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Il lavoro “ibrido” e i cambi di organizzazione

Una serie di ricerche analizza i mutamenti provocati nelle imprese e nelle istituzioni dalle nuove forme lavorative

 

Cambiare modalità di lavoro per lavorare meglio e, in determinate condizioni, per lavorare e basta. L’indicazione – imposta dalla pandemia di Covid 19 – continua ad essere di attualità, anche se con declinazioni e interpretazione varie. E’, in ogni caso, un cambio di paradigma nell’organizzazione del lavoro e dell’impresa quello che si osserva. Un mutamento anche, per certi versi, della stessa cultura del produrre. E’ attorno a questo nodo di temi che ragionano gli autori di “Ri-Organizzare il lavoro. Hybrid work, confini organizzativi e valore”, raccolta di ricerche che hanno il lavoro ibrido come oggetto principale.

Nell’introduzione alle indagini raccolte, viene spiegato: “La ‘vera’ transizione verso il lavoro ibrido è stata innescata, in gran parte, dalle necessità imposte dalla pandemia. Questo evento ha infatti catapultato le organizzazioni in una nuova era, in cui l’approccio flessibile al luogo dove il lavoro può essere svolto è diventato la norma e il lavoro ibrido, nella fase di assestamento del dopo pandemia, si afferma come catalizzatore di trasformazioni radicali nelle pratiche organizzative”.

Cambiare modalità di lavoro ha provocato “una trasformazione profonda nella cultura non solo dei lavoratori (…) ma anche delle organizzazioni, attraverso un ripensamento dei fondamenti alla base dell’organizzazione del lavoro e, più in generale, una rivisitazione dei processi organizzativi, tutti aspetti dal forte impatto sia sulla gestione delle persone, ma anche degli spazi e dei confini”.

Le ricerche raccolte cercano quindi di indagare la serie di “cambi” che il lavoro ibrido comporta: nello spazio e nel tempo, nell’organizzazione, nel suo riconoscimento.  Se – viene spiegato – il lavoro sta via via perdendo la connotazione spaziale del “luogo” (si è passati dal tele-lavoro al lavoro da remoto, al lavoro ibrido che si propone ora come la nuova “etichetta” per identificare ciò che sta accadendo) e si avvia a ridimensionare gradualmente anche quella consolidata di “tempo” (già sono in atto diverse sperimentazioni a livello nazionale ed internazionale per ridefinire il numero di ore lavorate alla settimana e la loro distribuzione temporale), con l’avvento delle nuove modalità di lavoro ciò che è messo in discussione è proprio il confine dell’organizzazione.

Ri-Organizzare il lavoro. Hybrid work, confini organizzativi e valore

AA.VV.

ProspettiveInOrganizzazione – Numero 24 – 2024

Rivista dell’Associazione italiana di organizzazione aziendale

Una serie di ricerche analizza i mutamenti provocati nelle imprese e nelle istituzioni dalle nuove forme lavorative

 

Cambiare modalità di lavoro per lavorare meglio e, in determinate condizioni, per lavorare e basta. L’indicazione – imposta dalla pandemia di Covid 19 – continua ad essere di attualità, anche se con declinazioni e interpretazione varie. E’, in ogni caso, un cambio di paradigma nell’organizzazione del lavoro e dell’impresa quello che si osserva. Un mutamento anche, per certi versi, della stessa cultura del produrre. E’ attorno a questo nodo di temi che ragionano gli autori di “Ri-Organizzare il lavoro. Hybrid work, confini organizzativi e valore”, raccolta di ricerche che hanno il lavoro ibrido come oggetto principale.

Nell’introduzione alle indagini raccolte, viene spiegato: “La ‘vera’ transizione verso il lavoro ibrido è stata innescata, in gran parte, dalle necessità imposte dalla pandemia. Questo evento ha infatti catapultato le organizzazioni in una nuova era, in cui l’approccio flessibile al luogo dove il lavoro può essere svolto è diventato la norma e il lavoro ibrido, nella fase di assestamento del dopo pandemia, si afferma come catalizzatore di trasformazioni radicali nelle pratiche organizzative”.

Cambiare modalità di lavoro ha provocato “una trasformazione profonda nella cultura non solo dei lavoratori (…) ma anche delle organizzazioni, attraverso un ripensamento dei fondamenti alla base dell’organizzazione del lavoro e, più in generale, una rivisitazione dei processi organizzativi, tutti aspetti dal forte impatto sia sulla gestione delle persone, ma anche degli spazi e dei confini”.

Le ricerche raccolte cercano quindi di indagare la serie di “cambi” che il lavoro ibrido comporta: nello spazio e nel tempo, nell’organizzazione, nel suo riconoscimento.  Se – viene spiegato – il lavoro sta via via perdendo la connotazione spaziale del “luogo” (si è passati dal tele-lavoro al lavoro da remoto, al lavoro ibrido che si propone ora come la nuova “etichetta” per identificare ciò che sta accadendo) e si avvia a ridimensionare gradualmente anche quella consolidata di “tempo” (già sono in atto diverse sperimentazioni a livello nazionale ed internazionale per ridefinire il numero di ore lavorate alla settimana e la loro distribuzione temporale), con l’avvento delle nuove modalità di lavoro ciò che è messo in discussione è proprio il confine dell’organizzazione.

Ri-Organizzare il lavoro. Hybrid work, confini organizzativi e valore

AA.VV.

ProspettiveInOrganizzazione – Numero 24 – 2024

Rivista dell’Associazione italiana di organizzazione aziendale

I giovani hanno a cuore i valori della partecipazione politica,  ma politica e scuola si occupano poco della loro crescita

I giovani italiani hanno a cuore i valori e gli interessi collettivi, a cominciare da quelli che riguardano l’ambiente. Ed esprimono un’evidente volontà di impegno. Ma guardano purtroppo con poca fiducia alla politica, anche perché la politica (e le istituzioni pubbliche) guardano poco a loro e al loro futuro. E perché in gran parte escono da una scuola che (per un ragazzo su due, alla soglia della maturità) non fornisce loro gli strumenti per capire un testo in italiano e per risolvere un problema di base in matematica (dunque per capire la realtà e affrontarne i vari aspetti). E se la base della democrazia liberale sta in una cittadinanza consapevole e cioè capace di un “discorso pubblico” ben informato (secondo la lucida lezione di Jurgen Habermas) e di un giudizio critico, a cominciare da un voto cosciente, ecco che delusione, disaffezione e ignoranza sono ostacoli radicali per mantenere in buona salute il nostro sistema politico (la democrazia fondata sulle libertà, l’economia di mercato e il welfare, appunto).

Sono queste le considerazioni che nascono dalla lettura di due recenti indagini, la prima curata dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, in collaborazione con l’Ipsos e il Laboratorio di Statistica dell’Università Cattolica di Milano e la seconda costituita dal Rapporto Invalsi 2024 sulle competenze  cognitive degli studenti delle scuole italiane.

Cominciamo dalla ricerca dell’Istituto Toniolo e di Ipsos, curata da Alessandro Rosina e fondata su 6mila interviste a giovani di cinque paesi europei (Germania, Francia, Spagna, Polonia e Italia), con una particolare attenzione al nostro Paese (Corriere della Sera, 9 luglio). Le ragazze e i ragazzi italiani di Generazione Z e Millennials credono innanzitutto nella ricerca scientifica (74%) e poi nel volontariato (66%) e di seguito, con valori decrescenti, negli ospedali, nella scuola e nelle piccole e medie imprese. La prima istituzione degna di fiducia è il Presidente della Repubblica (55,2%), seguito da Unione Europea, forze dell’ordine, grandi industrie e, ancora, dagli enti locali con cui i giovani hanno un rapporto più ravvicinato (i comuni dove abitano, le regioni). A metà strada, gli strumenti dell’opinione pubblica, i social network e i giornali (con il 43,9% e il 42,5%) e, via via segnando un calo di consensi, i sindacati, le banche, il governo nazionale (35,3%), il Parlamento, la Chiesa cattolica (32,6%) e, ultimi, i partiti (31,6%). Un dato molto basso, quello sui partiti, anche se crescente: era appena il 13,8% nel ‘16 e il 29,1% nel ‘20.

Proprio su partiti e politica la ricerca insiste molto, cercando di capire meglio cosa ci sia in quello spazio pubblico giovanile segnato sia dalla grande fiducia nel volontariato (e cioè nei valori di comunità: impegno, altruismo, senso civile e caritatevole, capacità di farsi carico dei problemi altrui e di prendersi cura dell’ambiente, dei disagi sociali e dei bisogni delle persone più deboli) sia però anche dalla sfiducia nella politica praticata e nei partiti.

Tre giovani intervistati su quattro, infatti, sostengono che “è possibile impegnarsi in prima persona per migliorare il Paese” ma poi, guardando alla politica, solo il 5,2% dice che “la politica offre spazi di partecipazione e azione alle nuove generazioni”, contro un 20,4% che pensa l’esatto contrario, negando la possibilità di alcuno spazio. Il 41,9% dice “spazio molto limitato” e il 32,5% sostiene che lo spazio c’è, ma solo “in alcuni partiti e movimenti”. Il contesto è difficile, ma si può migliorare.

C’è una consapevolezza di fondo: il 61% ritiene che “senza partiti non c’è vera democrazia” e il 67,4% afferma che “è sbagliato dire che i partiti sono tutti uguali”. In ogni caso, per il 73,9%, “è ancora possibile impegnarsi in prima persona per fare funzionare le cose”.

Le ragazze e i ragazzi Millennials e della cosiddetta Generazione Z, pur fortemente critici, aprono una porta ai responsabili della politica attiva, fanno un gesto di fiducia, dichiarano una disponibilità, che sperano sia raccolta. E intanto, si danno da fare. Il volontariato diffuso, appunto, ne è una significativa conferma.

Commenta Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Asvis, l’Alleanza per lo sviluppo sostenibile: “E’ uno stereotipo che i giovani non siano interessati alla politica. Non sono interessati a questa politica, perché sono insoddisfatti della loro presenza nei partiti e di come agiscono, di una ‘politica politicante’ tipica dei talk show. Si impegnano invece nel sociale”, credono nei valori del merito e del lavoro ben fatto, si appassionano ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Tocca insomma ai partiti e alle istituzioni raccogliere le loro manifestazioni di attenzione e di interesse e cercare di dare risposte soddisfacenti.

Resta però, solo sfondo, un problema di formazione. E di strumenti adeguati a capire una realtà in rapido cambiamento. I test Invalsi (ne scrive Chiara Saraceno su La Stampa, 12 luglio) documentano un lento miglioramento nell’acquisizione delle competenze cognitive degli studenti italiani, dalla scuola primaria alle secondarie superiori, pur restando sempre grave il fenomeno della cosiddetta “dispersione implicita”, la condizione di ragazzi e ragazze che, pur completando il ciclo di studi, non raggiungono le competenze di base: il 44% per ciò che riguarda l’italiano, il 48% per la matematica e, rispettivamente, il 40% e il 55% per la comprensione di un testo scritto o parlato in inglese (il fenomeno è particolarmente grave nelle regioni del Mezzogiorno).

Commenta Chiara Saraceno: “Ci si preoccupa, giustamente, della scarsa competenza logico-matematica di una parte rilevante di ragazzi e ragazze e di un forte divario di genere a sfavore delle ragazze, che sembra già ben radicato nella scuola primaria (fenomeno non riscontrabile, almeno con la stessa intensità, in altri paesi). Ma dovrebbero preoccupare altrettanto le scarse competenze nell’uso della lingua italiana e della comprensione dei testi, che riguarda metà dei maturandi e più i maschi che le femmine”.

Insomma, “non dovrebbe essere sottovalutato il rischio che questi ragazzi siano avviati a un analfabetismo funzionale, che riduce la capacità di comprensione delle informazioni che si ricevono, di espressione ed elaborazione delle proprie ed altrui emozioni, di godimento delle cultura in tutte le sue forme, di capacità di fare valere i propri diritti in un confronto democratico”. Di far politica consapevolmente, insomma. Di vivere a pieno la propria cittadinanza. Una lesione di libertà, di partecipazione, di futuro.

(foto Getty Images)

I giovani italiani hanno a cuore i valori e gli interessi collettivi, a cominciare da quelli che riguardano l’ambiente. Ed esprimono un’evidente volontà di impegno. Ma guardano purtroppo con poca fiducia alla politica, anche perché la politica (e le istituzioni pubbliche) guardano poco a loro e al loro futuro. E perché in gran parte escono da una scuola che (per un ragazzo su due, alla soglia della maturità) non fornisce loro gli strumenti per capire un testo in italiano e per risolvere un problema di base in matematica (dunque per capire la realtà e affrontarne i vari aspetti). E se la base della democrazia liberale sta in una cittadinanza consapevole e cioè capace di un “discorso pubblico” ben informato (secondo la lucida lezione di Jurgen Habermas) e di un giudizio critico, a cominciare da un voto cosciente, ecco che delusione, disaffezione e ignoranza sono ostacoli radicali per mantenere in buona salute il nostro sistema politico (la democrazia fondata sulle libertà, l’economia di mercato e il welfare, appunto).

Sono queste le considerazioni che nascono dalla lettura di due recenti indagini, la prima curata dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, in collaborazione con l’Ipsos e il Laboratorio di Statistica dell’Università Cattolica di Milano e la seconda costituita dal Rapporto Invalsi 2024 sulle competenze  cognitive degli studenti delle scuole italiane.

Cominciamo dalla ricerca dell’Istituto Toniolo e di Ipsos, curata da Alessandro Rosina e fondata su 6mila interviste a giovani di cinque paesi europei (Germania, Francia, Spagna, Polonia e Italia), con una particolare attenzione al nostro Paese (Corriere della Sera, 9 luglio). Le ragazze e i ragazzi italiani di Generazione Z e Millennials credono innanzitutto nella ricerca scientifica (74%) e poi nel volontariato (66%) e di seguito, con valori decrescenti, negli ospedali, nella scuola e nelle piccole e medie imprese. La prima istituzione degna di fiducia è il Presidente della Repubblica (55,2%), seguito da Unione Europea, forze dell’ordine, grandi industrie e, ancora, dagli enti locali con cui i giovani hanno un rapporto più ravvicinato (i comuni dove abitano, le regioni). A metà strada, gli strumenti dell’opinione pubblica, i social network e i giornali (con il 43,9% e il 42,5%) e, via via segnando un calo di consensi, i sindacati, le banche, il governo nazionale (35,3%), il Parlamento, la Chiesa cattolica (32,6%) e, ultimi, i partiti (31,6%). Un dato molto basso, quello sui partiti, anche se crescente: era appena il 13,8% nel ‘16 e il 29,1% nel ‘20.

Proprio su partiti e politica la ricerca insiste molto, cercando di capire meglio cosa ci sia in quello spazio pubblico giovanile segnato sia dalla grande fiducia nel volontariato (e cioè nei valori di comunità: impegno, altruismo, senso civile e caritatevole, capacità di farsi carico dei problemi altrui e di prendersi cura dell’ambiente, dei disagi sociali e dei bisogni delle persone più deboli) sia però anche dalla sfiducia nella politica praticata e nei partiti.

Tre giovani intervistati su quattro, infatti, sostengono che “è possibile impegnarsi in prima persona per migliorare il Paese” ma poi, guardando alla politica, solo il 5,2% dice che “la politica offre spazi di partecipazione e azione alle nuove generazioni”, contro un 20,4% che pensa l’esatto contrario, negando la possibilità di alcuno spazio. Il 41,9% dice “spazio molto limitato” e il 32,5% sostiene che lo spazio c’è, ma solo “in alcuni partiti e movimenti”. Il contesto è difficile, ma si può migliorare.

C’è una consapevolezza di fondo: il 61% ritiene che “senza partiti non c’è vera democrazia” e il 67,4% afferma che “è sbagliato dire che i partiti sono tutti uguali”. In ogni caso, per il 73,9%, “è ancora possibile impegnarsi in prima persona per fare funzionare le cose”.

Le ragazze e i ragazzi Millennials e della cosiddetta Generazione Z, pur fortemente critici, aprono una porta ai responsabili della politica attiva, fanno un gesto di fiducia, dichiarano una disponibilità, che sperano sia raccolta. E intanto, si danno da fare. Il volontariato diffuso, appunto, ne è una significativa conferma.

Commenta Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Asvis, l’Alleanza per lo sviluppo sostenibile: “E’ uno stereotipo che i giovani non siano interessati alla politica. Non sono interessati a questa politica, perché sono insoddisfatti della loro presenza nei partiti e di come agiscono, di una ‘politica politicante’ tipica dei talk show. Si impegnano invece nel sociale”, credono nei valori del merito e del lavoro ben fatto, si appassionano ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Tocca insomma ai partiti e alle istituzioni raccogliere le loro manifestazioni di attenzione e di interesse e cercare di dare risposte soddisfacenti.

Resta però, solo sfondo, un problema di formazione. E di strumenti adeguati a capire una realtà in rapido cambiamento. I test Invalsi (ne scrive Chiara Saraceno su La Stampa, 12 luglio) documentano un lento miglioramento nell’acquisizione delle competenze cognitive degli studenti italiani, dalla scuola primaria alle secondarie superiori, pur restando sempre grave il fenomeno della cosiddetta “dispersione implicita”, la condizione di ragazzi e ragazze che, pur completando il ciclo di studi, non raggiungono le competenze di base: il 44% per ciò che riguarda l’italiano, il 48% per la matematica e, rispettivamente, il 40% e il 55% per la comprensione di un testo scritto o parlato in inglese (il fenomeno è particolarmente grave nelle regioni del Mezzogiorno).

Commenta Chiara Saraceno: “Ci si preoccupa, giustamente, della scarsa competenza logico-matematica di una parte rilevante di ragazzi e ragazze e di un forte divario di genere a sfavore delle ragazze, che sembra già ben radicato nella scuola primaria (fenomeno non riscontrabile, almeno con la stessa intensità, in altri paesi). Ma dovrebbero preoccupare altrettanto le scarse competenze nell’uso della lingua italiana e della comprensione dei testi, che riguarda metà dei maturandi e più i maschi che le femmine”.

Insomma, “non dovrebbe essere sottovalutato il rischio che questi ragazzi siano avviati a un analfabetismo funzionale, che riduce la capacità di comprensione delle informazioni che si ricevono, di espressione ed elaborazione delle proprie ed altrui emozioni, di godimento delle cultura in tutte le sue forme, di capacità di fare valere i propri diritti in un confronto democratico”. Di far politica consapevolmente, insomma. Di vivere a pieno la propria cittadinanza. Una lesione di libertà, di partecipazione, di futuro.

(foto Getty Images)

Calabrò “In tutte le gare c’è un lavoro di squadra Lo sport non è spettacolo”

Imprenditoriale sociale e cooperativa

Un orizzonte diverso delineato da una serie di indagini e ricerche

 

Cooperare per produrre meglio e con maggiore efficacia ed equità. Con attenzione agli altri. E al territorio. L’imprenditoria cooperativa e sociale ha molto da dire all’economia e alla cultura d’impresa. E’ necessario però conoscerne i tratti peculiari con obiettività, le caratteristiche con chiarezza e le possibilità con precisione. Per questo serve leggere “Radici nel futuro. Economia sociale e cooperazione”, raccolta di ricerche attorno al tema coordinata da Eleonora Vanni e Maria Felicia Gemelli.

Le diverse indagini prendono le mosse dalla constatazione delle caratteristiche del periodo che economia e società stanno passando. “Viviamo – viene precisato nelle prime pagine che fanno da introduzione – un momento di profondi cambiamenti caratterizzato da elementi di forte discontinuità: fratture sociali ed economiche che si sono allargate, trasformazione digitale che ha subito un’accelerazione legata anche agli esiti del periodo pandemico, trasformazioni del lavoro sia per quanto riguarda le forme organizzative, soprattutto in relazione allo Smart working, che per un approccio al lavoro che sembra evolversi oltre la sola dimensione salariale”. Da qui la constatazione della necessità “di un nuovo e diverso modello di sviluppo orientato alla sostenibilità nella dimensione economica, sociale ed ambientale riproposto in maniera molto significativa dal dibattito sul ruolo dell’Economia Sociale come driver di sviluppo”.

L’insieme delle ricerche, quindi, delinea prima i processi di cambiamento e poi approfondisce gli strumenti a disposizione per lo sviluppo dell’imprenditoria sociale. Successivamente, altre indagini mettono a fuoco le relazioni che vi possono essere per creare ed animare modalità diverse di partecipazione. Una serie di casi studio rende quindi più vivace la raccolta che indica, alla fine, il modello della cooperativa sociale come uno degli strumenti per intraprendere una strada diversa di sviluppo. Un modello – viene anticipato all’inizio della raccolta – “che superi la dicotomia stato-mercato verso una maggiore democrazia economica e la partecipazione al mercato di una pluralità di soggetti maggiormente articolata e con finalità diversificate pur nell’agire imprenditoriale. Finalità che l’economia sociale, nella visione europea, indica prioritariamente nel perseguimento di un migliore equilibrio nella distribuzione del valore prodotto tra le persone (membri) e i territori (comunità), in un minor impatto delle produzioni sull’ambiente, nel governo democratico e partecipativo”.

“Radici nel futuro” contiene una serie di indagini che certamente non troveranno tutti d’accordo nelle loro conclusioni, ma rappresenta una valida “cassetta degli attrezzi” per conoscere meglio una realtà che non può essere trascurata.

Radici nel futuro. Economia sociale e cooperazione

Eleonora Vanni, Maria Felicia Gemelli (a cura di)

Trasformazioni, Fondazione Barberini. Memoria e immaginazione, 2023

Un orizzonte diverso delineato da una serie di indagini e ricerche

 

Cooperare per produrre meglio e con maggiore efficacia ed equità. Con attenzione agli altri. E al territorio. L’imprenditoria cooperativa e sociale ha molto da dire all’economia e alla cultura d’impresa. E’ necessario però conoscerne i tratti peculiari con obiettività, le caratteristiche con chiarezza e le possibilità con precisione. Per questo serve leggere “Radici nel futuro. Economia sociale e cooperazione”, raccolta di ricerche attorno al tema coordinata da Eleonora Vanni e Maria Felicia Gemelli.

Le diverse indagini prendono le mosse dalla constatazione delle caratteristiche del periodo che economia e società stanno passando. “Viviamo – viene precisato nelle prime pagine che fanno da introduzione – un momento di profondi cambiamenti caratterizzato da elementi di forte discontinuità: fratture sociali ed economiche che si sono allargate, trasformazione digitale che ha subito un’accelerazione legata anche agli esiti del periodo pandemico, trasformazioni del lavoro sia per quanto riguarda le forme organizzative, soprattutto in relazione allo Smart working, che per un approccio al lavoro che sembra evolversi oltre la sola dimensione salariale”. Da qui la constatazione della necessità “di un nuovo e diverso modello di sviluppo orientato alla sostenibilità nella dimensione economica, sociale ed ambientale riproposto in maniera molto significativa dal dibattito sul ruolo dell’Economia Sociale come driver di sviluppo”.

L’insieme delle ricerche, quindi, delinea prima i processi di cambiamento e poi approfondisce gli strumenti a disposizione per lo sviluppo dell’imprenditoria sociale. Successivamente, altre indagini mettono a fuoco le relazioni che vi possono essere per creare ed animare modalità diverse di partecipazione. Una serie di casi studio rende quindi più vivace la raccolta che indica, alla fine, il modello della cooperativa sociale come uno degli strumenti per intraprendere una strada diversa di sviluppo. Un modello – viene anticipato all’inizio della raccolta – “che superi la dicotomia stato-mercato verso una maggiore democrazia economica e la partecipazione al mercato di una pluralità di soggetti maggiormente articolata e con finalità diversificate pur nell’agire imprenditoriale. Finalità che l’economia sociale, nella visione europea, indica prioritariamente nel perseguimento di un migliore equilibrio nella distribuzione del valore prodotto tra le persone (membri) e i territori (comunità), in un minor impatto delle produzioni sull’ambiente, nel governo democratico e partecipativo”.

“Radici nel futuro” contiene una serie di indagini che certamente non troveranno tutti d’accordo nelle loro conclusioni, ma rappresenta una valida “cassetta degli attrezzi” per conoscere meglio una realtà che non può essere trascurata.

Radici nel futuro. Economia sociale e cooperazione

Eleonora Vanni, Maria Felicia Gemelli (a cura di)

Trasformazioni, Fondazione Barberini. Memoria e immaginazione, 2023

I rischi dell’impegno sociale

Appena pubblicato un libro che ragione sul tema del socialwashing

Attenzione ai risvolti ambientali della propria attività e cura verso i riflessi sociali della presenza dell’impresa in un determinato contesto territoriale. Pratiche concrete, non solo buone intenzioni, che il mercato chiede e che vuole essere dimostrate con sempre maggiore precisione e affidabilità. Esigenze precise che le imprese devono soddisfare. Con tutti costi e i rischi del caso. Perché, sempre di più, le imprese che utilizzano sostenibilità e temi sociali in modo strumentale sono esposte ad almeno due pericoli. Prima di tutto quello di essere escluse dal mercato a causa di regolamenti che si fanno sempre più severi e stringenti; poi quello di essere accusate pubblicamente di socialwashing, ovvero di comportamenti socialmente positivi ma solo di facciata, in una colorata gamma di declinazioni: pinkwashing, rainbow washing, blackwashing, healthwashing, sportwashing, fino a quella silenziosa del greenhushing.

E’ attorno a questo tema che Rossella Sobrero ha scritto il suo “Pericolo socialwashing. Comunicare l’impegno sociale tra rischi e opportunità”. Un libro che in circa 200 pagine riesce a far chiarezza su uno degli aspetti più complessi e controversi dell’attuale gestione d’impresa.

Le domande alle quali Sobrero risponde sono diverse. Prima di tutto occorre chiedersi che cosa spinga un’organizzazione a esporsi al rischio del socialwashing. La risposta, in termini generali, arriva dal mercato e dagli stakeholder dell’impresa. Se da un lato, per essere accettata come attore sociale, l’impresa potrebbe limitarsi a organizzare attività filantropiche, lanciare programmi di volontariato aziendale, realizzare iniziative promozionali orientate alla responsabilità sociale, dall’altro, tutte queste attività, per quanto importanti, non bastano più. Alle imprese si chiede di dimostrare una reale volontà di contribuire alla soluzione dei problemi della società. Per farlo è necessario interpretare le tendenze in atto, comprendere le esigenze delle persone, agire in modo onesto, coerente, trasparente. Solo così gli stakeholder, in particolare i consumatori, premieranno chi si sarà autenticamente impegnato per il bene comune oltre che per raggiungere i propri obiettivi aziendali.

Tutto questo ha un costo non solo in termini economici ma anche di organizzazione. Il libro quindi illustra con chiarezza, anche grazie a molti esempi, quali sono le principali declinazioni del socialwashing; ricorda che ci sono azioni e strumenti che possono mettere, almeno in parte, l’organizzazione al riparo da questo tipo di accusa; e propone una lettura nuova del rapporto tra l’organizzazione e i suoi stakeholder. Sobrero sottolinea, tra l’altro, che se in genere si guarda a cosa può fare l’impresa per coinvolgere i portatori di interessi, raramente riflettiamo sul ruolo che gli stakeholder possono avere per sollecitare l’impresa ad adottare comportamenti corretti e a raccontarli in modo trasparente.

Di grande valore gli interventi degli esperti che nella seconda parte del volume contribuiscono a stimolare il dibattito e la riflessione su un tema che nelle loro parole rivela le sue tante sfaccettature. Interviste a: Andrea Alemanno, Concetta Cardamone, Giampaolo Cerri, Vittorio Cino, Monica De Paoli, Barbara Falcomer, Filippo Giordano, Enrico Giovannini, Enrico Giraudi, Pina Lalli, Paola Magni, Federico Mento, Roberto Natale, Matteo Pietripaoli, Roberto Randazzo, Angelo Rindone, Francesca Vecchioni, Clodia Vurro, Stefano Zamagni, Alberto Zambolin.

Il libro di Rossella Sobrero deve certamente essere letto da chi ha anche fare con i temi dell’impegno sociale e ambientale delle imprese. E vale la pena rileggerlo.

Pericolo socialwashing. Comunicare l’impegno sociale tra rischi e opportunità

Rossella Sobrero

Egea, 2024

Appena pubblicato un libro che ragione sul tema del socialwashing

Attenzione ai risvolti ambientali della propria attività e cura verso i riflessi sociali della presenza dell’impresa in un determinato contesto territoriale. Pratiche concrete, non solo buone intenzioni, che il mercato chiede e che vuole essere dimostrate con sempre maggiore precisione e affidabilità. Esigenze precise che le imprese devono soddisfare. Con tutti costi e i rischi del caso. Perché, sempre di più, le imprese che utilizzano sostenibilità e temi sociali in modo strumentale sono esposte ad almeno due pericoli. Prima di tutto quello di essere escluse dal mercato a causa di regolamenti che si fanno sempre più severi e stringenti; poi quello di essere accusate pubblicamente di socialwashing, ovvero di comportamenti socialmente positivi ma solo di facciata, in una colorata gamma di declinazioni: pinkwashing, rainbow washing, blackwashing, healthwashing, sportwashing, fino a quella silenziosa del greenhushing.

E’ attorno a questo tema che Rossella Sobrero ha scritto il suo “Pericolo socialwashing. Comunicare l’impegno sociale tra rischi e opportunità”. Un libro che in circa 200 pagine riesce a far chiarezza su uno degli aspetti più complessi e controversi dell’attuale gestione d’impresa.

Le domande alle quali Sobrero risponde sono diverse. Prima di tutto occorre chiedersi che cosa spinga un’organizzazione a esporsi al rischio del socialwashing. La risposta, in termini generali, arriva dal mercato e dagli stakeholder dell’impresa. Se da un lato, per essere accettata come attore sociale, l’impresa potrebbe limitarsi a organizzare attività filantropiche, lanciare programmi di volontariato aziendale, realizzare iniziative promozionali orientate alla responsabilità sociale, dall’altro, tutte queste attività, per quanto importanti, non bastano più. Alle imprese si chiede di dimostrare una reale volontà di contribuire alla soluzione dei problemi della società. Per farlo è necessario interpretare le tendenze in atto, comprendere le esigenze delle persone, agire in modo onesto, coerente, trasparente. Solo così gli stakeholder, in particolare i consumatori, premieranno chi si sarà autenticamente impegnato per il bene comune oltre che per raggiungere i propri obiettivi aziendali.

Tutto questo ha un costo non solo in termini economici ma anche di organizzazione. Il libro quindi illustra con chiarezza, anche grazie a molti esempi, quali sono le principali declinazioni del socialwashing; ricorda che ci sono azioni e strumenti che possono mettere, almeno in parte, l’organizzazione al riparo da questo tipo di accusa; e propone una lettura nuova del rapporto tra l’organizzazione e i suoi stakeholder. Sobrero sottolinea, tra l’altro, che se in genere si guarda a cosa può fare l’impresa per coinvolgere i portatori di interessi, raramente riflettiamo sul ruolo che gli stakeholder possono avere per sollecitare l’impresa ad adottare comportamenti corretti e a raccontarli in modo trasparente.

Di grande valore gli interventi degli esperti che nella seconda parte del volume contribuiscono a stimolare il dibattito e la riflessione su un tema che nelle loro parole rivela le sue tante sfaccettature. Interviste a: Andrea Alemanno, Concetta Cardamone, Giampaolo Cerri, Vittorio Cino, Monica De Paoli, Barbara Falcomer, Filippo Giordano, Enrico Giovannini, Enrico Giraudi, Pina Lalli, Paola Magni, Federico Mento, Roberto Natale, Matteo Pietripaoli, Roberto Randazzo, Angelo Rindone, Francesca Vecchioni, Clodia Vurro, Stefano Zamagni, Alberto Zambolin.

Il libro di Rossella Sobrero deve certamente essere letto da chi ha anche fare con i temi dell’impegno sociale e ambientale delle imprese. E vale la pena rileggerlo.

Pericolo socialwashing. Comunicare l’impegno sociale tra rischi e opportunità

Rossella Sobrero

Egea, 2024

I nostri ragazzi pronti a lasciare l’Italia raccontano un paese in declino e in crisi di fiducia e di futuro

L’inverno demografico, con meno di 400mila bambini nati nel ‘23 e un crescente invecchiamento della popolazione. E la fuga verso l’estero di decine di migliaia di ragazze e di ragazzi, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita: 525mila, per l’esattezza, dal 2008 al 2022, secondo i dati forniti dal Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta nella sua Relazione del maggio scorso. L’Italia fatica a pensare positivamente al futuro. E per quanto i dati negativi sulla demografia siano oramai noti da tempo, il mondo dei decisori politici e di governo parla moltissimo dei giovani, promette misure per i giovani, vanta scelte per i giovani ma non sembra ancora in grado di varare misure convincenti per invertire una drammatica tendenza al declino. Della popolazione e dunque del Pil, della produttività e, in prospettiva, della competitività e dello sviluppo sostenibile del sistema Paese.

L’ultimo allarme viene da uno studio realizzato dall’Ipsos per la Fondazione Barletta, che sarà presentato mercoledì e che è stato anticipato domenica 7 luglio da “IlSole24Ore”: il 35% dei giovani italiani sotto i 30 anni sono pronti a espatriare, per avere “salari più alti” e “opportunità di lavoro migliori”. Un dato drammatico: uno su tre dei nostri figli e nipoti vuole andare via, uno su tre “vota con i piedi” (scegliendo, cioè, di lasciare l’Italia, manifestando una vera e propria crisi di fiducia nei confronti del Paese) e dunque boccia le politiche del lavoro, le prospettive di carriera, le offerte delle pubbliche amministrazioni e delle imprese. Uno su tre, in sintesi, forte di un titolo di studio preso in Italia, vuole andare all’estero per fare l’ingegnere e il medico, il ricercatore scientifico e il professore universitario, il tecnico informatico e il chimico e così via declinando tutte le professioni e i mestieri, soprattutto quelli high tech, quelli che garantiscono un più soddisfacente futuro.

Il fenomeno dell’inclinazione all’esodo riguarda mediamente tutte le regioni e le città italiane. Ma nel Mezzogiorno va molto peggio. Perché a leggere i risultati dell’indagine Ipsos si scopre che accanto a quel 35% pronto a espatriare, c’è solo un 15% che dichiara di non volersi muovere. Un altro 18% dice di voler andare “ovunque in Italia” e un 32% disposto a trasferirsi “solo nella mia regione o in quelle limitrofe”. Fatte le somme, dunque, l’85% dei ragazzi sono decisi a lasciare casa. Un gigantesco sommovimento sociale ed economico. Una radicale modifica dei tessuti familiari e urbani. Commentano Cristina Casadei e Claudio Tucci su “IlSole24Ore”: “Mentre il Nord Italia più o meno riesce a compensare le uscite con l’attrazione di giovani provenienti dal Mezzogiorno, il Sud si ferma alla perdita secca di talenti. Una doppia onda che mette alla prova la tenuta dell’intero Paese, specialmente quando la fuoriuscita riguarda professioni ad alto valore aggiunto”.
Milano, grande città universitaria (con oltre 200mila studenti, in più di dieci atenei di rilievo internazionale per qualità di formazione e ricerca) continua infatti a essere attrattiva, anche nei confronti di giovani provenienti dall’estero. Ma il resto dell’Italia soffre.

Avere pochi laureati (abbiamo solo il 22% della popolazione con un titolo di studio superiore, in coda rispetto agli altri paesi Ue) comporta una bassa produttività dell’intero Paese, una scarsa spinta all’innovazione e al cambiamento, una ridotta propensione all’intraprendenza e alla costruzione di nuove e migliori opportunità non solo di cresciuta economica, ma anche di miglioramento complessivo della qualità della vita. Nella stagione del predominio della “economia della conoscenza”, la carenza di laureati, non solo nelle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria, matematica) ma più in generale, rende quanto mai difficile all’Italia e alle sue imprese reggere la concorrenza su mercati sempre più esigenti e selettivi. E se è quanto mai utile magnificare e sostenere il Made in Italy di qualità, è sopratutto necessario investire in formazione di lungo periodo, in sostegni fiscali a chi investe e innova, in politiche industriali di respiro europeo. Tutto quel che serve anche per dare ai giovani prospettive di futuro, elementi di ricostruzione della fiducia. Per fare tornare chi è andato via. Per trattenere chi comunque vuole continuare a vivere in Italia. E per attrarre ragazze e ragazzi da altre aree del Mediterraneo, dell’Europa, del mondo.

Abbiamo appunto bisogno di giovani intelligenze, di conoscenze e competenze aggiornate, di sguardi aperti al cambiamento. Senza questi talenti, il sistema economico ne soffrirà sempre di più. Un dato, per dare le dimensioni del fenomeno: le imprese dicono di essere pronte ad assumere 800mila persone, ma ne trovano meno della metà.
In futuro, senza scelte strategiche opportune, andrà anche peggio. Come confermano queste previsioni, che ripete da tempo un uomo attento alle relazioni tra cultura, formazione e competitività, come Francesco Profumo, uomo di scienza e di governo (è stato ministro della Pubblica Istruzione e presidente del Cnr e della Compagnia di San Paolo). Nel 2023 abbiamo avuto 180mila laureati, di fronte agli 800mila bambini nati all’inizio degli anni 2000. Ferme restando queste percentuali, tra vent’anni, dei 379mila nati nel 2023, ne laureeremo 80 o 90mila. Una cifra irrisoria.
Ecco il punto chiave della denatalità. In vent’anni abbiamo perso 3milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni. E tra trent’anni, secondo calcoli di Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia ed ex presidente dell’Istat, la popolazione in età attiva (nella fascia d’età 15/64 anni) passerà dagli attuali 37,5 milioni a 27,2 milioni: dieci milioni in meno, con un calo del 27,3%. Economicamente, un disastro. Socialmente, un’Italia che invecchia, perde risorse, stimoli, prospettive.

Che fare, allora? Pensare a politiche contro la denatalità, facendo adesso le scelte indispensabili per arginare un fenomeno di lungo periodo. Preparare e gestire politiche di immigrazione, con tutto ciò che ne consegue in termini di inserimento e formazione, di lavoro e di cittadinanza. Ma anche, fin da subito, migliorare la qualità della scuola fin dalle classi primarie e fare crescere il numero di ragazze e ragazzi che arrivano e poi escono dall’università, dall’attuale 22% ad almeno il 30%, cercando di allinearsi rapidamente al resto dell’Europa. E, naturalmente, proprio sulle strade dell’innovazione, rendere le nostre imprese più appetibili, a cominciare da quelle manifatturiere, spina dorsale del made in Italy: non solo per le retribuzioni, ma per la qualità del lavoro, le prospettive di carriera e di vita, l’ambiente, le relazioni e le opportunità, personali, professionali, culturali. Una sfida di qualità e di futuro, appunto.

(foto Getty Images)

L’inverno demografico, con meno di 400mila bambini nati nel ‘23 e un crescente invecchiamento della popolazione. E la fuga verso l’estero di decine di migliaia di ragazze e di ragazzi, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita: 525mila, per l’esattezza, dal 2008 al 2022, secondo i dati forniti dal Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta nella sua Relazione del maggio scorso. L’Italia fatica a pensare positivamente al futuro. E per quanto i dati negativi sulla demografia siano oramai noti da tempo, il mondo dei decisori politici e di governo parla moltissimo dei giovani, promette misure per i giovani, vanta scelte per i giovani ma non sembra ancora in grado di varare misure convincenti per invertire una drammatica tendenza al declino. Della popolazione e dunque del Pil, della produttività e, in prospettiva, della competitività e dello sviluppo sostenibile del sistema Paese.

L’ultimo allarme viene da uno studio realizzato dall’Ipsos per la Fondazione Barletta, che sarà presentato mercoledì e che è stato anticipato domenica 7 luglio da “IlSole24Ore”: il 35% dei giovani italiani sotto i 30 anni sono pronti a espatriare, per avere “salari più alti” e “opportunità di lavoro migliori”. Un dato drammatico: uno su tre dei nostri figli e nipoti vuole andare via, uno su tre “vota con i piedi” (scegliendo, cioè, di lasciare l’Italia, manifestando una vera e propria crisi di fiducia nei confronti del Paese) e dunque boccia le politiche del lavoro, le prospettive di carriera, le offerte delle pubbliche amministrazioni e delle imprese. Uno su tre, in sintesi, forte di un titolo di studio preso in Italia, vuole andare all’estero per fare l’ingegnere e il medico, il ricercatore scientifico e il professore universitario, il tecnico informatico e il chimico e così via declinando tutte le professioni e i mestieri, soprattutto quelli high tech, quelli che garantiscono un più soddisfacente futuro.

Il fenomeno dell’inclinazione all’esodo riguarda mediamente tutte le regioni e le città italiane. Ma nel Mezzogiorno va molto peggio. Perché a leggere i risultati dell’indagine Ipsos si scopre che accanto a quel 35% pronto a espatriare, c’è solo un 15% che dichiara di non volersi muovere. Un altro 18% dice di voler andare “ovunque in Italia” e un 32% disposto a trasferirsi “solo nella mia regione o in quelle limitrofe”. Fatte le somme, dunque, l’85% dei ragazzi sono decisi a lasciare casa. Un gigantesco sommovimento sociale ed economico. Una radicale modifica dei tessuti familiari e urbani. Commentano Cristina Casadei e Claudio Tucci su “IlSole24Ore”: “Mentre il Nord Italia più o meno riesce a compensare le uscite con l’attrazione di giovani provenienti dal Mezzogiorno, il Sud si ferma alla perdita secca di talenti. Una doppia onda che mette alla prova la tenuta dell’intero Paese, specialmente quando la fuoriuscita riguarda professioni ad alto valore aggiunto”.
Milano, grande città universitaria (con oltre 200mila studenti, in più di dieci atenei di rilievo internazionale per qualità di formazione e ricerca) continua infatti a essere attrattiva, anche nei confronti di giovani provenienti dall’estero. Ma il resto dell’Italia soffre.

Avere pochi laureati (abbiamo solo il 22% della popolazione con un titolo di studio superiore, in coda rispetto agli altri paesi Ue) comporta una bassa produttività dell’intero Paese, una scarsa spinta all’innovazione e al cambiamento, una ridotta propensione all’intraprendenza e alla costruzione di nuove e migliori opportunità non solo di cresciuta economica, ma anche di miglioramento complessivo della qualità della vita. Nella stagione del predominio della “economia della conoscenza”, la carenza di laureati, non solo nelle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria, matematica) ma più in generale, rende quanto mai difficile all’Italia e alle sue imprese reggere la concorrenza su mercati sempre più esigenti e selettivi. E se è quanto mai utile magnificare e sostenere il Made in Italy di qualità, è sopratutto necessario investire in formazione di lungo periodo, in sostegni fiscali a chi investe e innova, in politiche industriali di respiro europeo. Tutto quel che serve anche per dare ai giovani prospettive di futuro, elementi di ricostruzione della fiducia. Per fare tornare chi è andato via. Per trattenere chi comunque vuole continuare a vivere in Italia. E per attrarre ragazze e ragazzi da altre aree del Mediterraneo, dell’Europa, del mondo.

Abbiamo appunto bisogno di giovani intelligenze, di conoscenze e competenze aggiornate, di sguardi aperti al cambiamento. Senza questi talenti, il sistema economico ne soffrirà sempre di più. Un dato, per dare le dimensioni del fenomeno: le imprese dicono di essere pronte ad assumere 800mila persone, ma ne trovano meno della metà.
In futuro, senza scelte strategiche opportune, andrà anche peggio. Come confermano queste previsioni, che ripete da tempo un uomo attento alle relazioni tra cultura, formazione e competitività, come Francesco Profumo, uomo di scienza e di governo (è stato ministro della Pubblica Istruzione e presidente del Cnr e della Compagnia di San Paolo). Nel 2023 abbiamo avuto 180mila laureati, di fronte agli 800mila bambini nati all’inizio degli anni 2000. Ferme restando queste percentuali, tra vent’anni, dei 379mila nati nel 2023, ne laureeremo 80 o 90mila. Una cifra irrisoria.
Ecco il punto chiave della denatalità. In vent’anni abbiamo perso 3milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni. E tra trent’anni, secondo calcoli di Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia ed ex presidente dell’Istat, la popolazione in età attiva (nella fascia d’età 15/64 anni) passerà dagli attuali 37,5 milioni a 27,2 milioni: dieci milioni in meno, con un calo del 27,3%. Economicamente, un disastro. Socialmente, un’Italia che invecchia, perde risorse, stimoli, prospettive.

Che fare, allora? Pensare a politiche contro la denatalità, facendo adesso le scelte indispensabili per arginare un fenomeno di lungo periodo. Preparare e gestire politiche di immigrazione, con tutto ciò che ne consegue in termini di inserimento e formazione, di lavoro e di cittadinanza. Ma anche, fin da subito, migliorare la qualità della scuola fin dalle classi primarie e fare crescere il numero di ragazze e ragazzi che arrivano e poi escono dall’università, dall’attuale 22% ad almeno il 30%, cercando di allinearsi rapidamente al resto dell’Europa. E, naturalmente, proprio sulle strade dell’innovazione, rendere le nostre imprese più appetibili, a cominciare da quelle manifatturiere, spina dorsale del made in Italy: non solo per le retribuzioni, ma per la qualità del lavoro, le prospettive di carriera e di vita, l’ambiente, le relazioni e le opportunità, personali, professionali, culturali. Una sfida di qualità e di futuro, appunto.

(foto Getty Images)

Essere umano, prima di tutto. Anche dell’I5.0

Una ricerca mette in evidenza il ruolo fondamentale delle persone e della formazione in tutti i passaggi tecnologici

Competenze prima di tutto. Competenze umane. Fondamentali. Anche – e soprattutto – nei passaggi ad alto contenuto tecnologico. E’ attorno a questa circostanza che ragionano Alice Campolucci, Lorenzo Compagnucci e Francesca Spigarelli (del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Macerata) con la loro ricerca “Industria 5.0: verso un approccio umano-centrico. Il caso Campetella Robotic Center S.r.l.” pubblicata recentemente.

L’indagine cerca di identificare e comprendere le sfide, le opportunità e le buone pratiche che le imprese, i lavoratori e le istituzioni incontrano nel passaggio dal modello e dai metodi dell’Industria 4.0 (I4.0) a quelli dell’Industria 5.0 (I5.0). Dopo una parte dedicata alla teoria e alla letteratura scientifica sul tema dell’I5.0, i tre ricercatori hanno verificato tutto studiando il caso di una media impresa a conduzione familiare, la marchigiana Campetella Robotic Center S.r.l., azienda fondata nel 1897 e specializzata nella progettazione e realizzazione di soluzioni innovative nel campo dell’automazione industriale.

L’analisi, in particolare, ha ricercato e messo a fuoco i pilastri dell’I5.0: la sostenibilità, la resilienza e l’approccio umano-centrico. Dall’indagine è emersa la carenza di competenze per favorire il passaggio da I4.0 a I5.0, e la necessità di investire nella formazione del personale per applicare correttamente la digitalizzazione e gestire le implicazioni sociali ed etiche che derivano dalle interazioni tra uomo, robot e cobot.

Le tecnologie abilitanti dell’I4.0 – è l’opinione dei tre ricercatori – andrebbero integrate con i pilastri dell’I5.0, in particolare l’approccio umano-centrico. Le imprese e le istituzioni, inoltre, sono chiamate a definire una strategia di lungo periodo che richiede sia scelte coraggiose in termini di investimenti economici e formazione, sia un importante cambiamento culturale rispetto al modo di intendere le attività produttive. L’essere umano, dunque, e la sua particolare cultura del produrre e del creare comunità, rimangono i pilastri fondanti di ogni innovazione.

Industria 5.0: verso un approccio umano-centrico. Il caso Campetella Robotic Center S.r.l.

Alice Campolucci, Lorenzo Compagnucci, Francesca Spigarelli

ECONOMIA MARCHE Journal of Applied Economics,

Vol. XLIII, No.1, Aprile 2024

Una ricerca mette in evidenza il ruolo fondamentale delle persone e della formazione in tutti i passaggi tecnologici

Competenze prima di tutto. Competenze umane. Fondamentali. Anche – e soprattutto – nei passaggi ad alto contenuto tecnologico. E’ attorno a questa circostanza che ragionano Alice Campolucci, Lorenzo Compagnucci e Francesca Spigarelli (del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Macerata) con la loro ricerca “Industria 5.0: verso un approccio umano-centrico. Il caso Campetella Robotic Center S.r.l.” pubblicata recentemente.

L’indagine cerca di identificare e comprendere le sfide, le opportunità e le buone pratiche che le imprese, i lavoratori e le istituzioni incontrano nel passaggio dal modello e dai metodi dell’Industria 4.0 (I4.0) a quelli dell’Industria 5.0 (I5.0). Dopo una parte dedicata alla teoria e alla letteratura scientifica sul tema dell’I5.0, i tre ricercatori hanno verificato tutto studiando il caso di una media impresa a conduzione familiare, la marchigiana Campetella Robotic Center S.r.l., azienda fondata nel 1897 e specializzata nella progettazione e realizzazione di soluzioni innovative nel campo dell’automazione industriale.

L’analisi, in particolare, ha ricercato e messo a fuoco i pilastri dell’I5.0: la sostenibilità, la resilienza e l’approccio umano-centrico. Dall’indagine è emersa la carenza di competenze per favorire il passaggio da I4.0 a I5.0, e la necessità di investire nella formazione del personale per applicare correttamente la digitalizzazione e gestire le implicazioni sociali ed etiche che derivano dalle interazioni tra uomo, robot e cobot.

Le tecnologie abilitanti dell’I4.0 – è l’opinione dei tre ricercatori – andrebbero integrate con i pilastri dell’I5.0, in particolare l’approccio umano-centrico. Le imprese e le istituzioni, inoltre, sono chiamate a definire una strategia di lungo periodo che richiede sia scelte coraggiose in termini di investimenti economici e formazione, sia un importante cambiamento culturale rispetto al modo di intendere le attività produttive. L’essere umano, dunque, e la sua particolare cultura del produrre e del creare comunità, rimangono i pilastri fondanti di ogni innovazione.

Industria 5.0: verso un approccio umano-centrico. Il caso Campetella Robotic Center S.r.l.

Alice Campolucci, Lorenzo Compagnucci, Francesca Spigarelli

ECONOMIA MARCHE Journal of Applied Economics,

Vol. XLIII, No.1, Aprile 2024

Mestiere di manager

Il racconto lavorativo di chi organizza e gestisce la produzione che diventa manuale di management

Governare un’impresa, ma anche cambiarla e avere il coraggio di farlo. Guardare ai conti (economici), ma anche a tutto ciò che, insieme a questi, fa davvero un’impresa a tutto tondo. Mestiere difficile e complesso, quello dell’imprenditore e del manager. mestiere che, per essere ben compreso, occorre raccontare più che spiegare con dovizia di teorie. Ed è proprio il racconto quello che caratterizza “Il manager veste il kilt. Crescita di un leader nella visione della fabbrica perfetta”, scritto a quattro mani da Lorenzo Romagnoli – manager di lungo corso attualmente dirigente executive del gruppo GE Vernova – e Giovanni Barni – giornalista e scrittore – che in poco più di un centinaio di pagine hanno per davvero raccontato le vicende di vita e di professione del primo, arrivando a scrivere una sorta di manuale di management “sul campo”.

Il tema di fondo del libro è delineato da una constatazione: la grande azienda (ma si potrebbe dire, ogni azienda) è una macchina complessa; è un treno che percorre i suoi binari e che non può sterzare all’improvviso verso un’altra destinazione. Ma ci sono casi, situazioni, avvenimenti, epoche, che costringono le aziende a intraprendere veloci cambiamenti che la portano a modificare pelle, immagine, fisionomia. Cambiamenti di questo tipo sono da attribuire a una ben precisa categoria di manager. Persone, donne e uomini, con grandi competenze che lavorano spesso nascosti dalla ribalta della grande comunicazione, e che riescono ad interpretare il nuovo e a superare gli stretti vincoli dei compiti affidati loro dalle organizzazioni e dalla burocrazia aziendale.

Come si riesca in questo intento, quali doti si debbano avere e quale grado di ingegno occorra, è ciò che viene raccontato nel libro sulla base delle esperienze di Romagnoli. Chi legge viene dunque accompagnato lungo un cammino doppio: da una parte il vero racconto del lavoro di Romagnoli e, dall’altra, l’apprendimento degli strumenti necessari per la ripartenza e il cambiamento di un’attività produttiva nel difficile passaggio fra un passato analogico e le promesse di un futuro digitale. In altri termini, esattamente ciò che accade alla gran parte delle imprese di oggi.

Il lettore viene così condotto all’apprendimento delle tecniche di gestione per gradi: dal significato dell’investimento come fattore di trasformazione dell’ambiente si passa al valore della formazione vista come strumento di cambiamento culturale prima ancora che produttivo. Nell’ultimo capitolo il disegno strategico del manager prende completamente forma e diventa una proposta per la costruzione di uno stabilimento produttivo ideale dove la tecnologia si confonde con gli individui e dove la comunità del luogo fa tutt’uno con la sua fabbrica di riferimento. È il sogno della fabbrica perfetta.

Romagnoli e Barni hanno scritto un libro originale, che unisce – con efficacia – i tratti del racconto con quelli del manuale. Da leggere e da annotare, oltre che da verificarne il contenuto in altre realtà d’impresa.

Il manager veste il kilt. Crescita di un leader nella visione della fabbrica perfetta

Lorenzo Romagnoli, Giovanni Barni

Franco Angeli, 2024

Il racconto lavorativo di chi organizza e gestisce la produzione che diventa manuale di management

Governare un’impresa, ma anche cambiarla e avere il coraggio di farlo. Guardare ai conti (economici), ma anche a tutto ciò che, insieme a questi, fa davvero un’impresa a tutto tondo. Mestiere difficile e complesso, quello dell’imprenditore e del manager. mestiere che, per essere ben compreso, occorre raccontare più che spiegare con dovizia di teorie. Ed è proprio il racconto quello che caratterizza “Il manager veste il kilt. Crescita di un leader nella visione della fabbrica perfetta”, scritto a quattro mani da Lorenzo Romagnoli – manager di lungo corso attualmente dirigente executive del gruppo GE Vernova – e Giovanni Barni – giornalista e scrittore – che in poco più di un centinaio di pagine hanno per davvero raccontato le vicende di vita e di professione del primo, arrivando a scrivere una sorta di manuale di management “sul campo”.

Il tema di fondo del libro è delineato da una constatazione: la grande azienda (ma si potrebbe dire, ogni azienda) è una macchina complessa; è un treno che percorre i suoi binari e che non può sterzare all’improvviso verso un’altra destinazione. Ma ci sono casi, situazioni, avvenimenti, epoche, che costringono le aziende a intraprendere veloci cambiamenti che la portano a modificare pelle, immagine, fisionomia. Cambiamenti di questo tipo sono da attribuire a una ben precisa categoria di manager. Persone, donne e uomini, con grandi competenze che lavorano spesso nascosti dalla ribalta della grande comunicazione, e che riescono ad interpretare il nuovo e a superare gli stretti vincoli dei compiti affidati loro dalle organizzazioni e dalla burocrazia aziendale.

Come si riesca in questo intento, quali doti si debbano avere e quale grado di ingegno occorra, è ciò che viene raccontato nel libro sulla base delle esperienze di Romagnoli. Chi legge viene dunque accompagnato lungo un cammino doppio: da una parte il vero racconto del lavoro di Romagnoli e, dall’altra, l’apprendimento degli strumenti necessari per la ripartenza e il cambiamento di un’attività produttiva nel difficile passaggio fra un passato analogico e le promesse di un futuro digitale. In altri termini, esattamente ciò che accade alla gran parte delle imprese di oggi.

Il lettore viene così condotto all’apprendimento delle tecniche di gestione per gradi: dal significato dell’investimento come fattore di trasformazione dell’ambiente si passa al valore della formazione vista come strumento di cambiamento culturale prima ancora che produttivo. Nell’ultimo capitolo il disegno strategico del manager prende completamente forma e diventa una proposta per la costruzione di uno stabilimento produttivo ideale dove la tecnologia si confonde con gli individui e dove la comunità del luogo fa tutt’uno con la sua fabbrica di riferimento. È il sogno della fabbrica perfetta.

Romagnoli e Barni hanno scritto un libro originale, che unisce – con efficacia – i tratti del racconto con quelli del manuale. Da leggere e da annotare, oltre che da verificarne il contenuto in altre realtà d’impresa.

Il manager veste il kilt. Crescita di un leader nella visione della fabbrica perfetta

Lorenzo Romagnoli, Giovanni Barni

Franco Angeli, 2024

Un futuro da smart city per lo sviluppo di Milano e Palermo, tra comuni radici culturali e progetti per imprese produttive 

L’identità non sta nel soggetto, ma nella relazione, come ci ha insegnato Emmanuel Lévinas, uno dei principali filosofi del Novecento. Non “nella sopraffazione e nella volontà di annientamento dell’Altro”, ma nella dialettica del confronto, nella condivisione. Un’identità, dunque, niente affatto chiusa, esclusiva, ostile, ma semmai aperta e dialogante. Come peraltro testimonia la storia della civiltà mediterranee, in cui l’Italia ha avuto un ruolo determinante. Con l’attitudine a costruire ponti piuttosto che minacciare muri, per usare il lungimirante pensiero di Papa Francesco.

Sono proprio le parole di Lévinas a venire in mente mentre a Milano si lancia il Forum “Genio Mediterraneo” (mercoledì la presentazione a Palazzo Marino, a novembre due giorni di convegno al palermitano Teatro Massimo): un’iniziativa promossa dai sindaci di Milano Beppe Sala e di Palermo Roberto Lagalla, schieramento politici diversi (centosinistra e centrodestra), ma una somiglianza per la provenienza dalla cosiddetta “società civile” (il mondo dell’impresa per Sala, l’università per Lagalla, ex rettore) e soprattutto un interesse comune: confrontarsi sulle strategie e i contenuti di un progetto di sviluppo sostenibile che, facendo perno sulle due “città di frontiera”, riguardi il Sistema Paese, proprio mentre tutt’intorno il contesto geopolitico è in movimento, tra una Ue in cerca di migliori equilibri per non essere schiacciata dalle scelte competitive di Usa e Cina e un Mediterraneo lacerato da nuovi e vecchi conflitti.

Sono città diverse, naturalmente, Milano e Palermo, per storia, peso economico, prospettive di crescita (per ragionare meglio sulle loro caratteristiche è utile anche sfogliare le pagine di “Città. Milano”, la bella e colta rivista periodica fondata anni fa da Guido Vergani e adesso diretta da Giangiacomo Schiavi e fermarsi sulle riflessioni di “Romanzo urbanistico”, edito da Sellerio e scritto da Maurizio Carta, architetto e assessore comunale a Palermo).

Ma sono città comunque unite da una serie di robusti legami, nella comune sensibilità per le dinamiche del cambiamento e, nel corso della seconda metà del Novecento, anche per l’essenziale contributo dato a Milano da siciliani che si sono distinti nei settori dell’economia, dell’impresa e della cultura (per fare solo pochi nomi, il banchiere Enrico Cuccia, che dagli uffici di Mediobanca vigilava sulle sorti del capitalismo italiano e lo scrittore Elio Vittorini, per le capacità “politecniche” di innovazione culturale ed editoriale, oltre che Leonardo Sciascia, con il suo amore per Manzoni e Stendhal, cardini di sapienza letteraria e passione civile). “Milanesi si diventa”, era il titolo di un bel romanzo di Antonio Castellaneta degli anni Ottanta. E siciliani, pur da milanesi, si resta, nonostante tutto, anche quando si sono varcati da tempo i confini dell’isola per cercare altrove diverse condizioni di vita e di lavoro ma all’isola si resta quanto mai legati, da complesse reti di radici e d’amore.

La cultura della relazione, alla Lévinas, appunto, e il “patriottismo dolce” dell’identità aperta aiutano a tenere insieme radici e futuro. A progettare e costruire iniziative di crescita economica e sociale nel segno di un vero e proprio “avvenire della memoria”. Un’attitudine, peraltro, molto mediterranea.

Ecco un punto di partenza: valorizzare il proprio capitale sociale. Per Milano, si insiste su intraprendenza e solidarietà, competitività e inclusione, “cultura politecnica” come sintesi tra bellezza e innovazione, saperi umanistici e conoscenze scientifiche. Per Palermo, su una attitudine speciale al darsi da fare, al costruire lavoro e impresa (essere ‘mprisiusi, si dice in dialetto) nonostante tutte le resistenze ambientali e, perché no? familiste e clientelari. Su una sofisticata inclinazione alla buona cultura di respiro europeo, con l’eleganza che nasce da un’affilata intelligenza critica. Sulla pur sempre vivace tendenza a essere “siciliani di mare aperto” e cioè tutt’altro che inclini alla “terribile insularità dell’animo” condannata da Leonardo Sciascia. E su una valorizzazione della legalità e della buona amministrazione su cui proprio a Palermo sono state scritte pagine di straordinaria intensità civile (ricorre il ricordo di Piersanti Mattarella e Pio La Terre, di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Ninni Cassarà, per fare solo alcuni nomi di “uomini dello Stato, stroncati dalla mafia). Buone ragioni di fondo da valorizzare e rilanciare. Un capitale sociale, appunto, di cui essere fieri.

Oggi vale la pena, per il Forum sul “Genio Mediterraneo”, parlare insieme delle scelte di politica industriale italiana ed europea per affrontare la twin transition ambientale e digitale: Milano come baricentro di innovazione nel cuore dell’Europa più produttiva e competitiva e Palermo come possibile piattaforma logistica, culturale, formativa di respiro europeo, nel cuore del Mediterraneo e come porta europea verso le spinte che vengono dall’Africa. Una prospettiva fondamentale proprio nel tempo di una sempre più ampia diffusione dell’Intelligenza Artificiale, che modifica radicalmente i paradigmi della conoscenza, della produzione, degli scambi.

Sapienza mediterranea, valori europei.

Milano, città accogliente, sta nel cuore delle reti di valori, interessi e culture lungo cui si declina il futuro della Ue, tra Atlantico e Mediterraneo, consapevolezza delle responsabilità dell’Occidente e sguardo aperto verso le tensioni che maturano in altre aree del mondo e parlano all’Europa. E Palermo, che ha un estremo bisogno, proprio in chiave di sviluppo sostenibile, di nutrirsi dei valori della cultura d’impresa, dell’efficienza, della produttività. Di un’etica del lavoro e della responsabilità che ha pur avuto spazio, In Sicilia, in stagioni di alta qualità imprenditoriale (la storia dei Florio, prima del declino determinato dall’eccesso di emulazione aristocratica, ne è chiara testimonianza, su cui riflettere).

In questo quadro, pesa la centralità strategica della formazione, con un dialogo aperto tra atenei di Milano (città universitaria di crescente valore internazionale) e atenei di Palermo e del Mezzogiorno, ricchi di tensioni culturali dialettiche ma anche inclusive e di tradizioni di confronto che si sono sviluppate anche in tempi recenti.

C’è una responsabilità comune: offrire prospettive di lavoro e di migliore qualità della vita alle nuove generazioni, fondamentali proprio in una stagione di declino demografico e di “fuga dei cervelli”, fenomeni che investono, pur in maniera diversa, Nord e Sud del Paese. Anche con una rilettura critica degli investimenti in corso con fondi del Pnrr (in fin dei conti, si tratta di debito a carico proprio delle nuove generazioni).

L’obiettivo, insomma, è quello di riscrivere, tra Milano e Palermo, le mappe degli incroci della conoscenza e della produzione. Ragionare di reti, flussi, scambi, movimenti. E non solo di luoghi, con le incrostazioni amministrative, politiche e culturali che ne limitano le potenzialità. E discutere di questi temi valorizzando le chiavi della sostenibilità ambientale e sociale e, come abbiamo detto, della legalità.

Serve un progetto per un Mezzogiorno ad alta tecnologia, anche per l’industria innovativa. Per i servizi. Per la formazione e l’ambiente. E non solo per le attrattività turistiche, comunque importanti.

Ecco il punto chiave, che interessa Palermo e la Sicilia e anima il dialogo, nella consapevolezza del ruolo di Milano, baricentro di relazioni di respiro europeo che coinvolgono industria e finanza, servizi high tech e cultura, formazione e green e digital economy. Le esperienze in corso, come quelle degli investimenti a Palermo della Bip (Business Integration Partners, la grande società di consulenza milanese guidata dal palermitano Nino Lo Bianco) e in altre città del Mezzogiorno da parte di Microsoft, Pirelli, etc. sono buoni esempi su come, proprio grazie alle tecnologie digitali, si possano valorizzare talenti e competenze di ragazze e ragazzi di buoni studi in un sistema di network produttivi nazionali e internazionali.

I temi di dibattito su cui si stanno confrontando i due sindaci di Milano e Palermo, dunque, riguarderanno le nuove filiere industriali, tra Nord e Sud (aerospazio, meccatronica, cantieristica, automotive, componentistica high tech, chimica e farmaceutica, oltre che agroindustria, moda e abbigliamento), le infrastrutture materiali e immateriali per lo sviluppo, con una logica di collaborazione pubblico-privata, la rigenerazione urbana, le politiche dell’abitare e le strategie ambientali per la salvaguardia e la valorizzazione del territorio, ma anche per una migliore crescita economica. E, ancora, le politiche per la salute e il benessere e la ricerca scientifica, le imprese culturali e creative e le nuove tecnologie della conoscenza, l’economia del sapere, con una logica da  formazione permanente. E, naturalmente, l’insieme delle virtù civiche necessarie a dare sostanza ai processi economici e sociali in movimento.

Relazioni territoriali e culturali. E progetti economici concreti. Nell’Europa in cambiamento, tra tensioni e opportunità, tocca anche a Milano e Palermo essere smart city. Non solo tecnologiche. Ma elegantemente intelligenti. Nelle idee e nell’anima.

L’identità non sta nel soggetto, ma nella relazione, come ci ha insegnato Emmanuel Lévinas, uno dei principali filosofi del Novecento. Non “nella sopraffazione e nella volontà di annientamento dell’Altro”, ma nella dialettica del confronto, nella condivisione. Un’identità, dunque, niente affatto chiusa, esclusiva, ostile, ma semmai aperta e dialogante. Come peraltro testimonia la storia della civiltà mediterranee, in cui l’Italia ha avuto un ruolo determinante. Con l’attitudine a costruire ponti piuttosto che minacciare muri, per usare il lungimirante pensiero di Papa Francesco.

Sono proprio le parole di Lévinas a venire in mente mentre a Milano si lancia il Forum “Genio Mediterraneo” (mercoledì la presentazione a Palazzo Marino, a novembre due giorni di convegno al palermitano Teatro Massimo): un’iniziativa promossa dai sindaci di Milano Beppe Sala e di Palermo Roberto Lagalla, schieramento politici diversi (centosinistra e centrodestra), ma una somiglianza per la provenienza dalla cosiddetta “società civile” (il mondo dell’impresa per Sala, l’università per Lagalla, ex rettore) e soprattutto un interesse comune: confrontarsi sulle strategie e i contenuti di un progetto di sviluppo sostenibile che, facendo perno sulle due “città di frontiera”, riguardi il Sistema Paese, proprio mentre tutt’intorno il contesto geopolitico è in movimento, tra una Ue in cerca di migliori equilibri per non essere schiacciata dalle scelte competitive di Usa e Cina e un Mediterraneo lacerato da nuovi e vecchi conflitti.

Sono città diverse, naturalmente, Milano e Palermo, per storia, peso economico, prospettive di crescita (per ragionare meglio sulle loro caratteristiche è utile anche sfogliare le pagine di “Città. Milano”, la bella e colta rivista periodica fondata anni fa da Guido Vergani e adesso diretta da Giangiacomo Schiavi e fermarsi sulle riflessioni di “Romanzo urbanistico”, edito da Sellerio e scritto da Maurizio Carta, architetto e assessore comunale a Palermo).

Ma sono città comunque unite da una serie di robusti legami, nella comune sensibilità per le dinamiche del cambiamento e, nel corso della seconda metà del Novecento, anche per l’essenziale contributo dato a Milano da siciliani che si sono distinti nei settori dell’economia, dell’impresa e della cultura (per fare solo pochi nomi, il banchiere Enrico Cuccia, che dagli uffici di Mediobanca vigilava sulle sorti del capitalismo italiano e lo scrittore Elio Vittorini, per le capacità “politecniche” di innovazione culturale ed editoriale, oltre che Leonardo Sciascia, con il suo amore per Manzoni e Stendhal, cardini di sapienza letteraria e passione civile). “Milanesi si diventa”, era il titolo di un bel romanzo di Antonio Castellaneta degli anni Ottanta. E siciliani, pur da milanesi, si resta, nonostante tutto, anche quando si sono varcati da tempo i confini dell’isola per cercare altrove diverse condizioni di vita e di lavoro ma all’isola si resta quanto mai legati, da complesse reti di radici e d’amore.

La cultura della relazione, alla Lévinas, appunto, e il “patriottismo dolce” dell’identità aperta aiutano a tenere insieme radici e futuro. A progettare e costruire iniziative di crescita economica e sociale nel segno di un vero e proprio “avvenire della memoria”. Un’attitudine, peraltro, molto mediterranea.

Ecco un punto di partenza: valorizzare il proprio capitale sociale. Per Milano, si insiste su intraprendenza e solidarietà, competitività e inclusione, “cultura politecnica” come sintesi tra bellezza e innovazione, saperi umanistici e conoscenze scientifiche. Per Palermo, su una attitudine speciale al darsi da fare, al costruire lavoro e impresa (essere ‘mprisiusi, si dice in dialetto) nonostante tutte le resistenze ambientali e, perché no? familiste e clientelari. Su una sofisticata inclinazione alla buona cultura di respiro europeo, con l’eleganza che nasce da un’affilata intelligenza critica. Sulla pur sempre vivace tendenza a essere “siciliani di mare aperto” e cioè tutt’altro che inclini alla “terribile insularità dell’animo” condannata da Leonardo Sciascia. E su una valorizzazione della legalità e della buona amministrazione su cui proprio a Palermo sono state scritte pagine di straordinaria intensità civile (ricorre il ricordo di Piersanti Mattarella e Pio La Terre, di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Ninni Cassarà, per fare solo alcuni nomi di “uomini dello Stato, stroncati dalla mafia). Buone ragioni di fondo da valorizzare e rilanciare. Un capitale sociale, appunto, di cui essere fieri.

Oggi vale la pena, per il Forum sul “Genio Mediterraneo”, parlare insieme delle scelte di politica industriale italiana ed europea per affrontare la twin transition ambientale e digitale: Milano come baricentro di innovazione nel cuore dell’Europa più produttiva e competitiva e Palermo come possibile piattaforma logistica, culturale, formativa di respiro europeo, nel cuore del Mediterraneo e come porta europea verso le spinte che vengono dall’Africa. Una prospettiva fondamentale proprio nel tempo di una sempre più ampia diffusione dell’Intelligenza Artificiale, che modifica radicalmente i paradigmi della conoscenza, della produzione, degli scambi.

Sapienza mediterranea, valori europei.

Milano, città accogliente, sta nel cuore delle reti di valori, interessi e culture lungo cui si declina il futuro della Ue, tra Atlantico e Mediterraneo, consapevolezza delle responsabilità dell’Occidente e sguardo aperto verso le tensioni che maturano in altre aree del mondo e parlano all’Europa. E Palermo, che ha un estremo bisogno, proprio in chiave di sviluppo sostenibile, di nutrirsi dei valori della cultura d’impresa, dell’efficienza, della produttività. Di un’etica del lavoro e della responsabilità che ha pur avuto spazio, In Sicilia, in stagioni di alta qualità imprenditoriale (la storia dei Florio, prima del declino determinato dall’eccesso di emulazione aristocratica, ne è chiara testimonianza, su cui riflettere).

In questo quadro, pesa la centralità strategica della formazione, con un dialogo aperto tra atenei di Milano (città universitaria di crescente valore internazionale) e atenei di Palermo e del Mezzogiorno, ricchi di tensioni culturali dialettiche ma anche inclusive e di tradizioni di confronto che si sono sviluppate anche in tempi recenti.

C’è una responsabilità comune: offrire prospettive di lavoro e di migliore qualità della vita alle nuove generazioni, fondamentali proprio in una stagione di declino demografico e di “fuga dei cervelli”, fenomeni che investono, pur in maniera diversa, Nord e Sud del Paese. Anche con una rilettura critica degli investimenti in corso con fondi del Pnrr (in fin dei conti, si tratta di debito a carico proprio delle nuove generazioni).

L’obiettivo, insomma, è quello di riscrivere, tra Milano e Palermo, le mappe degli incroci della conoscenza e della produzione. Ragionare di reti, flussi, scambi, movimenti. E non solo di luoghi, con le incrostazioni amministrative, politiche e culturali che ne limitano le potenzialità. E discutere di questi temi valorizzando le chiavi della sostenibilità ambientale e sociale e, come abbiamo detto, della legalità.

Serve un progetto per un Mezzogiorno ad alta tecnologia, anche per l’industria innovativa. Per i servizi. Per la formazione e l’ambiente. E non solo per le attrattività turistiche, comunque importanti.

Ecco il punto chiave, che interessa Palermo e la Sicilia e anima il dialogo, nella consapevolezza del ruolo di Milano, baricentro di relazioni di respiro europeo che coinvolgono industria e finanza, servizi high tech e cultura, formazione e green e digital economy. Le esperienze in corso, come quelle degli investimenti a Palermo della Bip (Business Integration Partners, la grande società di consulenza milanese guidata dal palermitano Nino Lo Bianco) e in altre città del Mezzogiorno da parte di Microsoft, Pirelli, etc. sono buoni esempi su come, proprio grazie alle tecnologie digitali, si possano valorizzare talenti e competenze di ragazze e ragazzi di buoni studi in un sistema di network produttivi nazionali e internazionali.

I temi di dibattito su cui si stanno confrontando i due sindaci di Milano e Palermo, dunque, riguarderanno le nuove filiere industriali, tra Nord e Sud (aerospazio, meccatronica, cantieristica, automotive, componentistica high tech, chimica e farmaceutica, oltre che agroindustria, moda e abbigliamento), le infrastrutture materiali e immateriali per lo sviluppo, con una logica di collaborazione pubblico-privata, la rigenerazione urbana, le politiche dell’abitare e le strategie ambientali per la salvaguardia e la valorizzazione del territorio, ma anche per una migliore crescita economica. E, ancora, le politiche per la salute e il benessere e la ricerca scientifica, le imprese culturali e creative e le nuove tecnologie della conoscenza, l’economia del sapere, con una logica da  formazione permanente. E, naturalmente, l’insieme delle virtù civiche necessarie a dare sostanza ai processi economici e sociali in movimento.

Relazioni territoriali e culturali. E progetti economici concreti. Nell’Europa in cambiamento, tra tensioni e opportunità, tocca anche a Milano e Palermo essere smart city. Non solo tecnologiche. Ma elegantemente intelligenti. Nelle idee e nell’anima.

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