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In Italia non solo deindustrializzazione

In tempi difficili la cultura d’impresa cresce anche con la consapevolezza di quanto accade all’esterno di essa. Non è solo questione di essere informati. Imprenditori avveduti e manager accorti decidono meglio se hanno a disposizione informazioni supplementari sull’ambiente in cui si muovono. Per questo però servono indagini affidabili e chiare. Lo è, fra alcune pubblicate recentemente, “Deindustrializzazione e terziarizzazione: trasformazioni strutturali nelle regioni del Nord Ovest”, lo studio condotto da un consistente gruppo di ricercatori di Banca d’Italia che approfondisce condizioni ed evoluzione del comparto industriale di una delle aree più importanti della Penisola.

La fatica dei 23 economisti della Banca centrale italiana parte dell’analisi dell’evoluzione del sistema industriale del Nord Ovest dal Duemila ad oggi; un’indagine dalla quale emergono alcune “specificità” importanti e non sempre positive. Secondo Banca d’Italia, per esempio, questo territorio ha sofferto di una transizione troppo lenta verso i settori manifatturieri ad alta intensità di tecnologica e verso i servizi a elevato contenuto di conoscenza. Viene anche effettuato un confronto con il resto d’Europa dal quale emerge un chiaro ritardo nella crescita. “Il confronto internazionale su alcuni specifici aspetti del sistema economico – spiega l’indagine -, suggerisce, inoltre, che alcune dinamiche penalizzanti rischiano di accrescere il gap già significativo su alcuni fattori cruciali per la crescita come l’innovazione; tra questi aspetti rientrano la riduzione della presenza di grandi imprese, i ritardi nella dotazione di capitale umano, l’indebolimento della situazione economica e finanziaria delle imprese”.

Ma il lavoro di Banca d’Italia trova anche aspetti positivi che non devono essere trascurati. Il sistema produttivo del Nord Ovest, dice ancora la ricerca, pur mostrando in media evidenti ritardi rispetto alle regioni europee più industrializzate, è popolato da alcune realtà imprenditoriali altamente competitive, leader a livello internazionale. Si tratta di aziende che hanno reagito alla crisi ampliando la gamma dei prodotti offerti, investendo in innovazione o ampliando la propria proiezione sui mercati internazionali. In generale, vi è un numero non trascurabile di aree e settori che, nella crisi, hanno continuato a crescere sia nel fatturato (nazionale ed estero) sia nel valore aggiunto. 

Più nel dettaglio, la ricerca ha notato che, per esempio,  la quota di imprese che hanno risposto meglio alla crisi fra quelle con una media di 20 addetti,   e? risultata maggiore per le aziende manifatturiere che avevano posto in essere strategie di prodotto o di internazionalizzazione, rispetto a quella osservata tra le imprese che non avevano intrapreso nessuna specifica strategia. È quindi ancora una volta la manifattura a dare buona prova, lavorando non solo sulla qualità e sui mercati esteri, ma anche, rileva sempre l’indagine, sulla differenziazione dei prodotti. “Tra il 2007 e il 2009 – spiega un passo del rapporto -, la strategia (diversa da quella di prezzo) piu? diffusa tra le imprese del Nord Ovest e? consistita nell’ampliare e migliorare la gamma dei prodotti e servizi: oltre il 38% delle aziende nordoccidentali ha variato la tipologia e/o la qualita? della propria offerta e oltre il 28% ne ha accresciuto la diversificazione”. E il ricorso alla differenziazione e? aumentato nel corso della crisi: nel 2012, oltre il 73% delle imprese nordoccidentali partecipanti dichiarava di aver ampliato la gamma dei prodotti offerti nei cinque anni.

È quell’Italia che nonostante tutto continua ad esistere e ad avanzare che, in questo lavoro, trova riscontro, testimonianza, valorizzazione e riconoscimento.

I 23 ricercatori di Banca d’Italia riescono così a sintetizzare un tema complesso è a dare conto di una realtà che non deve essere trascurata è che, anzi, va valorizzata per quanto ha rappresentato.

Deindustrializzazione e terziarizzazione: trasformazioni strutturali nelle regioni del Nord Ovest

AA.VV.

Banca d’Italia, Quaderni di economia e finanza (Occasional papers), n. 282, luglio 2015

In tempi difficili la cultura d’impresa cresce anche con la consapevolezza di quanto accade all’esterno di essa. Non è solo questione di essere informati. Imprenditori avveduti e manager accorti decidono meglio se hanno a disposizione informazioni supplementari sull’ambiente in cui si muovono. Per questo però servono indagini affidabili e chiare. Lo è, fra alcune pubblicate recentemente, “Deindustrializzazione e terziarizzazione: trasformazioni strutturali nelle regioni del Nord Ovest”, lo studio condotto da un consistente gruppo di ricercatori di Banca d’Italia che approfondisce condizioni ed evoluzione del comparto industriale di una delle aree più importanti della Penisola.

La fatica dei 23 economisti della Banca centrale italiana parte dell’analisi dell’evoluzione del sistema industriale del Nord Ovest dal Duemila ad oggi; un’indagine dalla quale emergono alcune “specificità” importanti e non sempre positive. Secondo Banca d’Italia, per esempio, questo territorio ha sofferto di una transizione troppo lenta verso i settori manifatturieri ad alta intensità di tecnologica e verso i servizi a elevato contenuto di conoscenza. Viene anche effettuato un confronto con il resto d’Europa dal quale emerge un chiaro ritardo nella crescita. “Il confronto internazionale su alcuni specifici aspetti del sistema economico – spiega l’indagine -, suggerisce, inoltre, che alcune dinamiche penalizzanti rischiano di accrescere il gap già significativo su alcuni fattori cruciali per la crescita come l’innovazione; tra questi aspetti rientrano la riduzione della presenza di grandi imprese, i ritardi nella dotazione di capitale umano, l’indebolimento della situazione economica e finanziaria delle imprese”.

Ma il lavoro di Banca d’Italia trova anche aspetti positivi che non devono essere trascurati. Il sistema produttivo del Nord Ovest, dice ancora la ricerca, pur mostrando in media evidenti ritardi rispetto alle regioni europee più industrializzate, è popolato da alcune realtà imprenditoriali altamente competitive, leader a livello internazionale. Si tratta di aziende che hanno reagito alla crisi ampliando la gamma dei prodotti offerti, investendo in innovazione o ampliando la propria proiezione sui mercati internazionali. In generale, vi è un numero non trascurabile di aree e settori che, nella crisi, hanno continuato a crescere sia nel fatturato (nazionale ed estero) sia nel valore aggiunto. 

Più nel dettaglio, la ricerca ha notato che, per esempio,  la quota di imprese che hanno risposto meglio alla crisi fra quelle con una media di 20 addetti,   e? risultata maggiore per le aziende manifatturiere che avevano posto in essere strategie di prodotto o di internazionalizzazione, rispetto a quella osservata tra le imprese che non avevano intrapreso nessuna specifica strategia. È quindi ancora una volta la manifattura a dare buona prova, lavorando non solo sulla qualità e sui mercati esteri, ma anche, rileva sempre l’indagine, sulla differenziazione dei prodotti. “Tra il 2007 e il 2009 – spiega un passo del rapporto -, la strategia (diversa da quella di prezzo) piu? diffusa tra le imprese del Nord Ovest e? consistita nell’ampliare e migliorare la gamma dei prodotti e servizi: oltre il 38% delle aziende nordoccidentali ha variato la tipologia e/o la qualita? della propria offerta e oltre il 28% ne ha accresciuto la diversificazione”. E il ricorso alla differenziazione e? aumentato nel corso della crisi: nel 2012, oltre il 73% delle imprese nordoccidentali partecipanti dichiarava di aver ampliato la gamma dei prodotti offerti nei cinque anni.

È quell’Italia che nonostante tutto continua ad esistere e ad avanzare che, in questo lavoro, trova riscontro, testimonianza, valorizzazione e riconoscimento.

I 23 ricercatori di Banca d’Italia riescono così a sintetizzare un tema complesso è a dare conto di una realtà che non deve essere trascurata è che, anzi, va valorizzata per quanto ha rappresentato.

Deindustrializzazione e terziarizzazione: trasformazioni strutturali nelle regioni del Nord Ovest

AA.VV.

Banca d’Italia, Quaderni di economia e finanza (Occasional papers), n. 282, luglio 2015

Innovare tutti insieme

La cultura dell’impresa innovativa si costruisce collettivamente, cresce con il contributo di molti, si fa con il lavoro di intere comunità d’azienda. Certo, alla base di tutto ci sono sempre imprenditori che sono capaci di vedere più lontano della media, e uomini d’impresa che riescono a valorizzare adeguatamente persone e mezzi di produzione in modi diversi dal consueto. Ma ormai è un dato acquisito la consapevolezza del valore collettivo della cultura d’impresa e dell’innovazione che ne può conseguire.

Occorre sempre, però, dotarsi di strumenti informativi e di analisi adeguate al tema che si deve affrontare. “L’innovazione che non ti aspetti. Contesti e visioni per l’impresa”, ultima fatica letteraria di Emil Abirascid (giornalista ed esperto di innovazione d’impresa), è uno dei volumi più utili sul tema apparsi negli ultimi tempi. Abirascid ha lavorato con altri 36 autori – raccogliendone e organizzandone i contributi -, mettendo insieme un gruppo di lavoro sull’innovazione d’impresa che ha una dote intrinseca importante: ne fanno parte studiosi d’azienda accanto ad imprenditori che la vita d’azienda innovativa  la vivono per davvero. Il libro quindi coinvolge quelli che vengono definitivi “alcuni campioni dell’imprenditoria innovativa” che  hanno voluto condividere le loro storie di impresa ma anche idee e proposte, modelli di lavoro e una particolare visione di un  futuro possibile della buona industria in Italia.  Ed è questo uno dei pregi e delle utilità del lavoro appena pubblicato: idee, esperienze, successi sono quelli italiani. Viene quindi fornita sia una visione teorica che pratica dell’innovazione nell’impresa nel nostro Paese. Dopo aver esaminato a grandi linee lo stato dell’innovazione in Italia, si passa alle indicazioni su come trovare l’investitore innovativo giusto, a quanto promettono i mercati esteri, ai temi legati all’innovazione dell’industria tradizionale e a quella digitale, vengono esaminate anche le questioni normative con le quali occorre confrontarsi. Successivamente vengono presentati alcuni casi che indicano tattiche di innovazione diverse: RedSeed, Halldis,Copernico, Livrea Yacht Italia, Industrio e altri ancora. Chiude il tutto una terza parte di organizzazione generale di quanto “scoperto” in precedenza per arrivare a ragionare sulla “nuova organizzazione a rete dell’economia e dell’innovazione” che sta emergendo in Italia.

“Fare impresa è impegnativo – si legge nella presentazione del volume -. Farla innovativa ancora di più. Farla in Italia è una sfida. Una sfida che in molti accettano e che non pochi vincono”. Il volume di Abirascid si caratterizza proprio a partire da questa affermazione: si tratta di un libro che guarda al positivo dell’industria italiana, senza nascondere i problemi, ma mettendo bene in evidenza le qualità del nostro sapere produttivo.

È bello e completa efficacemente il tutto, quanto scritto da Marco Gay all’inizio del libro. “Ciò che fa la differenza nella competitività industriale di un Paese – dice Gay -, non sono due o tre inventori geniali ma migliaia di innovatori normali e magari seriali. Un tempo sedevamo nel club mondiale dei brevetti non solo perché Giulio Natta aveva inventato la plastica ma perché c’erano centinaia di piccole e grandi imprese che usavano il Moplen per fare oggetti casalinghi di design, tubi di scarico e pellicole trasparenti: la materia termoplastica più utilizzata nell’industria italiana dava un vantaggio competitivo in tutti i settori”. E poi ancora: “Nonostante sette anni di crisi siamo (…), una generazione di imprenditori fortunati. Forse anche più di quanto immaginiamo e di quanto lo siano state le generazioni precedenti, quelle del boom degli anni ’60. Perché ci sono tre miliardi di nuovi consumatori da intercettare e nuovi mercati da esplorare. Perché ci sono nuovi mezzi e nuovi approcci. A differenza dei nostri padri possiamo contare, infatti, su una cultura di impresa radicata nel Paese che non vede più nelle aziende e nel capitalismo il nemico ma un’opportunità”.

Il libro curato da Abirascid prende le mosse proprio da questo spirito, né delinea contenuti e confini e costituisce una lettura utile per tutti.

L’innovazione che non ti aspetti. Contesti e visioni per l’impresa 

a cura di Emil Abirascid

Franco Angeli, 2015

La cultura dell’impresa innovativa si costruisce collettivamente, cresce con il contributo di molti, si fa con il lavoro di intere comunità d’azienda. Certo, alla base di tutto ci sono sempre imprenditori che sono capaci di vedere più lontano della media, e uomini d’impresa che riescono a valorizzare adeguatamente persone e mezzi di produzione in modi diversi dal consueto. Ma ormai è un dato acquisito la consapevolezza del valore collettivo della cultura d’impresa e dell’innovazione che ne può conseguire.

Occorre sempre, però, dotarsi di strumenti informativi e di analisi adeguate al tema che si deve affrontare. “L’innovazione che non ti aspetti. Contesti e visioni per l’impresa”, ultima fatica letteraria di Emil Abirascid (giornalista ed esperto di innovazione d’impresa), è uno dei volumi più utili sul tema apparsi negli ultimi tempi. Abirascid ha lavorato con altri 36 autori – raccogliendone e organizzandone i contributi -, mettendo insieme un gruppo di lavoro sull’innovazione d’impresa che ha una dote intrinseca importante: ne fanno parte studiosi d’azienda accanto ad imprenditori che la vita d’azienda innovativa  la vivono per davvero. Il libro quindi coinvolge quelli che vengono definitivi “alcuni campioni dell’imprenditoria innovativa” che  hanno voluto condividere le loro storie di impresa ma anche idee e proposte, modelli di lavoro e una particolare visione di un  futuro possibile della buona industria in Italia.  Ed è questo uno dei pregi e delle utilità del lavoro appena pubblicato: idee, esperienze, successi sono quelli italiani. Viene quindi fornita sia una visione teorica che pratica dell’innovazione nell’impresa nel nostro Paese. Dopo aver esaminato a grandi linee lo stato dell’innovazione in Italia, si passa alle indicazioni su come trovare l’investitore innovativo giusto, a quanto promettono i mercati esteri, ai temi legati all’innovazione dell’industria tradizionale e a quella digitale, vengono esaminate anche le questioni normative con le quali occorre confrontarsi. Successivamente vengono presentati alcuni casi che indicano tattiche di innovazione diverse: RedSeed, Halldis,Copernico, Livrea Yacht Italia, Industrio e altri ancora. Chiude il tutto una terza parte di organizzazione generale di quanto “scoperto” in precedenza per arrivare a ragionare sulla “nuova organizzazione a rete dell’economia e dell’innovazione” che sta emergendo in Italia.

“Fare impresa è impegnativo – si legge nella presentazione del volume -. Farla innovativa ancora di più. Farla in Italia è una sfida. Una sfida che in molti accettano e che non pochi vincono”. Il volume di Abirascid si caratterizza proprio a partire da questa affermazione: si tratta di un libro che guarda al positivo dell’industria italiana, senza nascondere i problemi, ma mettendo bene in evidenza le qualità del nostro sapere produttivo.

È bello e completa efficacemente il tutto, quanto scritto da Marco Gay all’inizio del libro. “Ciò che fa la differenza nella competitività industriale di un Paese – dice Gay -, non sono due o tre inventori geniali ma migliaia di innovatori normali e magari seriali. Un tempo sedevamo nel club mondiale dei brevetti non solo perché Giulio Natta aveva inventato la plastica ma perché c’erano centinaia di piccole e grandi imprese che usavano il Moplen per fare oggetti casalinghi di design, tubi di scarico e pellicole trasparenti: la materia termoplastica più utilizzata nell’industria italiana dava un vantaggio competitivo in tutti i settori”. E poi ancora: “Nonostante sette anni di crisi siamo (…), una generazione di imprenditori fortunati. Forse anche più di quanto immaginiamo e di quanto lo siano state le generazioni precedenti, quelle del boom degli anni ’60. Perché ci sono tre miliardi di nuovi consumatori da intercettare e nuovi mercati da esplorare. Perché ci sono nuovi mezzi e nuovi approcci. A differenza dei nostri padri possiamo contare, infatti, su una cultura di impresa radicata nel Paese che non vede più nelle aziende e nel capitalismo il nemico ma un’opportunità”.

Il libro curato da Abirascid prende le mosse proprio da questo spirito, né delinea contenuti e confini e costituisce una lettura utile per tutti.

L’innovazione che non ti aspetti. Contesti e visioni per l’impresa 

a cura di Emil Abirascid

Franco Angeli, 2015

Export, è ancora record per le QuattroA della migliore manifattura

L’impresa italiana d’eccellenza migliora ancora la sua competitività. Lo dicono i dati sull’export che nel 2014 ha sfiorato i 400 miliardi (398, per l’esattezza), con un incremento di 61 miliardi tra il 2010 e il 2014. Export da industria, servizi esclusi. Primato manifatturiero, insomma. Con un rilevante contributo ai conti generali del sistema Paese, che nello stesso periodo ha visto migliorare la sua bilancia commerciale complessiva di 73 miliardi, passando da un saldo negativo di 30 miliardi a un saldo positivo di 42,9. Per i manufatti in particolare, la crescita è stata di 62 miliardi. Minor apporto di importazioni, certo (la Grande Crisi ha gelato il mercato interno). Ma anche miglioramento dei prodotti destinati a competere sui mercati internazionali e aumento delle capacità produttive interne (siamo andati molto avanti, per esempio, nelle apparecchiature per l’energia rinnovabile, che prima importavamo massicciamente dall’estero).

I dati vengono da una recente indagine del’Osservatorio Gea-Fondazione Edison. E confermano che a trainare l’export, record dopo record, ci sono le “QuattroA” della più qualificata industria italiana, che nel 2014 hanno determinato un surplus commerciale di 128 miliardi di euro: Automazione-meccanica-gomma-plastica per 84 miliardi (ecco qui, la punta alta dell’eccellenza) e poi Abbigliamento-moda-cosmetici per 25 miliardi, Arredo-casa per 12 miliardi e Alimentari e vini per 7 miliardi.

Ancora dati su cui riflettere: dei 5mila prodotti in cui è suddiviso il commercio mondiale, per 928 l’Italia è prima o seconda o terza per miglior bilancia commerciale. Mille campioni mondiali del “made in Italy”, potremmo dire. Una condizione che deve spingere a scrivere un altro racconto sull’economia e sull’industria italiana, tale da fare emergere la realtà della “buona manifattura” e individuare correttamente la leva su cui fondare le politiche di sviluppo.

Italiani “bravi meccanici”, innanzitutto, ampiamente competitivi con i principali concorrenti, i tedeschi, cui reggiamo bene testa, nonostante una certa interessata propaganda nutrita dalla Germania attribuisca a se stessa il primato di questo settore industriale (in altri termini, per automazione, meccanica, gomma e plastica i tedeschi non sono affatto dei fuori-serie, ma solo dei concorrenti da emulare e battere).

Poi, italiani bravi a confrontarsi sui mercati internazionali e con buoni risultati crescenti (nonostante le istituzioni e il sistema bancario aiutino poco, al contrario per quel che succede ai nostri concorrenti tedeschi o francesi, ben sorretti dallo Stato). Con una capacità di superare la concorrenza che si è molto affinata nel corso degli anni Duemila, quando finalmente si è preso atto che la “svalutazione competitiva” permessa dalla fragile lira non era più possibile e si è imparato a competere non sul basso prezzo ma sull’alta qualità.

Eccoci dunque al punto: crescere sull’eccellenza manifatturiera medium tech (che incorpora ricerca e servizi avanzati) e ampliare l’orizzonte dei mercati, oltre i confini Ue: gli Usa, la Cina e tutto il Far East, la Russia (che prima o poi si riprenderà), il Brasile (che nonostante la crisi resta un grande Paese attratto dal “made in Italy) e, adesso, anche l’Iran. C’è molta strada, da fare. E la manifattura italiana è ben attrezzata.

L’impresa italiana d’eccellenza migliora ancora la sua competitività. Lo dicono i dati sull’export che nel 2014 ha sfiorato i 400 miliardi (398, per l’esattezza), con un incremento di 61 miliardi tra il 2010 e il 2014. Export da industria, servizi esclusi. Primato manifatturiero, insomma. Con un rilevante contributo ai conti generali del sistema Paese, che nello stesso periodo ha visto migliorare la sua bilancia commerciale complessiva di 73 miliardi, passando da un saldo negativo di 30 miliardi a un saldo positivo di 42,9. Per i manufatti in particolare, la crescita è stata di 62 miliardi. Minor apporto di importazioni, certo (la Grande Crisi ha gelato il mercato interno). Ma anche miglioramento dei prodotti destinati a competere sui mercati internazionali e aumento delle capacità produttive interne (siamo andati molto avanti, per esempio, nelle apparecchiature per l’energia rinnovabile, che prima importavamo massicciamente dall’estero).

I dati vengono da una recente indagine del’Osservatorio Gea-Fondazione Edison. E confermano che a trainare l’export, record dopo record, ci sono le “QuattroA” della più qualificata industria italiana, che nel 2014 hanno determinato un surplus commerciale di 128 miliardi di euro: Automazione-meccanica-gomma-plastica per 84 miliardi (ecco qui, la punta alta dell’eccellenza) e poi Abbigliamento-moda-cosmetici per 25 miliardi, Arredo-casa per 12 miliardi e Alimentari e vini per 7 miliardi.

Ancora dati su cui riflettere: dei 5mila prodotti in cui è suddiviso il commercio mondiale, per 928 l’Italia è prima o seconda o terza per miglior bilancia commerciale. Mille campioni mondiali del “made in Italy”, potremmo dire. Una condizione che deve spingere a scrivere un altro racconto sull’economia e sull’industria italiana, tale da fare emergere la realtà della “buona manifattura” e individuare correttamente la leva su cui fondare le politiche di sviluppo.

Italiani “bravi meccanici”, innanzitutto, ampiamente competitivi con i principali concorrenti, i tedeschi, cui reggiamo bene testa, nonostante una certa interessata propaganda nutrita dalla Germania attribuisca a se stessa il primato di questo settore industriale (in altri termini, per automazione, meccanica, gomma e plastica i tedeschi non sono affatto dei fuori-serie, ma solo dei concorrenti da emulare e battere).

Poi, italiani bravi a confrontarsi sui mercati internazionali e con buoni risultati crescenti (nonostante le istituzioni e il sistema bancario aiutino poco, al contrario per quel che succede ai nostri concorrenti tedeschi o francesi, ben sorretti dallo Stato). Con una capacità di superare la concorrenza che si è molto affinata nel corso degli anni Duemila, quando finalmente si è preso atto che la “svalutazione competitiva” permessa dalla fragile lira non era più possibile e si è imparato a competere non sul basso prezzo ma sull’alta qualità.

Eccoci dunque al punto: crescere sull’eccellenza manifatturiera medium tech (che incorpora ricerca e servizi avanzati) e ampliare l’orizzonte dei mercati, oltre i confini Ue: gli Usa, la Cina e tutto il Far East, la Russia (che prima o poi si riprenderà), il Brasile (che nonostante la crisi resta un grande Paese attratto dal “made in Italy) e, adesso, anche l’Iran. C’è molta strada, da fare. E la manifattura italiana è ben attrezzata.

Paesi diversi, manager differenti

Buona impresa significa anche buona cultura del produrre e buoni manager a gestire. Cosa non semplice, certo, ma ormai necessaria. Anche e soprattutto quando l’impresa gira il mondo è si confronta con culture e intendimenti produttivi differenti. Capire le differenze, quindi, è importante. “Internationalisation of upper echelons in different institutional contexts: top managers in Germany and the UK” di Stefan Schmid, Dennis J. Wurtser (del Department of International Management and Strategic management, ESCP Europe, Berlin Campus), e di Tobias Dauth (della HHL Leipzig Graduate School of management), appena pubblicato, serve a questo scopo.

L’articolo parte da una constatazione semplice. Fino ad oggi, spiegano gli autori, la ricerca sull’internazionalizzazione ha indagato l’internazionalizzazione dei top manager e le sue conseguenze per i risultati dell’impresa. Impostazione sacrosanta e giusta che, tuttavia, manca di una parte divenuta ormai fondamentale per comprendere meglio come possono muoversi le imprese che hanno a che fare con il mondo. “Tuttavia – spiegano infatti gli autori -, relativamente poca attenzione è stata dedicata finora all’internazionalizzazione dei top manager in diversi contesti istituzionali”. La domanda alla quale i tre ricercatori cercano di rispondere è la seguente: come cambia il livello di internazionalizzazione dei manager a seconda del Paese dal quale provengono?

Lo studio, quindi, mette a confronto l’internazionalizzazione dei top manager in Germania e nel Regno Unito e sostiene “che i contesti istituzionali nazionali influenzano il profilo internazionale del capitale umano del top management”. Questione di educazione, di contesto sociale nel quale si cresce, di visione del mondo alla quale si è abituati. Cose importanti anche per le imprese che devono scegliere su chi basare il loro futuro. Leggere la ricerca di Schmid, Wurtser e Dauth è utile perché indica un metodo di scelta ma anche perché fornisce uno spaccato della “società dei manager” in due grandi Paesi europei, anche dal punto di vista economico. Il testo, infatti, dà conto dell’indagine svolta su un campione di 931 individui con la quale  gli autori dimostrano che “la nazionalità del top management, l’esperienza internazionale e gli appuntamenti internazionali variano significativamente tra la Germania e il Regno Unito”. Da un lato, in Germania, pianificazione e controllo assumono ruoli rilevanti, così come d’altra parte una particolare rigidità nei rapporti di lavoro interni e con i terzi; dall’altro, i manager inglesi ereditano una “abitudine al mondo” che li rende più aperti alle relazioni internazionali ma non per questo meno accorti nei rapporti d’affari, anche qui esiste il controllo, ma con modalità differenti da quelle tedesche. Spesso si tratta di sfumature, atteggiamenti (rigidità e abitudini consolidate si confondono), approcci simili eppure nella sostanza diversi e lontani che indicano concezioni d’impresa distanti. Probabilmente è anche per questi motivi che la cultura d’impresa delle aziende tedesche di quelle inglesi può essere notevolmente diversa.

Internationalisation of upper echelons in different institutional contexts: top 

managers in Germany and the UK 

Stefan Schmid, Dennis J. Wurtser,Tobias Dauth

Buona impresa significa anche buona cultura del produrre e buoni manager a gestire. Cosa non semplice, certo, ma ormai necessaria. Anche e soprattutto quando l’impresa gira il mondo è si confronta con culture e intendimenti produttivi differenti. Capire le differenze, quindi, è importante. “Internationalisation of upper echelons in different institutional contexts: top managers in Germany and the UK” di Stefan Schmid, Dennis J. Wurtser (del Department of International Management and Strategic management, ESCP Europe, Berlin Campus), e di Tobias Dauth (della HHL Leipzig Graduate School of management), appena pubblicato, serve a questo scopo.

L’articolo parte da una constatazione semplice. Fino ad oggi, spiegano gli autori, la ricerca sull’internazionalizzazione ha indagato l’internazionalizzazione dei top manager e le sue conseguenze per i risultati dell’impresa. Impostazione sacrosanta e giusta che, tuttavia, manca di una parte divenuta ormai fondamentale per comprendere meglio come possono muoversi le imprese che hanno a che fare con il mondo. “Tuttavia – spiegano infatti gli autori -, relativamente poca attenzione è stata dedicata finora all’internazionalizzazione dei top manager in diversi contesti istituzionali”. La domanda alla quale i tre ricercatori cercano di rispondere è la seguente: come cambia il livello di internazionalizzazione dei manager a seconda del Paese dal quale provengono?

Lo studio, quindi, mette a confronto l’internazionalizzazione dei top manager in Germania e nel Regno Unito e sostiene “che i contesti istituzionali nazionali influenzano il profilo internazionale del capitale umano del top management”. Questione di educazione, di contesto sociale nel quale si cresce, di visione del mondo alla quale si è abituati. Cose importanti anche per le imprese che devono scegliere su chi basare il loro futuro. Leggere la ricerca di Schmid, Wurtser e Dauth è utile perché indica un metodo di scelta ma anche perché fornisce uno spaccato della “società dei manager” in due grandi Paesi europei, anche dal punto di vista economico. Il testo, infatti, dà conto dell’indagine svolta su un campione di 931 individui con la quale  gli autori dimostrano che “la nazionalità del top management, l’esperienza internazionale e gli appuntamenti internazionali variano significativamente tra la Germania e il Regno Unito”. Da un lato, in Germania, pianificazione e controllo assumono ruoli rilevanti, così come d’altra parte una particolare rigidità nei rapporti di lavoro interni e con i terzi; dall’altro, i manager inglesi ereditano una “abitudine al mondo” che li rende più aperti alle relazioni internazionali ma non per questo meno accorti nei rapporti d’affari, anche qui esiste il controllo, ma con modalità differenti da quelle tedesche. Spesso si tratta di sfumature, atteggiamenti (rigidità e abitudini consolidate si confondono), approcci simili eppure nella sostanza diversi e lontani che indicano concezioni d’impresa distanti. Probabilmente è anche per questi motivi che la cultura d’impresa delle aziende tedesche di quelle inglesi può essere notevolmente diversa.

Internationalisation of upper echelons in different institutional contexts: top 

managers in Germany and the UK 

Stefan Schmid, Dennis J. Wurtser,Tobias Dauth

Il buon clima d’impresa

L’impresa è fatta dagli uomini e dalle donne che in essa vi lavorano e che in essa, a ben vedere, passano una parte consistente del loro tempo di vita. Ormai di questo tutti – o quasi -, sono coscienti. Ma passare dalla consapevolezza di una situazione all’azione più giusta per viverla meglio – e, fra l’altro, farla rendere al meglio -, può ancora essere complesso e difficile. Aver a che fare con esseri umani e non con cose, strumenti di produzione entrambi ma ben diversi nella sostanza, implica attenzione, accortezza, delicatezza, eppure anche decisione. È comunque attraverso queste strade che nasce e si costruisce una cultura d’impresa diversa, più completa e anche più efficace dal punto di vista produttivo.

Leggere “Clima aziendale. Crescere dando voce alle persone” scritto da Stefano Basaglia e Chiara Paolino e appena pubblicato è cosa utile per capire meglio proprio i rapporti fra impresa e persone al suo interno.

Il volume cerca, riuscendoci, di far chiarezza fra l’ovvietà di molte affermazioni sulle relazioni fra le persone all’interno delle imprese, e la necessità comunque di affrontare nelle aziende anche il tema delle relazioni umane ed interpersonali, al di là di quelle fissate dalle regole contrattuali.

Si legge nella presentazione del volume che un bravo manager annusa l’aria, sente se il clima dell’azienda è buono o cattivo. Per dirla con Bob Dylan, così come “non serve un meteorologo per capire da che parte tira il vento”, allo stesso modo sembrerebbe non servire uno studioso di organizzazione per capire il clima di un’azienda. Tale atteggiamento, viene spiegato, è molto diffuso e si basa sull’assunto che tutti (imprenditori, manager, lavoratori), sappiano/sentano se “splende il sole” o “infuria la bufera”. E così in effetti è nella gran parte dei casi. Le cose iniziano però a complicarsi quando l’azienda non è così piccola e semplice da poter essere osservata a colpo d’occhio, quando non ci si trova di fronte a fenomeni chiari e definibili in maniera uniforme, quando si passa del semplice sentire al più complesso analizzare e interpretare. È qui che entra in gioco il contenuto e l’approccio di questo libro che cerca di analizzare con metodo le relazioni umane all’interno delle imprese.

Dopo un prima parte che inquadra il tema è distingue fra clima psicologico e clima organizzativo nelle imprese, i due autori esaminano i termini del rapporto che si crea “con il capo” e con i pari, le modalità d’azione del capo e quelle dei pari, la cosiddetta “cittadinanza organizzativa”, la capacità di gestire gli eventi inattesi, la creazione e gestione della soddisfazione e dell’emotività in azienda, la comprensione delle diversità degli individui e la loro organizzazione all’interno del gruppo aziendale, il bilanciamento fra vita privata e vita di lavoro. Il tutto, poi, viene chiuso con un caso pratico come  quello di Telecom Italia.

È importante è indicativo di tutto lo stile del volume un passaggio della presentazione: “Lo stock di capitale umano di cui un’azienda dispone, anche quando misurato correttamente, è in grado di predire solo in parte la prestazione individuale e quella organizzativa. Specificamente, l’equazione che governa la prestazione individuale, di gruppo e organizzativa è molto più complessa rispetto al semplice legame con il capitale di competenze, conoscenze, competenze e abilità”.

Clima aziendale. Crescere dando voce alle persone 

Stefano Basaglia, Chiara Paolino

Egea, 2015

L’impresa è fatta dagli uomini e dalle donne che in essa vi lavorano e che in essa, a ben vedere, passano una parte consistente del loro tempo di vita. Ormai di questo tutti – o quasi -, sono coscienti. Ma passare dalla consapevolezza di una situazione all’azione più giusta per viverla meglio – e, fra l’altro, farla rendere al meglio -, può ancora essere complesso e difficile. Aver a che fare con esseri umani e non con cose, strumenti di produzione entrambi ma ben diversi nella sostanza, implica attenzione, accortezza, delicatezza, eppure anche decisione. È comunque attraverso queste strade che nasce e si costruisce una cultura d’impresa diversa, più completa e anche più efficace dal punto di vista produttivo.

Leggere “Clima aziendale. Crescere dando voce alle persone” scritto da Stefano Basaglia e Chiara Paolino e appena pubblicato è cosa utile per capire meglio proprio i rapporti fra impresa e persone al suo interno.

Il volume cerca, riuscendoci, di far chiarezza fra l’ovvietà di molte affermazioni sulle relazioni fra le persone all’interno delle imprese, e la necessità comunque di affrontare nelle aziende anche il tema delle relazioni umane ed interpersonali, al di là di quelle fissate dalle regole contrattuali.

Si legge nella presentazione del volume che un bravo manager annusa l’aria, sente se il clima dell’azienda è buono o cattivo. Per dirla con Bob Dylan, così come “non serve un meteorologo per capire da che parte tira il vento”, allo stesso modo sembrerebbe non servire uno studioso di organizzazione per capire il clima di un’azienda. Tale atteggiamento, viene spiegato, è molto diffuso e si basa sull’assunto che tutti (imprenditori, manager, lavoratori), sappiano/sentano se “splende il sole” o “infuria la bufera”. E così in effetti è nella gran parte dei casi. Le cose iniziano però a complicarsi quando l’azienda non è così piccola e semplice da poter essere osservata a colpo d’occhio, quando non ci si trova di fronte a fenomeni chiari e definibili in maniera uniforme, quando si passa del semplice sentire al più complesso analizzare e interpretare. È qui che entra in gioco il contenuto e l’approccio di questo libro che cerca di analizzare con metodo le relazioni umane all’interno delle imprese.

Dopo un prima parte che inquadra il tema è distingue fra clima psicologico e clima organizzativo nelle imprese, i due autori esaminano i termini del rapporto che si crea “con il capo” e con i pari, le modalità d’azione del capo e quelle dei pari, la cosiddetta “cittadinanza organizzativa”, la capacità di gestire gli eventi inattesi, la creazione e gestione della soddisfazione e dell’emotività in azienda, la comprensione delle diversità degli individui e la loro organizzazione all’interno del gruppo aziendale, il bilanciamento fra vita privata e vita di lavoro. Il tutto, poi, viene chiuso con un caso pratico come  quello di Telecom Italia.

È importante è indicativo di tutto lo stile del volume un passaggio della presentazione: “Lo stock di capitale umano di cui un’azienda dispone, anche quando misurato correttamente, è in grado di predire solo in parte la prestazione individuale e quella organizzativa. Specificamente, l’equazione che governa la prestazione individuale, di gruppo e organizzativa è molto più complessa rispetto al semplice legame con il capitale di competenze, conoscenze, competenze e abilità”.

Clima aziendale. Crescere dando voce alle persone 

Stefano Basaglia, Chiara Paolino

Egea, 2015

L’impegno di Confindustria per un miglior dialogo tra giustizia e imprese

Superare i difficili rapporti tra magistratura e imprese. Recenti vicende hanno riproposto il tema di come conciliare l’applicazione delle leggi e le iniziative di sanzione ma anche di prevenzione nelle mani dei giudici e le giuste esigenze delle imprese a continuare le loro attività pur in presenza di ipotesi di reato (il caso Ilva e soprattutto quello della Fincantieri, con il blocco dell’azienda durante un’indagine giudiziaria e i rischi conseguenti per la consegna delle navi in lavorazione e i 4.500 posti di lavoro, sono solo gli ultimi d’una lunga serie). Il “Corriere della Sera”, con una documentata inchiesta di Dario Di Vico, ha aperto il dibattito, con interventi di imprenditori, magistrati, politici, studiosi dell’economia e del diritto. Ce n’è stata l’eco pure su “Il Sole24Ore”. Il dibattito è quanto mai opportuno. Che una giustizia efficiente (tempestiva nei giudizi, cioè) ed efficace (con buone sentenze di merito) sia un cardine fondamentale per uno sviluppo equilibrato (anche per attrarre investimenti esteri qualificati, sinora poco interessati all’Italia per l’incrocio perverso tra eccesso di burocrazia, alti e diffusi livelli di corruzione, lentezza e limiti della giustizia) è stata questione più volte affrontata in questo blog. E la scelta di Assolombarda di insistere da tempo sulla centralità della legalità come primario interesse delle imprese si basa su una idea generale della competitività legata anche alla qualità e all’efficienza sia della legislazione, sia della giurisdizione, sottolineando anche l’importanza del funzionamento della macchina giudiziaria.

La riforma della settore avviata dal governo Renzi ha fatto fare significativi passi avanti alla situazione. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando, a metà luglio, è andato a Londra a raccontarne condizioni e primi effetti  a una qualificata platea di investitori internazionali. Non solo riforme, ma anche buona amministrazione, comunque. L’intelligente gestione di Corti d’Appello e Tribunali (Milano, Torino, Bolzano e altri) ha mostrato infatti come si possano ridurre drasticamente i tempi delle sentenze (garantendo così tempestiva giustizia penale e civile) e smaltire l’arretrato di cause pendenti (la Corte d’Appello di Milano presieduta da Giovanni Canzio nei primi sei mesi del 2015, con lo stessi numero dei giudici e nonostante le carenze del personale amministrativo, il 40% in meno dell’organico previsto, ha ridotto i processi civili pendenti del 29,2% e i processi durano in media due anni e solo il 27% arriva in Cassazione, dove comunque le sentenze vengono confermate nell’80% dei casi).

Vale dunque la pena insistere più sul dialogo tra giustizia ed economia che non sui conflitti. E’ l’obiettivo del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi che, in una lettera al “Corriere della Sera” (17 luglio) chiede di “superare il clima ostile che circonda le imprese” e insiste: “Il perno su cui fare leva per ricomporre l’equilibrio tra giustizia ed economia è bilanciare gli interessi. La legge deve definire il perimetro d’azione in modo chiaro… “. E poi “bisogna migliorare la sensibilità economica dei giudici, puntando su formazione e specializzazione”. E “restituire al diritto la sua matrice di fattore di competitività e non di ostacolo alla libera iniziativa”.

Squinzi è sincero: “Riconosco che in passato non tutta l’industria ha avuto la giusta sensibilità sui temi ambientali. Ma con la stessa franchezza vorrei fosse chiaro che l’immagine che si tenta di diffondere di un’industria ‘refrattaria’ alle regole ambientali è falsa e assolutamente lontana dalla realtà del nostro sistema produttivo”.

Il ragionamento vale anche per molte altre dimensioni, oltre l’ambiente. Si può dunque, nella piena consapevolezza della diversità di ruoli, responsabilità e funzioni, andare avanti insieme, magistratura e imprese. Squinzi cita la Costituzione, come riferimento. E conclude: “E’ una partita decisiva, che Confindustria segue con la massima attenzione, per dare il suo contributo alla costruzione di quei ‘ponti’ che servirebbero per fare dialogare di più e meglio giustizia ed economia”.

Superare i difficili rapporti tra magistratura e imprese. Recenti vicende hanno riproposto il tema di come conciliare l’applicazione delle leggi e le iniziative di sanzione ma anche di prevenzione nelle mani dei giudici e le giuste esigenze delle imprese a continuare le loro attività pur in presenza di ipotesi di reato (il caso Ilva e soprattutto quello della Fincantieri, con il blocco dell’azienda durante un’indagine giudiziaria e i rischi conseguenti per la consegna delle navi in lavorazione e i 4.500 posti di lavoro, sono solo gli ultimi d’una lunga serie). Il “Corriere della Sera”, con una documentata inchiesta di Dario Di Vico, ha aperto il dibattito, con interventi di imprenditori, magistrati, politici, studiosi dell’economia e del diritto. Ce n’è stata l’eco pure su “Il Sole24Ore”. Il dibattito è quanto mai opportuno. Che una giustizia efficiente (tempestiva nei giudizi, cioè) ed efficace (con buone sentenze di merito) sia un cardine fondamentale per uno sviluppo equilibrato (anche per attrarre investimenti esteri qualificati, sinora poco interessati all’Italia per l’incrocio perverso tra eccesso di burocrazia, alti e diffusi livelli di corruzione, lentezza e limiti della giustizia) è stata questione più volte affrontata in questo blog. E la scelta di Assolombarda di insistere da tempo sulla centralità della legalità come primario interesse delle imprese si basa su una idea generale della competitività legata anche alla qualità e all’efficienza sia della legislazione, sia della giurisdizione, sottolineando anche l’importanza del funzionamento della macchina giudiziaria.

La riforma della settore avviata dal governo Renzi ha fatto fare significativi passi avanti alla situazione. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando, a metà luglio, è andato a Londra a raccontarne condizioni e primi effetti  a una qualificata platea di investitori internazionali. Non solo riforme, ma anche buona amministrazione, comunque. L’intelligente gestione di Corti d’Appello e Tribunali (Milano, Torino, Bolzano e altri) ha mostrato infatti come si possano ridurre drasticamente i tempi delle sentenze (garantendo così tempestiva giustizia penale e civile) e smaltire l’arretrato di cause pendenti (la Corte d’Appello di Milano presieduta da Giovanni Canzio nei primi sei mesi del 2015, con lo stessi numero dei giudici e nonostante le carenze del personale amministrativo, il 40% in meno dell’organico previsto, ha ridotto i processi civili pendenti del 29,2% e i processi durano in media due anni e solo il 27% arriva in Cassazione, dove comunque le sentenze vengono confermate nell’80% dei casi).

Vale dunque la pena insistere più sul dialogo tra giustizia ed economia che non sui conflitti. E’ l’obiettivo del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi che, in una lettera al “Corriere della Sera” (17 luglio) chiede di “superare il clima ostile che circonda le imprese” e insiste: “Il perno su cui fare leva per ricomporre l’equilibrio tra giustizia ed economia è bilanciare gli interessi. La legge deve definire il perimetro d’azione in modo chiaro… “. E poi “bisogna migliorare la sensibilità economica dei giudici, puntando su formazione e specializzazione”. E “restituire al diritto la sua matrice di fattore di competitività e non di ostacolo alla libera iniziativa”.

Squinzi è sincero: “Riconosco che in passato non tutta l’industria ha avuto la giusta sensibilità sui temi ambientali. Ma con la stessa franchezza vorrei fosse chiaro che l’immagine che si tenta di diffondere di un’industria ‘refrattaria’ alle regole ambientali è falsa e assolutamente lontana dalla realtà del nostro sistema produttivo”.

Il ragionamento vale anche per molte altre dimensioni, oltre l’ambiente. Si può dunque, nella piena consapevolezza della diversità di ruoli, responsabilità e funzioni, andare avanti insieme, magistratura e imprese. Squinzi cita la Costituzione, come riferimento. E conclude: “E’ una partita decisiva, che Confindustria segue con la massima attenzione, per dare il suo contributo alla costruzione di quei ‘ponti’ che servirebbero per fare dialogare di più e meglio giustizia ed economia”.

Contrattazione aziendale come strumento di cultura d’impresa

La cultura d’impresa cresce anche attraverso nuovi strumenti giuridici che possano rendere più libera ed efficace la gestione dell’impresa stessa. Certo, occorrono misura e moderazione, oltre che rispetto di tutti. Ma ė indubbio che liberare dagli schemi eccessivamente rigidi la creatività dell’imprenditore – e dei suoi collaboratori -, può contribuire, e non poco, alla crescita di un sistema produttivo. È quanto, in Italia, si è provato a fare con le nuove regole sulla contrattazione collettiva e aziendale. Campo d’esplorazione complesso e delicato, quello del diritto del lavoro è certamente uno di quelli da percorrere anche in vista di una migliore e più elevata cultura della produzione e dell’intraprendere. Anche se problemi e incertezze di attuazione non mancano.

Per capire meglio e di più a che punto siamo, è utile leggere “Stato dell’arte e prospettive della contrattazione aziendale in Italia” di Francesco D’Amuri e Cristina Giorgiantonio (del Servizio Struttura economica, Dipartimento di Economia e Statistica, della Banca d’Italia), appena pubblicato e che fornisce due importanti elementi di conoscenza: l’analisi della situazione ad oggi è l’approfondimento di quello che occorre ancora fare.

L’articolo parte da una analisi e discussione delle principali indicazioni della letteratura economica in materia; poi vengono analizzate alcune evidenze circa il ricorso alla contrattazione decentrata in Italia e le esigenze manifestate dalle aziende; successivamente vengono individuate le principali questioni aperte, dal punto di vista “regolamentare” e poi ancora le problematiche relative agli incentivi fiscali per le retribuzioni di produttività. Tutto viene concluso da una comparazione fra vantaggi e svantaggi dell’attuale assetto regolamentare.

Il merito di D’Amuri e Giorgiantonio è prima di tutto uno: scrivere chiaro perché tutti possano comprendere. Poi viene la capacità di analisi tecnica di un tema, come si è detto, complesso e delicato. Analisi che viene condotta anche attraverso figure e schemi utili per il lettore (basta pensare ad una tabella di sintesi dei diversi passi successivi compiuti nella storia delle relazioni industriali in Italia dal ’93 ad oggi).

La conclusione dei due ricercatori è articolata ma indica  la possibilità di superare le attuali rigidità e incongruenze per arrivare a migliorare la contrattazione aziendale dei rapporti di lavoro per il bene dell’impresa e dei lavoratori. Un ulteriore salto in avanti della cultura del produrre in Italia.

Stato dell’arte e prospettive della contrattazione aziendale in Italia 

Francesco D’Amuri, Cristina Giorgiantonio (Servizio Struttura economica, Dipartimento di Economia e Statistica, Banca d’Italia)

Diritto delle relazioni Industriali Numero 2/XXV – 2015

Download pdf

La cultura d’impresa cresce anche attraverso nuovi strumenti giuridici che possano rendere più libera ed efficace la gestione dell’impresa stessa. Certo, occorrono misura e moderazione, oltre che rispetto di tutti. Ma ė indubbio che liberare dagli schemi eccessivamente rigidi la creatività dell’imprenditore – e dei suoi collaboratori -, può contribuire, e non poco, alla crescita di un sistema produttivo. È quanto, in Italia, si è provato a fare con le nuove regole sulla contrattazione collettiva e aziendale. Campo d’esplorazione complesso e delicato, quello del diritto del lavoro è certamente uno di quelli da percorrere anche in vista di una migliore e più elevata cultura della produzione e dell’intraprendere. Anche se problemi e incertezze di attuazione non mancano.

Per capire meglio e di più a che punto siamo, è utile leggere “Stato dell’arte e prospettive della contrattazione aziendale in Italia” di Francesco D’Amuri e Cristina Giorgiantonio (del Servizio Struttura economica, Dipartimento di Economia e Statistica, della Banca d’Italia), appena pubblicato e che fornisce due importanti elementi di conoscenza: l’analisi della situazione ad oggi è l’approfondimento di quello che occorre ancora fare.

L’articolo parte da una analisi e discussione delle principali indicazioni della letteratura economica in materia; poi vengono analizzate alcune evidenze circa il ricorso alla contrattazione decentrata in Italia e le esigenze manifestate dalle aziende; successivamente vengono individuate le principali questioni aperte, dal punto di vista “regolamentare” e poi ancora le problematiche relative agli incentivi fiscali per le retribuzioni di produttività. Tutto viene concluso da una comparazione fra vantaggi e svantaggi dell’attuale assetto regolamentare.

Il merito di D’Amuri e Giorgiantonio è prima di tutto uno: scrivere chiaro perché tutti possano comprendere. Poi viene la capacità di analisi tecnica di un tema, come si è detto, complesso e delicato. Analisi che viene condotta anche attraverso figure e schemi utili per il lettore (basta pensare ad una tabella di sintesi dei diversi passi successivi compiuti nella storia delle relazioni industriali in Italia dal ’93 ad oggi).

La conclusione dei due ricercatori è articolata ma indica  la possibilità di superare le attuali rigidità e incongruenze per arrivare a migliorare la contrattazione aziendale dei rapporti di lavoro per il bene dell’impresa e dei lavoratori. Un ulteriore salto in avanti della cultura del produrre in Italia.

Stato dell’arte e prospettive della contrattazione aziendale in Italia 

Francesco D’Amuri, Cristina Giorgiantonio (Servizio Struttura economica, Dipartimento di Economia e Statistica, Banca d’Italia)

Diritto delle relazioni Industriali Numero 2/XXV – 2015

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La buona cultura d’impresa del territorio

Il territorio può esprimere una forte cultura d’impresa oltre che essere un vero “fattore della produzione”. Basta capirlo, usarlo bene, viverlo adeguatamente anche dal punto di vista produttivo, conciliare spinte opposte, istanze diverse. Cosa non facile, ma possibile. Utile sempre, spesso importante ed essenziale per dare orizzonti nuovi a sistemi produttivi logori. Per meglio capire è utile leggere gli  atti del Policy Workshop “La ripresa economica e la politica industriale e regionale: dalla strategia ai progetti” che si ė svolto a Milano il 20 marzo scorso patrocinato dall’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISe) e dalla Società Italiana di Economia e Politica Industriale (SIEPI).  Il volume collettivo ragiona quindi sulle misure da adottare e sugli strumenti da usare per riprendere la crescita del territorio e della manifattura in Italia. Un passaggio significativo che spiega l’idea guida di tutto è che occorre partire dalla “imprescindibilità del territorio”, cioè dalla “constatazione che politiche esclusivamente votate ai fattori di offerta risulteranno poco efficaci se non accompagnate da misure tese a intercettare la domanda di nuovi beni e servizi e, in particolare, i bisogni, largamente insoddisfatti, di un ambiente e di una qualità della vita migliori. Questi ultimi si esprimono in modo differenziato nei territori e possono rappresentare una rilevante opportunità per investire in nuove attività e posti di lavoro”. Territorio, dunque, come strumento di produzione ma prima di tutto come fonte di ispirazione per nuove imprese, nuovi modi di produrre e di stare insieme; con un’attenzione particolare alla città vista come riferimento ideale è come perno attorno al quale far ruotare tutte le iniziative.

Questi principi di fondo sono quindi esplicitati e analizzati attraverso un percorso in cinque tappe: crescita europea, imprese, lavoro, strumenti finanziari, progetti territoriali. Per ogni tema vengono colti gli aspetti teorici e pratici, verificate le cose fatte e quelle da fare. Chiude il tutto un’ultimo passaggio che delinea un progetto complessivo di buon uso del territorio.

Il volume non è sempre di facile lettura, ma costituisce una buona raccolta dello stato dell’arte degli studi e delle pratiche progettuali attorno al territorio e ai suoi vari significati. Lettura utile anche e soprattutto per manager e imprenditori avveduti.

Investimenti, innovazione e città. Una nuova politica industriale per la crescita  

AA.VV.

Egea, 2015

Il territorio può esprimere una forte cultura d’impresa oltre che essere un vero “fattore della produzione”. Basta capirlo, usarlo bene, viverlo adeguatamente anche dal punto di vista produttivo, conciliare spinte opposte, istanze diverse. Cosa non facile, ma possibile. Utile sempre, spesso importante ed essenziale per dare orizzonti nuovi a sistemi produttivi logori. Per meglio capire è utile leggere gli  atti del Policy Workshop “La ripresa economica e la politica industriale e regionale: dalla strategia ai progetti” che si ė svolto a Milano il 20 marzo scorso patrocinato dall’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISe) e dalla Società Italiana di Economia e Politica Industriale (SIEPI).  Il volume collettivo ragiona quindi sulle misure da adottare e sugli strumenti da usare per riprendere la crescita del territorio e della manifattura in Italia. Un passaggio significativo che spiega l’idea guida di tutto è che occorre partire dalla “imprescindibilità del territorio”, cioè dalla “constatazione che politiche esclusivamente votate ai fattori di offerta risulteranno poco efficaci se non accompagnate da misure tese a intercettare la domanda di nuovi beni e servizi e, in particolare, i bisogni, largamente insoddisfatti, di un ambiente e di una qualità della vita migliori. Questi ultimi si esprimono in modo differenziato nei territori e possono rappresentare una rilevante opportunità per investire in nuove attività e posti di lavoro”. Territorio, dunque, come strumento di produzione ma prima di tutto come fonte di ispirazione per nuove imprese, nuovi modi di produrre e di stare insieme; con un’attenzione particolare alla città vista come riferimento ideale è come perno attorno al quale far ruotare tutte le iniziative.

Questi principi di fondo sono quindi esplicitati e analizzati attraverso un percorso in cinque tappe: crescita europea, imprese, lavoro, strumenti finanziari, progetti territoriali. Per ogni tema vengono colti gli aspetti teorici e pratici, verificate le cose fatte e quelle da fare. Chiude il tutto un’ultimo passaggio che delinea un progetto complessivo di buon uso del territorio.

Il volume non è sempre di facile lettura, ma costituisce una buona raccolta dello stato dell’arte degli studi e delle pratiche progettuali attorno al territorio e ai suoi vari significati. Lettura utile anche e soprattutto per manager e imprenditori avveduti.

Investimenti, innovazione e città. Una nuova politica industriale per la crescita  

AA.VV.

Egea, 2015

Arte e pneumatici, insolita storia d’amore. Pirelli presenta il volume che raccoglie centinaia di immagini e fotografie che testimoniano lo stretto legame tra arti grafiche e i prodotti dell’azienda

Strumenti per la cultura dell’impresa globale

Globali sempre di più. Ma anche, tutto sommato, legate ancora a filo doppio alle origini locali. E a tutto ciò che ne consegue dal punto di vista organizzativo, produttivo e, alla fine, culturale. Sono così molte delle imprese italiane. E non solo, visto che il tema della globalizzazione è comune a tutto il sistema economico. Ne è testimonianza lo studio “The relevance of business diplomacy in internationalisation processes: an empirical study”, di Rui Monteiro e Raquel Meneses (della School of Economics and Management, University of Porto in Portogallo).

L’articolo parte dalla considerazione che la globalizzazione ha cambiato radicalmente il paesaggio degli “affari internazionali e multinazionali” mettendo le imprese  nella condizione di affrontare la questione della “gestione dell’ambiente in cui operano”. E non potrebbe che essere così, visto che imprenditore e impresa si ritrovano a muoversi in mondi diversi da quelli consueti, lontani dagli schemi d’azione consolidati, terreni da conquistare che, tuttavia, devono prima essere esplorati. Anche con strumenti conoscitivi nuovi.

In questo senso, spiegano i due autori, lo studio delle relazioni internazionali e della diplomazia si è sempre più legato alle specifiche pratiche commerciali di imprese internazionali. 

Ma quanto “valgono” queste pratiche nella consuetudine aziendale? Molto secondo i due autori.  Monteiro e Meneses dimostrano la bontà di tutto questo prima con una solida impostazione teorica e poi con una indagine “sul campo” attraverso l’analisi del comportamento di otto aziende che hanno già superato la fase del salto nella globalizzazione. 

“I risultati – spiegano gli autori -, hanno mostrato che i presupposti teorici sono stati sostanzialmente confermati”. Al di là della tecnica, poi, emerge anche in questo caso l’importanza del cambiamento del metodo culturale che dà forma all’organizzazione d’impresa. 

The relevance of business diplomacy in internationalisation processes: an empirical study 

Rui Monteiro, Raquel Meneses (School of Economics and Management, University of Porto) 

International Journal of Business and globalisation, vol. 15,n. 1, 2015  

Globali sempre di più. Ma anche, tutto sommato, legate ancora a filo doppio alle origini locali. E a tutto ciò che ne consegue dal punto di vista organizzativo, produttivo e, alla fine, culturale. Sono così molte delle imprese italiane. E non solo, visto che il tema della globalizzazione è comune a tutto il sistema economico. Ne è testimonianza lo studio “The relevance of business diplomacy in internationalisation processes: an empirical study”, di Rui Monteiro e Raquel Meneses (della School of Economics and Management, University of Porto in Portogallo).

L’articolo parte dalla considerazione che la globalizzazione ha cambiato radicalmente il paesaggio degli “affari internazionali e multinazionali” mettendo le imprese  nella condizione di affrontare la questione della “gestione dell’ambiente in cui operano”. E non potrebbe che essere così, visto che imprenditore e impresa si ritrovano a muoversi in mondi diversi da quelli consueti, lontani dagli schemi d’azione consolidati, terreni da conquistare che, tuttavia, devono prima essere esplorati. Anche con strumenti conoscitivi nuovi.

In questo senso, spiegano i due autori, lo studio delle relazioni internazionali e della diplomazia si è sempre più legato alle specifiche pratiche commerciali di imprese internazionali. 

Ma quanto “valgono” queste pratiche nella consuetudine aziendale? Molto secondo i due autori.  Monteiro e Meneses dimostrano la bontà di tutto questo prima con una solida impostazione teorica e poi con una indagine “sul campo” attraverso l’analisi del comportamento di otto aziende che hanno già superato la fase del salto nella globalizzazione. 

“I risultati – spiegano gli autori -, hanno mostrato che i presupposti teorici sono stati sostanzialmente confermati”. Al di là della tecnica, poi, emerge anche in questo caso l’importanza del cambiamento del metodo culturale che dà forma all’organizzazione d’impresa. 

The relevance of business diplomacy in internationalisation processes: an empirical study 

Rui Monteiro, Raquel Meneses (School of Economics and Management, University of Porto) 

International Journal of Business and globalisation, vol. 15,n. 1, 2015  

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