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Una scuola in altalena, tra record di abbandoni e università ai vertici della qualità mondiale

Guardare più attentamente alla scuola, nella stagione del primato dell’economia della conoscenza. E considerarla sia alla luce della Costituzione (l’articolo 34 la vuole giustamente “aperta a tutti” e prescrive che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più altri degli studi”) sia nel contesto delle sfide poste dai fenomeni di più stretta attualità. Il declino demografico, da compensare con lungimiranti politiche di gestione dell’immigrazione e di inclusione sociale, culturale ed economica. E la necessità di risposte alla transizione ambientale e digitale e alla diffusione dell’AI (l’Artificial Intelligence) in tutti e settori della nostra vita. Sfide civili. E di sistema economico. Di cittadinanza. e di costruzione di sviluppo sostenibile, con lo sguardo rivolto alle nuove generazioni.

Come sta, dunque, la scuola italiana? Molto bene, a leggere il Qs World Ranking 2024 che analizza oltre 1.500 università e colloca le nostre al settimo posto nel mondo e al secondo in Europa per presenza nelle varie liste “Top 10” per discipline sia umanistiche che scientifiche. La scuola sta invece ancora abbastanza male, se guardiamo i dati Eurostat sulla dispersione scolastica, che ci vedono al quinto posto tra i paesi Ue per abbandono prematuro degli studi: ne sono colpiti l’11,5% dei nostri ragazzi, tra gli 11 e i 24 anni, ben due punti sopra la media europea (9,6%).

Migliora, insomma, l’istruzione superiore, anche se continuiamo ad avere troppo pochi laureati (soprattutto nella materie “Stem” e cioè scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Ma restiamo drammaticamente indietro nella formazione media e medio-superiore, bruciando aspettative e speranze di decine di migliaia di ragazze e ragazzi. Disapplicando la Costituzione. E sprecando opportunità per una migliore qualità della vita e del lavoro.

Guardando attentamente i dati, scopriamo comunque che qualche passo avanti si è fatto: in vent’anni s’è dimezzato il numero di giovani che lasciano il sistema scolastico avendo appena la licenza media, o poco più, in mano (il tasso italiano era del 24%, rispetto a una media Ue del 17%). Restiamo tra gli ultimi, è vero. Ma, nell’impegno al recupero di posizioni, abbiamo raggiunto l’obiettivo fissato a livello comunitario per il 2020, che era del 16%: facciamo cinque punti meglio del previsto. Nel 2030, il target sarà al 9%. Riusciremo a raggiungerlo? Si spera di sì.

Sono sempre forti, comunque, i divari regionali. Il portale specializzato Skuola.net, analizzando nel dettaglio i dati Eurostat di cui stiamo parlando, documenta che ci sono dieci regioni con livelli di dispersione inferiori al 10%, in linea con quanto stabilito dalla Ue: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Abruzzo, Molise, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, per arrivare alle regioni più virtuose Umbria (7,3%), Marche (5,8%) e Basilicata (5,3%).

Ma nel Sud, purtroppo, va male: la dispersione sale al 13,8% di media, in Sardegna al 15%, in Campania al 16% e in Sicilia, un disastro, quasi al 19%.

Sono dati che si riflettono, naturalmente, anche sulle prospettive occupazionali. Tra il 2008 e il 2020 il tasso di collocamento dei giovani 18-24enni che hanno lasciato la scuola prima del tempo è crollato, passando dal 51% al 33,2%.

Abbandono scolastico allarmante, dunque. Con un aggravamento dei già pesanti divari territoriali e sociali. Ma anche caduta della qualità dell’istruzione, considerando ciò che rivelano i dati delle prove Invalsi: alla licenza media superiore, la metà dei diplomandi non arriva ai livelli attesi in almeno una delle tre discipline osservate (matematica, italiano, inglese). E quasi uno studente su dieci non raggiunge la sufficienza in tutte e tre le materie contemporaneamente. Con picchi nei contesti sociali più svantaggiati, nel Mezzogiorno: Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna in maniera particolare.

Dal punto di vista degli equilibri di sviluppo futuri, il contesto è appesantito dall’emigrazione continua, proprio dalle regioni meridionali, di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, i più colti, formati, intraprendenti, capaci di costruire futuro.

Un quadro sbilenco, squilibrato, diseguale. Ma tutt’altro che privo di possibilità di ripresa.

Sarà pur vero che un pessimista non è altro che un ottimista ben informato, per dirla con il famoso aforisma di Oscar Wilde. Ma è probabilmente altrettanto vero che, nell’analisi dell’attuale momento storico, il confronto tra l’Italia e il resto dei paesi con cui siamo in competizione rivela attitudini e qualità da valorizzare meglio, per farne non solo e non tanto leva di orgoglio nazionale, quanto soprattutto cardine di scelte politiche e di consapevoli possibilità di sviluppo.

Ecco perché, allora, accanto alla critica ragionata e ben fondata sulle tante carenze del nostro sistema universitario, vale la pena prendere in mano i resoconti del Qs Ranking 2024 di cui abbiamo parlato all’inizio (Corriere della Sera, IlSole24Ore, la Repubblica 11 aprile) e sottolineare i buoni risultati della Sapienza di Roma e della Scuola Normale di Pisa, della Bocconi e dei Politecnici di Milano e Torino, della Luiss di Roma e della Federico II di Napoli, etc. Eccellenze, sia per gli studi umanistici che per le conoscenze scientifiche, per l’ingegneria e l’architettura, il design e l’arte. Primati su cui insistere, per continuare a investire sulla didattica e la ricerca, la valorizzazione dell’esperienza e l’attitudine all’innovazione.

L’orizzonte di riferimento è quello della “cultura politecnica”, un’originale dimensione italiana che sa tenere insieme i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. E su cui anche le imprese possono continuare a fare leva, per migliorare la competitività dei propri prodotti e servizi su mercati internazionali particolarmente selettivi.

Per dirla in sintesi: la formazione deve puntare sulle conoscenze più che sulle competenze. Perché sono le conoscenze che consentono di sapere cosa fare, come fare e perché. Sono, appunto, il frutto di una cultura politecnica diffusa, cioè capace di fondere l’innovazione tecnologica, come portato della ricerca scientifica, e il gusto del bello, come espressione del sapere umanistico. E rivelare così l’essenza del fare impresa italiano.

Se ne è discusso, nei giorni scorsi, a Trento, a “CamLab: dialoghi su impresa e innovazione”, per iniziativa della Camera di commercio. Insistendo sul fatto che in un grande Paese aperto come l’Italia, contemporaneamente competitivo e inclusivo la formazione vada concepita come un processo di filiera, un reticolato che investe tutte le imprese che ruotano intorno a un prodotto. L’abilità nel fare. E l’impegno a “fare sapere”, a costruire cioè un nuovo racconto dell’intraprendenza, della creatività e della produttività.

D’altronde, proprio nella radice etimologica di competere, c’è l’idea di tendere insieme verso un obiettivo: la crescita economica e sociale, con una produzione del valore diffusa, nelle imprese e nei territori. E dunque con una attrattività per gli investimenti e per le persone di qualità, per le idee e i portatori di conoscenze. Ecco perché la formazione non può che essere uno sforzo che deve mobilitare imprese, politica e associazioni di categoria. E la leva della fiscalità di vantaggio va utilizzata maggiormente, per stimolare imprese, territori, associazioni a investire in conoscenza, appunto in formazione. Formazione scolastica e professionale. E di lungo periodo. Lifelong learning, come dicono i manuali di gestione d’impresa.

Il ragionamento torna alle università e ai primati rivelati da Qs Ranking. Seguendo le valutazioni di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione ed ex presidente del Cnr e della Compagna di San Paolo: “Siamo in una fase storica in cui c’è bisogno di ibridare i saperi. Ci siamo accorti, fortunatamente, che i soli risultati della tecnologia non bastano. Serve una visione più “rotonda” che abbia componenti etiche, sociali, umanistiche. Sotto questo profilo la nostra cultura ha radici profonde che certo vanno inserite nella modernità di oggi. L’anno scorso è stato il centenario della riforma Gentile e anche abbiamo celebrato il sessantesimo anniversario dalla nascita della scuola media unica. Siamo un Paese molto interessante a cui altre culture guardano con attenzione” (HuffingtonPost Italia, 11 aprile).

Ha appunto ragione Profumo quando sostiene che “il modello culturale in cui ci ritroviamo insieme a Germania e Francia, anche a prescindere dalle singole posizioni in classifica, è attuale e moderno, e il Qs Ranking lo dimostra. Il tema centrale è che questi Paesi hanno conservato una tradizione mentre il mondo anglosassone è più tarato sull’immediatezza. Noi puntiamo sulla conoscenza, loro sulle competenze che però diventano obsolete più velocemente e vanno di tanto in tanto riviste e rigenerate. La conoscenza, invece, è un valore vero e duraturo nel tempo per le persone che lo possiedono”.

La sfida è politica, di scelte di lungo periodo sia nazionali che europee. E se è vero che l’Europa, in questa difficile stagione di grandi conflitti geopolitici, ha un peso purtroppo marginale, proprio l’insistenza della Ue sulla cultura, le conoscenze, la formazione può ridarci ruolo e qualità di partecipazione.

(foto Getty Images)

Guardare più attentamente alla scuola, nella stagione del primato dell’economia della conoscenza. E considerarla sia alla luce della Costituzione (l’articolo 34 la vuole giustamente “aperta a tutti” e prescrive che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più altri degli studi”) sia nel contesto delle sfide poste dai fenomeni di più stretta attualità. Il declino demografico, da compensare con lungimiranti politiche di gestione dell’immigrazione e di inclusione sociale, culturale ed economica. E la necessità di risposte alla transizione ambientale e digitale e alla diffusione dell’AI (l’Artificial Intelligence) in tutti e settori della nostra vita. Sfide civili. E di sistema economico. Di cittadinanza. e di costruzione di sviluppo sostenibile, con lo sguardo rivolto alle nuove generazioni.

Come sta, dunque, la scuola italiana? Molto bene, a leggere il Qs World Ranking 2024 che analizza oltre 1.500 università e colloca le nostre al settimo posto nel mondo e al secondo in Europa per presenza nelle varie liste “Top 10” per discipline sia umanistiche che scientifiche. La scuola sta invece ancora abbastanza male, se guardiamo i dati Eurostat sulla dispersione scolastica, che ci vedono al quinto posto tra i paesi Ue per abbandono prematuro degli studi: ne sono colpiti l’11,5% dei nostri ragazzi, tra gli 11 e i 24 anni, ben due punti sopra la media europea (9,6%).

Migliora, insomma, l’istruzione superiore, anche se continuiamo ad avere troppo pochi laureati (soprattutto nella materie “Stem” e cioè scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Ma restiamo drammaticamente indietro nella formazione media e medio-superiore, bruciando aspettative e speranze di decine di migliaia di ragazze e ragazzi. Disapplicando la Costituzione. E sprecando opportunità per una migliore qualità della vita e del lavoro.

Guardando attentamente i dati, scopriamo comunque che qualche passo avanti si è fatto: in vent’anni s’è dimezzato il numero di giovani che lasciano il sistema scolastico avendo appena la licenza media, o poco più, in mano (il tasso italiano era del 24%, rispetto a una media Ue del 17%). Restiamo tra gli ultimi, è vero. Ma, nell’impegno al recupero di posizioni, abbiamo raggiunto l’obiettivo fissato a livello comunitario per il 2020, che era del 16%: facciamo cinque punti meglio del previsto. Nel 2030, il target sarà al 9%. Riusciremo a raggiungerlo? Si spera di sì.

Sono sempre forti, comunque, i divari regionali. Il portale specializzato Skuola.net, analizzando nel dettaglio i dati Eurostat di cui stiamo parlando, documenta che ci sono dieci regioni con livelli di dispersione inferiori al 10%, in linea con quanto stabilito dalla Ue: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Abruzzo, Molise, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, per arrivare alle regioni più virtuose Umbria (7,3%), Marche (5,8%) e Basilicata (5,3%).

Ma nel Sud, purtroppo, va male: la dispersione sale al 13,8% di media, in Sardegna al 15%, in Campania al 16% e in Sicilia, un disastro, quasi al 19%.

Sono dati che si riflettono, naturalmente, anche sulle prospettive occupazionali. Tra il 2008 e il 2020 il tasso di collocamento dei giovani 18-24enni che hanno lasciato la scuola prima del tempo è crollato, passando dal 51% al 33,2%.

Abbandono scolastico allarmante, dunque. Con un aggravamento dei già pesanti divari territoriali e sociali. Ma anche caduta della qualità dell’istruzione, considerando ciò che rivelano i dati delle prove Invalsi: alla licenza media superiore, la metà dei diplomandi non arriva ai livelli attesi in almeno una delle tre discipline osservate (matematica, italiano, inglese). E quasi uno studente su dieci non raggiunge la sufficienza in tutte e tre le materie contemporaneamente. Con picchi nei contesti sociali più svantaggiati, nel Mezzogiorno: Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna in maniera particolare.

Dal punto di vista degli equilibri di sviluppo futuri, il contesto è appesantito dall’emigrazione continua, proprio dalle regioni meridionali, di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, i più colti, formati, intraprendenti, capaci di costruire futuro.

Un quadro sbilenco, squilibrato, diseguale. Ma tutt’altro che privo di possibilità di ripresa.

Sarà pur vero che un pessimista non è altro che un ottimista ben informato, per dirla con il famoso aforisma di Oscar Wilde. Ma è probabilmente altrettanto vero che, nell’analisi dell’attuale momento storico, il confronto tra l’Italia e il resto dei paesi con cui siamo in competizione rivela attitudini e qualità da valorizzare meglio, per farne non solo e non tanto leva di orgoglio nazionale, quanto soprattutto cardine di scelte politiche e di consapevoli possibilità di sviluppo.

Ecco perché, allora, accanto alla critica ragionata e ben fondata sulle tante carenze del nostro sistema universitario, vale la pena prendere in mano i resoconti del Qs Ranking 2024 di cui abbiamo parlato all’inizio (Corriere della Sera, IlSole24Ore, la Repubblica 11 aprile) e sottolineare i buoni risultati della Sapienza di Roma e della Scuola Normale di Pisa, della Bocconi e dei Politecnici di Milano e Torino, della Luiss di Roma e della Federico II di Napoli, etc. Eccellenze, sia per gli studi umanistici che per le conoscenze scientifiche, per l’ingegneria e l’architettura, il design e l’arte. Primati su cui insistere, per continuare a investire sulla didattica e la ricerca, la valorizzazione dell’esperienza e l’attitudine all’innovazione.

L’orizzonte di riferimento è quello della “cultura politecnica”, un’originale dimensione italiana che sa tenere insieme i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. E su cui anche le imprese possono continuare a fare leva, per migliorare la competitività dei propri prodotti e servizi su mercati internazionali particolarmente selettivi.

Per dirla in sintesi: la formazione deve puntare sulle conoscenze più che sulle competenze. Perché sono le conoscenze che consentono di sapere cosa fare, come fare e perché. Sono, appunto, il frutto di una cultura politecnica diffusa, cioè capace di fondere l’innovazione tecnologica, come portato della ricerca scientifica, e il gusto del bello, come espressione del sapere umanistico. E rivelare così l’essenza del fare impresa italiano.

Se ne è discusso, nei giorni scorsi, a Trento, a “CamLab: dialoghi su impresa e innovazione”, per iniziativa della Camera di commercio. Insistendo sul fatto che in un grande Paese aperto come l’Italia, contemporaneamente competitivo e inclusivo la formazione vada concepita come un processo di filiera, un reticolato che investe tutte le imprese che ruotano intorno a un prodotto. L’abilità nel fare. E l’impegno a “fare sapere”, a costruire cioè un nuovo racconto dell’intraprendenza, della creatività e della produttività.

D’altronde, proprio nella radice etimologica di competere, c’è l’idea di tendere insieme verso un obiettivo: la crescita economica e sociale, con una produzione del valore diffusa, nelle imprese e nei territori. E dunque con una attrattività per gli investimenti e per le persone di qualità, per le idee e i portatori di conoscenze. Ecco perché la formazione non può che essere uno sforzo che deve mobilitare imprese, politica e associazioni di categoria. E la leva della fiscalità di vantaggio va utilizzata maggiormente, per stimolare imprese, territori, associazioni a investire in conoscenza, appunto in formazione. Formazione scolastica e professionale. E di lungo periodo. Lifelong learning, come dicono i manuali di gestione d’impresa.

Il ragionamento torna alle università e ai primati rivelati da Qs Ranking. Seguendo le valutazioni di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione ed ex presidente del Cnr e della Compagna di San Paolo: “Siamo in una fase storica in cui c’è bisogno di ibridare i saperi. Ci siamo accorti, fortunatamente, che i soli risultati della tecnologia non bastano. Serve una visione più “rotonda” che abbia componenti etiche, sociali, umanistiche. Sotto questo profilo la nostra cultura ha radici profonde che certo vanno inserite nella modernità di oggi. L’anno scorso è stato il centenario della riforma Gentile e anche abbiamo celebrato il sessantesimo anniversario dalla nascita della scuola media unica. Siamo un Paese molto interessante a cui altre culture guardano con attenzione” (HuffingtonPost Italia, 11 aprile).

Ha appunto ragione Profumo quando sostiene che “il modello culturale in cui ci ritroviamo insieme a Germania e Francia, anche a prescindere dalle singole posizioni in classifica, è attuale e moderno, e il Qs Ranking lo dimostra. Il tema centrale è che questi Paesi hanno conservato una tradizione mentre il mondo anglosassone è più tarato sull’immediatezza. Noi puntiamo sulla conoscenza, loro sulle competenze che però diventano obsolete più velocemente e vanno di tanto in tanto riviste e rigenerate. La conoscenza, invece, è un valore vero e duraturo nel tempo per le persone che lo possiedono”.

La sfida è politica, di scelte di lungo periodo sia nazionali che europee. E se è vero che l’Europa, in questa difficile stagione di grandi conflitti geopolitici, ha un peso purtroppo marginale, proprio l’insistenza della Ue sulla cultura, le conoscenze, la formazione può ridarci ruolo e qualità di partecipazione.

(foto Getty Images)

Tutto solo per profitto?

La storia delle imprese dall’antichità ad oggi delinea le componenti e gli obiettivi di queste organizzazioni

 

Per profitto (sempre) ma non solo. Comprendere perché e come le imprese vengono create, è parte fondamentale della comprensione della cultura che sta dietro e dentro di esse. Umanità densa, quella che deve essere ricercata ogni volta, con le sue storie, le vittorie e le sconfitte. Umanità che, talvolta, ha fatto anche la cosiddetta “grande storia” ma pure la storia minuta. E che davvero costruisce il presente e il futuro. Leggere “Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta” scritto da William Magnuson e appena riproposto in Italia, serve proprio per capire di più delle relazioni tra profitto e altri obiettivi che pressoché da sempre hanno suscitato la creazione di aziende.

In particolare, il libro è la storia della nascita delle società per azioni, della loro evoluzione e del ruolo che hanno svolto e continuano a svolgere nel plasmare il mondo e il nostro modo di pensare. E non si tratta solo di aspetti economici. William Magnuson traccia il percorso delle cosiddette corporation nei secoli: dai palazzi dell’antica Roma alle navi della Compagnia britannica delle Indie orientali, alle rotaie costruite dalla Union Pacific Railroad Company per attraversare il continente nordamericano; dalle multinazionali del petrolio in Medio Oriente fino agli odierni colossi della Silicon Valley. La narrazione di Magnuson inizia da prima della nascita di Cristo e arriva fino ad oggi, ponendo esempi che fanno capire subito il ruolo delle imprese. Per capire bastano pochi esempi. Nel 215 a.C. l’esercito romano rischia di collassare di fronte all’avanzata dei cartaginesi; a salvare le truppe e la Repubblica saranno un manipolo di facoltosi cittadini, riunitisi in societates – le prime aziende della storia –, che riforniranno i soldati di abiti, cereali ed equipaggiamenti ribaltando così le sorti del conflitto. Nella prima metà del XV secolo, sotto la guida di Giovanni di Bicci de’ Medici, il Banco Medici diventa la più importante impresa d’Europa, capace di influenzare guerre, tregue e trattati a migliaia di chilometri di distanza. Nel maggio 2012 Facebook, la società di Mark Zuckerberg che diventerà Meta, si quota in borsa; nel 2018, sarà accusata di aver condizionato le elezioni che hanno portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

Profitto, dunque, ma anche altri obiettivi hanno animato e animano le organizzazioni della produzione e gli uomini che le progettano, costruiscono e gestiscono. Magnuson racconta quindi le sorti di banchieri, esploratori, pirati, uomini d’affari e imprenditori digitali nel solco ambiguo che esiste tra interessi personali e benessere comune. Ed è proprio l’oscillare del pendolo tra questi due estremi che porta il libro a raccontare successi e insuccessi del fare impresa ma anche, appunto, il ruolo del profitto.

Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta

William Magnuson

il Saggiatore 2024

La storia delle imprese dall’antichità ad oggi delinea le componenti e gli obiettivi di queste organizzazioni

 

Per profitto (sempre) ma non solo. Comprendere perché e come le imprese vengono create, è parte fondamentale della comprensione della cultura che sta dietro e dentro di esse. Umanità densa, quella che deve essere ricercata ogni volta, con le sue storie, le vittorie e le sconfitte. Umanità che, talvolta, ha fatto anche la cosiddetta “grande storia” ma pure la storia minuta. E che davvero costruisce il presente e il futuro. Leggere “Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta” scritto da William Magnuson e appena riproposto in Italia, serve proprio per capire di più delle relazioni tra profitto e altri obiettivi che pressoché da sempre hanno suscitato la creazione di aziende.

In particolare, il libro è la storia della nascita delle società per azioni, della loro evoluzione e del ruolo che hanno svolto e continuano a svolgere nel plasmare il mondo e il nostro modo di pensare. E non si tratta solo di aspetti economici. William Magnuson traccia il percorso delle cosiddette corporation nei secoli: dai palazzi dell’antica Roma alle navi della Compagnia britannica delle Indie orientali, alle rotaie costruite dalla Union Pacific Railroad Company per attraversare il continente nordamericano; dalle multinazionali del petrolio in Medio Oriente fino agli odierni colossi della Silicon Valley. La narrazione di Magnuson inizia da prima della nascita di Cristo e arriva fino ad oggi, ponendo esempi che fanno capire subito il ruolo delle imprese. Per capire bastano pochi esempi. Nel 215 a.C. l’esercito romano rischia di collassare di fronte all’avanzata dei cartaginesi; a salvare le truppe e la Repubblica saranno un manipolo di facoltosi cittadini, riunitisi in societates – le prime aziende della storia –, che riforniranno i soldati di abiti, cereali ed equipaggiamenti ribaltando così le sorti del conflitto. Nella prima metà del XV secolo, sotto la guida di Giovanni di Bicci de’ Medici, il Banco Medici diventa la più importante impresa d’Europa, capace di influenzare guerre, tregue e trattati a migliaia di chilometri di distanza. Nel maggio 2012 Facebook, la società di Mark Zuckerberg che diventerà Meta, si quota in borsa; nel 2018, sarà accusata di aver condizionato le elezioni che hanno portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

Profitto, dunque, ma anche altri obiettivi hanno animato e animano le organizzazioni della produzione e gli uomini che le progettano, costruiscono e gestiscono. Magnuson racconta quindi le sorti di banchieri, esploratori, pirati, uomini d’affari e imprenditori digitali nel solco ambiguo che esiste tra interessi personali e benessere comune. Ed è proprio l’oscillare del pendolo tra questi due estremi che porta il libro a raccontare successi e insuccessi del fare impresa ma anche, appunto, il ruolo del profitto.

Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta

William Magnuson

il Saggiatore 2024

Passare la mano nell’impresa

Il passaggio generazionale nelle aziende visto dal lato delle emozioni

 

Pensare, creare e gestire un’impresa è anche questione di umanità. E di emozioni. Lo sanno bene molti imprenditori e molti manager. E lo sa bene anche chi deve, ad un certo punto del suo cammino d’impresa, affrontare il passaggio generazionale. Gestibile emozioni e conti, può diventare allora un ulteriore esercizio in cui provare la propria cultura del produrre. E’ proprio attorno alla questione del passaggio generazionale che scatta quando viene a mancare il fondatore dell’impresa, che si esercitano Mariano De Vincenzo e Rossella Torretta con il loro intervento “Emozioni e passaggio generazionale nelle piccole e medie imprese”.

L’indagine prende le mosse da un caso particolare (e reale) per arrivare ad un inquadramento più generale del tema. Un intervento per favorire il passaggio generazionale all’interno di una piccola-media impresa – spiegano i due autori – diventa spunto per poter affrontare il passaggio generazionale anche dal punto di vista delle emozioni, cosa non del tutto scontata quando si parla di produzione, dimensione organizzativa, budget, problemi gestionali, procedure.

Ma cosa è accaduto? Alla morte del fondatore gli eredi si erano bloccati in una sorta di paralisi gestionale in cui il primogenito si era assunto il ruolo dell’erede designato per primogenitura mantenendo la struttura organizzata verticisticamente dal padre-fondatore e chiedendo di fatto ai consulenti di farlo accettare in quel ruolo dai fratelli e dai dipendenti tutti, delegando così a terzi la propria autorizzazione a occupare quel posto. Da questa situazione, De Vincenzo e Torretta desumono un profilo più generale.

Il vocabolo fondamentale è “tempo”. La morte di un fondatore pone il problema del tempo nel processo dell’elaborazione della trasmissione e della acquisizione dell’eredità e la sua trasformazione è parte imprescindibile nel passaggio. È indispensabile tempo per fare i conti con la perdita del padre-fondatore e, con lui, lasciare andare idealizzazioni di sé e incontrare la realtà. Mantenere inalterata una organizzazione spostando un uomo al posto di un altro si rivela essere solo una strategia introdotta per non affrontare il dolore e il cambiamento. Un percorso culturale e umano prima che gestionale e manageriale. Che non può essere seguito senza aiuti esperti. Riuscire a vedere la strada giusta, ripensare all’organizzazione e alla collocazione di chi segue in azienda, sono passaggi che non possono essere automatici e veloci.

Per descrivere tutto questo, De Vincenzo e Torretta analizzano prima le caratteristiche delle due entità principali in gioco (famiglia e impresa), per passare poi ad approfondire aspetti particolari come la sofferenza, la storia stessa dell’impresa posta a caso studio, gli “attori” coinvolti, la figura particolare del fondatore, il nodo del passaggio di generazione e quindi dell’eredità e infine il percorso intrapreso per affrontarla e gestirla.

L’intervento di Mariano De Vincenzo e Rossella Torretta non è per nulla cosa facile da leggere, ma è importante leggerla.

Emozioni e passaggio generazionale nelle piccole e medie imprese

Mariano De Vincenzo, Rossella Torretta

Ricerca Psicoanalitica, Anno XXXV, n. 1, 2024

Il passaggio generazionale nelle aziende visto dal lato delle emozioni

 

Pensare, creare e gestire un’impresa è anche questione di umanità. E di emozioni. Lo sanno bene molti imprenditori e molti manager. E lo sa bene anche chi deve, ad un certo punto del suo cammino d’impresa, affrontare il passaggio generazionale. Gestibile emozioni e conti, può diventare allora un ulteriore esercizio in cui provare la propria cultura del produrre. E’ proprio attorno alla questione del passaggio generazionale che scatta quando viene a mancare il fondatore dell’impresa, che si esercitano Mariano De Vincenzo e Rossella Torretta con il loro intervento “Emozioni e passaggio generazionale nelle piccole e medie imprese”.

L’indagine prende le mosse da un caso particolare (e reale) per arrivare ad un inquadramento più generale del tema. Un intervento per favorire il passaggio generazionale all’interno di una piccola-media impresa – spiegano i due autori – diventa spunto per poter affrontare il passaggio generazionale anche dal punto di vista delle emozioni, cosa non del tutto scontata quando si parla di produzione, dimensione organizzativa, budget, problemi gestionali, procedure.

Ma cosa è accaduto? Alla morte del fondatore gli eredi si erano bloccati in una sorta di paralisi gestionale in cui il primogenito si era assunto il ruolo dell’erede designato per primogenitura mantenendo la struttura organizzata verticisticamente dal padre-fondatore e chiedendo di fatto ai consulenti di farlo accettare in quel ruolo dai fratelli e dai dipendenti tutti, delegando così a terzi la propria autorizzazione a occupare quel posto. Da questa situazione, De Vincenzo e Torretta desumono un profilo più generale.

Il vocabolo fondamentale è “tempo”. La morte di un fondatore pone il problema del tempo nel processo dell’elaborazione della trasmissione e della acquisizione dell’eredità e la sua trasformazione è parte imprescindibile nel passaggio. È indispensabile tempo per fare i conti con la perdita del padre-fondatore e, con lui, lasciare andare idealizzazioni di sé e incontrare la realtà. Mantenere inalterata una organizzazione spostando un uomo al posto di un altro si rivela essere solo una strategia introdotta per non affrontare il dolore e il cambiamento. Un percorso culturale e umano prima che gestionale e manageriale. Che non può essere seguito senza aiuti esperti. Riuscire a vedere la strada giusta, ripensare all’organizzazione e alla collocazione di chi segue in azienda, sono passaggi che non possono essere automatici e veloci.

Per descrivere tutto questo, De Vincenzo e Torretta analizzano prima le caratteristiche delle due entità principali in gioco (famiglia e impresa), per passare poi ad approfondire aspetti particolari come la sofferenza, la storia stessa dell’impresa posta a caso studio, gli “attori” coinvolti, la figura particolare del fondatore, il nodo del passaggio di generazione e quindi dell’eredità e infine il percorso intrapreso per affrontarla e gestirla.

L’intervento di Mariano De Vincenzo e Rossella Torretta non è per nulla cosa facile da leggere, ma è importante leggerla.

Emozioni e passaggio generazionale nelle piccole e medie imprese

Mariano De Vincenzo, Rossella Torretta

Ricerca Psicoanalitica, Anno XXXV, n. 1, 2024

Campiello Junior

Pirelli in mostra a Torino fa “spazio al futuro” nella Capitale della Cultura d’Impresa 2024

Torino, spazio al futuro è il fil rouge che lega gli eventi promossi dall’Unione Industriali Torino per le celebrazioni della città sabauda, proclamata Capitale della cultura d’impresa 2024 da Confindustria dopo Genova nel 2019, Alba nel 2020/21, l’area Padova-Treviso-Venezia-Rovigo nel 2022 e Pavia nel 2023. I festeggiamenti, che hanno preso il via il 19 febbraio, prevedono un ricco programma di iniziative ed eventi che avranno lo scopo di rappresentare e valorizzare il Made in Italy, le eccellenze produttive e la vocazione manifatturiera dei territori.

In questo palinsesto si colloca la mostra “Torino Al Futuro. La Cultura d’Impresa, la Cultura dell’Innovazione”, organizzata da Unione Industriali Torino e visitabile dal 14 aprile al 30 settembre al Museo del Risorgimento. Evento di punta dell’anno di Torino Capitale della cultura d’impresa, il percorso espositivo si articola in sette sezioni grafiche e multimediali installate nel corridoio monumentale della Camera Italiana all’interno del Museo, lungo le quali il visitatore sarà condotto alla scoperta della storia dell’industrializzazione torinese, partendo dalle sue origini, per concludersi con una sezione immersiva dedicata alle prospettive future della città.

L’area di Torino è da sempre terreno di sperimentazione per le innovazioni industriali; non a caso, anche Pirelli è presente a Settimo Torinese con uno stabilimento per pneumatici vettura fin dagli inizi degli anni Cinquanta. Un legame col territorio piemontese messo in luce nel percorso allestitivo: dagli scatti che il fotografo olandese Arno Hammacher dedica nel 1962 alla prima fabbrica Pirelli di Settimo fino alle riprese del “Canto della fabbrica”, il concerto eseguito dall’Orchestra da Camera Italiana diretta dal Maestro Salvatore Accardo negli spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. Uno degli stabilimenti tecnologicamente più avanzati del Gruppo Pirelli nel mondo in termini di innovazione di prodotto, processi produttivi e qualità dell’ambiente di lavoro. Il corpo centrale adibito ai servizi, la cosiddetta “Spina”, così come le opere paesaggistiche che immergono la fabbrica tra 500 alberi di ciliegio, sono un progetto dell’architetto Renzo Piano.

Il Polo, nato anche grazie alla proficua collaborazione con le istituzioni locali e con il Politecnico di Torino, ben rappresenta l’idea di innovazione di Pirelli. Non solo tecnologia, ma anche sostenibilità, rispetto per l’ambiente, cura delle persone. Un racconto che non poteva mancare in una mostra dedicata alla cultura d’impresa, che ripercorre una grande storia industriale per approdare a uno “spazio al futuro”, aperto anche alle giovani generazioni.

Torino, spazio al futuro è il fil rouge che lega gli eventi promossi dall’Unione Industriali Torino per le celebrazioni della città sabauda, proclamata Capitale della cultura d’impresa 2024 da Confindustria dopo Genova nel 2019, Alba nel 2020/21, l’area Padova-Treviso-Venezia-Rovigo nel 2022 e Pavia nel 2023. I festeggiamenti, che hanno preso il via il 19 febbraio, prevedono un ricco programma di iniziative ed eventi che avranno lo scopo di rappresentare e valorizzare il Made in Italy, le eccellenze produttive e la vocazione manifatturiera dei territori.

In questo palinsesto si colloca la mostra “Torino Al Futuro. La Cultura d’Impresa, la Cultura dell’Innovazione”, organizzata da Unione Industriali Torino e visitabile dal 14 aprile al 30 settembre al Museo del Risorgimento. Evento di punta dell’anno di Torino Capitale della cultura d’impresa, il percorso espositivo si articola in sette sezioni grafiche e multimediali installate nel corridoio monumentale della Camera Italiana all’interno del Museo, lungo le quali il visitatore sarà condotto alla scoperta della storia dell’industrializzazione torinese, partendo dalle sue origini, per concludersi con una sezione immersiva dedicata alle prospettive future della città.

L’area di Torino è da sempre terreno di sperimentazione per le innovazioni industriali; non a caso, anche Pirelli è presente a Settimo Torinese con uno stabilimento per pneumatici vettura fin dagli inizi degli anni Cinquanta. Un legame col territorio piemontese messo in luce nel percorso allestitivo: dagli scatti che il fotografo olandese Arno Hammacher dedica nel 1962 alla prima fabbrica Pirelli di Settimo fino alle riprese del “Canto della fabbrica”, il concerto eseguito dall’Orchestra da Camera Italiana diretta dal Maestro Salvatore Accardo negli spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. Uno degli stabilimenti tecnologicamente più avanzati del Gruppo Pirelli nel mondo in termini di innovazione di prodotto, processi produttivi e qualità dell’ambiente di lavoro. Il corpo centrale adibito ai servizi, la cosiddetta “Spina”, così come le opere paesaggistiche che immergono la fabbrica tra 500 alberi di ciliegio, sono un progetto dell’architetto Renzo Piano.

Il Polo, nato anche grazie alla proficua collaborazione con le istituzioni locali e con il Politecnico di Torino, ben rappresenta l’idea di innovazione di Pirelli. Non solo tecnologia, ma anche sostenibilità, rispetto per l’ambiente, cura delle persone. Un racconto che non poteva mancare in una mostra dedicata alla cultura d’impresa, che ripercorre una grande storia industriale per approdare a uno “spazio al futuro”, aperto anche alle giovani generazioni.

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Reti d’impresa efficaci ma da migliorare

L’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul settore indica molti pregi di queste forme di aggregazione ma anche notevoli spazi di miglioramento

 

Reti d’impresa come una delle migliori espressioni di quella buona cultura del produrre che fa bene all’economia e allo sviluppo del Paese. Reti che, naturalmente, devono essere ben costruite e gestite e che, quindi, occorre capire. Partendo dagli strumenti messi a disposizione come, appunto, i contratti di rete.

Proprio i contratti di rete sono oggetto, ormai da diverso tempo, dell’analisi dell’Osservatorio Nazionale sulle reti d’impresa (condotto da Università Ca’ Foscari, Retimpresa e Infocamere) che ha messo a punto una raccolta di ricerche aggiornata sullo stato dell’arte di questa modalità di aggregazione e collaborazione tra aziende.

Attraverso la serie di indagini condotte dall’Osservatorio, raccolte adesso in volume a cura di Anna Cabigiosu, è possibile quindi avere “il polso” di questo strumento e le linee della sua possibile evoluzione. La prima analisi, quindi, concerne le dinamiche recenti dei contratti e le novità che stanno emergendo. Si passa poi ad approfondire  le caratteristiche e la capacità di dare risultati degli attuali contratti per arrivare ad un focus sulla governance  degli stessi. Il rapporto, quindi, passa ad approfondire alcuni aspetti particolari come i rapporti di lavoro, la resilienza delle reti d’impresa, la prossimità geografica come fattori ore di competitività, il grado di innovazione delle reti e gli aspetti fiscali e finanziaria delle stesse.

“Le reti negli anni si stanno compattando geograficamente e settorialmente” commenta la curatrice nelle sue conclusioni aggiungendo però che le reti “per essere efficaci devono mettere a sistema risorse diverse”. Particolare attenzione, quindi, viene posta ad elementi che aggiungono resilienza e innovazione così come capacità di usare meglio gli strumenti messi a disposizione dalle norme fiscali e giuslavoristiche.

Reti d’impresa importanti, dunque, anche se ancora da migliorare. E’ un messaggio chiaro quello che arriva dall’Osservatorio, un messaggio che vale molto per la crescita generale della cultura d’impresa in Italia.

Osservatorio Nazionale sulle reti d’impresa 2023

Anna Cabigiosu (a cura di), Venezia Edizioni Ca’ Foscari – Venice University Press, 2024

L’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul settore indica molti pregi di queste forme di aggregazione ma anche notevoli spazi di miglioramento

 

Reti d’impresa come una delle migliori espressioni di quella buona cultura del produrre che fa bene all’economia e allo sviluppo del Paese. Reti che, naturalmente, devono essere ben costruite e gestite e che, quindi, occorre capire. Partendo dagli strumenti messi a disposizione come, appunto, i contratti di rete.

Proprio i contratti di rete sono oggetto, ormai da diverso tempo, dell’analisi dell’Osservatorio Nazionale sulle reti d’impresa (condotto da Università Ca’ Foscari, Retimpresa e Infocamere) che ha messo a punto una raccolta di ricerche aggiornata sullo stato dell’arte di questa modalità di aggregazione e collaborazione tra aziende.

Attraverso la serie di indagini condotte dall’Osservatorio, raccolte adesso in volume a cura di Anna Cabigiosu, è possibile quindi avere “il polso” di questo strumento e le linee della sua possibile evoluzione. La prima analisi, quindi, concerne le dinamiche recenti dei contratti e le novità che stanno emergendo. Si passa poi ad approfondire  le caratteristiche e la capacità di dare risultati degli attuali contratti per arrivare ad un focus sulla governance  degli stessi. Il rapporto, quindi, passa ad approfondire alcuni aspetti particolari come i rapporti di lavoro, la resilienza delle reti d’impresa, la prossimità geografica come fattori ore di competitività, il grado di innovazione delle reti e gli aspetti fiscali e finanziaria delle stesse.

“Le reti negli anni si stanno compattando geograficamente e settorialmente” commenta la curatrice nelle sue conclusioni aggiungendo però che le reti “per essere efficaci devono mettere a sistema risorse diverse”. Particolare attenzione, quindi, viene posta ad elementi che aggiungono resilienza e innovazione così come capacità di usare meglio gli strumenti messi a disposizione dalle norme fiscali e giuslavoristiche.

Reti d’impresa importanti, dunque, anche se ancora da migliorare. E’ un messaggio chiaro quello che arriva dall’Osservatorio, un messaggio che vale molto per la crescita generale della cultura d’impresa in Italia.

Osservatorio Nazionale sulle reti d’impresa 2023

Anna Cabigiosu (a cura di), Venezia Edizioni Ca’ Foscari – Venice University Press, 2024

Il mondo nuovo da esplorare

Una serie di saggi appena pubblicati aiuta a comprendere meglio la realtà alla quale tutti ormai ci affacciamo

Un mondo nuovo, anzi nuovissimo. Non l’America desiderata da milioni di migranti. E nemmeno il Paese della cuccagna oppure quello del latte e del miele. Il mondo nuovissimo è quello in cui tutti noi, bene o male, ci ritroviamo già immersi o quasi. Il mondo dell’intelligenza artificiale, della digitalizzazione, dell’innovazione che pervade ogni cosa. Il mondo, in altre parole, al quale molti si affacciano mentre altri, come si è detto, vi sono già dentro. Mondo da capire, da comprendere, da esplorare. A tutto questo serve, tra gli altri, la raccolta di conversazioni e saggi “Il mondo nuovissimo. Dialoghi su etica e intelligenza artificiale” scritto e curato da Fabio de Felice (professore di ingegneria all’Università degli Studi di Napoli Parthenope) e Roberto Race (consulente in corporate e reputation strategy) e da poco pubblicato.

Mondo nuovissimo, dunque, da esplorare in modo attento, operazione per la quale il libro aiuta – e molto – attraverso due passaggi. Dapprima una serie di conversazioni tra i due curatori (curioso e originale il ricorso al dialogo al modo del filosofeggiare degli antichi); poi una serie di sette approfondimenti che guardano più da vicino al sistema delle imprese.

Con il dialogo De Felice e Race affrontano alcuni temi trasversali che spaziano dall’arte all’etica passando dalle conseguenze della pandemia, dalla vera natura della tecnologia, dai modelli di “intelligenza diffusa” e dalla stessa Intelligenza Artificiale, dal cosiddetto “colonialismo digitale” fino ad arrivare al significato odierno della censura.

Poi le imprese, attraverso alcuni manager che approfondiscono temi specifici: scorrono quindi esperienze e suggestioni tratte dal lavoro in aziende come Engineering (Intelligenza Artificiale), Bayer Italia (digitalizzazione), Gruppo Smet (innovazione), Abb – Electrification Smart Power (management), Ibm Italia (crisi e digitalizzazione), Novartis Italia (IA e salute), Fincantieri (nuove tecnologie e lavoro).

Il libro di De Felice e Race ripercorre così la secolare questione dei limiti e delle dismisure delle tecnologie, dei rischi dell’innovazione e della necessità di pensare un’etica per lo sviluppo. Libro che assolve all’unico vero compito di tutti i libri: far pensare e ragionare, mettere in condizione chi legge di conoscere meglio il mondo. Tutto da leggere. E rileggere.

Il mondo nuovissimo. Dialoghi su etica e intelligenza artificiale

Fabio De Felice, Roberto Race

Luiss University press – Bellissima

2023

Una serie di saggi appena pubblicati aiuta a comprendere meglio la realtà alla quale tutti ormai ci affacciamo

Un mondo nuovo, anzi nuovissimo. Non l’America desiderata da milioni di migranti. E nemmeno il Paese della cuccagna oppure quello del latte e del miele. Il mondo nuovissimo è quello in cui tutti noi, bene o male, ci ritroviamo già immersi o quasi. Il mondo dell’intelligenza artificiale, della digitalizzazione, dell’innovazione che pervade ogni cosa. Il mondo, in altre parole, al quale molti si affacciano mentre altri, come si è detto, vi sono già dentro. Mondo da capire, da comprendere, da esplorare. A tutto questo serve, tra gli altri, la raccolta di conversazioni e saggi “Il mondo nuovissimo. Dialoghi su etica e intelligenza artificiale” scritto e curato da Fabio de Felice (professore di ingegneria all’Università degli Studi di Napoli Parthenope) e Roberto Race (consulente in corporate e reputation strategy) e da poco pubblicato.

Mondo nuovissimo, dunque, da esplorare in modo attento, operazione per la quale il libro aiuta – e molto – attraverso due passaggi. Dapprima una serie di conversazioni tra i due curatori (curioso e originale il ricorso al dialogo al modo del filosofeggiare degli antichi); poi una serie di sette approfondimenti che guardano più da vicino al sistema delle imprese.

Con il dialogo De Felice e Race affrontano alcuni temi trasversali che spaziano dall’arte all’etica passando dalle conseguenze della pandemia, dalla vera natura della tecnologia, dai modelli di “intelligenza diffusa” e dalla stessa Intelligenza Artificiale, dal cosiddetto “colonialismo digitale” fino ad arrivare al significato odierno della censura.

Poi le imprese, attraverso alcuni manager che approfondiscono temi specifici: scorrono quindi esperienze e suggestioni tratte dal lavoro in aziende come Engineering (Intelligenza Artificiale), Bayer Italia (digitalizzazione), Gruppo Smet (innovazione), Abb – Electrification Smart Power (management), Ibm Italia (crisi e digitalizzazione), Novartis Italia (IA e salute), Fincantieri (nuove tecnologie e lavoro).

Il libro di De Felice e Race ripercorre così la secolare questione dei limiti e delle dismisure delle tecnologie, dei rischi dell’innovazione e della necessità di pensare un’etica per lo sviluppo. Libro che assolve all’unico vero compito di tutti i libri: far pensare e ragionare, mettere in condizione chi legge di conoscere meglio il mondo. Tutto da leggere. E rileggere.

Il mondo nuovissimo. Dialoghi su etica e intelligenza artificiale

Fabio De Felice, Roberto Race

Luiss University press – Bellissima

2023

Il piacere dei buoni libri fin da bambini fa crescere l’editoria e migliora la vita civile

Accarezzare le rughe dei nonni, esplorando con dita curiose e affettuose i segni del tempo e le tracce profonde delle gioie e dei dolori d’una vita intensamente vissuta. O leggerle, quelle rughe, se per i tanti casi dell’esistenza, ci si ritrova lontani. Lo racconta bene David Grossman, scrittore che, come pochi, sa dare corpo di parole ai sentimenti e alle idee, nelle pagine di un libro scarno ed essenziale, intitolato appunto “Rughe”, illustrato da Ninamasina e pubblicato da Mondadori.

Un libro per bambini, dagli otto anni in su. Esemplare della qualità che oramai ha raggiunto l’editoria per i lettori più giovani: tutt’altro che un’editoria minore ma, piuttosto, una testimonianza preziosa di come si possano fare bene volumi che trovano spazio, anche nel mondo dei cosiddetti “nativi digitali”. Il gioco delle parole ben scritte e impaginate con cura (come ci hanno insegnato, ognuno a suo modo, Bruno Munari e Gianni Rodari) continua ad avere attenzione e successo, attraversando le generazioni. Dai nonni ai nipoti, per restare alle pagine di Grossman.

Ancora una volta una conferma importante arriva dalla Bologna Children’s Book Fair, in programma dall’8 all’11 aprile, nata nel 1964, sessant’anni fa, e cresciuta nel tempo, soprattutto negli ultimi vent’anni: giornate dense di incontri, dibattiti, premi, ma anche contrattazioni di copyright internazionali.

I dati sulle presenze parlano di 1.500 espositori, provenienti da 100 paesi diversi. E rivelano la vitalità di un settore che riguarda quasi un libro su quattro tra tutti quelli pubblicati in un anno in Italia. Insomma, “il libro salvato dai ragazzini”, per usare l’efficace titolo dell’inchiesta di copertina de “il venerdì di Repubblica” (5 aprile) firmata da Zita Dazzi: “La Generazione Z legge di più e meglio dei genitori, accoglie gli autori in classe affolla le fiere del libro, attende le novità della Children’s Book Fair di Bologna”.

Il mercato italiano dei libri per ragazzi vanta 23,5 milioni di copie vendute nel ‘23, con un incremento di 3 milioni rispetto al 2019 e con un fatturato di 291 milioni, 48 in più del 2019. Un vero e proprio successo, insomma, se si considera anche il fatto che siamo oramai da tempo in una condizione di “inverno demografico”, di popolazione che non cresce, di nascite che diminuiscono: “Il parco clienti si riduce, ma il libro cresce, soprattutto quello per la primissima infanzia”, testimonia Giovanni Peresson, responsabile dell’Ufficio Studi dell’Aie, l’Associazione italiana degli editori.

Lettori giovani, lettori forti. Sempre l’Aie documenta (dati ‘23) che nella fascia 4-14 anni sono il 96% i ragazzi e le ragazze che hanno letto almeno un libro non scolastico negli ultimi dodici mesi, contro il 75% del 2018. Il dato generale dice che gli adulti, nelle stesse condizioni, sono il 74% (quel dato è calcolato tra le persone tra i 15 e i 74 anni). E nella fascia tra 0 e 3 anni, le letture ad alta voce di genitori e insegnanti, la manipolazione di libri tattili, cartonati, illustrati, animati, da colorare e altre forme di pre-lettura hanno coinvolto il 70% dei bambini e delle bambine. Erano il 49% nel 2018.

La spiegazione del fenomeno è chiara: contribuiscono le famiglie, la scuola (anche con le biblioteche scolastiche) e, quando sono attive, pure le biblioteche presenti nelle aziende che offrono ampi spazi ai libri per bambine e bambini (le biblioteche Pirelli nell’headquarters della Bicocca a Milano e nelle fabbriche di Settimo Torinese e di Bollate, per esempio).

Lo confermano le voci degli addetti al settore, nell’inchiesta de “la Repubblica”. Come Mariagrazia Mazzitelli, direttrice editoriale di Salani, casa editrice con 162 anni di storia, del gruppo Gems, 140 novità all’anno, un catalogo di bestseller con il testa la saga di Harry Potter: “Al bambino piccolissimo il libro viene regalato molto presto e ne nasce subito un amore. Poi c’è il distacco nell’adolescenza, ma i fenomeni più recenti del romance recuperano questo pubblico, rendendo il libro un oggetto del desiderio». Aggiunge Renata Gorgani, direttrice del Castoro: “I genitori vogliono che i loro bimbi abbiano in mano albi illustrati, che in qualche caso sono anche giochi”. E Beatrice Masini, direttrice di divisione per Bompiani, costola del colosso Giunti, leader di mercato: “Oltre ai bebè, ci sono i ragazzi della scuola dell’obbligo, per i quali il libro è un magico strumento di evasione nell’età in cui si è più curiosi, con occhi e orecchie aperte. Un romanzo ti fa entrare in altri mondi, anche magari realistici, ma che non conosci ancora, con storie vere che hanno una grande presa e fanno nascere lettori forti”.

La sintesi sta nelle parole di Peresson, dell’Aie: “Le giovani coppie di genitori sono diventate più consapevoli del ruolo che i libri e la lettura hanno nello sviluppo del bambino fin dai primissimi anni. La seconda ragione è che manga, fumetti di super-eroi e altri prodotti seriali che prima non erano percepiti a pieno come lettura di libri adesso lo sono, e questo incide nelle risposte. Ma si intravedono anche i primi effetti delle campagne di promozione alla lettura infantile come #ioleggoperché”. Una promozione che ha portato a incentivare il regalo di decine di migliaia di libri alle biblioteche scolastiche e a quelle degli asili nido.

Quel che è certo è che leggere, fin da bambini, aiuta a scoprire il mondo e a capirne meglio storie e personaggi. Apre le porte a un viaggio divertente in posti originali e lontani. Regala l’opportunità di muoversi facilmente nello spazio e nel tempo, ampliando le possibilità della nostra conoscenza. E aiuta a prendere confidenza con le presenze fondamentali per la crescita: gli altri.

Hanno un ruolo rilevante, e crescente, anche i premi letterati più prestigiosi. Come il Premio Strega per ragazze e ragazzi. E il Premio Campiello Junior, arrivato alla terza edizione, con una giuria tecnica presieduta da Pino Boero, che seleziona tre titoli nella fascia d’età 6-10 anni e altrettanti in quella 11-14 (un centinaio, i titoli in gara quest’anno) e poi li porta al voto di una giuria di 240 bambine e bambini di tutte le scuole italiane (e anche di piccoli residenti all’estero) per arrivare ai due vincitori.

C’è una consapevolezza, nell’impegno comune del Premio Campiello e della Fondazione Pirelli, con l’ospitalità del Comune di Vicenza: stimolare e premiare la scrittura di buoni libri per bambine e bambini e favorire la lettura fin dalle prime classi della scuola elementare significa fare crescere la sensibilità per la fantasia, l’avventura, il viaggio di scoperta. Aiutare a vivere nuove storie, appassionarsi a nuovi personaggi. Porre le basi, insomma, attraverso il piacere delle parole ben scritte, per una migliore convivenza civile e un intreccio più equilibrato di relazioni culturali e sociali.

Il piacere del leggere. E una migliore coscienza civile. Costruita in famiglia e a scuola. Fin da piccoli.

(foto Getty Images)

Accarezzare le rughe dei nonni, esplorando con dita curiose e affettuose i segni del tempo e le tracce profonde delle gioie e dei dolori d’una vita intensamente vissuta. O leggerle, quelle rughe, se per i tanti casi dell’esistenza, ci si ritrova lontani. Lo racconta bene David Grossman, scrittore che, come pochi, sa dare corpo di parole ai sentimenti e alle idee, nelle pagine di un libro scarno ed essenziale, intitolato appunto “Rughe”, illustrato da Ninamasina e pubblicato da Mondadori.

Un libro per bambini, dagli otto anni in su. Esemplare della qualità che oramai ha raggiunto l’editoria per i lettori più giovani: tutt’altro che un’editoria minore ma, piuttosto, una testimonianza preziosa di come si possano fare bene volumi che trovano spazio, anche nel mondo dei cosiddetti “nativi digitali”. Il gioco delle parole ben scritte e impaginate con cura (come ci hanno insegnato, ognuno a suo modo, Bruno Munari e Gianni Rodari) continua ad avere attenzione e successo, attraversando le generazioni. Dai nonni ai nipoti, per restare alle pagine di Grossman.

Ancora una volta una conferma importante arriva dalla Bologna Children’s Book Fair, in programma dall’8 all’11 aprile, nata nel 1964, sessant’anni fa, e cresciuta nel tempo, soprattutto negli ultimi vent’anni: giornate dense di incontri, dibattiti, premi, ma anche contrattazioni di copyright internazionali.

I dati sulle presenze parlano di 1.500 espositori, provenienti da 100 paesi diversi. E rivelano la vitalità di un settore che riguarda quasi un libro su quattro tra tutti quelli pubblicati in un anno in Italia. Insomma, “il libro salvato dai ragazzini”, per usare l’efficace titolo dell’inchiesta di copertina de “il venerdì di Repubblica” (5 aprile) firmata da Zita Dazzi: “La Generazione Z legge di più e meglio dei genitori, accoglie gli autori in classe affolla le fiere del libro, attende le novità della Children’s Book Fair di Bologna”.

Il mercato italiano dei libri per ragazzi vanta 23,5 milioni di copie vendute nel ‘23, con un incremento di 3 milioni rispetto al 2019 e con un fatturato di 291 milioni, 48 in più del 2019. Un vero e proprio successo, insomma, se si considera anche il fatto che siamo oramai da tempo in una condizione di “inverno demografico”, di popolazione che non cresce, di nascite che diminuiscono: “Il parco clienti si riduce, ma il libro cresce, soprattutto quello per la primissima infanzia”, testimonia Giovanni Peresson, responsabile dell’Ufficio Studi dell’Aie, l’Associazione italiana degli editori.

Lettori giovani, lettori forti. Sempre l’Aie documenta (dati ‘23) che nella fascia 4-14 anni sono il 96% i ragazzi e le ragazze che hanno letto almeno un libro non scolastico negli ultimi dodici mesi, contro il 75% del 2018. Il dato generale dice che gli adulti, nelle stesse condizioni, sono il 74% (quel dato è calcolato tra le persone tra i 15 e i 74 anni). E nella fascia tra 0 e 3 anni, le letture ad alta voce di genitori e insegnanti, la manipolazione di libri tattili, cartonati, illustrati, animati, da colorare e altre forme di pre-lettura hanno coinvolto il 70% dei bambini e delle bambine. Erano il 49% nel 2018.

La spiegazione del fenomeno è chiara: contribuiscono le famiglie, la scuola (anche con le biblioteche scolastiche) e, quando sono attive, pure le biblioteche presenti nelle aziende che offrono ampi spazi ai libri per bambine e bambini (le biblioteche Pirelli nell’headquarters della Bicocca a Milano e nelle fabbriche di Settimo Torinese e di Bollate, per esempio).

Lo confermano le voci degli addetti al settore, nell’inchiesta de “la Repubblica”. Come Mariagrazia Mazzitelli, direttrice editoriale di Salani, casa editrice con 162 anni di storia, del gruppo Gems, 140 novità all’anno, un catalogo di bestseller con il testa la saga di Harry Potter: “Al bambino piccolissimo il libro viene regalato molto presto e ne nasce subito un amore. Poi c’è il distacco nell’adolescenza, ma i fenomeni più recenti del romance recuperano questo pubblico, rendendo il libro un oggetto del desiderio». Aggiunge Renata Gorgani, direttrice del Castoro: “I genitori vogliono che i loro bimbi abbiano in mano albi illustrati, che in qualche caso sono anche giochi”. E Beatrice Masini, direttrice di divisione per Bompiani, costola del colosso Giunti, leader di mercato: “Oltre ai bebè, ci sono i ragazzi della scuola dell’obbligo, per i quali il libro è un magico strumento di evasione nell’età in cui si è più curiosi, con occhi e orecchie aperte. Un romanzo ti fa entrare in altri mondi, anche magari realistici, ma che non conosci ancora, con storie vere che hanno una grande presa e fanno nascere lettori forti”.

La sintesi sta nelle parole di Peresson, dell’Aie: “Le giovani coppie di genitori sono diventate più consapevoli del ruolo che i libri e la lettura hanno nello sviluppo del bambino fin dai primissimi anni. La seconda ragione è che manga, fumetti di super-eroi e altri prodotti seriali che prima non erano percepiti a pieno come lettura di libri adesso lo sono, e questo incide nelle risposte. Ma si intravedono anche i primi effetti delle campagne di promozione alla lettura infantile come #ioleggoperché”. Una promozione che ha portato a incentivare il regalo di decine di migliaia di libri alle biblioteche scolastiche e a quelle degli asili nido.

Quel che è certo è che leggere, fin da bambini, aiuta a scoprire il mondo e a capirne meglio storie e personaggi. Apre le porte a un viaggio divertente in posti originali e lontani. Regala l’opportunità di muoversi facilmente nello spazio e nel tempo, ampliando le possibilità della nostra conoscenza. E aiuta a prendere confidenza con le presenze fondamentali per la crescita: gli altri.

Hanno un ruolo rilevante, e crescente, anche i premi letterati più prestigiosi. Come il Premio Strega per ragazze e ragazzi. E il Premio Campiello Junior, arrivato alla terza edizione, con una giuria tecnica presieduta da Pino Boero, che seleziona tre titoli nella fascia d’età 6-10 anni e altrettanti in quella 11-14 (un centinaio, i titoli in gara quest’anno) e poi li porta al voto di una giuria di 240 bambine e bambini di tutte le scuole italiane (e anche di piccoli residenti all’estero) per arrivare ai due vincitori.

C’è una consapevolezza, nell’impegno comune del Premio Campiello e della Fondazione Pirelli, con l’ospitalità del Comune di Vicenza: stimolare e premiare la scrittura di buoni libri per bambine e bambini e favorire la lettura fin dalle prime classi della scuola elementare significa fare crescere la sensibilità per la fantasia, l’avventura, il viaggio di scoperta. Aiutare a vivere nuove storie, appassionarsi a nuovi personaggi. Porre le basi, insomma, attraverso il piacere delle parole ben scritte, per una migliore convivenza civile e un intreccio più equilibrato di relazioni culturali e sociali.

Il piacere del leggere. E una migliore coscienza civile. Costruita in famiglia e a scuola. Fin da piccoli.

(foto Getty Images)

L’occhio della scienza: Pirelli e le immagini della ricerca

Sin dalla sua invenzione alla metà dell’Ottocento, la macchina fotografica si impone non soltanto come strumento di una nuova forma d’arte, ma anche come fondamentale ausilio in campo scientifico, stimolandone in modo diretto lo sviluppo attraverso il suo contributo alla ricerca, documentazione, divulgazione e didattica del sapere tecnico. Dall’archeologia alla botanica, dall’antropologia alla geologia: immortalare frammenti di realtà ne agevola la comprensione, o quanto meno ne sollecita l’intenzione. Proprio il connubio tra osservazione e conoscenza è espresso nelle parole dell’ingegner Luigi Emanueli: “Adess ghe capissaremm on quaicoss: andemm a guardagh denter”. Un riferimento all’attitudine alla ricerca di Pirelli, ma anche all’essenza della fotografia scientifica.

Le pagine della “Rivista Pirelli” attestano ampiamente la rilevanza del mezzo fotografico per le scienze. L’articolo “Cento anni di fotografia celeste” ripercorre la storia dell’astronomia, dalla prima immagine di una stella – Vega, della costellazione della Lira – risalente al 1850, fino ai suggestivi scatti dei moderni telescopi posti sopra le montagne e diventati, oltre un secolo dopo, i nuovi protagonisti delle esplorazioni degli astri. Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo: in un articolo del 1953 si esamina l’apporto della microfotografia allo studio dei fenomeni inorganici – corredando il testo con ingrandimenti di fotogrammi, veri e propri “documenti della tecnica”, raffiguranti l’attacco di aria ozonizzata su una superfice di gomma vulcanizzata o la progressiva lacerazione di un foglio di gomma ripetutamente allungato – mentre nel 1954 in “Fotografa i messaggi siderali” il giornalista Franco Vegliani traccia il profilo di Giuseppe Occhialini, fisico studioso dei raggi cosmici attraverso emulsioni e lastre fotografiche. Rami di corallo, sciami di castagnole e massicci polpi sono invece al centro degli scatti dei sommozzatori realizzati nelle acque del Mediterraneo, che evidenziano i preziosi risultati ottenuti dall’obiettivo nel campo della biologia nell’approfondimento di Gianni Roghi pubblicato sulla Rivista nel 1959.

La fotografia diventa anche una risorsa essenziale per documentare i luoghi, gli strumenti e i volti del mondo della ricerca all’interno degli stabilimenti di Pirelli: per “fare scienza” è infatti necessario aver coscienza e conoscenza dell’eredità tecnologica che il Gruppo ha maturato nel corso della sua storia.
Nel 1922, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’azienda, viene realizzato un servizio fotografico all’interno della fabbrica di Milano Bicocca, dai reparti produttivi alle sale dei laboratori. Immagini dei soli spazi che, nonostante il forte valore documentario, non esprimono appieno lo spirito del laboratorio come vivace centro di curiosità visionaria e asset vitale dell’impresa.
Con gli scatti degli anni Trenta e Quaranta si hanno le prime testimonianze visive della vita delle persone all’interno di questi luoghi di sperimentazione, con donne e uomini in camice bianco intenti in diversi esperimenti. Di interesse non è solo la comunità scientifica ma anche i suoi strumenti: i banchi dei laboratori chimici e fisici ospitano microscopi, ampolle, vetrini, provette, torsiometri e plastometri, colti “in azione” o in ravvicinati primi piani che ne mettono in luce i dettagli.
Durante gli anni Cinquanta alcuni grandi nomi della fotografia vengono chiamati a immortalare, mediante tagli inediti e punti di vista personali, la complessità dei luoghi di ricerca in Pirelli, organizzati e denominati in base al ramo di attività e sede delle indagini e dei collaudi che precedono e accompagnano la fabbricazione dei prodotti aziendali. Aldo Ballo visita i diversi reparti dello stabilimento di Milano Bicocca, tra cui il laboratorio tessile, la “Direzione Sviluppo Materie Plastiche” e la divisione di analisi organica, realizzando istantanee che restituiscono chiaramente il concetto di scienza intesa come studio e applicazione. Carlo Ancillotti – che negli stessi anni riprende non solo la Fiera Campionaria di Milano, ma anche gli interni dell’Industria Nazionale Alluminio (INA) e dello stabilimento Duco di Avigliana – posa il suo sguardo sul laboratorio gomme, dalla “Sezione Ricerca e Sviluppo Mescole” alla sala macchine con le diverse prove di resistenza delle coperture allo schiacciamento e all’urto. Giulio Galimberti documenta invece il mondo del testing nei laboratori fisici, come gli esami dinamometrici, i controlli sulla permeabilità del tessuto e le verifiche di elasticità di campioni di gomma sotto sforzo.

L’obiettivo dà conto dell’importanza dei laboratori di Milano Bicocca anche sulla “Rivista Pirelli”: in un articolo del 1958 si afferma il livello tecnologico all’avanguardia raggiunto dalle sale di ricerca del settore cavi, accompagnando il testo con numerose fotografie; nel 1960 si dà notizia dell’acquisto e dell’installazione di due nuove apparecchiature, un microfotometro e un comparatore ottico, entrambe progettate dal personale dell’azienda; nel 1963 viene invece inaugurato un nuovo laboratorio del settore elettrico, descritto come “uno dei più grandi attualmente esistenti nel mondo per prove ad altissima tensione”.

Pirelli pone da sempre come cardine della propria attività il dipartimento R&D, ancora oggi oggetto di conoscenza e documentazione, come dimostra il reportage realizzato nel 2021 dal fotografo e film-maker Carlo Furgeri Gilbert: dalle materie prime da fonti rinnovabili e riciclati utilizzate nei laboratori fino alla sperimentazione indoor, con i rigidi test effettuati sui prototipi per garantire prodotti sempre più all’avanguardia in termini di sicurezza, performance e sostenibilità. Il ruolo decisivo della Ricerca e Sviluppo nella storia del Gruppo viene sintetizzato accuratamente nelle parole di Alberto Pirelli in “La Pirelli. Vita di una azienda industriale”: “È tecnologia davvero difficile la nostra, sia nel campo fisico-chimico che in quello meccanico, e grande è il merito di quanti nei laboratori hanno contribuito a portare in alto la reputazione tecnica della marca Pirelli e a permettere di affrontare vittoriosamente le più agguerrite concorrenze”.

Sin dalla sua invenzione alla metà dell’Ottocento, la macchina fotografica si impone non soltanto come strumento di una nuova forma d’arte, ma anche come fondamentale ausilio in campo scientifico, stimolandone in modo diretto lo sviluppo attraverso il suo contributo alla ricerca, documentazione, divulgazione e didattica del sapere tecnico. Dall’archeologia alla botanica, dall’antropologia alla geologia: immortalare frammenti di realtà ne agevola la comprensione, o quanto meno ne sollecita l’intenzione. Proprio il connubio tra osservazione e conoscenza è espresso nelle parole dell’ingegner Luigi Emanueli: “Adess ghe capissaremm on quaicoss: andemm a guardagh denter”. Un riferimento all’attitudine alla ricerca di Pirelli, ma anche all’essenza della fotografia scientifica.

Le pagine della “Rivista Pirelli” attestano ampiamente la rilevanza del mezzo fotografico per le scienze. L’articolo “Cento anni di fotografia celeste” ripercorre la storia dell’astronomia, dalla prima immagine di una stella – Vega, della costellazione della Lira – risalente al 1850, fino ai suggestivi scatti dei moderni telescopi posti sopra le montagne e diventati, oltre un secolo dopo, i nuovi protagonisti delle esplorazioni degli astri. Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo: in un articolo del 1953 si esamina l’apporto della microfotografia allo studio dei fenomeni inorganici – corredando il testo con ingrandimenti di fotogrammi, veri e propri “documenti della tecnica”, raffiguranti l’attacco di aria ozonizzata su una superfice di gomma vulcanizzata o la progressiva lacerazione di un foglio di gomma ripetutamente allungato – mentre nel 1954 in “Fotografa i messaggi siderali” il giornalista Franco Vegliani traccia il profilo di Giuseppe Occhialini, fisico studioso dei raggi cosmici attraverso emulsioni e lastre fotografiche. Rami di corallo, sciami di castagnole e massicci polpi sono invece al centro degli scatti dei sommozzatori realizzati nelle acque del Mediterraneo, che evidenziano i preziosi risultati ottenuti dall’obiettivo nel campo della biologia nell’approfondimento di Gianni Roghi pubblicato sulla Rivista nel 1959.

La fotografia diventa anche una risorsa essenziale per documentare i luoghi, gli strumenti e i volti del mondo della ricerca all’interno degli stabilimenti di Pirelli: per “fare scienza” è infatti necessario aver coscienza e conoscenza dell’eredità tecnologica che il Gruppo ha maturato nel corso della sua storia.
Nel 1922, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’azienda, viene realizzato un servizio fotografico all’interno della fabbrica di Milano Bicocca, dai reparti produttivi alle sale dei laboratori. Immagini dei soli spazi che, nonostante il forte valore documentario, non esprimono appieno lo spirito del laboratorio come vivace centro di curiosità visionaria e asset vitale dell’impresa.
Con gli scatti degli anni Trenta e Quaranta si hanno le prime testimonianze visive della vita delle persone all’interno di questi luoghi di sperimentazione, con donne e uomini in camice bianco intenti in diversi esperimenti. Di interesse non è solo la comunità scientifica ma anche i suoi strumenti: i banchi dei laboratori chimici e fisici ospitano microscopi, ampolle, vetrini, provette, torsiometri e plastometri, colti “in azione” o in ravvicinati primi piani che ne mettono in luce i dettagli.
Durante gli anni Cinquanta alcuni grandi nomi della fotografia vengono chiamati a immortalare, mediante tagli inediti e punti di vista personali, la complessità dei luoghi di ricerca in Pirelli, organizzati e denominati in base al ramo di attività e sede delle indagini e dei collaudi che precedono e accompagnano la fabbricazione dei prodotti aziendali. Aldo Ballo visita i diversi reparti dello stabilimento di Milano Bicocca, tra cui il laboratorio tessile, la “Direzione Sviluppo Materie Plastiche” e la divisione di analisi organica, realizzando istantanee che restituiscono chiaramente il concetto di scienza intesa come studio e applicazione. Carlo Ancillotti – che negli stessi anni riprende non solo la Fiera Campionaria di Milano, ma anche gli interni dell’Industria Nazionale Alluminio (INA) e dello stabilimento Duco di Avigliana – posa il suo sguardo sul laboratorio gomme, dalla “Sezione Ricerca e Sviluppo Mescole” alla sala macchine con le diverse prove di resistenza delle coperture allo schiacciamento e all’urto. Giulio Galimberti documenta invece il mondo del testing nei laboratori fisici, come gli esami dinamometrici, i controlli sulla permeabilità del tessuto e le verifiche di elasticità di campioni di gomma sotto sforzo.

L’obiettivo dà conto dell’importanza dei laboratori di Milano Bicocca anche sulla “Rivista Pirelli”: in un articolo del 1958 si afferma il livello tecnologico all’avanguardia raggiunto dalle sale di ricerca del settore cavi, accompagnando il testo con numerose fotografie; nel 1960 si dà notizia dell’acquisto e dell’installazione di due nuove apparecchiature, un microfotometro e un comparatore ottico, entrambe progettate dal personale dell’azienda; nel 1963 viene invece inaugurato un nuovo laboratorio del settore elettrico, descritto come “uno dei più grandi attualmente esistenti nel mondo per prove ad altissima tensione”.

Pirelli pone da sempre come cardine della propria attività il dipartimento R&D, ancora oggi oggetto di conoscenza e documentazione, come dimostra il reportage realizzato nel 2021 dal fotografo e film-maker Carlo Furgeri Gilbert: dalle materie prime da fonti rinnovabili e riciclati utilizzate nei laboratori fino alla sperimentazione indoor, con i rigidi test effettuati sui prototipi per garantire prodotti sempre più all’avanguardia in termini di sicurezza, performance e sostenibilità. Il ruolo decisivo della Ricerca e Sviluppo nella storia del Gruppo viene sintetizzato accuratamente nelle parole di Alberto Pirelli in “La Pirelli. Vita di una azienda industriale”: “È tecnologia davvero difficile la nostra, sia nel campo fisico-chimico che in quello meccanico, e grande è il merito di quanti nei laboratori hanno contribuito a portare in alto la reputazione tecnica della marca Pirelli e a permettere di affrontare vittoriosamente le più agguerrite concorrenze”.

Crisi e complessità, la resilienza come soluzione

Un libro appena pubblicato in Italia fornisce una sintesi efficace di un tema ormai ineludibile

Resilienza, ovvero l’approccio corretto (ed efficace) per affrontare la complessità e la rischiosità del mondo in cui oggi ci si muove. Concetto prima astratto poi declinato in numerose versioni, quello della resilienza rimane comunque qualcosa che deve essere ben compreso per evitare fraintendimenti, illusioni, errori. Da qui l’utilità di “La società resiliente” sintesi appena tradotta e pubblicata in Italia che Markus K. Brunnermeier (economista e Direttore del Princeton’s Bendheim Center oltre che consulente di diverse istituzioni bancarie) ha scritto per offrire ad un pubblico vasto una sorta di sintetico “manuale” sul tema.

La domanda alla quale Brunnermeier cerca di risponde (riuscendovi) è semplice ma implica una risposta complessa. Gli individui, le istituzioni e le nazioni come possono navigare con successo in un’economia dinamica e globalizzata piena di rischi sconosciuti? La risposta sta, appunto, nell’applicazione della resilienza vista come “bussola” che porta a un contratto sociale vantaggioso per tutti: solo in una società resiliente le istituzioni, le famiglie e gli individui possono superare traumi e momenti critici dai quali altrimenti non riuscirebbero a riprendersi.

Il libro di Brunnermeier ha una struttura semplice. Prima di tutto della resilienza viene data una definizione e ne vengono illustrate le diverse forme nella società. Successivamente i principi della resilienza vengono applicati all’ordine globale e quindi ai rapporti geopolitici, al commercio, alla finanza, ai nuovi mercati e ai temi del cambiamento climatico. Infine, l’autore cerca di applicare la resilienza ai possibili sviluppi futuri dei problemi che affrontiamo già oggi: le diseguaglianze, la questione fiscale, le politiche di sviluppo.

Il libro di Brunnermeier  non è sempre facile da leggere (anche se certamente è scritto con un grande sforzo per rendersi comprensibile), ma costituisce l’occasione per una sorta di esplorazione non solo delle potenzialità della resilienza ma anche di una serie di problemi che il sistema economico e sociale deve comunque affrontare.  Brunnermeier parla chiaro, e non nasconde rischi e difficoltà.  “Dobbiamo mantenere la capacità di rialzarci dopo aver subito colpi pesanti. Abbiamo bisogno di ammortizzatori, di ridondanze e di aree protette su cui poter contare”, scrive Brunnermeier nelle sue conclusioni per poi ribadire l’importanza della cooperazione al posto della contrapposizione.

La società resiliente

Markus K. Brunnermeier

il Mulino, 2024

Un libro appena pubblicato in Italia fornisce una sintesi efficace di un tema ormai ineludibile

Resilienza, ovvero l’approccio corretto (ed efficace) per affrontare la complessità e la rischiosità del mondo in cui oggi ci si muove. Concetto prima astratto poi declinato in numerose versioni, quello della resilienza rimane comunque qualcosa che deve essere ben compreso per evitare fraintendimenti, illusioni, errori. Da qui l’utilità di “La società resiliente” sintesi appena tradotta e pubblicata in Italia che Markus K. Brunnermeier (economista e Direttore del Princeton’s Bendheim Center oltre che consulente di diverse istituzioni bancarie) ha scritto per offrire ad un pubblico vasto una sorta di sintetico “manuale” sul tema.

La domanda alla quale Brunnermeier cerca di risponde (riuscendovi) è semplice ma implica una risposta complessa. Gli individui, le istituzioni e le nazioni come possono navigare con successo in un’economia dinamica e globalizzata piena di rischi sconosciuti? La risposta sta, appunto, nell’applicazione della resilienza vista come “bussola” che porta a un contratto sociale vantaggioso per tutti: solo in una società resiliente le istituzioni, le famiglie e gli individui possono superare traumi e momenti critici dai quali altrimenti non riuscirebbero a riprendersi.

Il libro di Brunnermeier ha una struttura semplice. Prima di tutto della resilienza viene data una definizione e ne vengono illustrate le diverse forme nella società. Successivamente i principi della resilienza vengono applicati all’ordine globale e quindi ai rapporti geopolitici, al commercio, alla finanza, ai nuovi mercati e ai temi del cambiamento climatico. Infine, l’autore cerca di applicare la resilienza ai possibili sviluppi futuri dei problemi che affrontiamo già oggi: le diseguaglianze, la questione fiscale, le politiche di sviluppo.

Il libro di Brunnermeier  non è sempre facile da leggere (anche se certamente è scritto con un grande sforzo per rendersi comprensibile), ma costituisce l’occasione per una sorta di esplorazione non solo delle potenzialità della resilienza ma anche di una serie di problemi che il sistema economico e sociale deve comunque affrontare.  Brunnermeier parla chiaro, e non nasconde rischi e difficoltà.  “Dobbiamo mantenere la capacità di rialzarci dopo aver subito colpi pesanti. Abbiamo bisogno di ammortizzatori, di ridondanze e di aree protette su cui poter contare”, scrive Brunnermeier nelle sue conclusioni per poi ribadire l’importanza della cooperazione al posto della contrapposizione.

La società resiliente

Markus K. Brunnermeier

il Mulino, 2024

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