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Scuola e lavoro, si parte con i percorsi comuni per gli studenti: è la “cultura politecnica”

La scuola e l’impresa fanno un passo importante nella costruzione d’un cammino comune. E il lavoro entra a far parte stabile della formazione, come già avviene in parecchi altri grandi paesi Ue. “Studenti in azienda, si parte in ottobre”, titola Il Sole 24Ore (giovedì 17 settembre), dando notizia della circolare che il Miur (il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca) ha preparato per tutte le scuole superiori italiane, per l’applicazione della riforma Renzi-Giannini sulla “nuova” alternanza scuola-lavoro, dando così una forte spinta a norme già in vigore dal 2005 ma recepite finora da istituti che hanno coinvolto appena il 10% degli studenti. “Si riconosce al lavoro una funzione educativa, è una vera rivoluzione”, si entusiasma Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione.

Le ore di formazione on the job salgono, per l’ultimo triennio delle superiori, dalle attuali 90 a 400 per gli istituti tecnici e professionali e a 400 nei licei. E il lavoro entra a far parte dell’offerta didattica, dei piani formativi delle scuole cioè, e dei curricula degli studenti. Ci si avvicina al mondo dell’impresa. Si costruiscono percorsi verso un miglior orientamento professionale dei giovani già durante gli anni di studio con effetti positivi sia verso il mercato del lavoro subito dopo il diploma sia nella scelta dei percorsi universitari). E’ un progresso innovativo di grande portata, in un’Italia che vive sì esperienze di impresa diffusa sul territorio (siamo rimasti, nonostante la grande Crisi, il secondo paese manifatturiero dell’Europa e uno dei primi cinque al mondo a vantare un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari) ma in cui è scarsa la consapevolezza del ruolo determinante dell’impresa come luogo in cui non solo si costruisce ricchezza e si crea lavoro, ma anche si fanno crescere valori e responsabilità e si intessono relazioni che fanno da collante sociale.

L’obiettivo: studiare e lavorare, entrare in aule e laboratori, intrecciare discipline umanistiche e scientifiche e saperi produttivi, rafforzando così l’identità di un’Italia “abituata a produrre, fin dal Medio Evo, all’ombra dei campanili, cose belle e che piacciono al mondo” (la sintesi esemplare di Carlo Maria Cipolla andrebbe ricordata, appunto, in tutte le scuole) e stimolando studenti e famiglie a essere protagonisti, fin dai tempi della scuola, della costruzione d’un futuro di migliore sviluppo.

Impresa è cultura”, si è detto più volte nelle pagine di questo blog. Per i valori del lavoro, del premio al merito, della responsabilità, della accentuata tendenza alla ricerca e all’innovazione (nell’accezione più ampia, non solo hi tech). Adesso, “impresa è formazione “. Nel senso migliore del termine.

Le scuole, infatti, firmeranno con le imprese delle convenzioni, per la definizione di spazi adeguati al training on the job, per la messa a disposizione di attrezzature tecnologiche, per la garanzia d’avere tutor che rendano il percorso formativo utile. E i risultati di tanto impegno a lavorare/studiare avranno una ricaduta anche nella valutazione per gli esami di maturità.

Siamo dunque di fronte a una sfida complessa. Per le imprese e per la cultura d’impresa, di fronte alle domande poste da nuove generazioni innovative ed esigenti. E per le scuole, impegnate a superare false dicotomie tra “le due culture” (umanistica e scientifica) e a rivalutare lavoro, manifattura, manualità (evitando la cattiva interpretazione del  “vile meccanico” di memoria manzoniana) ma anche a darsi da fare per coniugare in modo originale capacità critiche dei ragazzi e competenze tecniche (ci sono delle ottime esperienze, già vissute in alcuni dei migliori istituti professionali, che possono fare da guida).

Teoria e pratica. In direzione di una “cultura politecnica” che, fin dai tempi di scuola, contribuisca a fare crescere meglio l’Italia.

La scuola e l’impresa fanno un passo importante nella costruzione d’un cammino comune. E il lavoro entra a far parte stabile della formazione, come già avviene in parecchi altri grandi paesi Ue. “Studenti in azienda, si parte in ottobre”, titola Il Sole 24Ore (giovedì 17 settembre), dando notizia della circolare che il Miur (il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca) ha preparato per tutte le scuole superiori italiane, per l’applicazione della riforma Renzi-Giannini sulla “nuova” alternanza scuola-lavoro, dando così una forte spinta a norme già in vigore dal 2005 ma recepite finora da istituti che hanno coinvolto appena il 10% degli studenti. “Si riconosce al lavoro una funzione educativa, è una vera rivoluzione”, si entusiasma Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione.

Le ore di formazione on the job salgono, per l’ultimo triennio delle superiori, dalle attuali 90 a 400 per gli istituti tecnici e professionali e a 400 nei licei. E il lavoro entra a far parte dell’offerta didattica, dei piani formativi delle scuole cioè, e dei curricula degli studenti. Ci si avvicina al mondo dell’impresa. Si costruiscono percorsi verso un miglior orientamento professionale dei giovani già durante gli anni di studio con effetti positivi sia verso il mercato del lavoro subito dopo il diploma sia nella scelta dei percorsi universitari). E’ un progresso innovativo di grande portata, in un’Italia che vive sì esperienze di impresa diffusa sul territorio (siamo rimasti, nonostante la grande Crisi, il secondo paese manifatturiero dell’Europa e uno dei primi cinque al mondo a vantare un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari) ma in cui è scarsa la consapevolezza del ruolo determinante dell’impresa come luogo in cui non solo si costruisce ricchezza e si crea lavoro, ma anche si fanno crescere valori e responsabilità e si intessono relazioni che fanno da collante sociale.

L’obiettivo: studiare e lavorare, entrare in aule e laboratori, intrecciare discipline umanistiche e scientifiche e saperi produttivi, rafforzando così l’identità di un’Italia “abituata a produrre, fin dal Medio Evo, all’ombra dei campanili, cose belle e che piacciono al mondo” (la sintesi esemplare di Carlo Maria Cipolla andrebbe ricordata, appunto, in tutte le scuole) e stimolando studenti e famiglie a essere protagonisti, fin dai tempi della scuola, della costruzione d’un futuro di migliore sviluppo.

Impresa è cultura”, si è detto più volte nelle pagine di questo blog. Per i valori del lavoro, del premio al merito, della responsabilità, della accentuata tendenza alla ricerca e all’innovazione (nell’accezione più ampia, non solo hi tech). Adesso, “impresa è formazione “. Nel senso migliore del termine.

Le scuole, infatti, firmeranno con le imprese delle convenzioni, per la definizione di spazi adeguati al training on the job, per la messa a disposizione di attrezzature tecnologiche, per la garanzia d’avere tutor che rendano il percorso formativo utile. E i risultati di tanto impegno a lavorare/studiare avranno una ricaduta anche nella valutazione per gli esami di maturità.

Siamo dunque di fronte a una sfida complessa. Per le imprese e per la cultura d’impresa, di fronte alle domande poste da nuove generazioni innovative ed esigenti. E per le scuole, impegnate a superare false dicotomie tra “le due culture” (umanistica e scientifica) e a rivalutare lavoro, manifattura, manualità (evitando la cattiva interpretazione del  “vile meccanico” di memoria manzoniana) ma anche a darsi da fare per coniugare in modo originale capacità critiche dei ragazzi e competenze tecniche (ci sono delle ottime esperienze, già vissute in alcuni dei migliori istituti professionali, che possono fare da guida).

Teoria e pratica. In direzione di una “cultura politecnica” che, fin dai tempi di scuola, contribuisca a fare crescere meglio l’Italia.

Quando l’impresa innova, cresce

L’impresa vive e prospera se riesce a trovare sempre nuove modalità di produzione, rinnovati assetti organizzativi, ulteriori e più proficui mercati. L’impresa che si ferma ad ammirarsi, è destinata ad un destino infausto, tutto il contrario di quella che innova e s’interroga su come fare meglio. Ed è proprio sull’innovazione che – non solo oggi-, si misura buona parte della capacità di sviluppo di un’attività imprenditoriale. Anche se dire innovazione significa semplificare forse un po’ troppo la realtà.

Per evitare semplificazioni eccessive, è allora utile leggere il lavoro di Andrea Sechi “Innovazione strategica ed innovazione tecnologica. Definizione delle diverse tipologie d’innovazione sinergie tra di esse”, tesi presentata presso la Scuola di Scienze, Corso di Laurea in Scienze di Internet, dell’Università degli Studi di Bologna.

Il ragionamento condotto dalla ricerca è proprio quello che si sforza di mettere ordine e di distinguere fra innovazione tecnologica e innovazione strategica di un’impresa, oltre che vedere ii legami reciproci che uniscono le  due tipologie di attività. Il testo quindi procede con uno schema molto chiaro: prima l’analisi dei due tipi di innovazione, poi l’approfondimento di un caso esemplare di impresa che innova e cresce, quello della Apple.

In fatto di innovazione, quindi, dopo un percorso nel quale il lettore viene portato per mano a capire i diversi passaggi e tipi di innovazione, Sechi arriva a dire che “un’innovazione strategica avviene, quando un’impresa identifica un gap nel posizionamento strategico e decide di coprirlo modificandolo con una superiore offerta di valore al cliente o con un miglioramento dell’efficienza, il che si può tradurre in una riduzione dei prezzi”; mentre l’innovazione tecnologica è indicata come “l’attività deliberata delle imprese e delle istituzioni tesa a introdurre nuovi prodotti e nuovi servizi, nonché nuovi metodi per produrli, distribuirli e usarli”. È da queste basi che l’autore parte per raccontare la storia di Apple e della sua particolare modalità di fare innovazione, con un’attenzione specifica per alcuni prodotti dell’azienda USA.

La ricerca di Sechi è utile per organizzare il pensiero attorno all’innovazione nelle aziende; e si compie in breve tempo.

Innovazione strategica ed innovazione tecnologica. Definizione delle diverse tipologie d’innovazione sinergie tra di esse 

Andrea Sechi

Tesi Scuola di Scienze, Corso di Laurea in Scienze di Internet, Università degli Studi di Bologna, 2015

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L’impresa vive e prospera se riesce a trovare sempre nuove modalità di produzione, rinnovati assetti organizzativi, ulteriori e più proficui mercati. L’impresa che si ferma ad ammirarsi, è destinata ad un destino infausto, tutto il contrario di quella che innova e s’interroga su come fare meglio. Ed è proprio sull’innovazione che – non solo oggi-, si misura buona parte della capacità di sviluppo di un’attività imprenditoriale. Anche se dire innovazione significa semplificare forse un po’ troppo la realtà.

Per evitare semplificazioni eccessive, è allora utile leggere il lavoro di Andrea Sechi “Innovazione strategica ed innovazione tecnologica. Definizione delle diverse tipologie d’innovazione sinergie tra di esse”, tesi presentata presso la Scuola di Scienze, Corso di Laurea in Scienze di Internet, dell’Università degli Studi di Bologna.

Il ragionamento condotto dalla ricerca è proprio quello che si sforza di mettere ordine e di distinguere fra innovazione tecnologica e innovazione strategica di un’impresa, oltre che vedere ii legami reciproci che uniscono le  due tipologie di attività. Il testo quindi procede con uno schema molto chiaro: prima l’analisi dei due tipi di innovazione, poi l’approfondimento di un caso esemplare di impresa che innova e cresce, quello della Apple.

In fatto di innovazione, quindi, dopo un percorso nel quale il lettore viene portato per mano a capire i diversi passaggi e tipi di innovazione, Sechi arriva a dire che “un’innovazione strategica avviene, quando un’impresa identifica un gap nel posizionamento strategico e decide di coprirlo modificandolo con una superiore offerta di valore al cliente o con un miglioramento dell’efficienza, il che si può tradurre in una riduzione dei prezzi”; mentre l’innovazione tecnologica è indicata come “l’attività deliberata delle imprese e delle istituzioni tesa a introdurre nuovi prodotti e nuovi servizi, nonché nuovi metodi per produrli, distribuirli e usarli”. È da queste basi che l’autore parte per raccontare la storia di Apple e della sua particolare modalità di fare innovazione, con un’attenzione specifica per alcuni prodotti dell’azienda USA.

La ricerca di Sechi è utile per organizzare il pensiero attorno all’innovazione nelle aziende; e si compie in breve tempo.

Innovazione strategica ed innovazione tecnologica. Definizione delle diverse tipologie d’innovazione sinergie tra di esse 

Andrea Sechi

Tesi Scuola di Scienze, Corso di Laurea in Scienze di Internet, Università degli Studi di Bologna, 2015

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L’avventura dell’impresa

Progettare,  costruire, condurre un’impresa è un’avventura del pensiero oltre che economica. È racconto di sogni e di uomini che riescono a dare concretezza all’immaginazione imprenditoriale. Per questo, accanto ai consueti schemi di analisi economica e gestionale, è importante comprendere l’azienda che si fa impresa anche con altri strumenti del sapere. Soprattutto quando, poi, questa si trova ad aver a che fare con l’innovazione oppure con i cambiamenti del sistema sociale entro il quale agisce, senza parlare dei mutamenti che intercorrono in chi, uomo e donna, la rende viva e dinamica.

Servono allora strumenti come le “Lezioni inattese di management. Persone, mercati, imprese, incanti e sorprese”, scritto da Tiziano Vescovi che insegna Economia e gestione delle Imprese alla Cà Foscari di Venezia ma che soprattutto è riuscito a condensare in relativamente poche pagine un’analisi è una interpretazione del sistema economico e dell’impresa originale e tutto sommato unico.

Vescovi spiega così la nascita del libro: “Questo libro di racconti nasce da tre ragioni: un’occasione, una scoperta, una visione. L’occasione è quella di dover preparare alcune lezioni finali per un corso di alta formazione in gestione della libreria, che la mia università eroga da alcuni anni in collaborazione con l’Associazione Librai Italiani.(…)

La scoperta, che questo sforzo ha richiesto, è stata quella di trovare storie belle, affascinanti e sorprendenti che affrontavano aspetti fondamentali di management parlando d’altro, in un viaggio nella serendipità più straordinaria.. (…). La visione che ne è derivata è stata quella di cambiare il modo di parlare di management ai miei allievi e ai manager che il mio lavoro mi dà la fortuna di incontrare, aggiungendo ai necessari tecnicismi, in numero minore, l’apertura dello sguardo sul mondo descritto secondo molte voci diverse, cercando di rendere la discussione sul management un po’ più attraente e memorabile, cioè importante a ricordarsi”.

È con queste premesse che Vescovi intraprendere un viaggio attraverso la crisi economica attuale, lo spirito imprenditoriale, l’essere impresa, il rischio del produrre, l’assurdo delle speculazioni, i meccanismi della finanza, i concetti che possono fare da guida per i prossimi anni. Un viaggio che spesso assume il ritmo di una corsa a perdifiato e che tocca per davvero tutti gli strumenti conoscitivi a disposizione, coinvolgendo – solo per fare qualche esempio -, Calvino, Salgari, Collodi, Confucio, De Amicis, Parise, Smith, Weber oltre che i concetti fondamentali dell’economia.

Quanto ne nasce non è sempre di facile lettura ma è certamente qualcosa da leggere per capire meglio dove sono le imprese di oggi e – forse -, dove possono andare. Bellissima è la citazione d’un annuncio fatto pubblicare il 1 gennaio 1914 da uno dei più famosi esploratori della storia, Ernest Henry Shackleton, e che calzerebbe a pennello per nuovi manager e imprenditori: “Cercasi uomini: per una spedizione azzardata. Basso salario, freddo pungente, lunghi mesi nella più completa oscurità, pericolo costante, nessuna garanzia di ritorno. Onori e riconoscimenti in caso di successo”.

Lezioni inattese di management. Persone, mercati, imprese, incanti e sorprese 

Tiziano Vescovi

Giappichelli, 2015.

Progettare,  costruire, condurre un’impresa è un’avventura del pensiero oltre che economica. È racconto di sogni e di uomini che riescono a dare concretezza all’immaginazione imprenditoriale. Per questo, accanto ai consueti schemi di analisi economica e gestionale, è importante comprendere l’azienda che si fa impresa anche con altri strumenti del sapere. Soprattutto quando, poi, questa si trova ad aver a che fare con l’innovazione oppure con i cambiamenti del sistema sociale entro il quale agisce, senza parlare dei mutamenti che intercorrono in chi, uomo e donna, la rende viva e dinamica.

Servono allora strumenti come le “Lezioni inattese di management. Persone, mercati, imprese, incanti e sorprese”, scritto da Tiziano Vescovi che insegna Economia e gestione delle Imprese alla Cà Foscari di Venezia ma che soprattutto è riuscito a condensare in relativamente poche pagine un’analisi è una interpretazione del sistema economico e dell’impresa originale e tutto sommato unico.

Vescovi spiega così la nascita del libro: “Questo libro di racconti nasce da tre ragioni: un’occasione, una scoperta, una visione. L’occasione è quella di dover preparare alcune lezioni finali per un corso di alta formazione in gestione della libreria, che la mia università eroga da alcuni anni in collaborazione con l’Associazione Librai Italiani.(…)

La scoperta, che questo sforzo ha richiesto, è stata quella di trovare storie belle, affascinanti e sorprendenti che affrontavano aspetti fondamentali di management parlando d’altro, in un viaggio nella serendipità più straordinaria.. (…). La visione che ne è derivata è stata quella di cambiare il modo di parlare di management ai miei allievi e ai manager che il mio lavoro mi dà la fortuna di incontrare, aggiungendo ai necessari tecnicismi, in numero minore, l’apertura dello sguardo sul mondo descritto secondo molte voci diverse, cercando di rendere la discussione sul management un po’ più attraente e memorabile, cioè importante a ricordarsi”.

È con queste premesse che Vescovi intraprendere un viaggio attraverso la crisi economica attuale, lo spirito imprenditoriale, l’essere impresa, il rischio del produrre, l’assurdo delle speculazioni, i meccanismi della finanza, i concetti che possono fare da guida per i prossimi anni. Un viaggio che spesso assume il ritmo di una corsa a perdifiato e che tocca per davvero tutti gli strumenti conoscitivi a disposizione, coinvolgendo – solo per fare qualche esempio -, Calvino, Salgari, Collodi, Confucio, De Amicis, Parise, Smith, Weber oltre che i concetti fondamentali dell’economia.

Quanto ne nasce non è sempre di facile lettura ma è certamente qualcosa da leggere per capire meglio dove sono le imprese di oggi e – forse -, dove possono andare. Bellissima è la citazione d’un annuncio fatto pubblicare il 1 gennaio 1914 da uno dei più famosi esploratori della storia, Ernest Henry Shackleton, e che calzerebbe a pennello per nuovi manager e imprenditori: “Cercasi uomini: per una spedizione azzardata. Basso salario, freddo pungente, lunghi mesi nella più completa oscurità, pericolo costante, nessuna garanzia di ritorno. Onori e riconoscimenti in caso di successo”.

Lezioni inattese di management. Persone, mercati, imprese, incanti e sorprese 

Tiziano Vescovi

Giappichelli, 2015.

Una musa tra le ruote: la via italiana della pubblicità

Industry 4.0, la fabbrica ha una nuova vita: digitale

La fabbrica, antica struttura della civiltà produttiva del Novecento, è tornata d’attualità. E ha un luminoso futuro: la “fabbrica digitale” o, secondo la letteratura industriale anglosassone, i processi di digital manifacturing: produrre oggetti con gli strumenti Internet, robot, stampanti 3D, sensori digitali. Bit e manifattura, insomma. Una dimensione che è già attualità. La sfida in corso si chiama Industry 4.0 (ne avevamo già scritto in un blog su queste pagine, nel giugno 2014). E riguarda le strategie, apprezzate dalla Ue, elaborate dalla società di consulenza Roland Berger, per la crescita dell’industria europea, in modo da raggiungere l’obiettivo indicato dalla Commissione di Bruxelles, di pesare per il 20% del Pil, entro il 2020 (la Germania è già oltre quel 20%, l’Italia supera il 16, in linea con la media Ue, anche le le regioni più industrializzate del Nord, nonostante la crisi e le debolezze del sistema Italia, già sono a un passo dal livello tedesco).

Industry 4.0 è un innovativo e sofisticato paradigma di produzione industriale, sviluppato in Germania (se ne è parlato la prima volta nel 2011 alla Fiera di Hannover, leader delle mostre sulla tecnologia industriale), diffuso negli Usa e attentamente considerato a Bruxelles, negli uffici Ue, basato sulla totale digitalizzazione, secondo nove nuove tecnologie: big data, cloud computing, robotica, realtà aumentata, superconnessione degli impianti, stampanti 3D, etc. Si supera la distinzione tra produzione e servizi digitali. La nuova industria competitiva o sarà digital o non sarà. E tra gli economisti ma anche sui grandi media (lo fa Riccardo Luna, su “la Repubblica” del 9 settembre) si parla oramai apertamente di “quarta rivoluzione industriale” (dopo la prima, acqua e vapore lungo la catena di produzione, la seconda e cioè l’avvento dell’elettricità e la terza, l’avvento di Internet): “Il confine tra il mondo fisico e il digitale sparisce, è l’era in cui i bit governano gli atomi. E la fabbrica diventa intelligente”.

L’Italia si sta già muovendo in questa direzione, sfruttando al meglio alcune sue caratteristiche di buona cultura d’impresa: l’abitudine all’innovazione di processo, la qualità, l’inclinazione alle produzioni “su misura” per clientele internazionali molto esigenti (è la forza della flessibilità diffusa in distretti, filiere produttive e supply chain, capaci di reggere la competizione in chiave di adattabilità). Il governo Renzi dichiara d’averne ben compreso le opportunità, rilanciando gli investimenti, a cominciare dalla “banda larga” (non si può fare alcun digital manifacturing competitivo senza infrastrutture Ict adeguate, veloci e sicure). Ma serve impegnarsi soprattutto muoversi sul piano europeo. Secondo Roland Berger saranno necessari 60 miliardi di investimenti aggiuntivi in Europa ogni anno, fino al 2030 (creando 500 miliardi di valore aggiunto manifatturiero e 6 milioni di posti di lavoro in tutta Europa). E la chiave è una strategia che metta insieme risorse pubbliche e capitali privati. E investe tutto, dall’economia di territorio ai sistemi di produzione, dai prodotti ai rapporti sociali (con tutte le relazioni con una sharing economy che raccoglie consensi e modifica relazioni, valori, abitudini tradizionali, stili di vita e di consumo).

Servono, dunque, nuove politiche industriali. Un rafforzamento della ricerca (ben oltre l’1,2% del Pil in Italia, superando la soglia del 2%). La diffusione dell’innovazione. E una vera e propria svolta culturale dell’intero Paese che metta al centro l’impresa e favorisca l’intraprendenza, anche tra le nuove generazioni (un rilancio della diffusione delle start up, guardando sia al capitale di rischio sia alle infrastrutture d’innovazione e comunicazione).

Il contesto è quello di una “industria in metamorfosi”, per usare l’affascinante definizione d’un sapiente storico dell’economia come Giuseppe Berta. Il cardine della nostra competitività resta quello delle “cose belle che piacciono al mondo”. Ma va aggiornato, potenziato, rivissuto in chiave medium tech (l’industria tradizionale che innova, nel senso ampio di sistemi di produzione e di prodotti, materiali, ricerca, relazioni industriali, linguaggi della comujnicazioene del marketing, etc.) ma anche hi tech (nuovi prodotti e servizi). Nella cornice, appunto del digital manifacturing. E’ una grande sfida, imprenditoriale e sociale, culturale e politica. Difficile, data la crescente severità selettiva dei mercati globali. Ma indispensabile: altrimenti, resta solo il declino.

La fabbrica, antica struttura della civiltà produttiva del Novecento, è tornata d’attualità. E ha un luminoso futuro: la “fabbrica digitale” o, secondo la letteratura industriale anglosassone, i processi di digital manifacturing: produrre oggetti con gli strumenti Internet, robot, stampanti 3D, sensori digitali. Bit e manifattura, insomma. Una dimensione che è già attualità. La sfida in corso si chiama Industry 4.0 (ne avevamo già scritto in un blog su queste pagine, nel giugno 2014). E riguarda le strategie, apprezzate dalla Ue, elaborate dalla società di consulenza Roland Berger, per la crescita dell’industria europea, in modo da raggiungere l’obiettivo indicato dalla Commissione di Bruxelles, di pesare per il 20% del Pil, entro il 2020 (la Germania è già oltre quel 20%, l’Italia supera il 16, in linea con la media Ue, anche le le regioni più industrializzate del Nord, nonostante la crisi e le debolezze del sistema Italia, già sono a un passo dal livello tedesco).

Industry 4.0 è un innovativo e sofisticato paradigma di produzione industriale, sviluppato in Germania (se ne è parlato la prima volta nel 2011 alla Fiera di Hannover, leader delle mostre sulla tecnologia industriale), diffuso negli Usa e attentamente considerato a Bruxelles, negli uffici Ue, basato sulla totale digitalizzazione, secondo nove nuove tecnologie: big data, cloud computing, robotica, realtà aumentata, superconnessione degli impianti, stampanti 3D, etc. Si supera la distinzione tra produzione e servizi digitali. La nuova industria competitiva o sarà digital o non sarà. E tra gli economisti ma anche sui grandi media (lo fa Riccardo Luna, su “la Repubblica” del 9 settembre) si parla oramai apertamente di “quarta rivoluzione industriale” (dopo la prima, acqua e vapore lungo la catena di produzione, la seconda e cioè l’avvento dell’elettricità e la terza, l’avvento di Internet): “Il confine tra il mondo fisico e il digitale sparisce, è l’era in cui i bit governano gli atomi. E la fabbrica diventa intelligente”.

L’Italia si sta già muovendo in questa direzione, sfruttando al meglio alcune sue caratteristiche di buona cultura d’impresa: l’abitudine all’innovazione di processo, la qualità, l’inclinazione alle produzioni “su misura” per clientele internazionali molto esigenti (è la forza della flessibilità diffusa in distretti, filiere produttive e supply chain, capaci di reggere la competizione in chiave di adattabilità). Il governo Renzi dichiara d’averne ben compreso le opportunità, rilanciando gli investimenti, a cominciare dalla “banda larga” (non si può fare alcun digital manifacturing competitivo senza infrastrutture Ict adeguate, veloci e sicure). Ma serve impegnarsi soprattutto muoversi sul piano europeo. Secondo Roland Berger saranno necessari 60 miliardi di investimenti aggiuntivi in Europa ogni anno, fino al 2030 (creando 500 miliardi di valore aggiunto manifatturiero e 6 milioni di posti di lavoro in tutta Europa). E la chiave è una strategia che metta insieme risorse pubbliche e capitali privati. E investe tutto, dall’economia di territorio ai sistemi di produzione, dai prodotti ai rapporti sociali (con tutte le relazioni con una sharing economy che raccoglie consensi e modifica relazioni, valori, abitudini tradizionali, stili di vita e di consumo).

Servono, dunque, nuove politiche industriali. Un rafforzamento della ricerca (ben oltre l’1,2% del Pil in Italia, superando la soglia del 2%). La diffusione dell’innovazione. E una vera e propria svolta culturale dell’intero Paese che metta al centro l’impresa e favorisca l’intraprendenza, anche tra le nuove generazioni (un rilancio della diffusione delle start up, guardando sia al capitale di rischio sia alle infrastrutture d’innovazione e comunicazione).

Il contesto è quello di una “industria in metamorfosi”, per usare l’affascinante definizione d’un sapiente storico dell’economia come Giuseppe Berta. Il cardine della nostra competitività resta quello delle “cose belle che piacciono al mondo”. Ma va aggiornato, potenziato, rivissuto in chiave medium tech (l’industria tradizionale che innova, nel senso ampio di sistemi di produzione e di prodotti, materiali, ricerca, relazioni industriali, linguaggi della comujnicazioene del marketing, etc.) ma anche hi tech (nuovi prodotti e servizi). Nella cornice, appunto del digital manifacturing. E’ una grande sfida, imprenditoriale e sociale, culturale e politica. Difficile, data la crescente severità selettiva dei mercati globali. Ma indispensabile: altrimenti, resta solo il declino.

L’etica d’impresa non è casuale

“Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente con altri impieghi”. È quell’etica d’impresa che così bene  Luigi Einaudi raccontò il 15 settembre del 1960 in una dedica alla Fratelli Guerrino a Dogliani. Produrre, dunque, ma anche avere coscienza del proprio ruolo nella società, della responsabilità dall’essere imprenditori e manager. Soprattutto oggi.

Accade però che le imprese non siano sempre etiche e attente alle conseguenze vaste del loro comportamento. È importante, allora, ancora una volta comprendere meglio per agire di conseguenza.

“Current Trends Of Unethical Behavior Within Organizations”, ricerca apparsa qualche settimana fa sull’International Journal of management & Information Systems e scritta da Octavia A. Askew, Jeffrey M.  Beisler e Jetonga Keel (della University of Phoenix, USA), è una buona guida per mettere ordine nelle cause che possono determinare la nascita di comportamenti non etici in un’impresa.

La ricerca, quindi, raccoglie il meglio della letteratura sul tema e  ragiona sulla presenza e sull’origine dei comportamenti non etici nelle imprese. Panorama vasto, quest’ultimo, visto che situazioni del genere possono crearsi all’interno di alcune parti dell’azienda, oppure pervadere tutta l’attività. Tema poi di forte attualità proprio oggi. I tre ricercatori arrivano quindi ad individuare tre “fonti” di comportamenti non etici. Si tratta di antecedenti comportamenti non etici che si protraggono e non vengono bloccati, del risultato di un contesto organizzativo non attento all’etica oppure generatore esso stesso di distorsioni e, infine, della presenza di uno “sviluppo morale cognitivo” nell’ambito dell’impresa basato su principi che non comprendono l’impegno e l’etica come ispiratori dell’azione imprenditoriale e manageriale. La “non eticità” d’impresa, quindi, si può creare anche per disattenzione, trascuratezza di gestione, svogliatezza imprenditoriale e dei manager; pare spesso essere il risultato dell’abbandono dell’attenzione che lascia il posto all’abitudine della mediocrità.

L’indicazione che arriva dalla ricerca è chiara: l’impresa etica è l’ideale, ma la sua creazione non è automatica e, soprattutto, il suo mantenimento non è scontato.

Current Trends Of Unethical Behavior Within Organizations  

Octavia A. Askew, Jeffrey M. Beisler, Jetonga Keel (University of Phoenix, USA)

International Journal of management & Information Systems – Third Quarter 2015

Volume 19, Number 3

“Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente con altri impieghi”. È quell’etica d’impresa che così bene  Luigi Einaudi raccontò il 15 settembre del 1960 in una dedica alla Fratelli Guerrino a Dogliani. Produrre, dunque, ma anche avere coscienza del proprio ruolo nella società, della responsabilità dall’essere imprenditori e manager. Soprattutto oggi.

Accade però che le imprese non siano sempre etiche e attente alle conseguenze vaste del loro comportamento. È importante, allora, ancora una volta comprendere meglio per agire di conseguenza.

“Current Trends Of Unethical Behavior Within Organizations”, ricerca apparsa qualche settimana fa sull’International Journal of management & Information Systems e scritta da Octavia A. Askew, Jeffrey M.  Beisler e Jetonga Keel (della University of Phoenix, USA), è una buona guida per mettere ordine nelle cause che possono determinare la nascita di comportamenti non etici in un’impresa.

La ricerca, quindi, raccoglie il meglio della letteratura sul tema e  ragiona sulla presenza e sull’origine dei comportamenti non etici nelle imprese. Panorama vasto, quest’ultimo, visto che situazioni del genere possono crearsi all’interno di alcune parti dell’azienda, oppure pervadere tutta l’attività. Tema poi di forte attualità proprio oggi. I tre ricercatori arrivano quindi ad individuare tre “fonti” di comportamenti non etici. Si tratta di antecedenti comportamenti non etici che si protraggono e non vengono bloccati, del risultato di un contesto organizzativo non attento all’etica oppure generatore esso stesso di distorsioni e, infine, della presenza di uno “sviluppo morale cognitivo” nell’ambito dell’impresa basato su principi che non comprendono l’impegno e l’etica come ispiratori dell’azione imprenditoriale e manageriale. La “non eticità” d’impresa, quindi, si può creare anche per disattenzione, trascuratezza di gestione, svogliatezza imprenditoriale e dei manager; pare spesso essere il risultato dell’abbandono dell’attenzione che lascia il posto all’abitudine della mediocrità.

L’indicazione che arriva dalla ricerca è chiara: l’impresa etica è l’ideale, ma la sua creazione non è automatica e, soprattutto, il suo mantenimento non è scontato.

Current Trends Of Unethical Behavior Within Organizations  

Octavia A. Askew, Jeffrey M. Beisler, Jetonga Keel (University of Phoenix, USA)

International Journal of management & Information Systems – Third Quarter 2015

Volume 19, Number 3

Innovare e partire oppure partire e innovare?

L’impresa che innova spesso finisce per internazionalizzarsi. Ma può anche anche accade il contrario: chi esplora i mercati oltre confine può essere costretto ad innovare la propria produzione per tenere testa alla concorrenza. In realtà, d’altra parte, il percorso che un’impresa compie verso l’innovazione è quasi sempre lo stesso che porta all’estero. Questione di mentalità propensa al nuovo e alla ricerca dell’altro, spirito d’avventura, iniziativa imprenditoriale che di si voglia, il legame fra innovazione e internazionalizzazione è forte. Conoscere cosa è già stato fatto è così si può fare per sviluppare questo legame e allora importante.

Serve quindi leggere “Le relazioni tra innovazione e internazionalizzazione percorsi di ricerca e casi aziendali” a cura di Patrizia De Luca professore associato di Economia e gestione delle imprese All’Università di Trieste. Il volume  raccoglie una serie di studi che ragionano proprio sulle relazioni fra internazionalizzazione e innovazione e che fanno parte di un progetto di ricerca finanziato dall’Università di Trieste, Progetto FRA 2012, dal titolo “Innovazione, performance e internazionalizzazione dell’impresa. Quali sinergie nell’attuale contesto competitivo e di mercato?”.

L’utilità di questo libro sta nella sua struttura. Dopo un breve inquadramento teorico del tema, infatti, sono presi in considerazione alcuni casi aziendali esempi di innovazione che ha portato all’internazionalizzazione come quelli di Luxottica, Stark, Illycaffè e Demus, Calligaris, Moroso, Snaidero e Valcucine, oltre che di alcune realtà vitivinicole. Di ogni caso viene raccontata la storia è analizzate le cause d’innovazione oltre che di spinta verso l’estero che hanno poi determinato lo sviluppo dell’organizzazione.

Scrive Patrizia De Luca nella presentazione del lavoro: “Negli ultimi anni sempre più studiosi hanno evidenziato la necessità di studiare innovazione e internazionalizzazione in modo congiunto perché se da un lato il processo di internazionalizzazione sembra favorito dall’innovazione, dall’altro il processo di innovazione sembra stimolato dall’entrata in nuovi mercati. La relazione tra i due fenomeni, analizzata soprattutto per evidenziare l’effetto combinato su competitività e performance aziendale, è tuttavia una questione ancora aperta nella letteratura economico-manageriale. È difficile individuare una precisa relazione di causa-effetto e comprendere come essa possa incidere sulla performance aziendale”. Il libro, tuttavia, è una bella lettura per tutti: racconta e interpreta ma non pretende di fornire risposte assolute.

Le relazioni tra innovazione e internazionalizzazione. Percorsi di ricerca e casi aziendali 

Patrizia De Luca (a cura di)

EUT Edizioni Università di Trieste, 2015

L’impresa che innova spesso finisce per internazionalizzarsi. Ma può anche anche accade il contrario: chi esplora i mercati oltre confine può essere costretto ad innovare la propria produzione per tenere testa alla concorrenza. In realtà, d’altra parte, il percorso che un’impresa compie verso l’innovazione è quasi sempre lo stesso che porta all’estero. Questione di mentalità propensa al nuovo e alla ricerca dell’altro, spirito d’avventura, iniziativa imprenditoriale che di si voglia, il legame fra innovazione e internazionalizzazione è forte. Conoscere cosa è già stato fatto è così si può fare per sviluppare questo legame e allora importante.

Serve quindi leggere “Le relazioni tra innovazione e internazionalizzazione percorsi di ricerca e casi aziendali” a cura di Patrizia De Luca professore associato di Economia e gestione delle imprese All’Università di Trieste. Il volume  raccoglie una serie di studi che ragionano proprio sulle relazioni fra internazionalizzazione e innovazione e che fanno parte di un progetto di ricerca finanziato dall’Università di Trieste, Progetto FRA 2012, dal titolo “Innovazione, performance e internazionalizzazione dell’impresa. Quali sinergie nell’attuale contesto competitivo e di mercato?”.

L’utilità di questo libro sta nella sua struttura. Dopo un breve inquadramento teorico del tema, infatti, sono presi in considerazione alcuni casi aziendali esempi di innovazione che ha portato all’internazionalizzazione come quelli di Luxottica, Stark, Illycaffè e Demus, Calligaris, Moroso, Snaidero e Valcucine, oltre che di alcune realtà vitivinicole. Di ogni caso viene raccontata la storia è analizzate le cause d’innovazione oltre che di spinta verso l’estero che hanno poi determinato lo sviluppo dell’organizzazione.

Scrive Patrizia De Luca nella presentazione del lavoro: “Negli ultimi anni sempre più studiosi hanno evidenziato la necessità di studiare innovazione e internazionalizzazione in modo congiunto perché se da un lato il processo di internazionalizzazione sembra favorito dall’innovazione, dall’altro il processo di innovazione sembra stimolato dall’entrata in nuovi mercati. La relazione tra i due fenomeni, analizzata soprattutto per evidenziare l’effetto combinato su competitività e performance aziendale, è tuttavia una questione ancora aperta nella letteratura economico-manageriale. È difficile individuare una precisa relazione di causa-effetto e comprendere come essa possa incidere sulla performance aziendale”. Il libro, tuttavia, è una bella lettura per tutti: racconta e interpreta ma non pretende di fornire risposte assolute.

Le relazioni tra innovazione e internazionalizzazione. Percorsi di ricerca e casi aziendali 

Patrizia De Luca (a cura di)

EUT Edizioni Università di Trieste, 2015

Imprese etiche e responsabili, ma non sempre

L’impresa attenta al mondo che la circonda, quella socialmente responsabile, assume anche il significato di impresa etica. E di imprese “buone” ve ne sono ormai molte. Ma il binomio responsabilità sociale-comportamento etico d’impresa non è sempre assicurato. Anzi, alcuni osservatori attenti della realtà ne sono convinti: spesso si confonde l’etica d’impresa con una accorta azione di responsabilità verso la società, che si trasforma in strumento commerciale e di promozione.

Certo, l’argomento è di quelli delicati. Il confine fra etica vera ed etica finta è labile. A fare ordine nella materia ci hanno pensato Michael O’ Mara-Shimek (del College of Arts and Sciences, Boston University, Institute of Ethics  in Communications and in Organizations),  Manuel Guillén (Management Departmenti JJ Renau, Universitat de València),  e Alexis J. Bañón Gomis (del Department of Business Organization, Universitat Politècnica València), che in un articolo apparso ad agosto danno forma ad uno schema utile per comprendere bene la realtà. 

La ricerca, dunque, parte da questa considerazione: oggi, sia nella teoria che nella pratica, i concetti di responsabilità sociale delle imprese (RSI), di Corporate Social Responsibility (CSR)  ed etica d’impresa non sono necessariamente correlati. La tesi degli autori è che le organizzazioni possono dimostrare alti livelli di proattività sociale nelle loro politiche in materia di RSI anche senza avere livelli lodevoli di qualità etica o di virtuosità. 

Insomma, spiegano, occorre  saper distinguere, all’interno dei singoli casi d’impresa. Perché un’azienda dal comportamento apparentemente virtuoso ed etico all’esterno, può rivelarsi mal gestita dal punto di vista dell’organizzazione e dell’attenzione al personale. Oppure viceversa, imprese con una cattiva prassi all’esterno, possono essere estremamente attente verso il proprio personale. Casi estremi, certo, ma la formula dell’equilibrio fra etica ed RSI può essere declinata in modi diversi e complessi.

Per fornire strumenti utili a capire meglio, quindi, i tre ricercatori arrivano a stabilire delle categorie di interpretazione della realtà. Viene quindi costruito il concetto di Organizzazione Etica  di Qualità (OEQ), per valutare l’eccellenza morale delle azioni e delle politiche di responsabilità sociale intraprese. Accanto a questo, vengono anche costruiti altri due concetti che servono per individuare le due situazioni estreme. Da un lato la mancanza totale di  virtuosità etica  che  caratterizza una CSR “immorale” (ICSR), dall’altro situazioni di  CSR con alti profili morali (MCSR).  

Quanto scritto da O’ Mara-Shimek,  Guillén e Bañón Gomis non è l’ultima parola in tema di etica e responsabilità sociale d’impresa, ma è certamente una lettura importante da fare.

Approaching virtuousness through organizational ethical quality: toward a moral corporate social responsibility 

Michael O’ Mara-Shimek,  Manuel Guillén, Alexis J. Bañón Gomis

Business Ethics: A European Review, Volume 24, Issue Supplement S2, pages S144–S155, August 2015 

L’impresa attenta al mondo che la circonda, quella socialmente responsabile, assume anche il significato di impresa etica. E di imprese “buone” ve ne sono ormai molte. Ma il binomio responsabilità sociale-comportamento etico d’impresa non è sempre assicurato. Anzi, alcuni osservatori attenti della realtà ne sono convinti: spesso si confonde l’etica d’impresa con una accorta azione di responsabilità verso la società, che si trasforma in strumento commerciale e di promozione.

Certo, l’argomento è di quelli delicati. Il confine fra etica vera ed etica finta è labile. A fare ordine nella materia ci hanno pensato Michael O’ Mara-Shimek (del College of Arts and Sciences, Boston University, Institute of Ethics  in Communications and in Organizations),  Manuel Guillén (Management Departmenti JJ Renau, Universitat de València),  e Alexis J. Bañón Gomis (del Department of Business Organization, Universitat Politècnica València), che in un articolo apparso ad agosto danno forma ad uno schema utile per comprendere bene la realtà. 

La ricerca, dunque, parte da questa considerazione: oggi, sia nella teoria che nella pratica, i concetti di responsabilità sociale delle imprese (RSI), di Corporate Social Responsibility (CSR)  ed etica d’impresa non sono necessariamente correlati. La tesi degli autori è che le organizzazioni possono dimostrare alti livelli di proattività sociale nelle loro politiche in materia di RSI anche senza avere livelli lodevoli di qualità etica o di virtuosità. 

Insomma, spiegano, occorre  saper distinguere, all’interno dei singoli casi d’impresa. Perché un’azienda dal comportamento apparentemente virtuoso ed etico all’esterno, può rivelarsi mal gestita dal punto di vista dell’organizzazione e dell’attenzione al personale. Oppure viceversa, imprese con una cattiva prassi all’esterno, possono essere estremamente attente verso il proprio personale. Casi estremi, certo, ma la formula dell’equilibrio fra etica ed RSI può essere declinata in modi diversi e complessi.

Per fornire strumenti utili a capire meglio, quindi, i tre ricercatori arrivano a stabilire delle categorie di interpretazione della realtà. Viene quindi costruito il concetto di Organizzazione Etica  di Qualità (OEQ), per valutare l’eccellenza morale delle azioni e delle politiche di responsabilità sociale intraprese. Accanto a questo, vengono anche costruiti altri due concetti che servono per individuare le due situazioni estreme. Da un lato la mancanza totale di  virtuosità etica  che  caratterizza una CSR “immorale” (ICSR), dall’altro situazioni di  CSR con alti profili morali (MCSR).  

Quanto scritto da O’ Mara-Shimek,  Guillén e Bañón Gomis non è l’ultima parola in tema di etica e responsabilità sociale d’impresa, ma è certamente una lettura importante da fare.

Approaching virtuousness through organizational ethical quality: toward a moral corporate social responsibility 

Michael O’ Mara-Shimek,  Manuel Guillén, Alexis J. Bañón Gomis

Business Ethics: A European Review, Volume 24, Issue Supplement S2, pages S144–S155, August 2015 

Nuove imprese e giovani, stimoli reali per la ripresa

Per fare crescere davvero l’Italia, ben oltre la “ripresina” in corso, serve puntare decisamente su due carte: i giovani e le nuove imprese. E’ questa l’indicazione strategica che viene da un documento, “Crescere facendo impresa”, preparato da The European House Ambrosetti e presentato alla fine della scorsa settimana al tradizionale appuntamento di Villa d’Este a Cernobbio. “Non bisogna solo cercare un lavoro, le nuove generazioni devono entrare nella prospettiva di crearselo, il lavoro”, sostiene Valerio De Molli, amministratore delegato Ambrosetti, su “Il Sole24Ore”. Ecco, appunto, la centralità dell’impresa. Da fare nascere. Da consolidare. Da sviluppare, su mercati competitivi globali sempre più esigenti e selettivi.

Non c’è ripresa senza impresa”, ribadisce Confindustria in ogni incontro sulla situazione economica e sociale dell’Italia. I dati sulla crescita del Pil dicono che la lunga stagione della Grande Crisi è probabilmente alle nostre spalle. Vanno meglio le esportazioni, ma anche i consumi interni e gli investimenti, pur se in un clima di gran cautela. I segnali negativi si sono capovolti, si leggono andamenti in positivo. Ma siamo sempre nell’area del cosiddetto “prefisso telefonico”, della crescita dello 0,. Non ci si può accontentare, anche perché i “fattori esogeni” (basso prezzo dell’energia, abbondanza di liquidità da manovre Bce, tassi d’interessi ai minimi) sono contrastati da altri fattori di crisi (il rallentamento delle economie di Cina, Russia, Brasile, Turchia…) e dalle conseguenze di gravi turbolenze geo-politiche e sociali internazionali. In sintesi: l’Italia non può pensare di fare da vagone di coda d’una ripresa internazionale, ma deve saper giocare la sua parte. Riforme, dunque. Innovazione. Modernizzazione. Grandi cambiamenti culturali. A cominciare appunto da una cultura favorevole all’impresa.

L’Italia, secondo il Global Entrepreneurship Index 2015, ha un gap di imprenditorialità. Occupa il 49° posto in classifica, con un punteggio di 41,3, metà di quello Usa (in cima alla classifica) e comunque a  buona distanza da altri grandi paesi Ue, dal Regno Unito (4° posto) o dalla Germania (11° posto). Colpa di scarse infrastrutture, burocrazia, livello di tecnologia, formazione, capitale di rischio disponibile, etc. Ma anche d’un ambiente generale ostile all’impresa (alle culture del rischio, della selezione, dell’intraprendenza, del premio al merito, etc.). E di una imprenditoria anziana: solo il 5% degli imprenditori italiani ha meno di 40 anni, mentre il 60% sta nella classe d’età 50/70 anni e il 20% ha addirittura più di 70 anni (dati di The European House Ambrosetti).

Bisogna insomma spianare la strada ai giovani e alle nuove imprese. Come? Il documento Ambrosetti indica quattro interessanti proposte: rendere l’educazione all’imprenditorialità uno dei pilastri del sistema educativo europeo; armonizzare e ridurre i costi e le conseguenze giuridiche del fallimento nella Ue, sul modello del Chapter 11 degli Usa; istituire un concorso per la capitale europea dell’imprenditorialità, sull’esempio della Città della cultura; avere un visto unico per gli imprenditori stranieri in Europa, con un progetto di particolare attrattività per i giovani sotto i 35 anni. Misure concrete. Possibili. Non particolarmente costose. Buoni stimoli per impresa e ripresa, appunto.

Per fare crescere davvero l’Italia, ben oltre la “ripresina” in corso, serve puntare decisamente su due carte: i giovani e le nuove imprese. E’ questa l’indicazione strategica che viene da un documento, “Crescere facendo impresa”, preparato da The European House Ambrosetti e presentato alla fine della scorsa settimana al tradizionale appuntamento di Villa d’Este a Cernobbio. “Non bisogna solo cercare un lavoro, le nuove generazioni devono entrare nella prospettiva di crearselo, il lavoro”, sostiene Valerio De Molli, amministratore delegato Ambrosetti, su “Il Sole24Ore”. Ecco, appunto, la centralità dell’impresa. Da fare nascere. Da consolidare. Da sviluppare, su mercati competitivi globali sempre più esigenti e selettivi.

Non c’è ripresa senza impresa”, ribadisce Confindustria in ogni incontro sulla situazione economica e sociale dell’Italia. I dati sulla crescita del Pil dicono che la lunga stagione della Grande Crisi è probabilmente alle nostre spalle. Vanno meglio le esportazioni, ma anche i consumi interni e gli investimenti, pur se in un clima di gran cautela. I segnali negativi si sono capovolti, si leggono andamenti in positivo. Ma siamo sempre nell’area del cosiddetto “prefisso telefonico”, della crescita dello 0,. Non ci si può accontentare, anche perché i “fattori esogeni” (basso prezzo dell’energia, abbondanza di liquidità da manovre Bce, tassi d’interessi ai minimi) sono contrastati da altri fattori di crisi (il rallentamento delle economie di Cina, Russia, Brasile, Turchia…) e dalle conseguenze di gravi turbolenze geo-politiche e sociali internazionali. In sintesi: l’Italia non può pensare di fare da vagone di coda d’una ripresa internazionale, ma deve saper giocare la sua parte. Riforme, dunque. Innovazione. Modernizzazione. Grandi cambiamenti culturali. A cominciare appunto da una cultura favorevole all’impresa.

L’Italia, secondo il Global Entrepreneurship Index 2015, ha un gap di imprenditorialità. Occupa il 49° posto in classifica, con un punteggio di 41,3, metà di quello Usa (in cima alla classifica) e comunque a  buona distanza da altri grandi paesi Ue, dal Regno Unito (4° posto) o dalla Germania (11° posto). Colpa di scarse infrastrutture, burocrazia, livello di tecnologia, formazione, capitale di rischio disponibile, etc. Ma anche d’un ambiente generale ostile all’impresa (alle culture del rischio, della selezione, dell’intraprendenza, del premio al merito, etc.). E di una imprenditoria anziana: solo il 5% degli imprenditori italiani ha meno di 40 anni, mentre il 60% sta nella classe d’età 50/70 anni e il 20% ha addirittura più di 70 anni (dati di The European House Ambrosetti).

Bisogna insomma spianare la strada ai giovani e alle nuove imprese. Come? Il documento Ambrosetti indica quattro interessanti proposte: rendere l’educazione all’imprenditorialità uno dei pilastri del sistema educativo europeo; armonizzare e ridurre i costi e le conseguenze giuridiche del fallimento nella Ue, sul modello del Chapter 11 degli Usa; istituire un concorso per la capitale europea dell’imprenditorialità, sull’esempio della Città della cultura; avere un visto unico per gli imprenditori stranieri in Europa, con un progetto di particolare attrattività per i giovani sotto i 35 anni. Misure concrete. Possibili. Non particolarmente costose. Buoni stimoli per impresa e ripresa, appunto.

Tribù d’impresa

È interessante – anche se non sempre facile -, leggere “ Interprise as an instrument of civilization” di Hirochika Nakamaki, Koichiro Hioki, Izumi itsui, Yoshiyuki Takeuchi pubblicato poche settimane fa.

Si tratta di un volume scritto a più mani che prende in considerazione lo studio dell’imprenditoria, dell’impresa  e dell’essere imprenditore con gli strumenti dell’antropologia e quindi attraverso la cosiddetta “osservazione partecipante” e le interviste ad imprenditori e manager. Imprenditori, operai e manager, quindi, vengono studiati e interpretati nelle loro azioni come se fossero rappresentanti di tribù indigene oppure eredi di società e culture che hanno lasciato un segno nella storia, ma anche come uomini e donne che, oggi, vivono una vita particolare, quella dell’esistere in una struttura sociale complessa come quella dell’impresa.

L’approccio degli autori, tuttavia, non sottovaluta certamente il ruolo dell’impresa moderna. Anzi, proprio questa viene vista e raccontata, come dice lo stesso titolo, come strumento  di civiltà e come comunità culturale.  Un modo diverso di veder l’azione imprenditoriale e il farsi della cultura che ne nasce, un modo che può fornire strade nuove per capire meglio cosa sta accadendo oggi nel sistema produttivo moderno.

Il testo è composto da una prima parte di presentazione dei legami fra antropologia e studio dell’impresa, di una seconda di inquadramento teorico e da una terza nella quale vengono proposti alcuni approfondimenti come il “ruolo dei segreti” nelle imprese comparato a quello nelle religioni, il ruolo della diffidenza e del sospetto nei rapporti fra imprese e sistema del credito, l’interpretazione antropologica della globalizzazione delle imprese, il significato antropologico del marchio e del brand d’impresa.

La fatica letteraria di Hirochika Nakamaki e dei suoi colleghi  riesce a fornire un affresco importante della cultura d’impresa moderna, raccontata con strumenti di interpretazione originali per il contesto al quale sono applicati. Un volume tutto da leggere e con attenzione.

Interprise as an instrument of civilization 

Hirochika Nakamaki, Koichiro Hioki, Izumi itsui, Yoshiyuki Takeuchi

Springer, 2015

È interessante – anche se non sempre facile -, leggere “ Interprise as an instrument of civilization” di Hirochika Nakamaki, Koichiro Hioki, Izumi itsui, Yoshiyuki Takeuchi pubblicato poche settimane fa.

Si tratta di un volume scritto a più mani che prende in considerazione lo studio dell’imprenditoria, dell’impresa  e dell’essere imprenditore con gli strumenti dell’antropologia e quindi attraverso la cosiddetta “osservazione partecipante” e le interviste ad imprenditori e manager. Imprenditori, operai e manager, quindi, vengono studiati e interpretati nelle loro azioni come se fossero rappresentanti di tribù indigene oppure eredi di società e culture che hanno lasciato un segno nella storia, ma anche come uomini e donne che, oggi, vivono una vita particolare, quella dell’esistere in una struttura sociale complessa come quella dell’impresa.

L’approccio degli autori, tuttavia, non sottovaluta certamente il ruolo dell’impresa moderna. Anzi, proprio questa viene vista e raccontata, come dice lo stesso titolo, come strumento  di civiltà e come comunità culturale.  Un modo diverso di veder l’azione imprenditoriale e il farsi della cultura che ne nasce, un modo che può fornire strade nuove per capire meglio cosa sta accadendo oggi nel sistema produttivo moderno.

Il testo è composto da una prima parte di presentazione dei legami fra antropologia e studio dell’impresa, di una seconda di inquadramento teorico e da una terza nella quale vengono proposti alcuni approfondimenti come il “ruolo dei segreti” nelle imprese comparato a quello nelle religioni, il ruolo della diffidenza e del sospetto nei rapporti fra imprese e sistema del credito, l’interpretazione antropologica della globalizzazione delle imprese, il significato antropologico del marchio e del brand d’impresa.

La fatica letteraria di Hirochika Nakamaki e dei suoi colleghi  riesce a fornire un affresco importante della cultura d’impresa moderna, raccontata con strumenti di interpretazione originali per il contesto al quale sono applicati. Un volume tutto da leggere e con attenzione.

Interprise as an instrument of civilization 

Hirochika Nakamaki, Koichiro Hioki, Izumi itsui, Yoshiyuki Takeuchi

Springer, 2015

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?