (…) essere in grado di adottare la giusta strategia competitiva per far fronte alle minacce provenienti dal mercato. Il termine strategia è stato per centinaia di anni associato a un contesto bellicoso, che notoriamente prevedeva un vincente e un perdente; allo stesso modo, fare impresa significa combattere, combattere per vincere sugli altri e restare in vita in un ambiente in continua evoluzione, caratterizzato da un alto indice di rischiosità. La strategia da sola però, non sempre è sufficiente; le scelte strategiche devono stare alla base di un concetto oggigiorno fondamentale: l’innovazione. (…) Perseguire un’innovazione strategica, non solo significa analizzare il contesto esterno, ma anche avere chiaro quale sia il proprio modello di business”.

Analisi del mondo che circonda l’impresa, quindi, ma anche chiara coscienza di quanto si vuole fare. Con un continuo scambio di informazione fra interno e esterno. “ Questa consapevolezza – dice infatti l’autrice -, si traduce nell’obiettivo primario dell’innovazione strategica, ovvero l’instancabile ricerca del fit tra i segnali che arrivano dall’esterno e l’impatto che hanno sulla propria identità e sul business model. Per stare al passo coi cambiamenti che avvengono nel mondo, e ancor di più se in qualche modo lo si vuole cambiare il mondo, ci dev’essere una costante sinergia tra ciò che accade dentro e fuori all’impresa. Sinergia che va ricercata in una più ampia dimensione di coerenza (internal/esternal fit)”. Curioso e interessante è l’uso, fra l’altro, del termine fit  che può essere tradotto come “adattarsi” ma anche “calzare” e “adeguare”.

E’ proprio attorno alla ricerca dei metodi più adatti per arrivare alla “più ampia dimensione di coerenza” – così come dell’adeguare istanze interne ed esterne all’azienda -, che il lavoro di Elena Trovò si svolge. Partendo dall’approfondimento di cosa sia l’innovazione, per passare poi all’analisi del concetto e delle implicazioni di innovazione strategica e per finire con il capovolgimento del tutto: l’esame dei passaggi per innovare la strategia con la quale le imprese possono agire.

Quanto scritto in “L’Innovazione Strategica” ha il merito di essere un buon compendio di ragionamenti, informazioni e schemi concettuali attorno ad un tema complesso e in evoluzione. E che va quindi affrontato con attenzione. Trovò chiude il lavoro con un salto importante di pensiero. “Esiste (…) la possibilità che per perseguire una coerenza di significato, l’impresa necessiti di discostarsi dai canoni tradizionali di coerenza strategica, ma questa rottura – e quindi apparente incoerenza – potrebbe non solo risultare necessaria per il mantenimento di un buon livello di coerenza di significato, ma potrebbe invero rappresentarne il maggior punto di forza”. Che è come dire: vince sul mercato chi è capace di sparigliare le carte superando gli altri con un guizzo di fantasia.

L’Innovazione Strategica. Per la (in)coerente rappresentazione del Modello di Business

Elena Trovò

Corso di Laurea Magistrale in Amministrazione, finanza e controllo. Università Ca’ Foscari, Venezia

2016

Un lavoro presentato alla Ca’ Foscari, rivede i concetti di innovazione e strategia tenendo conto anche della necessità di coerenza con la cultura dell’impresa

Le imprese devono vincere sul mercato. E per riuscirci devono fare buoni prodotti, ma anche adottare strategie consone al momento, al contesto, alla concorrenza. Non è facile, nemmeno per le grandi aziende. E’ questione di fiuto imprenditoriale, ma anche di capacità strategica  e innovativa.

E’ attorno a questo nodo di temi che si svolge “L’Innovazione Strategica. Per la (in)coerente rappresentazione del Modello di Business” lavoro di Elena Trovò che nelle prime righe spiega tutto il senso dell’indagine. “L’impresa deve (…) essere in grado di adottare la giusta strategia competitiva per far fronte alle minacce provenienti dal mercato. Il termine strategia è stato per centinaia di anni associato a un contesto bellicoso, che notoriamente prevedeva un vincente e un perdente; allo stesso modo, fare impresa significa combattere, combattere per vincere sugli altri e restare in vita in un ambiente in continua evoluzione, caratterizzato da un alto indice di rischiosità. La strategia da sola però, non sempre è sufficiente; le scelte strategiche devono stare alla base di un concetto oggigiorno fondamentale: l’innovazione. (…) Perseguire un’innovazione strategica, non solo significa analizzare il contesto esterno, ma anche avere chiaro quale sia il proprio modello di business”.

Analisi del mondo che circonda l’impresa, quindi, ma anche chiara coscienza di quanto si vuole fare. Con un continuo scambio di informazione fra interno e esterno. “ Questa consapevolezza – dice infatti l’autrice -, si traduce nell’obiettivo primario dell’innovazione strategica, ovvero l’instancabile ricerca del fit tra i segnali che arrivano dall’esterno e l’impatto che hanno sulla propria identità e sul business model. Per stare al passo coi cambiamenti che avvengono nel mondo, e ancor di più se in qualche modo lo si vuole cambiare il mondo, ci dev’essere una costante sinergia tra ciò che accade dentro e fuori all’impresa. Sinergia che va ricercata in una più ampia dimensione di coerenza (internal/esternal fit)”. Curioso e interessante è l’uso, fra l’altro, del termine fit  che può essere tradotto come “adattarsi” ma anche “calzare” e “adeguare”.

E’ proprio attorno alla ricerca dei metodi più adatti per arrivare alla “più ampia dimensione di coerenza” – così come dell’adeguare istanze interne ed esterne all’azienda -, che il lavoro di Elena Trovò si svolge. Partendo dall’approfondimento di cosa sia l’innovazione, per passare poi all’analisi del concetto e delle implicazioni di innovazione strategica e per finire con il capovolgimento del tutto: l’esame dei passaggi per innovare la strategia con la quale le imprese possono agire.

Quanto scritto in “L’Innovazione Strategica” ha il merito di essere un buon compendio di ragionamenti, informazioni e schemi concettuali attorno ad un tema complesso e in evoluzione. E che va quindi affrontato con attenzione. Trovò chiude il lavoro con un salto importante di pensiero. “Esiste (…) la possibilità che per perseguire una coerenza di significato, l’impresa necessiti di discostarsi dai canoni tradizionali di coerenza strategica, ma questa rottura – e quindi apparente incoerenza – potrebbe non solo risultare necessaria per il mantenimento di un buon livello di coerenza di significato, ma potrebbe invero rappresentarne il maggior punto di forza”. Che è come dire: vince sul mercato chi è capace di sparigliare le carte superando gli altri con un guizzo di fantasia.

L’Innovazione Strategica. Per la (in)coerente rappresentazione del Modello di Business

Elena Trovò

Corso di Laurea Magistrale in Amministrazione, finanza e controllo. Università Ca’ Foscari, Venezia

2016

Scarse risorse, buona impresa

Un libro appena tradotto in Italia del premio Nobel per l’economia Alvin E. Roth, esplora i meccanismi di allocazione dei mezzi nelle decisioni economiche

L’impresa si muove in un ambiente fatto da ricorse scarse. E l’azienda – che con l’imprenditore diventa impresa e con i suoi manager  vive e agisce -, deve ogni giorno fare i conti con la scarsità di mezzi al suo interno e all’esterno; anzi, proprio attraverso la combinazione di beni e mezzi scarsi, originando altri beni e mezzi scarsi, l’impresa riesce a crescere, far profitto, generare benessere e ricchezza. Comprendere dal di dentro il meccanismo che muove tutto questo, significa acquisire una conoscenza profonda dell’economia. Al di là del denaro.

E’ quanto si apprende leggendo “Matchmaking. La scienza economica del dare a ciascuno il suo” scritto da Alvin E. Roth (premio Nobel 2012 per l’Economia), appena pubblicato in italiano.

Leggere Roth è importante, ma non tanto per le sue pionieristiche ricerche sul market design cioè sui principî che governano quei mercati in cui il denaro non è l’unico fattore a determinare che cosa spetta a ciascuno. Leggere Roth è importante perché con la sua chiarezza e semplicità di esposizione, prende per mano e conduce chi legge lungo un cammino che altrimenti sarebbe aspro e complesso.

L’obiettivo principale del libro (nemmeno 300 pagine), consiste come si è detto nell’approfondimento delle leggi dell’economia di mercato che non prevedono passaggio di denaro. Si tratta di una parte dell’economia molto più diffusa di quanto si possa pensare. E che insegna due cose fondamentali anche per le imprese: individuare i fattori che fanno funzionare bene o male i mercati e soprattutto insegnare a prendere le decisioni più sicure ed efficaci per dare “a ciascuno il suo”, cioè per allocare in modo efficace ed efficiente risorse scarse.

Per mostrarci quanto questi mercati siano diffusi, Roth ci conduce, per esempio, presso una tribú aborigena che combina i matrimoni per nipotini non ancora nati oppure ci fa conoscere il meccanismo su cui si basano nuove imprese come Airbnb e Uber, il cui successo è in gran parte determinato da un brillante market design. Il tono del libro si capisce subito dalle prime pagine con un esempio apparentemente lontano dall’economia: l’allocazione delle risorse scarse coinvolte nell’organizzazione dei trapianti di organi e dell’organizzazione che c’è dietro di essi.

Spiega Roth in un passaggio particolarmente chiaro sull’importanza del tema: “La cosa davvero interessante è che nessuno di questi elementi, un rene, una scuole esclusiva, un posto di lavoro invidiabile, può essere ottenuto da chi è disposto a pagare di più, o da chi si accontenta del minimo sindacale. In ciascun caso dev’esserci un match: un abbinamento di due controparti”. Ed è proprio nell’abbinamento di due controparti che sta, a ben vedere, uno dei “segreti” della buona impresa.

Matchmaking. La scienza economica del dare a ciascuno il suo

Alvin E. Roth

Einaudi, 2017

Un libro appena tradotto in Italia del premio Nobel per l’economia Alvin E. Roth, esplora i meccanismi di allocazione dei mezzi nelle decisioni economiche

L’impresa si muove in un ambiente fatto da ricorse scarse. E l’azienda – che con l’imprenditore diventa impresa e con i suoi manager  vive e agisce -, deve ogni giorno fare i conti con la scarsità di mezzi al suo interno e all’esterno; anzi, proprio attraverso la combinazione di beni e mezzi scarsi, originando altri beni e mezzi scarsi, l’impresa riesce a crescere, far profitto, generare benessere e ricchezza. Comprendere dal di dentro il meccanismo che muove tutto questo, significa acquisire una conoscenza profonda dell’economia. Al di là del denaro.

E’ quanto si apprende leggendo “Matchmaking. La scienza economica del dare a ciascuno il suo” scritto da Alvin E. Roth (premio Nobel 2012 per l’Economia), appena pubblicato in italiano.

Leggere Roth è importante, ma non tanto per le sue pionieristiche ricerche sul market design cioè sui principî che governano quei mercati in cui il denaro non è l’unico fattore a determinare che cosa spetta a ciascuno. Leggere Roth è importante perché con la sua chiarezza e semplicità di esposizione, prende per mano e conduce chi legge lungo un cammino che altrimenti sarebbe aspro e complesso.

L’obiettivo principale del libro (nemmeno 300 pagine), consiste come si è detto nell’approfondimento delle leggi dell’economia di mercato che non prevedono passaggio di denaro. Si tratta di una parte dell’economia molto più diffusa di quanto si possa pensare. E che insegna due cose fondamentali anche per le imprese: individuare i fattori che fanno funzionare bene o male i mercati e soprattutto insegnare a prendere le decisioni più sicure ed efficaci per dare “a ciascuno il suo”, cioè per allocare in modo efficace ed efficiente risorse scarse.

Per mostrarci quanto questi mercati siano diffusi, Roth ci conduce, per esempio, presso una tribú aborigena che combina i matrimoni per nipotini non ancora nati oppure ci fa conoscere il meccanismo su cui si basano nuove imprese come Airbnb e Uber, il cui successo è in gran parte determinato da un brillante market design. Il tono del libro si capisce subito dalle prime pagine con un esempio apparentemente lontano dall’economia: l’allocazione delle risorse scarse coinvolte nell’organizzazione dei trapianti di organi e dell’organizzazione che c’è dietro di essi.

Spiega Roth in un passaggio particolarmente chiaro sull’importanza del tema: “La cosa davvero interessante è che nessuno di questi elementi, un rene, una scuole esclusiva, un posto di lavoro invidiabile, può essere ottenuto da chi è disposto a pagare di più, o da chi si accontenta del minimo sindacale. In ciascun caso dev’esserci un match: un abbinamento di due controparti”. Ed è proprio nell’abbinamento di due controparti che sta, a ben vedere, uno dei “segreti” della buona impresa.

Matchmaking. La scienza economica del dare a ciascuno il suo

Alvin E. Roth

Einaudi, 2017

In memoria di Falcone e Borsellino: il maxiprocesso antimafia, monumento giuridico ancora d’attualità

Servono, le ricorrenze e le commemorazioni. A tenere viva la memoria di avvenimenti e dei loro protagonisti. A cercare, con onestà intellettuale, di rendere attuale la forza d’un mito. A ricordare la storia, evitando di snaturarne l’anima con le precarie polemiche d’attualità. Venticinque anni fa, il 23 maggio e poi il 17 luglio del 1992, le bombe che fanno strage di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli uomini e donne delle loro scorte. Adesso, un quarto di secolo dopo, ecco le celebrazioni, le cerimonie, i discorsi, le trasmissioni tv. E i libri.

Libri puntuali e opportuni, come quello di Piero Grasso, oggi presidente del Senato, a lungo magistrato impegnato nella lotta alla mafia, a Palermo e a Roma (“Storia di sangue, amici e fantasmi”, edito da Feltrinelli, con lucida prefazione di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, palermitano, giurista e politico di gran livello, fratello d’un uomo politico serio e galantuomo, Piersanti, assassinato dalla mafia nel 1980 perché pretendeva, alla Regione siciliana, di fare funzionare cultura e regole del “buon governo”).

Come e cosa scrivere, in memoria di Falcone e Borsellino? Ricordare il maxi-processo, innanzitutto. Cominciato il 10 febbraio del 1986, concluso con la sentenza di primo grado nell’autunno del 1987 (tempi brevi, essenziali, dunque) con condanne giuste, rigorose, esemplari (17 ergastoli per boss e killer di mille omicidi e 2665 anni di carcere per gli altri imputati) e confermato in Cassazione all’inizio del 1992 (dopo un tentativo, reso giuridicamente vano, di ridimensionare le condanne in Corte d’Appello).

E’ stato un processo importante. Perché costruito benissimo dalle indagini accurate d’un pool antimafia voluto da Rocco Chinnici (fu assassinato, nel 1983, proprio per questo), guidato da Antonino Caponnetto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, con il sostegno, alla Procura della Repubblica, di Giuseppe Ayala. Basato su indagini ben fatte da polizia, carabinieri e Guardia di Finanza, in piena collaborazione e non in conflitto tra loro. Istruito con sapienza e scrupolo cercando prove in dati, fatti, documenti e trovando sempre riscontri alle rivelazioni dei “pentititi” (Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, innanzitutto). Curato, durante le indagini e l’istruttoria, senza fughe di notizia, luci della ribalta, trucchi mediatici (non di tanti altri processi, dopo, si potrà purtroppo dire altrettanto). E poi gestito in aula con straordinaria competenza dal presidente Alfonso Giordano e dal giudice a latere Piero Grasso (tutti nomi da ricordare: eccellenti servitori dello Stato, uomini di legge e di giustizia): rispetto delle regole, del codice di procedura penale, dei diritti degli imputati e dei parenti delle vittime. Nessuno spazio a manovre dilatorie, pretesti, trucchi ruffiani delle difese. E ascolto, comunque, delle istanze degli avvocati difensori: anche una difesa ben costruita e rispettosa delle regole fa parte della buona giustizia. Ci si difende “nel” processo. E non “dal” processo, cercando la comoda ma indecente scappatoia della prescrizione.

E’ stato un monumento giuridico, quel maxi-processo. In cui lo Stato ha vinto, facendo bene lo Stato, applicando cioè la legge. E la mafia ha perso.

Ricordare dunque il maxiprocesso, studiarlo, prenderlo a esempio di civiltà giuridica e tecnica processuale (anche adesso che il Codice di Procedura Penale è cambiato) è un buon modo per rendere omaggio a Falcone, a Borsellino e a tutti gli altri uomini e donne dello Stato cui la mafia ha stroncato la vita. Persone perbene. Non eroi. Ma custodi di diritto e civiltà, contro la violenza mafiosa e i silenzi, le omertà e la corruzione dei troppi complici dei boss.

Vale, ancora oggi, quel loro insegnamento. Mentre la mafia è ancora attiva e presente (non solo a Palermo e a Trapani, ma anche a Milano) e dilaga un’”antimafia” retorica e parolaia, si costruiscono ribalte e carriere di chiacchiere, si irrobustiscono interessi particolari, all’ombra delle dichiarazioni e non dei fatti, su palcoscenici in cui l’antimafia si recita ma non si fa. Tutto il contrario della lezione di Falcone, Borsellino, ma anche di tante altre vittime, Costa, Chinnici, Russo, Terranova, Montana, Cassarà e così via dolorosamente citando.

C’è una seconda lezione di Falcone, da ricordare: la battaglia per la legalità è uno degli elementi fondamentali del senso dello Stato. L’applicazione delle regole della Costituzione. La quotidianità del lavoro di un “civil servant” qual è un magistrato. Senza protagonismi. Con un forte senso delle istituzioni.

Viviamo tempi complicati. In cui, in parecchie occasioni, gli strumenti della giustizia vengono utilizzati con scarso rispetto delle procedure (proprio la forma della legge, come ha insegnato Kelsen, è garanzia di giustizia) e con attenzione prevalente per il clamore sui media. E il processo mediatico è l’esatto contrario di un giusto processo.

E’ vero, tardano riforme essenziali. Prevale, anche in ambienti che dovrebbero essere ispirati dalla cultura del diritto, atteggiamenti di partigianeria politica. E leggi malfatte scaricano sulla magistratura incombenze e responsabilità che dovrebbero essere del governo o del legislatore. Ma pure da questo punto di vista la lezione di Falcone e Borsellino (e di altri magistrati che hanno animato la storia della Repubblica) può fornire utili indicazioni di grande attualità: il magistrato applica e interpreta la legge nei confini che gli vengono dalla legge stessa indicati e può inoltre contribuire, con indicazioni e consigli, a far scrivere dal Parlamento leggi migliori, più efficaci. Il lavoro fatto da Falcone al ministero di Grazia e Giustizia sulle nuove norme antimafia ne è esempio (non un patteggiamento improprio con la politica, come gli era stato ingiustamente rinfacciato da moralisti pelosi, ma un serio impegno istituzionale).

C’è ancora un’indicazione su cui riflettere, “in memoriam” ma anche dando evidenza a esperienze d’attualità. La macchina della giustizia può essere fatta funzionare meglio, pur in attesa di riforme. Le testimonianze che vengono, tanto per fare solo un esempio, dalle strutture giudiziarie di Milano possono fare da paradigma.

I bilanci sociali 2016 della Corte d’Appello, del Tribunale e della Procura della Repubblica, presentati all’inizio di maggio (ed elaborati con il supporto scientifico della SdaBocconi e il contributo di Assolombarda) documentano tempi più rapidi per la soluzione delle cause civili, efficienza ed efficacia dei giudizi del Tribunale delle imprese (il 68% viene deciso in un anno, solo il 20% delle sentenze di primo grado viene appellato e, negli appelli, si conferma nel 70% e più dei casi la sentenza di primo grado: un elemento importante di certezza del diritto), ma anche tempi sempre minori per le cause penali: il 52% di pendenze in meno, dal 2011 al 2016.

E’ importante, proprio a Milano, un miglioramento della qualità della giustizia. Pe fronteggiare l’estendersi della presenza della criminalità organizzata (indagini recenti, ben fatte, hanno colpito interessi di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, in alcuni luoghi chiave dell’economia lombarda). E per dire a mondo economico e società civile che la legalità è cardine fondamentale della competitività e della crescita economica (ecco perché le buone imprese sono così interessate ai valori e alle pratiche della legalità e della giustizia efficace).

“La mafia non è affatto invincibile”, sosteneva Falcone. E aggiungeva: “E’ un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Fare funzionare bene e credibilmente la giustizia accelera quella fine.

Servono, le ricorrenze e le commemorazioni. A tenere viva la memoria di avvenimenti e dei loro protagonisti. A cercare, con onestà intellettuale, di rendere attuale la forza d’un mito. A ricordare la storia, evitando di snaturarne l’anima con le precarie polemiche d’attualità. Venticinque anni fa, il 23 maggio e poi il 17 luglio del 1992, le bombe che fanno strage di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli uomini e donne delle loro scorte. Adesso, un quarto di secolo dopo, ecco le celebrazioni, le cerimonie, i discorsi, le trasmissioni tv. E i libri.

Libri puntuali e opportuni, come quello di Piero Grasso, oggi presidente del Senato, a lungo magistrato impegnato nella lotta alla mafia, a Palermo e a Roma (“Storia di sangue, amici e fantasmi”, edito da Feltrinelli, con lucida prefazione di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, palermitano, giurista e politico di gran livello, fratello d’un uomo politico serio e galantuomo, Piersanti, assassinato dalla mafia nel 1980 perché pretendeva, alla Regione siciliana, di fare funzionare cultura e regole del “buon governo”).

Come e cosa scrivere, in memoria di Falcone e Borsellino? Ricordare il maxi-processo, innanzitutto. Cominciato il 10 febbraio del 1986, concluso con la sentenza di primo grado nell’autunno del 1987 (tempi brevi, essenziali, dunque) con condanne giuste, rigorose, esemplari (17 ergastoli per boss e killer di mille omicidi e 2665 anni di carcere per gli altri imputati) e confermato in Cassazione all’inizio del 1992 (dopo un tentativo, reso giuridicamente vano, di ridimensionare le condanne in Corte d’Appello).

E’ stato un processo importante. Perché costruito benissimo dalle indagini accurate d’un pool antimafia voluto da Rocco Chinnici (fu assassinato, nel 1983, proprio per questo), guidato da Antonino Caponnetto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, con il sostegno, alla Procura della Repubblica, di Giuseppe Ayala. Basato su indagini ben fatte da polizia, carabinieri e Guardia di Finanza, in piena collaborazione e non in conflitto tra loro. Istruito con sapienza e scrupolo cercando prove in dati, fatti, documenti e trovando sempre riscontri alle rivelazioni dei “pentititi” (Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, innanzitutto). Curato, durante le indagini e l’istruttoria, senza fughe di notizia, luci della ribalta, trucchi mediatici (non di tanti altri processi, dopo, si potrà purtroppo dire altrettanto). E poi gestito in aula con straordinaria competenza dal presidente Alfonso Giordano e dal giudice a latere Piero Grasso (tutti nomi da ricordare: eccellenti servitori dello Stato, uomini di legge e di giustizia): rispetto delle regole, del codice di procedura penale, dei diritti degli imputati e dei parenti delle vittime. Nessuno spazio a manovre dilatorie, pretesti, trucchi ruffiani delle difese. E ascolto, comunque, delle istanze degli avvocati difensori: anche una difesa ben costruita e rispettosa delle regole fa parte della buona giustizia. Ci si difende “nel” processo. E non “dal” processo, cercando la comoda ma indecente scappatoia della prescrizione.

E’ stato un monumento giuridico, quel maxi-processo. In cui lo Stato ha vinto, facendo bene lo Stato, applicando cioè la legge. E la mafia ha perso.

Ricordare dunque il maxiprocesso, studiarlo, prenderlo a esempio di civiltà giuridica e tecnica processuale (anche adesso che il Codice di Procedura Penale è cambiato) è un buon modo per rendere omaggio a Falcone, a Borsellino e a tutti gli altri uomini e donne dello Stato cui la mafia ha stroncato la vita. Persone perbene. Non eroi. Ma custodi di diritto e civiltà, contro la violenza mafiosa e i silenzi, le omertà e la corruzione dei troppi complici dei boss.

Vale, ancora oggi, quel loro insegnamento. Mentre la mafia è ancora attiva e presente (non solo a Palermo e a Trapani, ma anche a Milano) e dilaga un’”antimafia” retorica e parolaia, si costruiscono ribalte e carriere di chiacchiere, si irrobustiscono interessi particolari, all’ombra delle dichiarazioni e non dei fatti, su palcoscenici in cui l’antimafia si recita ma non si fa. Tutto il contrario della lezione di Falcone, Borsellino, ma anche di tante altre vittime, Costa, Chinnici, Russo, Terranova, Montana, Cassarà e così via dolorosamente citando.

C’è una seconda lezione di Falcone, da ricordare: la battaglia per la legalità è uno degli elementi fondamentali del senso dello Stato. L’applicazione delle regole della Costituzione. La quotidianità del lavoro di un “civil servant” qual è un magistrato. Senza protagonismi. Con un forte senso delle istituzioni.

Viviamo tempi complicati. In cui, in parecchie occasioni, gli strumenti della giustizia vengono utilizzati con scarso rispetto delle procedure (proprio la forma della legge, come ha insegnato Kelsen, è garanzia di giustizia) e con attenzione prevalente per il clamore sui media. E il processo mediatico è l’esatto contrario di un giusto processo.

E’ vero, tardano riforme essenziali. Prevale, anche in ambienti che dovrebbero essere ispirati dalla cultura del diritto, atteggiamenti di partigianeria politica. E leggi malfatte scaricano sulla magistratura incombenze e responsabilità che dovrebbero essere del governo o del legislatore. Ma pure da questo punto di vista la lezione di Falcone e Borsellino (e di altri magistrati che hanno animato la storia della Repubblica) può fornire utili indicazioni di grande attualità: il magistrato applica e interpreta la legge nei confini che gli vengono dalla legge stessa indicati e può inoltre contribuire, con indicazioni e consigli, a far scrivere dal Parlamento leggi migliori, più efficaci. Il lavoro fatto da Falcone al ministero di Grazia e Giustizia sulle nuove norme antimafia ne è esempio (non un patteggiamento improprio con la politica, come gli era stato ingiustamente rinfacciato da moralisti pelosi, ma un serio impegno istituzionale).

C’è ancora un’indicazione su cui riflettere, “in memoriam” ma anche dando evidenza a esperienze d’attualità. La macchina della giustizia può essere fatta funzionare meglio, pur in attesa di riforme. Le testimonianze che vengono, tanto per fare solo un esempio, dalle strutture giudiziarie di Milano possono fare da paradigma.

I bilanci sociali 2016 della Corte d’Appello, del Tribunale e della Procura della Repubblica, presentati all’inizio di maggio (ed elaborati con il supporto scientifico della SdaBocconi e il contributo di Assolombarda) documentano tempi più rapidi per la soluzione delle cause civili, efficienza ed efficacia dei giudizi del Tribunale delle imprese (il 68% viene deciso in un anno, solo il 20% delle sentenze di primo grado viene appellato e, negli appelli, si conferma nel 70% e più dei casi la sentenza di primo grado: un elemento importante di certezza del diritto), ma anche tempi sempre minori per le cause penali: il 52% di pendenze in meno, dal 2011 al 2016.

E’ importante, proprio a Milano, un miglioramento della qualità della giustizia. Pe fronteggiare l’estendersi della presenza della criminalità organizzata (indagini recenti, ben fatte, hanno colpito interessi di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, in alcuni luoghi chiave dell’economia lombarda). E per dire a mondo economico e società civile che la legalità è cardine fondamentale della competitività e della crescita economica (ecco perché le buone imprese sono così interessate ai valori e alle pratiche della legalità e della giustizia efficace).

“La mafia non è affatto invincibile”, sosteneva Falcone. E aggiungeva: “E’ un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Fare funzionare bene e credibilmente la giustizia accelera quella fine.

Filosofia digitale d’impresa

Un libro che arriva dal MIT di Boston ma che è stato scritto da un italiano,  fornisce in poche pagine gli strumenti per comprendere meglio dove si muovono le imprese

L’imprenditore e il manager a modo loro incarnano un certo modo di fare filosofia. Sempre che con filosofia si intenda una certa visione della vita, delle cose, del pensiero, dell’agire umano. Analisi e azione. Modi di intendere gli obiettivi del proprio essere. Cultura d’impresa che si fa ragionamento più vasto sul significato del produrre e sull’organizzazione necessaria per arrivare ad un certo obiettivo e che arriva a ragionare sul ruolo dell’azienda nel mondo. Tutto, poi, reso oggi più complesso da una tecnologia che da un lato rende più facili le cose e, dall’altro, crea nuovi orizzonti e nuovi problemi.

Anche l’impresa e le persone che in essa agiscono, hanno così necessità di indicazioni di pensiero più alte  rispetto a quelle semplicemente gestionali. A soddisfare un’esigenza di questo tipo ha provato a pensarci Cosimo Accoto (visiting scientist presso il Sociotechnical Systems Research Center del MIT di Boston e affiliato al MIT IDSS Institute for Data, Systems and Society).Filosofo di formazione, Accoto ha scritto  “Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale”, libro breve (poco più di 130 pagine), ma denso eppure facile da leggere.

L’idea di partenza deriva dalla constatazione della realtà. Spazio, tempo, esperienza, soggettività, apprendimento, legge, sovranità, realtà: in un mondo in cui sembra che tutto sia destinato a diventare programmabile e in un’epoca che pare segnata dal dominio del codice software, dei sensori, dei dati, degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme, in un momento in cui tutto questo si mischia e invade anche la vita delle imprese, proprio adesso c’è bisogno di molta filosofia che, a sua volta, va ripensata. E’ il momento della filosofia digitale.

Accoto quindi presenta  al lettore italiano le frontiere più avanzate, a livello internazionale, proprio del pensiero e della filosofia digitale arrivando ad indagare come questa possa spiegare gli impatti tecnologici e le ricadute strategiche per lo sviluppo delle imprese di tutto ciò che sta accadendo attorno ad esse. Per farlo, Accoto inizia a descrivete “il codice” (cioè il software), poi passa a descrivere i sensori di cui disponiamo, gli algoritmi che servono per interpretare e dirigere ciò che sta accadendo e quindi i risultati (i “dati), che si determinano. Chiude la lettura la descrizione del mondo come “megastruttura accidentale”.

Bella la presentazione di Alex Pentland (professore al Massachusetts Institute of Technology di Boston), che spiega come il libro descriva “come la nostra cultura e i concetti che usiamo per comprenderla cambieranno in ragione di un mondo popolato da codice, sensori, dati, oggetti e piattaforme supportati da intelligenza computazionale. Una delle trasformazioni speculative più profonde sarà il passaggio dalla domanda «quali i fatti?» alla domanda «quali le conseguenze?»”.

Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale

Cosimo Accoto

EGEA, 2017

Un libro che arriva dal MIT di Boston ma che è stato scritto da un italiano,  fornisce in poche pagine gli strumenti per comprendere meglio dove si muovono le imprese

L’imprenditore e il manager a modo loro incarnano un certo modo di fare filosofia. Sempre che con filosofia si intenda una certa visione della vita, delle cose, del pensiero, dell’agire umano. Analisi e azione. Modi di intendere gli obiettivi del proprio essere. Cultura d’impresa che si fa ragionamento più vasto sul significato del produrre e sull’organizzazione necessaria per arrivare ad un certo obiettivo e che arriva a ragionare sul ruolo dell’azienda nel mondo. Tutto, poi, reso oggi più complesso da una tecnologia che da un lato rende più facili le cose e, dall’altro, crea nuovi orizzonti e nuovi problemi.

Anche l’impresa e le persone che in essa agiscono, hanno così necessità di indicazioni di pensiero più alte  rispetto a quelle semplicemente gestionali. A soddisfare un’esigenza di questo tipo ha provato a pensarci Cosimo Accoto (visiting scientist presso il Sociotechnical Systems Research Center del MIT di Boston e affiliato al MIT IDSS Institute for Data, Systems and Society).Filosofo di formazione, Accoto ha scritto  “Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale”, libro breve (poco più di 130 pagine), ma denso eppure facile da leggere.

L’idea di partenza deriva dalla constatazione della realtà. Spazio, tempo, esperienza, soggettività, apprendimento, legge, sovranità, realtà: in un mondo in cui sembra che tutto sia destinato a diventare programmabile e in un’epoca che pare segnata dal dominio del codice software, dei sensori, dei dati, degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme, in un momento in cui tutto questo si mischia e invade anche la vita delle imprese, proprio adesso c’è bisogno di molta filosofia che, a sua volta, va ripensata. E’ il momento della filosofia digitale.

Accoto quindi presenta  al lettore italiano le frontiere più avanzate, a livello internazionale, proprio del pensiero e della filosofia digitale arrivando ad indagare come questa possa spiegare gli impatti tecnologici e le ricadute strategiche per lo sviluppo delle imprese di tutto ciò che sta accadendo attorno ad esse. Per farlo, Accoto inizia a descrivete “il codice” (cioè il software), poi passa a descrivere i sensori di cui disponiamo, gli algoritmi che servono per interpretare e dirigere ciò che sta accadendo e quindi i risultati (i “dati), che si determinano. Chiude la lettura la descrizione del mondo come “megastruttura accidentale”.

Bella la presentazione di Alex Pentland (professore al Massachusetts Institute of Technology di Boston), che spiega come il libro descriva “come la nostra cultura e i concetti che usiamo per comprenderla cambieranno in ragione di un mondo popolato da codice, sensori, dati, oggetti e piattaforme supportati da intelligenza computazionale. Una delle trasformazioni speculative più profonde sarà il passaggio dalla domanda «quali i fatti?» alla domanda «quali le conseguenze?»”.

Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale

Cosimo Accoto

EGEA, 2017

Cultura d’impresa e cultura del territorio

Una ricerca di dottorato esplora i legami fra produzione culturale, politiche locali e sviluppo

Imprese e territorio sono entità da sempre intimamente collegate. Attori di una medesima vicenda. L’azienda nasce e cresce in un ambiente fisico e umano che la condizioni e che a sua volta è condizionato dall’organizzazione della produzione che prende forma e si evolve. E’ un nodo di relazioni e di valori quello che si crea.

“L’organizzazione dello spazio di business tra politica cultura e territorio”,  lavoro di Dottorato di ricerca di Francesco Petrucci, si muove proprio nell’ambito di questo nodo senza cercare di scioglierlo ma, anzi, cercando di sondarne i legami più forti.  “Uno dei paradigmi di sviluppo emergenti più popolari in tema di politica economica – spiega Petrucci all’inizio del suo lavoro – indica nel territorio, e nelle sue risorse, la scala spaziale di intervento più efficace nel promuovere lo sviluppo industriale e l’innovazione. L’idea che ci sia un forte legame tra sviluppo economico e territorio si basa sulla convinzione che i clusters industriali rappresentino una delle forme organizzative dell’attività economica più efficienti”. Clusters, grappoli di aziende che, appunto, con il territorio si annodano per creare qualcosa di nuovo. Spiega ancora Petrucci: “La concentrazione spaziale dell’attività economica può generare una serie di vantaggi che va sotto il nome di ‘economie di agglomerazione’ le quali conferiscono un vantaggio competitivo unico alle imprese co-localizzate. La presenza di economie di agglomerazione, quindi, può rendere un territorio particolarmente attrattivo e spingere nuove imprese a localizzarsi al suo interno”.

E’ l’effetto domino in positivo quello che si crea. Nasce, ogni volta, una particolare cultura del produrre  che pervade gli strati sociali e lavorativi di un’area e da questa è influenzata. Ruolo dell’impresa e ruolo del territorio, tuttavia, non sempre sono così chiari e limpidi. Petrucci allora cerca di capire meglio indagando un particolare tipo d’impresa: quello culturale e creativo. Queste “industrie”, spiega l’autore, si sono “affermate come banco di prova privilegiato per la sperimentazione di nuove politiche in tema di spatial clustering e sviluppo territoriale”. Tanto che “oggi l’industria culturale e creativa è ritenuta un importante motore di sviluppo economico e sociale, perché capace di mobilitare le risorse materiali e immateriali di un territorio, e di stimolare, attraverso il proprio bagaglio creativo ed innovativo, la riconversione degli apparati, delle logiche e delle competenze di quelle aree provenienti da un passato industriale oggi in declino”.

Il lavoro quindi inizia con il fissare i concetti chiave e poi con l’esaminare la ricerca economica sul tema dello spazio, dell’agglomerazione, e della prossimità. Successivamente Petrucci approfondisce i legami fra spazio (territoriale) e impresa per arrivare quindi alle industrie culturali e creative e alla loro collocazione nel territorio. Arrivato alla conclusione dell’indagine, chi legge avrà esplorato  da una particolare visuale – quella della cultura d’impresa unita a quella delle imprese culturali -, uno degli aspetti più importanti dell’alchimia fra territorio e aziende che origina lo sviluppo.

L’organizzazione dello spazio di business tra politica cultura e territorio

Francesco Petrucci

Tesi di dottorato in Economia e Management, Università degli Studi di Urbino Carlo

Una ricerca di dottorato esplora i legami fra produzione culturale, politiche locali e sviluppo

Imprese e territorio sono entità da sempre intimamente collegate. Attori di una medesima vicenda. L’azienda nasce e cresce in un ambiente fisico e umano che la condizioni e che a sua volta è condizionato dall’organizzazione della produzione che prende forma e si evolve. E’ un nodo di relazioni e di valori quello che si crea.

“L’organizzazione dello spazio di business tra politica cultura e territorio”,  lavoro di Dottorato di ricerca di Francesco Petrucci, si muove proprio nell’ambito di questo nodo senza cercare di scioglierlo ma, anzi, cercando di sondarne i legami più forti.  “Uno dei paradigmi di sviluppo emergenti più popolari in tema di politica economica – spiega Petrucci all’inizio del suo lavoro – indica nel territorio, e nelle sue risorse, la scala spaziale di intervento più efficace nel promuovere lo sviluppo industriale e l’innovazione. L’idea che ci sia un forte legame tra sviluppo economico e territorio si basa sulla convinzione che i clusters industriali rappresentino una delle forme organizzative dell’attività economica più efficienti”. Clusters, grappoli di aziende che, appunto, con il territorio si annodano per creare qualcosa di nuovo. Spiega ancora Petrucci: “La concentrazione spaziale dell’attività economica può generare una serie di vantaggi che va sotto il nome di ‘economie di agglomerazione’ le quali conferiscono un vantaggio competitivo unico alle imprese co-localizzate. La presenza di economie di agglomerazione, quindi, può rendere un territorio particolarmente attrattivo e spingere nuove imprese a localizzarsi al suo interno”.

E’ l’effetto domino in positivo quello che si crea. Nasce, ogni volta, una particolare cultura del produrre  che pervade gli strati sociali e lavorativi di un’area e da questa è influenzata. Ruolo dell’impresa e ruolo del territorio, tuttavia, non sempre sono così chiari e limpidi. Petrucci allora cerca di capire meglio indagando un particolare tipo d’impresa: quello culturale e creativo. Queste “industrie”, spiega l’autore, si sono “affermate come banco di prova privilegiato per la sperimentazione di nuove politiche in tema di spatial clustering e sviluppo territoriale”. Tanto che “oggi l’industria culturale e creativa è ritenuta un importante motore di sviluppo economico e sociale, perché capace di mobilitare le risorse materiali e immateriali di un territorio, e di stimolare, attraverso il proprio bagaglio creativo ed innovativo, la riconversione degli apparati, delle logiche e delle competenze di quelle aree provenienti da un passato industriale oggi in declino”.

Il lavoro quindi inizia con il fissare i concetti chiave e poi con l’esaminare la ricerca economica sul tema dello spazio, dell’agglomerazione, e della prossimità. Successivamente Petrucci approfondisce i legami fra spazio (territoriale) e impresa per arrivare quindi alle industrie culturali e creative e alla loro collocazione nel territorio. Arrivato alla conclusione dell’indagine, chi legge avrà esplorato  da una particolare visuale – quella della cultura d’impresa unita a quella delle imprese culturali -, uno degli aspetti più importanti dell’alchimia fra territorio e aziende che origina lo sviluppo.

L’organizzazione dello spazio di business tra politica cultura e territorio

Francesco Petrucci

Tesi di dottorato in Economia e Management, Università degli Studi di Urbino Carlo

Il “Museo del futuro” e la “fabbrica bella”: le discussioni Aspen su cultura e impresa

Può sembrare un ossimoro, dire “il museo del futuro“. Due parole che si negano a vicenda. Una, usata per definire il luogo di conservazione del passato. L’altra, per indicare l’orizzonte di tutto ciò che è ancora da fare. Eppure, a pensarci bene, la contraddizione è solo apparente. Perché proprio la riflessione critica sul passato offre straordinarie chiavi di miglior comprensione della contemporaneità. E l’innovazione, per quanto caratterizzata da discontinuità, ha comunque bisogno di una robusta e radicale rielaborazione delle esperienze già fatte, prima di diventare essa stessa esperienza, storia, documento da conservare e valorizzare. Memoria e futuro, dunque, come sintesi, sinergia dialettica fertile. Conoscenze orientate al cambiamento.

Sta probabilmente qui la radice della scelta dell’Aspen Institute Italia di organizzare una delle sue discussioni proprio su “Il Museo del futuro”, nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera, la scorsa settimana, a Milano, mettendo a confronto imprenditori, manager, responsabili di istituzioni, personalità della cultura ed esperti d’arte di generazioni diverse (più di metà, trentenni) per discutere di valorizzazione dei beni culturali nel rapporto tra “pubblico” e “privato”, di nuove professioni culturali, di valore della “grande bellezza” di cui l’Italia è principale testimone internazionale (anche se troppo spesso ne è custode mediocre e scadente promotore) e soprattutto di relazione tra patrimonio storico e artistico e tecnologie digitali (“A cosa serve un museo nell’era di Internet?”).

Un dibattito approfondito. Utile per muoversi nel vasto e stimolante territorio contenuto da due confini: il rifiuto di considerare il museo come “cimitero di culture passate” e la consapevolezza di dover andare oltre “il rischio del positivismo tecnologico”, oltre cioè la falsa credenza che l’esperienza sia racchiudibile “dentro” uno schermo hi tech, grazie al quale, senza alzarsi dal divano di casa, muoversi nelle sale d’un museo, “esplorare” la Cappella Sistina, visitare una collezione d’arte, assistere a un’opera teatrale.

Sfuggendo alla falsa contrapposizione tra “apocalittici” e “integrati”, c’è da capire come usare gli strumenti digital per conoscere e capire meglio (divertendosi) i quadri di Caravaggio e di Mantegna custoditi, appunto, a Brera. Cos’è dunque oggi un museo?

Il museo è un luogo della comunità, in cui si conserva e si valorizza una conoscenza che è cardine di una identità ricca, molteplice, capace di emozionare e formare nuove generazioni. Ed è anche uno spazio in cui testimoniare l’evoluzione della conoscenza e l’incrocio creativo tra scienze umane e tecnologie, sanando, proprio oggi, la falsa frattura tra umanesimo e scienza. Un esempio: fermarsi davanti a un quadro di Antonello da Messina, guardarne in profondità la forza di raffigurazione del volto d’una Madonna o dell'”Ignoto marinaio” e rivivere, sullo schermo d’un computer, l’appassionata ricerca delle vernici in grado di dare, all’olio della pittura, una inedita luminosità, una straordinaria intensità della luce. Antonello come artista e come chimico d’avanguardia. Antonello da esporre al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano.

Già, proprio a Milano, città in cui da sempre, nella storia, creatività artistica e innovazione scientifica hanno camminato insieme, sino ai tempi dell’eccellenza di Leonardo (il Codice Atlantico alla Biblioteca Ambrosiana ne è sintesi straordinaria), alle migliori sperimentazioni del Futurismo nelle stagioni dell’avvio dell’industrializzazione di massa, ai tempi (anni Cinquanta e Sessanta) di Lucio Fontana nei bar e negli atelier di Brera e di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica, nei laboratori delle grandi industrie (Pirelli e Montecatini) e dell’università.

Museo, ancora, come luogo della storia. E degli stimoli d’una cultura “pop” che giochi in continuazione sull’espressione della contemporaneità, con sguardo futuribile. Museo come nodo d’una rete che colleghi spazi storici e gallerie d’arte, centri di ricerca universitari pubblici e privati. E imprese, biblioteche e aule in cui ridiscutere la nuova attualità di grandi autori del Novecento europeo, dal Gramsci dei “Quaderni del carcere” (studiato a fondo proprio sui temi della cultura popolare da ricercatori negli Usa e in Gran Bretagna) all’Heidegger di “Essere e Tempo” le cui riedizioni critiche, al di là delle polemiche politiche, riaprono dibattiti sulle relazioni autentico-inautentico, su alcuni temi cardine delle responsabilità del fare cultura.

Musei, dunque, come centri dell’innovazione. Proprio nel cuore della cultura d’impresa.

Che rapporti dunque costruire su impresa e museo, tra produzione, conservazione, valorizzazione? Il punto di sintesi sta nella lezione di un grande storico come Carlo Maria Cipolla sull’attitudine degli italiani “a produrre, fin dal Medio Evo, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Stabilire e rinnovare un rapporto tra impresa e cultura, manifattura e creatività, è indispensabile per rafforzare la competitività dell’industria. Giocata sulla qualità, sul “bello e ben fatto”.

La relazione è ancora più profonda.

Nel tempo della crisi e della rottura di tradizionali paradigmi sociali ed economici (ne abbiamo scritto più volte in questo blog), servono nuove mappe per raccontare interessi, conflitti, scambi. Per tracciare, insomma, un’originale geo-economia della competizione internazionale. Resta troppo forte l’influenza di una finanza speculativa che domina e distorce la globalizzazione. E troppo debole una politica che abdica al proprio diritto-dovere di e fare rispettare regole di sviluppo più equilibrato, giusto, sostenibile.

E’ necessaria dunque una cultura ispirata a un nuovo “umanesimo industriale”, una cultura politecnica che tenga insieme conoscenze umanistiche e competenze scientifiche, secondo l’ispirazione che nel corso lungo della storia d’Europa ha determinato il pensiero critico del progresso, della ricerca, delle libertà. E tra i luoghi privilegiati di questo “umanesimo” c’è il “museo del futuro”. E ci sono le “neo-fabbriche” dove le tradizionali competenze manifatturiere della cultura del “made in Italy” si incrociano con le tecnologie creative e produttive “digital” e “hi tech”. Musei come spazi in cui la memoria ha un futuro e definisce futuri migliori (anche i musei e gli archivi d’impresa, naturalmente). E fabbriche come luoghi in cui si producono ricchezza, lavoro, innovazione. Una rinnovata “civiltà delle macchine”.

Può sembrare un ossimoro, dire “il museo del futuro“. Due parole che si negano a vicenda. Una, usata per definire il luogo di conservazione del passato. L’altra, per indicare l’orizzonte di tutto ciò che è ancora da fare. Eppure, a pensarci bene, la contraddizione è solo apparente. Perché proprio la riflessione critica sul passato offre straordinarie chiavi di miglior comprensione della contemporaneità. E l’innovazione, per quanto caratterizzata da discontinuità, ha comunque bisogno di una robusta e radicale rielaborazione delle esperienze già fatte, prima di diventare essa stessa esperienza, storia, documento da conservare e valorizzare. Memoria e futuro, dunque, come sintesi, sinergia dialettica fertile. Conoscenze orientate al cambiamento.

Sta probabilmente qui la radice della scelta dell’Aspen Institute Italia di organizzare una delle sue discussioni proprio su “Il Museo del futuro”, nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera, la scorsa settimana, a Milano, mettendo a confronto imprenditori, manager, responsabili di istituzioni, personalità della cultura ed esperti d’arte di generazioni diverse (più di metà, trentenni) per discutere di valorizzazione dei beni culturali nel rapporto tra “pubblico” e “privato”, di nuove professioni culturali, di valore della “grande bellezza” di cui l’Italia è principale testimone internazionale (anche se troppo spesso ne è custode mediocre e scadente promotore) e soprattutto di relazione tra patrimonio storico e artistico e tecnologie digitali (“A cosa serve un museo nell’era di Internet?”).

Un dibattito approfondito. Utile per muoversi nel vasto e stimolante territorio contenuto da due confini: il rifiuto di considerare il museo come “cimitero di culture passate” e la consapevolezza di dover andare oltre “il rischio del positivismo tecnologico”, oltre cioè la falsa credenza che l’esperienza sia racchiudibile “dentro” uno schermo hi tech, grazie al quale, senza alzarsi dal divano di casa, muoversi nelle sale d’un museo, “esplorare” la Cappella Sistina, visitare una collezione d’arte, assistere a un’opera teatrale.

Sfuggendo alla falsa contrapposizione tra “apocalittici” e “integrati”, c’è da capire come usare gli strumenti digital per conoscere e capire meglio (divertendosi) i quadri di Caravaggio e di Mantegna custoditi, appunto, a Brera. Cos’è dunque oggi un museo?

Il museo è un luogo della comunità, in cui si conserva e si valorizza una conoscenza che è cardine di una identità ricca, molteplice, capace di emozionare e formare nuove generazioni. Ed è anche uno spazio in cui testimoniare l’evoluzione della conoscenza e l’incrocio creativo tra scienze umane e tecnologie, sanando, proprio oggi, la falsa frattura tra umanesimo e scienza. Un esempio: fermarsi davanti a un quadro di Antonello da Messina, guardarne in profondità la forza di raffigurazione del volto d’una Madonna o dell'”Ignoto marinaio” e rivivere, sullo schermo d’un computer, l’appassionata ricerca delle vernici in grado di dare, all’olio della pittura, una inedita luminosità, una straordinaria intensità della luce. Antonello come artista e come chimico d’avanguardia. Antonello da esporre al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano.

Già, proprio a Milano, città in cui da sempre, nella storia, creatività artistica e innovazione scientifica hanno camminato insieme, sino ai tempi dell’eccellenza di Leonardo (il Codice Atlantico alla Biblioteca Ambrosiana ne è sintesi straordinaria), alle migliori sperimentazioni del Futurismo nelle stagioni dell’avvio dell’industrializzazione di massa, ai tempi (anni Cinquanta e Sessanta) di Lucio Fontana nei bar e negli atelier di Brera e di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica, nei laboratori delle grandi industrie (Pirelli e Montecatini) e dell’università.

Museo, ancora, come luogo della storia. E degli stimoli d’una cultura “pop” che giochi in continuazione sull’espressione della contemporaneità, con sguardo futuribile. Museo come nodo d’una rete che colleghi spazi storici e gallerie d’arte, centri di ricerca universitari pubblici e privati. E imprese, biblioteche e aule in cui ridiscutere la nuova attualità di grandi autori del Novecento europeo, dal Gramsci dei “Quaderni del carcere” (studiato a fondo proprio sui temi della cultura popolare da ricercatori negli Usa e in Gran Bretagna) all’Heidegger di “Essere e Tempo” le cui riedizioni critiche, al di là delle polemiche politiche, riaprono dibattiti sulle relazioni autentico-inautentico, su alcuni temi cardine delle responsabilità del fare cultura.

Musei, dunque, come centri dell’innovazione. Proprio nel cuore della cultura d’impresa.

Che rapporti dunque costruire su impresa e museo, tra produzione, conservazione, valorizzazione? Il punto di sintesi sta nella lezione di un grande storico come Carlo Maria Cipolla sull’attitudine degli italiani “a produrre, fin dal Medio Evo, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Stabilire e rinnovare un rapporto tra impresa e cultura, manifattura e creatività, è indispensabile per rafforzare la competitività dell’industria. Giocata sulla qualità, sul “bello e ben fatto”.

La relazione è ancora più profonda.

Nel tempo della crisi e della rottura di tradizionali paradigmi sociali ed economici (ne abbiamo scritto più volte in questo blog), servono nuove mappe per raccontare interessi, conflitti, scambi. Per tracciare, insomma, un’originale geo-economia della competizione internazionale. Resta troppo forte l’influenza di una finanza speculativa che domina e distorce la globalizzazione. E troppo debole una politica che abdica al proprio diritto-dovere di e fare rispettare regole di sviluppo più equilibrato, giusto, sostenibile.

E’ necessaria dunque una cultura ispirata a un nuovo “umanesimo industriale”, una cultura politecnica che tenga insieme conoscenze umanistiche e competenze scientifiche, secondo l’ispirazione che nel corso lungo della storia d’Europa ha determinato il pensiero critico del progresso, della ricerca, delle libertà. E tra i luoghi privilegiati di questo “umanesimo” c’è il “museo del futuro”. E ci sono le “neo-fabbriche” dove le tradizionali competenze manifatturiere della cultura del “made in Italy” si incrociano con le tecnologie creative e produttive “digital” e “hi tech”. Musei come spazi in cui la memoria ha un futuro e definisce futuri migliori (anche i musei e gli archivi d’impresa, naturalmente). E fabbriche come luoghi in cui si producono ricchezza, lavoro, innovazione. Una rinnovata “civiltà delle macchine”.

Fondazione Pirelli alla XI edizione del Festival della
Robotica Educativa

Per il secondo anno consecutivo Fondazione Pirelli partecipa al Festival della Robotica Educativa organizzato dalla rete di scuole per la robotica “AmicoRobot” e dall’associazione Amici della G.B. Pirelli con la collaborazione del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Il progetto prosegue il costante impegno di Fondazione Pirelli nel campo della formazione.

La manifestazione, che si terrà nelle giornate di giovedì 18 (scuole primarie) e di venerdì 19 maggio (scuole secondarie di I grado) presso l’edificio U26 dell’Università degli Studi di Milano, sarà un’occasione importante per diffondere anche tra i più giovani la conoscenza di una scienza giovane come la robotica e l’utilizzo di tecnologie digitali. Durante il festival – in particolare – i bambini delle scuole elementari esporranno i robot creati in classe e li faranno interagire con lo spazio circostante, mentre i ragazzi delle scuole medie si sfideranno in una vera e propria gara a colpi di “coding”.

In entrambe le giornate inoltre sono previsti due incontri dal titolo “Pirelli, la fabbrica digitale. Uomini e robot per costruire pneumatici” dove alcuni esperti di automazione di Pirelli racconteranno a bambini e ragazzi l’impiego di robot nelle fabbriche Pirelli per la produzione di pneumatici. Dal Next MIRS (Modular Integrated Robotized System), il sistema robotizzato integrato modulare per la produzione di pneumatici al CVA (Controllo Visivo Automatico), il moderno sistema automatico di analisi del pneumatico che si avvale di tecnologie innovative di visione artificiale.

Nella gallery i manifesti dell’evento realizzati dai bambini e dai ragazzi vincitori del concorso Grafico-pittorico del Festival.

Per il secondo anno consecutivo Fondazione Pirelli partecipa al Festival della Robotica Educativa organizzato dalla rete di scuole per la robotica “AmicoRobot” e dall’associazione Amici della G.B. Pirelli con la collaborazione del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Il progetto prosegue il costante impegno di Fondazione Pirelli nel campo della formazione.

La manifestazione, che si terrà nelle giornate di giovedì 18 (scuole primarie) e di venerdì 19 maggio (scuole secondarie di I grado) presso l’edificio U26 dell’Università degli Studi di Milano, sarà un’occasione importante per diffondere anche tra i più giovani la conoscenza di una scienza giovane come la robotica e l’utilizzo di tecnologie digitali. Durante il festival – in particolare – i bambini delle scuole elementari esporranno i robot creati in classe e li faranno interagire con lo spazio circostante, mentre i ragazzi delle scuole medie si sfideranno in una vera e propria gara a colpi di “coding”.

In entrambe le giornate inoltre sono previsti due incontri dal titolo “Pirelli, la fabbrica digitale. Uomini e robot per costruire pneumatici” dove alcuni esperti di automazione di Pirelli racconteranno a bambini e ragazzi l’impiego di robot nelle fabbriche Pirelli per la produzione di pneumatici. Dal Next MIRS (Modular Integrated Robotized System), il sistema robotizzato integrato modulare per la produzione di pneumatici al CVA (Controllo Visivo Automatico), il moderno sistema automatico di analisi del pneumatico che si avvale di tecnologie innovative di visione artificiale.

Nella gallery i manifesti dell’evento realizzati dai bambini e dai ragazzi vincitori del concorso Grafico-pittorico del Festival.

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La produzione dell’impresa culturale

Un articolo apparso su  Economia & Management sintetizza con efficacia la capacità della cultura di generare buoni effetti economici

Le imprese della cultura producono reddito e benessere al pari – e in alcuni casi di più -, delle altre. Questione di qualità del prodotto offerto – la cultura in questo caso-, ma anche di organizzazione e quindi di management  e di spirito imprenditoriale di non poco conto. Anche per le aziende che, partendo da altri comparti produttivi, arrivano a “produrre cultura” dopo un percorso più o meno lungo.

Comprendere i paradigmi della produzione culturale d’impresa è quindi importante sotto molti profili. Ed quello che hanno fatto Pier Luigi Sacco ed Emanuele Teti (della IULM il primo  e della Università Commerciale Luigi Bocconi il secondo).

Il saggio “Cultura 3.0: un nuovo paradigma di creazione del valore” apparso su Economia & Management del  gennaio 2017, non è poi solamente un approfondimento  degli aspetti delle ultime realizzazione culturali, ma anche una sintesi  delle diverse forme di imprese culturali che si sono susseguite lungo la storia oltre che un’analisi delle potenzialità odierne di questo tipo di imprese.

Gli autori spiegano all’inizio della ricerca di voler proporre “un approccio innovativo al tema della generazione del valore economico attraverso la cultura, mostrando come siano esistiti nel tempo tre differenti paradigmi (mecenatismo, industrie culturali e creative, piattaforme digitali aperte), che oggi convivono caratterizzando il funzionamento di differenti settori culturali”.  Il testo quindi prende in considerazione in maniera piana e sintetica i tre passaggi della produzione dell’impresa culturale e continua guardando più da vicino ciò che accade oggi.

Il saggio spiega così come nella situazione attuale, in conseguenza della coesistenza dei tre paradigmi e in particolare del cosiddetto paradigma della Cultura 3.0, esistano otto dimensioni distinte attraverso cui la cultura produce valore economico in modo indiretto, con rilevanti effetti macroeconomici. Le dimensioni prese in considerazione sono quelle dell’innovazione, del benessere, della sostenibilità, della coesione sociale, dei nuovi modelli imprenditoriali, del lifelong learning, del soft power e dell’identità locale. Per ognuna di essere Sacco e Teti studiano le caratteristiche principali arrivando a comporre un quadro sintetico eppure esaustivo della produzione culturale dell’impresa moderna.   Con una conclusione operativa che arriva alle politiche generali di sviluppo. “Un’integrazione di tali effetti all’interno delle politiche pubbliche così come delle strategie d’impresa – scrivono infatti i due ricercatori -, può produrre effetti di notevole importanza in molti settori economici”.

Cultura 3.0: un nuovo paradigma di creazione del valore

Pier Luigi Sacco, Emanuele Teti

Economia & Management, gennaio 2017

Un articolo apparso su  Economia & Management sintetizza con efficacia la capacità della cultura di generare buoni effetti economici

Le imprese della cultura producono reddito e benessere al pari – e in alcuni casi di più -, delle altre. Questione di qualità del prodotto offerto – la cultura in questo caso-, ma anche di organizzazione e quindi di management  e di spirito imprenditoriale di non poco conto. Anche per le aziende che, partendo da altri comparti produttivi, arrivano a “produrre cultura” dopo un percorso più o meno lungo.

Comprendere i paradigmi della produzione culturale d’impresa è quindi importante sotto molti profili. Ed quello che hanno fatto Pier Luigi Sacco ed Emanuele Teti (della IULM il primo  e della Università Commerciale Luigi Bocconi il secondo).

Il saggio “Cultura 3.0: un nuovo paradigma di creazione del valore” apparso su Economia & Management del  gennaio 2017, non è poi solamente un approfondimento  degli aspetti delle ultime realizzazione culturali, ma anche una sintesi  delle diverse forme di imprese culturali che si sono susseguite lungo la storia oltre che un’analisi delle potenzialità odierne di questo tipo di imprese.

Gli autori spiegano all’inizio della ricerca di voler proporre “un approccio innovativo al tema della generazione del valore economico attraverso la cultura, mostrando come siano esistiti nel tempo tre differenti paradigmi (mecenatismo, industrie culturali e creative, piattaforme digitali aperte), che oggi convivono caratterizzando il funzionamento di differenti settori culturali”.  Il testo quindi prende in considerazione in maniera piana e sintetica i tre passaggi della produzione dell’impresa culturale e continua guardando più da vicino ciò che accade oggi.

Il saggio spiega così come nella situazione attuale, in conseguenza della coesistenza dei tre paradigmi e in particolare del cosiddetto paradigma della Cultura 3.0, esistano otto dimensioni distinte attraverso cui la cultura produce valore economico in modo indiretto, con rilevanti effetti macroeconomici. Le dimensioni prese in considerazione sono quelle dell’innovazione, del benessere, della sostenibilità, della coesione sociale, dei nuovi modelli imprenditoriali, del lifelong learning, del soft power e dell’identità locale. Per ognuna di essere Sacco e Teti studiano le caratteristiche principali arrivando a comporre un quadro sintetico eppure esaustivo della produzione culturale dell’impresa moderna.   Con una conclusione operativa che arriva alle politiche generali di sviluppo. “Un’integrazione di tali effetti all’interno delle politiche pubbliche così come delle strategie d’impresa – scrivono infatti i due ricercatori -, può produrre effetti di notevole importanza in molti settori economici”.

Cultura 3.0: un nuovo paradigma di creazione del valore

Pier Luigi Sacco, Emanuele Teti

Economia & Management, gennaio 2017

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