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Cultura del saper fare motore di sviluppo
Dall’analisi delle candidature a Capitale Europea della Cultura, l’indicazione del ruolo della buona impresa
La cultura del saper fare, il territorio, l’umanità che lo popola, la condivisione di intenti e di buone pratiche. Sono questi gli elementi che creano ricchezza materiale e spirituale. E che spesso si ritrovano percorrendo l’Italia. A questo insieme di circostanze e di presenze è dedicata la ricerca “Il ruolo delle PMI e dell’artigianato nelle trasformazioni urbane a base culturale. L’esperienza delle città creative UNESCO e delle Capitali della Cultura” di Lucio Argano (Università Cattolica del Sacro Cuore, Dipartimento di comunicazione). L’indagine, in particolare, sottolinea l’importanza e il ruolo che l’artigianato e le PMI possono avere all’interno dei progetti di quelle città che decidono di attivare trasformazioni urbane di medio e lungo termine attraverso la leva della cultura, delle arti e della creatività. Crescita e sviluppo, appunto, visti con gli occhiali della cultura a tutto tondo.
Il punto focale al quale Argano dedica attenzione è costituito dalle principali attività e programmi delle quattordici città italiane che fanno parte della Rete UNESCO delle Città Creative e che si concentrano su sette cluster creativi, tra cui art&craftwork. Per comprendere meglio cosa è stato fatto, l’autore segue la lettura dei fascicoli di progetto relativi alle città finaliste del concorso italiano per il titolo di Capitale Europea della Cultura 2019, poi assegnato a Matera, con l’obiettivo di tracciare quelle iniziative capaci di valorizzare l’artigianato, non solo artistico. e il suo contributo alle sfide della città delineate dal progetto.
Dalla ricerca emergono così i punti di forza sui quali sono stati costruiti i progetti: le persone e le competenze distintive, comprese quelle artigianali e imprenditoriali, che diventano le principali infrastrutture culturali e creative della città. Ma non solo. Dai fascicoli di candidatura emerge anche la considerazione della cultura e della creatività come risorse attive di quello che Argano indica come “ecosistema urbano più ampio in cui si intrecciano luoghi, persone, pratiche, storie, tradizioni, innovazioni e valore simbolico”. Imprenditoria e artigianato, dunque, come elementi indispensabili della cultura di un territorio, capaci, tra l’altro, di funzionare come propulsori di sviluppo. La ricerca di Lucio Argano ha il merito di dare concretezza a questo modello
Lucio Argano
Quaderni di ricerca sull’artigianato, Fascicolo 1/2024, gennaio-aprile.
Dall’analisi delle candidature a Capitale Europea della Cultura, l’indicazione del ruolo della buona impresa
La cultura del saper fare, il territorio, l’umanità che lo popola, la condivisione di intenti e di buone pratiche. Sono questi gli elementi che creano ricchezza materiale e spirituale. E che spesso si ritrovano percorrendo l’Italia. A questo insieme di circostanze e di presenze è dedicata la ricerca “Il ruolo delle PMI e dell’artigianato nelle trasformazioni urbane a base culturale. L’esperienza delle città creative UNESCO e delle Capitali della Cultura” di Lucio Argano (Università Cattolica del Sacro Cuore, Dipartimento di comunicazione). L’indagine, in particolare, sottolinea l’importanza e il ruolo che l’artigianato e le PMI possono avere all’interno dei progetti di quelle città che decidono di attivare trasformazioni urbane di medio e lungo termine attraverso la leva della cultura, delle arti e della creatività. Crescita e sviluppo, appunto, visti con gli occhiali della cultura a tutto tondo.
Il punto focale al quale Argano dedica attenzione è costituito dalle principali attività e programmi delle quattordici città italiane che fanno parte della Rete UNESCO delle Città Creative e che si concentrano su sette cluster creativi, tra cui art&craftwork. Per comprendere meglio cosa è stato fatto, l’autore segue la lettura dei fascicoli di progetto relativi alle città finaliste del concorso italiano per il titolo di Capitale Europea della Cultura 2019, poi assegnato a Matera, con l’obiettivo di tracciare quelle iniziative capaci di valorizzare l’artigianato, non solo artistico. e il suo contributo alle sfide della città delineate dal progetto.
Dalla ricerca emergono così i punti di forza sui quali sono stati costruiti i progetti: le persone e le competenze distintive, comprese quelle artigianali e imprenditoriali, che diventano le principali infrastrutture culturali e creative della città. Ma non solo. Dai fascicoli di candidatura emerge anche la considerazione della cultura e della creatività come risorse attive di quello che Argano indica come “ecosistema urbano più ampio in cui si intrecciano luoghi, persone, pratiche, storie, tradizioni, innovazioni e valore simbolico”. Imprenditoria e artigianato, dunque, come elementi indispensabili della cultura di un territorio, capaci, tra l’altro, di funzionare come propulsori di sviluppo. La ricerca di Lucio Argano ha il merito di dare concretezza a questo modello
Lucio Argano
Quaderni di ricerca sull’artigianato, Fascicolo 1/2024, gennaio-aprile.
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Reti per lo sviluppo, di tutti
Una pubblicazione curata da Fondazione Feltrinelli fa il punto sull’accesso alle reti digitali e ne delinea i problemi ancora aperti
Essere connessi per non rimanere esclusi. Vale per gli individui, vale per le organizzazioni, per le imprese. Connessioni che passano dalle reti digitali, oltre che da quelle sociali ed economiche. E’ attorno a tutto questo che ragionano i saggi raccolti in “Dentro e fuori la rete Lavoro, cittadini e welfare alla prova della transizione digitale”, volume scritto a più mani e curato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Il punto di partenza del libro è una constatazione: l’accesso alla rete è da intendersi come fattore di sviluppo democratico. E’ da lì, che lo si voglia o no, che passano i diritti e, soprattutto, la possibilità di fruirne, così come le occasioni di sviluppo e crescita, quelle di dialogo e confronto. Il volume e quindi organizzato in quattro sezioni per altrettanti temi generali. La rete è via d’accesso ed essa stessa diritto di tutti; la rete è strumento di e per lavorare, la rete è piattaforma di servizi per il cittadino e le imprese , la rete – infine – è veicolo di sviluppo economico soprattutto per particolari situazioni come quelle delle aree interne. Reti digitali, in altri termini, come strumenti e infrastrutture inclusive, ormai ineludibili ma alle quali non tutti ancora accesso.
Il libro tocca tutti questi aspetti, ne approfondisce i particolari, ne indica le possibili evoluzioni e le soluzioni alle difficoltà che oggi sussistono. Ed è proprio qui che nasce, oltre che dalle analisi sui singoli aspetti, uno dei punti di interesse più notevoli della raccolta. “L’accesso equo alla rete – viene spiegato nelle conclusioni – è stato identificato come un diritto fondamentale e una leva per l’inclusione sociale, economica e culturale. Tuttavia, rimangono sfide significative, quali la necessità di garantire una infrastruttura adeguata con banda ultra-larga e la riduzione delle disuguaglianze legate all’accesso oltre all’accrescere le competenze digitali”. E poi ancora: “La trasformazione digitale delle imprese e dei territori offre opportunità di crescita economica e di rigenerazione territoriale, ma è cruciale assicurare che tali processi siano sostenibili e rispettosi degli obiettivi sociali e ambientali”. In altri termini, le possibilità offerte dalla rete devono davvero fare ancora molta strada per essere per tutti. E’ una questione di democrazia e, prima ancora, di cultura.
Dentro e fuori la rete Lavoro, cittadini e welfare alla prova della transizione digitale
AA.VV.
Scenari, 62, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, marzo 2024






Una pubblicazione curata da Fondazione Feltrinelli fa il punto sull’accesso alle reti digitali e ne delinea i problemi ancora aperti
Essere connessi per non rimanere esclusi. Vale per gli individui, vale per le organizzazioni, per le imprese. Connessioni che passano dalle reti digitali, oltre che da quelle sociali ed economiche. E’ attorno a tutto questo che ragionano i saggi raccolti in “Dentro e fuori la rete Lavoro, cittadini e welfare alla prova della transizione digitale”, volume scritto a più mani e curato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Il punto di partenza del libro è una constatazione: l’accesso alla rete è da intendersi come fattore di sviluppo democratico. E’ da lì, che lo si voglia o no, che passano i diritti e, soprattutto, la possibilità di fruirne, così come le occasioni di sviluppo e crescita, quelle di dialogo e confronto. Il volume e quindi organizzato in quattro sezioni per altrettanti temi generali. La rete è via d’accesso ed essa stessa diritto di tutti; la rete è strumento di e per lavorare, la rete è piattaforma di servizi per il cittadino e le imprese , la rete – infine – è veicolo di sviluppo economico soprattutto per particolari situazioni come quelle delle aree interne. Reti digitali, in altri termini, come strumenti e infrastrutture inclusive, ormai ineludibili ma alle quali non tutti ancora accesso.
Il libro tocca tutti questi aspetti, ne approfondisce i particolari, ne indica le possibili evoluzioni e le soluzioni alle difficoltà che oggi sussistono. Ed è proprio qui che nasce, oltre che dalle analisi sui singoli aspetti, uno dei punti di interesse più notevoli della raccolta. “L’accesso equo alla rete – viene spiegato nelle conclusioni – è stato identificato come un diritto fondamentale e una leva per l’inclusione sociale, economica e culturale. Tuttavia, rimangono sfide significative, quali la necessità di garantire una infrastruttura adeguata con banda ultra-larga e la riduzione delle disuguaglianze legate all’accesso oltre all’accrescere le competenze digitali”. E poi ancora: “La trasformazione digitale delle imprese e dei territori offre opportunità di crescita economica e di rigenerazione territoriale, ma è cruciale assicurare che tali processi siano sostenibili e rispettosi degli obiettivi sociali e ambientali”. In altri termini, le possibilità offerte dalla rete devono davvero fare ancora molta strada per essere per tutti. E’ una questione di democrazia e, prima ancora, di cultura.
Dentro e fuori la rete Lavoro, cittadini e welfare alla prova della transizione digitale
AA.VV.
Scenari, 62, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, marzo 2024
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Le trappole del “lavoro povero” e della fuga dei cervelli e le scelte di sostenibilità delle migliori imprese italiane
Ci sono profonde distorsioni economiche e sociali, nella crescita sbilenca del sistema Italia. Lo confermano alcuni dati esemplari. Quello dei 230mila lavoratori senza contratti e senza diritti, sfruttati nelle campagne italiane, la cui condizione è stata nei giorni scorsi drammaticamente evidenziata dalla morte di Satnam Singh, bracciante agricolo indiano, lasciato a morire dai suoi datori di lavoro dopo un grave incidente. Ma anche quello sui 768mila laureati che le imprese sono pronte ad assumere, per impieghi di livello e buona retribuzione, ma di cui non ne trovano almeno la metà. Lavoro “nero” e povero, da una parte (lo documenta una inchiesta de “La Stampa”, 24 giugno). E lavoro qualificato non coperto dall’altra. Economia, dunque, che soffre una crisi di produttività e competitività tra le cui radici c’è appunto un mercato del lavoro squilibrato, ingiusto, segnato pure da inaccettabili condizioni di insicurezza e sfruttamento (350 morti sul lavoro già nei primi quattro mesi del 2024, erano 1.041 nel 2023). Come denuncia giustamente, ancora una volta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo la morte di Singh, parlando di “una forma di lavoro che si manifesta con caratteri disumani e che rientra in un fenomeno – che affiora non di rado – di sfruttamento del lavoro dei più deboli e indifesi, con modalità e condizioni illegali e crudeli”.
Distorsioni da superare, dunque, al di là delle emozioni che affollano i discorsi di governo dopo ogni grave incidente. E dinamiche positive da rimettere in moto, proprio mentre le nuove dimensioni della “economia della conoscenza” e le radicali trasformazioni determinate dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale pongono alle imprese e più in generale alla società italiana, in oramai grave “inverno demografico”, l’urgenza di scelte per rilanciare e rafforzare la produttività del Paese. Né “lavoro povero” né “fuga dei cervelli”, insomma (“Sette laureati emigrati su dieci non pensano di tornare in Italia”, nota “Il Sole24Ore”, parlando di stipendi più alti e migliori prospettive di affermazione professionale all’estero; 17 giugno). Ma investimenti sulla conoscenza e la qualità dell’industria e del lavoro stesso. Pena il degrado e il declino irreversibile del nostro Paese.
In questa prospettiva, non si parte da zero.
Chi guarda attentamente alle dinamiche della crescita italiana, infatti, accanto agli squilibri diffusi (“Caporalato, società fittizie e connivenze nella pubblica amministrazione”, scrive “Il Sole24Ore”, 23 giugno), osserva anche il contributo quanto mai positivo offerto dalle imprese che da quasi un ventennio innovano, investono, tengono il passo della doppia transizione ambientale e digitale, qualificandosi come eccellenze in grado di occupare posizioni di rilievo nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati internazionali e di garantire all’Italia un ruolo tra i primi cinque paesi al mondo per export (650 miliardi, il valore di quest’anno). Imprese, insomma, che puntano proprio sul capitale umano e sul capitale sociale delle relazioni virtuose con le culture dei territori di insediamento produttivo per rafforzare i propri percorsi di crescita sui mercati. Culture “politecniche”, capaci cioè di sintesi originali tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, tra bellezza e nuove tecnologie.
L’eco si avverte nelle pagine del Rapporto “Coesione e competizione” curato dalla Fondazione Symbola e sostenuto da Unioncamere e Intesa San Paolo, che sarà presentato nei prossimi giorni a Mantova, dal 26 al 29 giugno, in occasione dell’annuale Seminario estivo dell’associazione. Vi si documenta, ancora una volta, come le imprese che hanno investito sulla sostenibilità ambientale abbiano migliorato la produttività, l’export e l’occupazione (il 43% di chi ha fatto investimenti green ha avuto un incremento di produzione di sette punti maggiore delle imprese non eco-investitrici). E come proprio l’attenzione alla formazione di qualità, all’innovazione e alla cura dei territori siano chiavi per irrobustire un tessuto produttivo ricco di manifatture e servizi innovativi che della cultura e della sostenibilità hanno fatto non una scelta di comunicazione ma un fattore strategico di competitività.
“Digitalizzazione e decarbonizzazione sono l’orizzonte delle buone imprese”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola. Con la consapevolezza che industria e ambiente non sono realtà in conflitto, ma fattori convergenti di un processo che vede nell’economia circolare e civile, nella qualità del lavoro, nella ricerca scientifica e tecnologica e nell’approfondimento di tutte le dimensioni della conoscenza i fattori chiave per la crescita dell’Italia nella dimensione europea e mediterranea. Né decrescita infelice né ideologismo anti-industriale, insomma. Ma consapevolezza critica sullo sviluppo sostenibile.
“Noi siamo i tempi”, è la frase cardine del seminario di Symbola. Una citazione da Sant’Agostino: “Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Viviamo bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”.
C’è infatti una profonda saggezza, in questa dimensione. Non un’attesa di tempi migliori. Ma la scelta concreta di un impegno, politico, sociale e culturale, per creare e irrobustire le condizioni di uno sviluppo migliore, più umano e responsabile.
Si ritrovano qui le radici dell’impegno a costruire “un mondo più sicuro, civile” e, appunto, “gentile” di cui parlava il “Manifesto di Assisi”, un documento “per una economia a misura d’uomo” elaborato nel 2021 dai francescani del Sacro Convento e da Symbola e firmato da personalità dell’economia, della cultura, dell’università, delle imprese e di una lunga serie di associazioni della società civile, a cominciare da Assolombarda e Confindustria. E si risente la forza della lezione delle encicliche di Papa Francesco e di un’ampia parte della migliore letteratura economica che, dopo gli squilibri della finanza rapace e della globalizzazione selvaggia, prova a definire condizioni che sappiano tenere insieme mercato e socialità, competitività internazionale e benessere diffuso, democrazia politica ed economica e partecipazione. I valori forti di un’Europa da rilanciare e fare rivivere, peraltro, contro chiusure, egoismi nazionalistici, protezionismi.
Tra le fonti d’ispirazione, c’è una consapevolezza, quella che ha ispirato l’impegno politico di Alex Langer, uno dei leader dell’ambientalismo italiano: “La conversione ecologica andrà avanti solo quando sarà socialmente accettabile”.
L’esempio delle migliori imprese italiane e l’impegno delle associazioni culturali e sociali vanno proprio lungo questa strada virtuosa. Per costruire “tempi” più civili, a misura della persona umana.
(foto Getty Images)






Ci sono profonde distorsioni economiche e sociali, nella crescita sbilenca del sistema Italia. Lo confermano alcuni dati esemplari. Quello dei 230mila lavoratori senza contratti e senza diritti, sfruttati nelle campagne italiane, la cui condizione è stata nei giorni scorsi drammaticamente evidenziata dalla morte di Satnam Singh, bracciante agricolo indiano, lasciato a morire dai suoi datori di lavoro dopo un grave incidente. Ma anche quello sui 768mila laureati che le imprese sono pronte ad assumere, per impieghi di livello e buona retribuzione, ma di cui non ne trovano almeno la metà. Lavoro “nero” e povero, da una parte (lo documenta una inchiesta de “La Stampa”, 24 giugno). E lavoro qualificato non coperto dall’altra. Economia, dunque, che soffre una crisi di produttività e competitività tra le cui radici c’è appunto un mercato del lavoro squilibrato, ingiusto, segnato pure da inaccettabili condizioni di insicurezza e sfruttamento (350 morti sul lavoro già nei primi quattro mesi del 2024, erano 1.041 nel 2023). Come denuncia giustamente, ancora una volta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo la morte di Singh, parlando di “una forma di lavoro che si manifesta con caratteri disumani e che rientra in un fenomeno – che affiora non di rado – di sfruttamento del lavoro dei più deboli e indifesi, con modalità e condizioni illegali e crudeli”.
Distorsioni da superare, dunque, al di là delle emozioni che affollano i discorsi di governo dopo ogni grave incidente. E dinamiche positive da rimettere in moto, proprio mentre le nuove dimensioni della “economia della conoscenza” e le radicali trasformazioni determinate dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale pongono alle imprese e più in generale alla società italiana, in oramai grave “inverno demografico”, l’urgenza di scelte per rilanciare e rafforzare la produttività del Paese. Né “lavoro povero” né “fuga dei cervelli”, insomma (“Sette laureati emigrati su dieci non pensano di tornare in Italia”, nota “Il Sole24Ore”, parlando di stipendi più alti e migliori prospettive di affermazione professionale all’estero; 17 giugno). Ma investimenti sulla conoscenza e la qualità dell’industria e del lavoro stesso. Pena il degrado e il declino irreversibile del nostro Paese.
In questa prospettiva, non si parte da zero.
Chi guarda attentamente alle dinamiche della crescita italiana, infatti, accanto agli squilibri diffusi (“Caporalato, società fittizie e connivenze nella pubblica amministrazione”, scrive “Il Sole24Ore”, 23 giugno), osserva anche il contributo quanto mai positivo offerto dalle imprese che da quasi un ventennio innovano, investono, tengono il passo della doppia transizione ambientale e digitale, qualificandosi come eccellenze in grado di occupare posizioni di rilievo nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati internazionali e di garantire all’Italia un ruolo tra i primi cinque paesi al mondo per export (650 miliardi, il valore di quest’anno). Imprese, insomma, che puntano proprio sul capitale umano e sul capitale sociale delle relazioni virtuose con le culture dei territori di insediamento produttivo per rafforzare i propri percorsi di crescita sui mercati. Culture “politecniche”, capaci cioè di sintesi originali tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, tra bellezza e nuove tecnologie.
L’eco si avverte nelle pagine del Rapporto “Coesione e competizione” curato dalla Fondazione Symbola e sostenuto da Unioncamere e Intesa San Paolo, che sarà presentato nei prossimi giorni a Mantova, dal 26 al 29 giugno, in occasione dell’annuale Seminario estivo dell’associazione. Vi si documenta, ancora una volta, come le imprese che hanno investito sulla sostenibilità ambientale abbiano migliorato la produttività, l’export e l’occupazione (il 43% di chi ha fatto investimenti green ha avuto un incremento di produzione di sette punti maggiore delle imprese non eco-investitrici). E come proprio l’attenzione alla formazione di qualità, all’innovazione e alla cura dei territori siano chiavi per irrobustire un tessuto produttivo ricco di manifatture e servizi innovativi che della cultura e della sostenibilità hanno fatto non una scelta di comunicazione ma un fattore strategico di competitività.
“Digitalizzazione e decarbonizzazione sono l’orizzonte delle buone imprese”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola. Con la consapevolezza che industria e ambiente non sono realtà in conflitto, ma fattori convergenti di un processo che vede nell’economia circolare e civile, nella qualità del lavoro, nella ricerca scientifica e tecnologica e nell’approfondimento di tutte le dimensioni della conoscenza i fattori chiave per la crescita dell’Italia nella dimensione europea e mediterranea. Né decrescita infelice né ideologismo anti-industriale, insomma. Ma consapevolezza critica sullo sviluppo sostenibile.
“Noi siamo i tempi”, è la frase cardine del seminario di Symbola. Una citazione da Sant’Agostino: “Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Viviamo bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”.
C’è infatti una profonda saggezza, in questa dimensione. Non un’attesa di tempi migliori. Ma la scelta concreta di un impegno, politico, sociale e culturale, per creare e irrobustire le condizioni di uno sviluppo migliore, più umano e responsabile.
Si ritrovano qui le radici dell’impegno a costruire “un mondo più sicuro, civile” e, appunto, “gentile” di cui parlava il “Manifesto di Assisi”, un documento “per una economia a misura d’uomo” elaborato nel 2021 dai francescani del Sacro Convento e da Symbola e firmato da personalità dell’economia, della cultura, dell’università, delle imprese e di una lunga serie di associazioni della società civile, a cominciare da Assolombarda e Confindustria. E si risente la forza della lezione delle encicliche di Papa Francesco e di un’ampia parte della migliore letteratura economica che, dopo gli squilibri della finanza rapace e della globalizzazione selvaggia, prova a definire condizioni che sappiano tenere insieme mercato e socialità, competitività internazionale e benessere diffuso, democrazia politica ed economica e partecipazione. I valori forti di un’Europa da rilanciare e fare rivivere, peraltro, contro chiusure, egoismi nazionalistici, protezionismi.
Tra le fonti d’ispirazione, c’è una consapevolezza, quella che ha ispirato l’impegno politico di Alex Langer, uno dei leader dell’ambientalismo italiano: “La conversione ecologica andrà avanti solo quando sarà socialmente accettabile”.
L’esempio delle migliori imprese italiane e l’impegno delle associazioni culturali e sociali vanno proprio lungo questa strada virtuosa. Per costruire “tempi” più civili, a misura della persona umana.
(foto Getty Images)
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La cultura dello sport al centro dell’obiettivo
Cogliere il dinamismo, immortalare il momento cruciale e trasmettere i valori e lo spirito dello sport. Questi gli intenti della fotografia sportiva, genere che da oltre un secolo è uscito dai confini della cronaca per diventare pienamente arte. Per raccontare un mondo pulsante di adrenalina, movimenti, passioni ed emozioni, è necessaria una buona conoscenza della tecnica dell’obiettivo – unico medium in grado di raffigurare l’istante fugace con efficacia e immediatezza – ma anche una comprensione profonda della disciplina, che permette talvolta al fotografo di anticipare l’azione stessa.
Lo stretto legame che unisce Pirelli allo sport è di lunga data. Fin dalle sue origini, le corse su due e quattro ruote hanno avuto per l’azienda la funzione di laboratorio di ricerca “sul campo” per lo sviluppo dei pneumatici, dando inizio a una storia di eccellenza fatta di velocità e successi. Come quello di Renzo Soldani, vincitore nel 1950 del Giro di Lombardia, ritratto da Paolo Costa nell’atto di firmare il foglio dell’arrivo, circondato dai membri della squadra Legnano-Pirelli. Un trionfo inaspettato per il venticinquenne pistoiese che, nonostante si definisca “ancora poca cosa come corridore”, interrompe le quattro vittorie consecutive di Fausto Coppi alla “Classica delle Foglie Morte”, tra le proteste dei tifosi del Campionissimo. Una gara straordinaria – tra la difficoltà di un passaggio a livello chiuso, una lotta a quattro alle porte di Milano e una volata finale in vista del traguardo – che sancisce l’inizio di una giovane promessa del ciclismo.
La fotografia sportiva consolida anche il mito dei piloti, come quello di Juan Manuel Fangio, protagonista dello scatto realizzato durante il Gran Premio d’Italia del 1955, nel quale sfreccia sulla nuova sopraelevata dell’Autodromo di Monza, ispirata all’originale degli anni Venti e inaugurata proprio in quella corsa. La gara, ultimo round del Campionato di Formula 1 di quell’anno e momento chiave per la storia del motorsport, non solo decreta il terzo titolo iridato di Fangio, ma è anche l’ultima per la Mercedes, che annuncia alla fine della stagione il ritiro dalla massima categoria. Fangio e Pietro Taruffi, secondo classificato, regalano così l’ultima doppietta alla casa automobilistica tedesca.
Tanti sono i momenti delle competizioni indagate dall’obiettivo: dall’avvio della gara, come nel Gran Premio motociclistico di Valencia del 1956 – immagine che riprende dall’alto il posizionarsi dei piloti sulla griglia di partenza, l’enorme scritta Pirelli al centro del circuito e l’affollarsi del pubblico ai lati – fino al “dietro le quinte”, come il montaggio dei pneumatici Pirelli sulla vincente Lancia Stratos di Sandro Munari e Silvio Maiga durante il Rally di Montecarlo del 1976.
Non è solo una storia di corse quella scritta dalla “P lunga” nel mondo sportivo: sono numerosi i prodotti per lo sport realizzati dall’azienda lungo i suoi 150 anni di vita. “Questo incontro viene giocato con palle Pirelli” recita lo striscione pubblicitario nell’immagine dei campionati assoluti italiani di tennis di Bologna del 1958, al cui centro compare il doppio maschile italiano più vincente della storia, Nicola Pietrangeli e Orlando Sirola. Dalla palla “che guizza e rimbalza” utilizzata nei più importanti tornei nazionali e internazionali alle imbarcazioni in vetroresina, realizzate fin dai primi anni Cinquanta dall’Azienda Monza e poi dai Cantieri Celli di Venezia. Nel 1963 Fulvio Roiter, immortalando la costruzione degli scafi e il lavoro degli operai, mostra l’impegno dell’azienda negli sport marittimi e la sua capacità di fare innovazione nel campo delle materie plastiche. Un altro capitolo riguarda invece il Gruppo Sportivo Pirelli, istituito nel 1922 con lo scopo di diffondere lo sport tra i lavoratori e le loro famiglie, che negli anni Settanta arriva ad articolarsi in 18 sezioni – tra cui atletica, bocce, judo – con oltre 2.500 iscritti che si allenano negli impianti sportivi antistanti lo stabilimento della Bicocca, a Milano. Gli scatti sono firmati da alcuni grandi nomi della fotografia come Federico Patellani, che ritrae nel 1951 Adolfo Consolini, oro olimpico nel lancio del peso, e Teseo Taddia, campione di lancio del martello.
La fotografia dà conto anche dell’importanza della tematica sportiva sulle pagine della Rivista Pirelli: oltre ai resoconti dei giochi olimpici, dalla XV edizione di Helsinki nel 1952 a Messico 1968, sono numerosi gli articoli che affrontano le problematiche delle singole discipline: dalla crisi della scherma italiana dopo i Mondiali di Budapest del 1959 alla mancanza di atleti nel pattinaggio artistico nei primi anni Sessanta, dai frequenti infortuni nel pugilato alla difficoltà delle discipline d’oltreoceano – il rugby, l’hockey sul ghiaccio e il basket – di imporsi presso il pubblico nostrano. Tra questi ultimi emerge come eccezione il baseball, “sport nazionale americano” che vede nel Dopoguerra un rilancio a livello nazionale. L’apparato iconografico a corredo dei testi mostra le diverse squadre italiane come il Nettuno, l’Europhon e il Pirelli, che negli anni Sessanta raggiunge i primi posti nel campionato Serie A, offrendo anche diversi elementi alla nazionale. Dai trionfi del team a quelli del singolo: il designer Roberto Menghi, dopo solo un anno di allenamento, diventa campione italiano di tiro con l’arco, nonché detentore del record sulle distanze del “Round-FITA”, torneo internazionale disputatosi a Milano nel 1964; è lui “L’arciere clandestino” fotografato nel momento dello scocco.
Non mancano sulla Rivista anche reportage d’autore. Gli scatti in bianco e nero di Rodolfo Facchini accompagnano l’analisi di Guido Oddo sulla parabola del golf in Italia, dalle difficoltà politiche ed economiche degli anni Trenta fino alla sistematica affermazione, mostrando lo stretto rapporto tra lo sport e l’ambiente naturale. Stefan Krukenhauser, fotografo e maestro di sci, realizza invece immagini dinamiche dalla forte valenza estetica: spettacolari prospettive, forti contrasti di luce e ombra ed eleganti pattern impressi sulla neve. È proprio la tecnica sciistica da lui brevettata, “wedeln” o “godille”, a comparire sulla copertina del numero del 1958.
La passione, la ricerca tecnologica e l’innovazione. Sono tanti i punti di contatto tra lo sport e l’impresa e tanti i valori condivisi, tra comunità e impegno civile, promossi da Pirelli. Una storia sportiva che inizia quasi contemporaneamente alla nascita dell’azienda e che continua ancora oggi, documentata sia nelle esperienze di gara della Formula 1 – da grandi fotografi e agenzie, come Ercole Colombo, Eurofotocine e LAT Images – sia nelle entusiasmanti avventure per mare di Ambrogio Beccaria a bordo di Alla Grande – Pirelli negli scatti di Martina Orsini. Testimonianze visive delle emozioni regalate dalle competizioni.






Cogliere il dinamismo, immortalare il momento cruciale e trasmettere i valori e lo spirito dello sport. Questi gli intenti della fotografia sportiva, genere che da oltre un secolo è uscito dai confini della cronaca per diventare pienamente arte. Per raccontare un mondo pulsante di adrenalina, movimenti, passioni ed emozioni, è necessaria una buona conoscenza della tecnica dell’obiettivo – unico medium in grado di raffigurare l’istante fugace con efficacia e immediatezza – ma anche una comprensione profonda della disciplina, che permette talvolta al fotografo di anticipare l’azione stessa.
Lo stretto legame che unisce Pirelli allo sport è di lunga data. Fin dalle sue origini, le corse su due e quattro ruote hanno avuto per l’azienda la funzione di laboratorio di ricerca “sul campo” per lo sviluppo dei pneumatici, dando inizio a una storia di eccellenza fatta di velocità e successi. Come quello di Renzo Soldani, vincitore nel 1950 del Giro di Lombardia, ritratto da Paolo Costa nell’atto di firmare il foglio dell’arrivo, circondato dai membri della squadra Legnano-Pirelli. Un trionfo inaspettato per il venticinquenne pistoiese che, nonostante si definisca “ancora poca cosa come corridore”, interrompe le quattro vittorie consecutive di Fausto Coppi alla “Classica delle Foglie Morte”, tra le proteste dei tifosi del Campionissimo. Una gara straordinaria – tra la difficoltà di un passaggio a livello chiuso, una lotta a quattro alle porte di Milano e una volata finale in vista del traguardo – che sancisce l’inizio di una giovane promessa del ciclismo.
La fotografia sportiva consolida anche il mito dei piloti, come quello di Juan Manuel Fangio, protagonista dello scatto realizzato durante il Gran Premio d’Italia del 1955, nel quale sfreccia sulla nuova sopraelevata dell’Autodromo di Monza, ispirata all’originale degli anni Venti e inaugurata proprio in quella corsa. La gara, ultimo round del Campionato di Formula 1 di quell’anno e momento chiave per la storia del motorsport, non solo decreta il terzo titolo iridato di Fangio, ma è anche l’ultima per la Mercedes, che annuncia alla fine della stagione il ritiro dalla massima categoria. Fangio e Pietro Taruffi, secondo classificato, regalano così l’ultima doppietta alla casa automobilistica tedesca.
Tanti sono i momenti delle competizioni indagate dall’obiettivo: dall’avvio della gara, come nel Gran Premio motociclistico di Valencia del 1956 – immagine che riprende dall’alto il posizionarsi dei piloti sulla griglia di partenza, l’enorme scritta Pirelli al centro del circuito e l’affollarsi del pubblico ai lati – fino al “dietro le quinte”, come il montaggio dei pneumatici Pirelli sulla vincente Lancia Stratos di Sandro Munari e Silvio Maiga durante il Rally di Montecarlo del 1976.
Non è solo una storia di corse quella scritta dalla “P lunga” nel mondo sportivo: sono numerosi i prodotti per lo sport realizzati dall’azienda lungo i suoi 150 anni di vita. “Questo incontro viene giocato con palle Pirelli” recita lo striscione pubblicitario nell’immagine dei campionati assoluti italiani di tennis di Bologna del 1958, al cui centro compare il doppio maschile italiano più vincente della storia, Nicola Pietrangeli e Orlando Sirola. Dalla palla “che guizza e rimbalza” utilizzata nei più importanti tornei nazionali e internazionali alle imbarcazioni in vetroresina, realizzate fin dai primi anni Cinquanta dall’Azienda Monza e poi dai Cantieri Celli di Venezia. Nel 1963 Fulvio Roiter, immortalando la costruzione degli scafi e il lavoro degli operai, mostra l’impegno dell’azienda negli sport marittimi e la sua capacità di fare innovazione nel campo delle materie plastiche. Un altro capitolo riguarda invece il Gruppo Sportivo Pirelli, istituito nel 1922 con lo scopo di diffondere lo sport tra i lavoratori e le loro famiglie, che negli anni Settanta arriva ad articolarsi in 18 sezioni – tra cui atletica, bocce, judo – con oltre 2.500 iscritti che si allenano negli impianti sportivi antistanti lo stabilimento della Bicocca, a Milano. Gli scatti sono firmati da alcuni grandi nomi della fotografia come Federico Patellani, che ritrae nel 1951 Adolfo Consolini, oro olimpico nel lancio del peso, e Teseo Taddia, campione di lancio del martello.
La fotografia dà conto anche dell’importanza della tematica sportiva sulle pagine della Rivista Pirelli: oltre ai resoconti dei giochi olimpici, dalla XV edizione di Helsinki nel 1952 a Messico 1968, sono numerosi gli articoli che affrontano le problematiche delle singole discipline: dalla crisi della scherma italiana dopo i Mondiali di Budapest del 1959 alla mancanza di atleti nel pattinaggio artistico nei primi anni Sessanta, dai frequenti infortuni nel pugilato alla difficoltà delle discipline d’oltreoceano – il rugby, l’hockey sul ghiaccio e il basket – di imporsi presso il pubblico nostrano. Tra questi ultimi emerge come eccezione il baseball, “sport nazionale americano” che vede nel Dopoguerra un rilancio a livello nazionale. L’apparato iconografico a corredo dei testi mostra le diverse squadre italiane come il Nettuno, l’Europhon e il Pirelli, che negli anni Sessanta raggiunge i primi posti nel campionato Serie A, offrendo anche diversi elementi alla nazionale. Dai trionfi del team a quelli del singolo: il designer Roberto Menghi, dopo solo un anno di allenamento, diventa campione italiano di tiro con l’arco, nonché detentore del record sulle distanze del “Round-FITA”, torneo internazionale disputatosi a Milano nel 1964; è lui “L’arciere clandestino” fotografato nel momento dello scocco.
Non mancano sulla Rivista anche reportage d’autore. Gli scatti in bianco e nero di Rodolfo Facchini accompagnano l’analisi di Guido Oddo sulla parabola del golf in Italia, dalle difficoltà politiche ed economiche degli anni Trenta fino alla sistematica affermazione, mostrando lo stretto rapporto tra lo sport e l’ambiente naturale. Stefan Krukenhauser, fotografo e maestro di sci, realizza invece immagini dinamiche dalla forte valenza estetica: spettacolari prospettive, forti contrasti di luce e ombra ed eleganti pattern impressi sulla neve. È proprio la tecnica sciistica da lui brevettata, “wedeln” o “godille”, a comparire sulla copertina del numero del 1958.
La passione, la ricerca tecnologica e l’innovazione. Sono tanti i punti di contatto tra lo sport e l’impresa e tanti i valori condivisi, tra comunità e impegno civile, promossi da Pirelli. Una storia sportiva che inizia quasi contemporaneamente alla nascita dell’azienda e che continua ancora oggi, documentata sia nelle esperienze di gara della Formula 1 – da grandi fotografi e agenzie, come Ercole Colombo, Eurofotocine e LAT Images – sia nelle entusiasmanti avventure per mare di Ambrogio Beccaria a bordo di Alla Grande – Pirelli negli scatti di Martina Orsini. Testimonianze visive delle emozioni regalate dalle competizioni.
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Cultura (anche del produrre) attraverso le cartoline
Una ricerca di due geografi racconta del cambiamento della percezione del paesaggio naturale e industriale
Comprendere la percezione dell’ambiente e dello sviluppo, della socialità e della produzione anche attraverso la narrazione visuale, e cioè quella modalità del raccontare che passa dalle immagini. Anche quelle di un tempo – cartoline e filmati “fatti in casa” – che fino a pochi anni fa era d’uso comune e che adesso appaiono quasi scomparse. Eppure, è anche attraverso cartoline e filmati di famiglia che può passare la cultura del vivere sociale, del produrre, dello sviluppo e della condivisione. E’ attorno a queste idee che hanno lavorato Pietro Agnoletto e Lorenzo Bagnoli nella loro ricerca “Ambiente e percezione sociale. Cartoline e filmati di famiglia nell’Italia industriale” da poco pubblicata dalla rivista dell’associazione dei geografi italiani (AGEI).
Agnoletto e Bagnoli partono dal considerare un dato di fatto davanti a tutti gli attenti osservatori della realtà sociale: ciò che nella società italiana postmoderna viene considerato un conflitto ambientale, nell’Italia industriale degli anni Sessanta e Settanta poteva essere invece considerato accettabile ed essere rappresentato senza offendere il comune senso estetico. In altri termini, quello che qualche decennio fa affascinava talmente tanto da diventare degno di ammirazione, ricordo e visita, oggi può essere stato retrocesso ad elemento di danno ambientale e sociale. A testimoniare questo processo – spiegano i due autori – è il turismo e i ricordi di viaggio che produce. Non quelli che originano dai viaggiatori attenti, ma quelli che arrivano dalla gente comune, dalle famiglie in vacanza, dai passaggi apparentemente distratti eppure capaci di cogliere tratti particolari del paesaggio. Cartoline postali e filmati di famiglia, dunque, come strumenti in grado di testimoniare una percezione diversa del paesaggio e dei manufatti umani, della vita in comune, della produzione, delle fabbriche. Una cultura – anche del produrre e d’impresa – che appare essere notevolmente differente da quella di oggi, ma che ha fatto parte per molti decenni del comune sentire della società italiana.
Così, fanno notare Agnoletto e Bagnoli, dall’analisi visuale di questi tipi di documento emerge come spesso parcheggi, arterie stradali, mezzi di trasporto, stabilimenti industriali o condomini – tutti attentamente evitati nelle rappresentazioni turistiche di oggi – non venivano allora percepiti quali oggetti deturpanti il paesaggio nemmeno durante un periodo di vacanza, ma elementi che testimoniavano progresso e sviluppo di una località turistica. In altri termini ancora, come viene spiegato della ricerca, il contesto turistico della seconda metà del XX secolo testimonia del boom economico dell’Italia, ne è parte integrante e riesce a tramandare informazione che altrimenti sarebbero andate perse.
Il lavoro di Agnoletto e Bagnoli costituisce un esempio di come si possa fare ricerca economica e sociale mettendo da parte per un attimo i numeri e guardando alla vita quotidiana delle persone. Da leggere.
Ambiente e percezione sociale. Cartoline e filmati di famiglia nell’Italia industriale
Pietro Agnoletto, Lorenzo Bagnoli
AGEI, Geotema, 72
Una ricerca di due geografi racconta del cambiamento della percezione del paesaggio naturale e industriale
Comprendere la percezione dell’ambiente e dello sviluppo, della socialità e della produzione anche attraverso la narrazione visuale, e cioè quella modalità del raccontare che passa dalle immagini. Anche quelle di un tempo – cartoline e filmati “fatti in casa” – che fino a pochi anni fa era d’uso comune e che adesso appaiono quasi scomparse. Eppure, è anche attraverso cartoline e filmati di famiglia che può passare la cultura del vivere sociale, del produrre, dello sviluppo e della condivisione. E’ attorno a queste idee che hanno lavorato Pietro Agnoletto e Lorenzo Bagnoli nella loro ricerca “Ambiente e percezione sociale. Cartoline e filmati di famiglia nell’Italia industriale” da poco pubblicata dalla rivista dell’associazione dei geografi italiani (AGEI).
Agnoletto e Bagnoli partono dal considerare un dato di fatto davanti a tutti gli attenti osservatori della realtà sociale: ciò che nella società italiana postmoderna viene considerato un conflitto ambientale, nell’Italia industriale degli anni Sessanta e Settanta poteva essere invece considerato accettabile ed essere rappresentato senza offendere il comune senso estetico. In altri termini, quello che qualche decennio fa affascinava talmente tanto da diventare degno di ammirazione, ricordo e visita, oggi può essere stato retrocesso ad elemento di danno ambientale e sociale. A testimoniare questo processo – spiegano i due autori – è il turismo e i ricordi di viaggio che produce. Non quelli che originano dai viaggiatori attenti, ma quelli che arrivano dalla gente comune, dalle famiglie in vacanza, dai passaggi apparentemente distratti eppure capaci di cogliere tratti particolari del paesaggio. Cartoline postali e filmati di famiglia, dunque, come strumenti in grado di testimoniare una percezione diversa del paesaggio e dei manufatti umani, della vita in comune, della produzione, delle fabbriche. Una cultura – anche del produrre e d’impresa – che appare essere notevolmente differente da quella di oggi, ma che ha fatto parte per molti decenni del comune sentire della società italiana.
Così, fanno notare Agnoletto e Bagnoli, dall’analisi visuale di questi tipi di documento emerge come spesso parcheggi, arterie stradali, mezzi di trasporto, stabilimenti industriali o condomini – tutti attentamente evitati nelle rappresentazioni turistiche di oggi – non venivano allora percepiti quali oggetti deturpanti il paesaggio nemmeno durante un periodo di vacanza, ma elementi che testimoniavano progresso e sviluppo di una località turistica. In altri termini ancora, come viene spiegato della ricerca, il contesto turistico della seconda metà del XX secolo testimonia del boom economico dell’Italia, ne è parte integrante e riesce a tramandare informazione che altrimenti sarebbero andate perse.
Il lavoro di Agnoletto e Bagnoli costituisce un esempio di come si possa fare ricerca economica e sociale mettendo da parte per un attimo i numeri e guardando alla vita quotidiana delle persone. Da leggere.
Ambiente e percezione sociale. Cartoline e filmati di famiglia nell’Italia industriale
Pietro Agnoletto, Lorenzo Bagnoli
AGEI, Geotema, 72
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Nuove bussole per imprese e società
L’ultima ricerca del Centro Einaudi fornisce una fotografia attenta della realtà in cui ci si sta muovendo
Dalla globalizzazione alla postglobalizzazione. Non si tratta di categorie astratte, ma di concetti importanti che è necessario comprendere per riuscire ad orientarsi in una realtà – sociale ed economica – che cambia, è sempre più complicata, che presenta forti rischi ma altrettanto forti opportunità. Per questo serve leggere “Il mondo ha perso la bussola”, Rapporto 2024, curato da Mario Deaglio, del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino.
Deaglio e i suoi collaboratori (Giorgio Arfaras, Giuseppina De Santis, Paolo Migliavacca, Giuseppe Russo) partono da un interrogativo. Ci sono ancora punti cardinali sicuri a cui guardare per orientarsi? La risposta – le risposte, anzi – arrivano da una narrazione attenta che tocca alcuni capisaldi: la constatazione che “le certezze sonio finite” in ogni campo di attività, le relazioni tra Europa e Stai Uniti, la tornata complessa delle elezioni 2024, il continuo oscillare tra spinte di pace e azioni di guerra, l’approfondimento della situazione italiana.
Il Rapporto scandaglia così temi e scenari del mondo postglobale in cui persone e imprese si trovano a vivere ed agire. Serve, è il messaggio del gruppo di ricerca del Centro Einaudi, una nuova bussola, ma è a anche il momento, per imprese, banche e governi, di guardare al proprio interno e di dimostrare la propria antifragilità. Tutto con alcuni esempi che chiariscono molto della situazione: il livello dell’istruzione che non cresce più, il modo di vivere, la guerra industriale (e pacifica) dell’auto elettrica, i molti problemi dell’economia come quelli della Germania oltre che dell’Italia.
Dopo i “decenni straordinari della globalizzazione” – è uno dei messaggi della ricerca coordinata di Deaglio – è necessario comprendere le sfide del nostro tempo e continuare a navigare con saggezza verso un futuro di crescita sostenibile. Il Rapporto fornisce la base necessaria: una lucida fotografia della realtà.
Il mondo ha perso la bussola
Mario Deaglio (a cura di)
Guerini e Associati, 2024






L’ultima ricerca del Centro Einaudi fornisce una fotografia attenta della realtà in cui ci si sta muovendo
Dalla globalizzazione alla postglobalizzazione. Non si tratta di categorie astratte, ma di concetti importanti che è necessario comprendere per riuscire ad orientarsi in una realtà – sociale ed economica – che cambia, è sempre più complicata, che presenta forti rischi ma altrettanto forti opportunità. Per questo serve leggere “Il mondo ha perso la bussola”, Rapporto 2024, curato da Mario Deaglio, del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino.
Deaglio e i suoi collaboratori (Giorgio Arfaras, Giuseppina De Santis, Paolo Migliavacca, Giuseppe Russo) partono da un interrogativo. Ci sono ancora punti cardinali sicuri a cui guardare per orientarsi? La risposta – le risposte, anzi – arrivano da una narrazione attenta che tocca alcuni capisaldi: la constatazione che “le certezze sonio finite” in ogni campo di attività, le relazioni tra Europa e Stai Uniti, la tornata complessa delle elezioni 2024, il continuo oscillare tra spinte di pace e azioni di guerra, l’approfondimento della situazione italiana.
Il Rapporto scandaglia così temi e scenari del mondo postglobale in cui persone e imprese si trovano a vivere ed agire. Serve, è il messaggio del gruppo di ricerca del Centro Einaudi, una nuova bussola, ma è a anche il momento, per imprese, banche e governi, di guardare al proprio interno e di dimostrare la propria antifragilità. Tutto con alcuni esempi che chiariscono molto della situazione: il livello dell’istruzione che non cresce più, il modo di vivere, la guerra industriale (e pacifica) dell’auto elettrica, i molti problemi dell’economia come quelli della Germania oltre che dell’Italia.
Dopo i “decenni straordinari della globalizzazione” – è uno dei messaggi della ricerca coordinata di Deaglio – è necessario comprendere le sfide del nostro tempo e continuare a navigare con saggezza verso un futuro di crescita sostenibile. Il Rapporto fornisce la base necessaria: una lucida fotografia della realtà.
Il mondo ha perso la bussola
Mario Deaglio (a cura di)
Guerini e Associati, 2024
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