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Come imparare a fare impresa

Una ricerca trasformata in tesi approfondisce i meccanismi per tramandare il saper fare

Tradizione produttiva che si fa cultura da tramandare. E insegnamento dal quale far nascere nuove imprese. E’ quanto si può trarre, spesso, quando si riesce a tessere un filo che unisce passato e presente guardando al futuro. E’ questo che racconta Andrey Felipe Sgorla con la sua ricerca, trasformata in una tesi discussa presso l’Università di Siena Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive.
“L’artigianato fermentato in bottiglia: pratiche di imprenditorialità legate alla passione, al lavoro e al territorio” – questo il titolo del lavoro – è di fatto una ricerca che affronta il tema della costruzione di nuove forme di lavoro a partire dalle esperienze dei birrai artigianali, comprendendo il rapporto tra apprendimento, percorsi professionali e imprenditorialità nel contesto dell’economia artigianale. Un esempio che può dire molto proprio in termini generali rispetto alla necessità di creare occasioni di lavoro in un sistema economico e sociale in difficoltà.
Lo sviluppo e la crescita dei microbirrifici – spiega Sgorla – rappresentano un’opportunità per l’imprenditorialità nel settore artigianale, perché forniscono uno spazio di crescita per gli imprenditori che desiderano creare e promuovere prodotti di alta qualità, valorizzando al contempo le risorse locali e contribuendo alla vitalità economica dei territori. Più in generale, studiando questo caso è possibile studiare il processo di incorporazione di conoscenze, abilità e competenze specializzate che avviene attraverso le pratiche di lavoro. Tutto senza tralasciare l’occasione di comprendere il percorso per apprendere un mestiere prima sconosciuto, di approfondire un aspetto articolare dell’economia locale e il legame di questa con il territorio. Oltre a tutto questo, sottolinea sempre l’autore, l’esperienza dei birrai artigianali si inserisce in un fenomeno globale di individui che decidono di investire in nuove professioni artigianali e dare nuove direzioni alla propria vita, una scelta guidata da autonomia, flessibilità, piacere e passione per il proprio lavoro: a ben vedere tutte peculiarità importanti per caratterizzare chiunque voglia fare impresa.
Andrey Felipe Sgorla studia però il caso dei birrai e della trasmissione del loro sapere partendo dall’esplorazione dell’artigianato contemporaneo e quindi dall’approfondimento dei temi dell’apprendimento, della professionalità e dell’imprenditorialità. Successivamente la ricerca approfondisce sia il lavoro artigianale che il tema del “saper fare”, per arrivare ai temi dell’innovazione collaborativa e della narrazione. Ed è proprio dalla narrazione del proprio saper fare che prende corpo la possibilità di tramandare mestieri che diventano occasioni d’impresa.
La ricerca di Andrey Felipe Sgorla è un esempio di come si può trarre indicazioni generali da un caso particolare.

L’artigianato fermentato in bottiglia: pratiche di imprenditorialità legate alla passione, al lavoro e al territorio
Andrey Felipe Sgorla
Tesi, Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive, Corso di Dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro, XXXVI°CICLO, 2024

Una ricerca trasformata in tesi approfondisce i meccanismi per tramandare il saper fare

Tradizione produttiva che si fa cultura da tramandare. E insegnamento dal quale far nascere nuove imprese. E’ quanto si può trarre, spesso, quando si riesce a tessere un filo che unisce passato e presente guardando al futuro. E’ questo che racconta Andrey Felipe Sgorla con la sua ricerca, trasformata in una tesi discussa presso l’Università di Siena Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive.
“L’artigianato fermentato in bottiglia: pratiche di imprenditorialità legate alla passione, al lavoro e al territorio” – questo il titolo del lavoro – è di fatto una ricerca che affronta il tema della costruzione di nuove forme di lavoro a partire dalle esperienze dei birrai artigianali, comprendendo il rapporto tra apprendimento, percorsi professionali e imprenditorialità nel contesto dell’economia artigianale. Un esempio che può dire molto proprio in termini generali rispetto alla necessità di creare occasioni di lavoro in un sistema economico e sociale in difficoltà.
Lo sviluppo e la crescita dei microbirrifici – spiega Sgorla – rappresentano un’opportunità per l’imprenditorialità nel settore artigianale, perché forniscono uno spazio di crescita per gli imprenditori che desiderano creare e promuovere prodotti di alta qualità, valorizzando al contempo le risorse locali e contribuendo alla vitalità economica dei territori. Più in generale, studiando questo caso è possibile studiare il processo di incorporazione di conoscenze, abilità e competenze specializzate che avviene attraverso le pratiche di lavoro. Tutto senza tralasciare l’occasione di comprendere il percorso per apprendere un mestiere prima sconosciuto, di approfondire un aspetto articolare dell’economia locale e il legame di questa con il territorio. Oltre a tutto questo, sottolinea sempre l’autore, l’esperienza dei birrai artigianali si inserisce in un fenomeno globale di individui che decidono di investire in nuove professioni artigianali e dare nuove direzioni alla propria vita, una scelta guidata da autonomia, flessibilità, piacere e passione per il proprio lavoro: a ben vedere tutte peculiarità importanti per caratterizzare chiunque voglia fare impresa.
Andrey Felipe Sgorla studia però il caso dei birrai e della trasmissione del loro sapere partendo dall’esplorazione dell’artigianato contemporaneo e quindi dall’approfondimento dei temi dell’apprendimento, della professionalità e dell’imprenditorialità. Successivamente la ricerca approfondisce sia il lavoro artigianale che il tema del “saper fare”, per arrivare ai temi dell’innovazione collaborativa e della narrazione. Ed è proprio dalla narrazione del proprio saper fare che prende corpo la possibilità di tramandare mestieri che diventano occasioni d’impresa.
La ricerca di Andrey Felipe Sgorla è un esempio di come si può trarre indicazioni generali da un caso particolare.

L’artigianato fermentato in bottiglia: pratiche di imprenditorialità legate alla passione, al lavoro e al territorio
Andrey Felipe Sgorla
Tesi, Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive, Corso di Dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro, XXXVI°CICLO, 2024

Economia produttiva e virtù civili nell’Italia inclusiva di metropoli e borghi

Il futuro sarà delle metropoli o dei borghi? La domanda è ricorrente, nelle previsioni dei futurologi. Ispira analisi economiche e sociali, progetti urbanistici e architettonici, anche la prossima Esposizione Internazionale della Triennale di Milano sul destino delle città. Vivremo, insomma, in giganteschi agglomerati da milioni di abitanti o nella quiete dei piccoli paesi? Non avremo altre scelte?

Chi guarda, però, con attenzione alle prospettive di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, non può non riflettere su un’originale condizione italiana. Sulla possibilità cioè di tenere insieme il dinamismo sociale ed economico delle grandi città con la qualità della vita di città medie e piccole e di paesi storici, coniugando così la crescita economica con la coesione sociale, l’attrattività e la competitività dei territori produttivi con la civiltà delle relazioni positive e il senso civico delle comunità accoglienti.

Per capire meglio, si può provare a studiare le mappe geografiche, di carta o digitali, che raccontano quella grande area che va, in orizzontale, dal Piemonte al Nord Est e, in verticale, dalle Alpi all’Emilia e alla Toscana della costa tirrenica, con i due principali sbocchi nel Mediterraneo a Genova e a Trieste. La “regione A1/A4”, cioè, se volessimo darle un nome tratto dalle sigle delle autostrade che la attraversano (una felice definizione di Dario Di Vico, acuto giornalista economico, sulle pagine del “Corriere della Sera”). O, ancora, la mega-regione tra le più ricche e produttive di tutta l’Europa, ideale per rafforzare le relazioni tra lo spazio continentale e l’area mediterranea aperta all’Africa.

È un’area policentrica. Ricca di dimensioni urbane diverse ma legate da intensi flussi sociali, economici e culturali, con una metropoli estremamente attrattiva, la cosiddetta “grande Milano”, cinque città di rilevanti dimensioni e cioè Torino, Bologna, Firenze, Genova e Venezia-Mestre, una serie di città medie e medio-grandi, Brescia e Bergamo, Verona, Padova, Vicenza, Parma e Piacenza e una folta presenza di altri centri urbani carichi di storia e di solide vocazioni economiche e culturali (Pavia, Trento e Udine, per fare solo alcuni nomi). In mezzo, piccole città e borghi storici sull’Appennino e lungo i litorali, con sistemi economici molto vari e spesso ben integrati. Un unicum, in Europa.

Le colline agricole delle Langhe e del trevigiano e la “Motor Valley” emiliana, i poli meccatronici e aerospaziali tra Varese, Gallarate e Busto Arsizio e le aree tessili tra Como e Biella, l’industria meccanica e dell’arredo in Brianza, la cantieristica navale e la chimica, i centri di specializzazione dell’industria metalmeccanica del confezionamento in Emilia e così via continuando, seguendo quel “catalogo” dell’eccellenza industriale che ci ha portato a essere in quinto paese esportatore del mondo, con un valore che nel ‘23 ha superato i 670 miliardi.

Un gigante economico e finanziario, grazie all’attivismo di banche in crescita? Non soltanto.

Le nostre mappe raccontano la presenza di numerose università, parecchie delle quali (tra Milano, Torino e Bologna, soprattutto) ai vertici delle classifiche internazionali. Di centri di ricerca di alto livello per le life sciences, tra farmaceutica, sanità e buona alimentazione. Di cultura di valore internazionale, tra musica e teatro, arti figurative, scienza, editoria high tech e attività letterarie. E di turismo. Luoghi e flussi, appunto. Persone e idee in movimento. Una civiltà delle macchine e delle relazioni. Un mondo che ha gusto delle radici e sguardo internazionale. E che si può ben riconoscere nell’essenziale definizione di Carlo Maria Cipolla, quando parla di “italiani abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”.

L’Alta Velocità ferroviaria, negli ultimi dieci anni, ha profondamente mutato il gioco dei flussi: puoi vivere a Torino o a Bologna e, con appena un’ora di viaggio (tempo metropolitano abituale, a Parigi, Londra o New York), lavorare a Milano, o viceversa. Vivere in un borgo padano ed essere in collegamento con il resto d’Europa, gli Usa o la Cina. Sentirsi popolazione urbana e contemporaneamente godere il silenzio dei paesi in collina. Un mondo in cambiamento. Tra metropoli e borgo, appunto. Una condizione che solo quest’area italiana di cui stiamo parlando può dare.

Tutto a posto, dunque? Tutti felici? Naturalmente no. Perché i flussi, per consentire non solo produttività economica, ma anche qualità della vita, hanno bisogno di infrastrutture, materiali e immateriali. Trasporti efficienti, non solo per l’Alta Velocità (le carenze e i disservizi delle Ferrovie Nord, in Lombardia, sono sempre più spesso fonti di proteste da parte di decine di migliaia di pendolari). Servizi. E connessioni digitali rapide e stabili (un 5G all’altezza della situazione socio-economica che abbiamo sommariamente descritto è molto lontano dall’essere una prospettiva vicina e decente). Tutte dimensioni insoddisfacenti. Cui dovrebbero dare risposte anche gli investimenti stimolati dal Pnrr. Ma su cui aumentano dubbi e ritardi.

L’economia si muove, veloce, produttiva. Le strutture amministrative locali restano indietro. La legge sulle aree metropolitane, peraltro mai compiutamente attuata, è ben lontana da dare risposte di governo del territorio e dei servizi adeguate alla “nuova mobilità” urbana e sociale. E mancano quasi del tutto scelte politiche generali sulla sanità, la scuola (fondamentale struttura di integrazione e formazione culturale e civile), l’assistenza per le persone e i gruppi sociali deboli e fragili.

Bisogna “coniugare sviluppo e coesione sociale nelle città medie”, ammonisce Aldo Bonomi, sociologo attento al “capitalismo molecolare” e alle dinamiche della “città infinita” (Il Sole24Ore, 26 marzo). Certo. Ma mancano “infrastrutture civiche” e “reti collaborative”. Servizi, appunto. E buon governo del territorio, fuori da logiche neo-municipaliste e chiusure da identità asfittiche, estranee alle culture essenziali di identità plurali, aperte, accoglienti. Come peraltro proprio la storia italiana dei “mille campanili” insegna.

Eccola, allora, la sfida. Reggere lo sviluppo economico, nel segno della sostenibilità che anche parecchie imprese hanno imparato ad apprezzare non come scelta di marketing e comunicazione, ma come vero e proprio asset competitivo. E costruire nuovi e migliori valori di comunità. Anche provando a governare quei fenomeni che stanno alterando la vita delle nostre città: i processi devastanti del turismo di massa, le radicali modifiche negative dei valori immobiliari, con gli affitti da airb&b che stanno distruggendo i centri storici e riducendo drasticamente le possibilità di trovare casa per ceto medio e giovani coppie (la Repubblica, 31 marzo), l’innalzamento intollerabile del costo della vita.

Le città, per crescere, hanno bisogno di cives, di cittadini. Che le abitano e le vivono con spirito civico e non si limitano a usarle. Che frequentano luoghi pubblici e privati del lavoro, dello sport, della cultura, del tempo libero. Animano i flussi dello stare insieme. E pensano al loro futuro e a quello delle loro famiglie negli spazi di comunità.

La storia italiana, di economia civile, di spirito di cittadinanza e di cultura di comunità, è ricca di esempi e testimonianze, dalla “grande Milano” rotonda e accogliente a tutte quelle città medie e piccole e ai paesi dei territori di cui abbiamo parlato. Serve insistere per tenere insieme lo sviluppo economico diffuso e l’inclusione sociale, appunto. La persistenza delle virtù civiche. E l’attitudine all’innovazione. Da bell’Italia che dimostra, ancora una volta, di saper fare bene l’Italia.

(foto Getty Images)

Il futuro sarà delle metropoli o dei borghi? La domanda è ricorrente, nelle previsioni dei futurologi. Ispira analisi economiche e sociali, progetti urbanistici e architettonici, anche la prossima Esposizione Internazionale della Triennale di Milano sul destino delle città. Vivremo, insomma, in giganteschi agglomerati da milioni di abitanti o nella quiete dei piccoli paesi? Non avremo altre scelte?

Chi guarda, però, con attenzione alle prospettive di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, non può non riflettere su un’originale condizione italiana. Sulla possibilità cioè di tenere insieme il dinamismo sociale ed economico delle grandi città con la qualità della vita di città medie e piccole e di paesi storici, coniugando così la crescita economica con la coesione sociale, l’attrattività e la competitività dei territori produttivi con la civiltà delle relazioni positive e il senso civico delle comunità accoglienti.

Per capire meglio, si può provare a studiare le mappe geografiche, di carta o digitali, che raccontano quella grande area che va, in orizzontale, dal Piemonte al Nord Est e, in verticale, dalle Alpi all’Emilia e alla Toscana della costa tirrenica, con i due principali sbocchi nel Mediterraneo a Genova e a Trieste. La “regione A1/A4”, cioè, se volessimo darle un nome tratto dalle sigle delle autostrade che la attraversano (una felice definizione di Dario Di Vico, acuto giornalista economico, sulle pagine del “Corriere della Sera”). O, ancora, la mega-regione tra le più ricche e produttive di tutta l’Europa, ideale per rafforzare le relazioni tra lo spazio continentale e l’area mediterranea aperta all’Africa.

È un’area policentrica. Ricca di dimensioni urbane diverse ma legate da intensi flussi sociali, economici e culturali, con una metropoli estremamente attrattiva, la cosiddetta “grande Milano”, cinque città di rilevanti dimensioni e cioè Torino, Bologna, Firenze, Genova e Venezia-Mestre, una serie di città medie e medio-grandi, Brescia e Bergamo, Verona, Padova, Vicenza, Parma e Piacenza e una folta presenza di altri centri urbani carichi di storia e di solide vocazioni economiche e culturali (Pavia, Trento e Udine, per fare solo alcuni nomi). In mezzo, piccole città e borghi storici sull’Appennino e lungo i litorali, con sistemi economici molto vari e spesso ben integrati. Un unicum, in Europa.

Le colline agricole delle Langhe e del trevigiano e la “Motor Valley” emiliana, i poli meccatronici e aerospaziali tra Varese, Gallarate e Busto Arsizio e le aree tessili tra Como e Biella, l’industria meccanica e dell’arredo in Brianza, la cantieristica navale e la chimica, i centri di specializzazione dell’industria metalmeccanica del confezionamento in Emilia e così via continuando, seguendo quel “catalogo” dell’eccellenza industriale che ci ha portato a essere in quinto paese esportatore del mondo, con un valore che nel ‘23 ha superato i 670 miliardi.

Un gigante economico e finanziario, grazie all’attivismo di banche in crescita? Non soltanto.

Le nostre mappe raccontano la presenza di numerose università, parecchie delle quali (tra Milano, Torino e Bologna, soprattutto) ai vertici delle classifiche internazionali. Di centri di ricerca di alto livello per le life sciences, tra farmaceutica, sanità e buona alimentazione. Di cultura di valore internazionale, tra musica e teatro, arti figurative, scienza, editoria high tech e attività letterarie. E di turismo. Luoghi e flussi, appunto. Persone e idee in movimento. Una civiltà delle macchine e delle relazioni. Un mondo che ha gusto delle radici e sguardo internazionale. E che si può ben riconoscere nell’essenziale definizione di Carlo Maria Cipolla, quando parla di “italiani abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”.

L’Alta Velocità ferroviaria, negli ultimi dieci anni, ha profondamente mutato il gioco dei flussi: puoi vivere a Torino o a Bologna e, con appena un’ora di viaggio (tempo metropolitano abituale, a Parigi, Londra o New York), lavorare a Milano, o viceversa. Vivere in un borgo padano ed essere in collegamento con il resto d’Europa, gli Usa o la Cina. Sentirsi popolazione urbana e contemporaneamente godere il silenzio dei paesi in collina. Un mondo in cambiamento. Tra metropoli e borgo, appunto. Una condizione che solo quest’area italiana di cui stiamo parlando può dare.

Tutto a posto, dunque? Tutti felici? Naturalmente no. Perché i flussi, per consentire non solo produttività economica, ma anche qualità della vita, hanno bisogno di infrastrutture, materiali e immateriali. Trasporti efficienti, non solo per l’Alta Velocità (le carenze e i disservizi delle Ferrovie Nord, in Lombardia, sono sempre più spesso fonti di proteste da parte di decine di migliaia di pendolari). Servizi. E connessioni digitali rapide e stabili (un 5G all’altezza della situazione socio-economica che abbiamo sommariamente descritto è molto lontano dall’essere una prospettiva vicina e decente). Tutte dimensioni insoddisfacenti. Cui dovrebbero dare risposte anche gli investimenti stimolati dal Pnrr. Ma su cui aumentano dubbi e ritardi.

L’economia si muove, veloce, produttiva. Le strutture amministrative locali restano indietro. La legge sulle aree metropolitane, peraltro mai compiutamente attuata, è ben lontana da dare risposte di governo del territorio e dei servizi adeguate alla “nuova mobilità” urbana e sociale. E mancano quasi del tutto scelte politiche generali sulla sanità, la scuola (fondamentale struttura di integrazione e formazione culturale e civile), l’assistenza per le persone e i gruppi sociali deboli e fragili.

Bisogna “coniugare sviluppo e coesione sociale nelle città medie”, ammonisce Aldo Bonomi, sociologo attento al “capitalismo molecolare” e alle dinamiche della “città infinita” (Il Sole24Ore, 26 marzo). Certo. Ma mancano “infrastrutture civiche” e “reti collaborative”. Servizi, appunto. E buon governo del territorio, fuori da logiche neo-municipaliste e chiusure da identità asfittiche, estranee alle culture essenziali di identità plurali, aperte, accoglienti. Come peraltro proprio la storia italiana dei “mille campanili” insegna.

Eccola, allora, la sfida. Reggere lo sviluppo economico, nel segno della sostenibilità che anche parecchie imprese hanno imparato ad apprezzare non come scelta di marketing e comunicazione, ma come vero e proprio asset competitivo. E costruire nuovi e migliori valori di comunità. Anche provando a governare quei fenomeni che stanno alterando la vita delle nostre città: i processi devastanti del turismo di massa, le radicali modifiche negative dei valori immobiliari, con gli affitti da airb&b che stanno distruggendo i centri storici e riducendo drasticamente le possibilità di trovare casa per ceto medio e giovani coppie (la Repubblica, 31 marzo), l’innalzamento intollerabile del costo della vita.

Le città, per crescere, hanno bisogno di cives, di cittadini. Che le abitano e le vivono con spirito civico e non si limitano a usarle. Che frequentano luoghi pubblici e privati del lavoro, dello sport, della cultura, del tempo libero. Animano i flussi dello stare insieme. E pensano al loro futuro e a quello delle loro famiglie negli spazi di comunità.

La storia italiana, di economia civile, di spirito di cittadinanza e di cultura di comunità, è ricca di esempi e testimonianze, dalla “grande Milano” rotonda e accogliente a tutte quelle città medie e piccole e ai paesi dei territori di cui abbiamo parlato. Serve insistere per tenere insieme lo sviluppo economico diffuso e l’inclusione sociale, appunto. La persistenza delle virtù civiche. E l’attitudine all’innovazione. Da bell’Italia che dimostra, ancora una volta, di saper fare bene l’Italia.

(foto Getty Images)

Campiello Junior i premiati

Il Campiello Junior a Palumbo e Petrosino

Il Campiello Junior a Petrosino e Palumbo

Così le bambine hanno conquistato la letteratura

Un viaggio nello Spazio e ritorno. Si è conclusa l’edizione 2024 di “Cinema & Storia”

Giunge al termine la XII edizione di “Cinema & Storia”, il corso di formazione gratuito per docenti delle scuole secondarie, promosso da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC in collaborazione con il Cinema Beltrade di Milano. “Il cosmo: la prossima frontiera” è stata la proposta che, articolata in sei appuntamenti online, ha coinvolto circa 200 docenti da tutta Italia sul tema dello Spazio cosmico: alle cinque lezioni storiche condotte da docenti universitari sono stati affiancati, a cura del Cinema Beltrade, un laboratorio sui linguaggi cinematografici e una selezione di film resi disponibili in modalità streaming.

Il corso è stato inaugurato dall’intervento di David Burigana, professore associato di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Padova, che ha approfondito le implicazioni geopolitiche della moon race dalla Guerra Fredda al lancio della Stazione Spaziale Internazionale, concentrandosi in particolare sull’importanza della Space Diplomacy.
Un delicato equilibrio intergalattico, un regime pacifico di condivisione del sapere e un pericolo che ne minaccia il crollo sono gli elementi principali del film Valerian: la città dei mille pianeti di Luc Besson, selezionato per affiancare la prima lezione. Un viaggio cinematografico ai confini dell’Universo tra culture aliene e terre incontaminate.

Durante l’incontro di Massimo Sideri, professore aggiunto di Storia socio-economica dell’Innovazione all’Università Luiss Guido Carli di Roma ed editorialista del «Corriere della Sera», sono state esaminate le conseguenze del lancio in orbita nel 1957 del primo satellite artificiale da parte dell’Unione Sovietica: la nascita di una moderna forma di divulgazione scientifica è stata tra i più importanti risultati del cosiddetto “effetto Sputnik”.
Il documentario Star Stuff di Milad Tangshir ha idealmente condotto i corsisti in Cile, Sud Africa e sulle Isole Canarie alla scoperta di tre degli osservatori astronomici più tecnologicamente avanzati al mondo; comunità indigene e piccoli villaggi convivono con questi luoghi privilegiati di ricerca, grazie ai quali la comunità scientifica internazionale ha raggiunto importanti scoperte sulle origini dell’Universo e della vita sulla Terra.

La terza lezione tenuta da Silvia Cavalli, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha permesso di riflettere sull’influenza della corsa allo Spazio rispetto all’immaginario letterario; nuove tematiche si impongono all’attenzione di autori come Italo Calvino e Primo Levi.
L’importanza della letteratura fantascientifica è stata indagata anche nel film Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich, che documenta uno dei progetti più visionari dell’intera storia del cinema: la trasposizione mai realizzata sul grande schermo dei romanzi della saga di “Dune” da parte di Alejandro Jodorowsky. Un’idea rivoluzionaria raccontata attraverso interviste e un’intima conversazione con il celebre regista filmata nel corso di 3 anni.

Il professor Matteo Landoni, del Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli Studi di Brescia, ha messo in luce il contributo dell’industria aerospaziale italiana alle più importanti missioni spaziali internazionali, ripercorrendo la storia economica e lo sviluppo tecnologico del nostro paese, oggi terzo contribuente dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
Protagonista del film Tito e gli alieni di Paola Randi è infatti un professore e scienziato italiano, isolato dal mondo in una casa mobile nel deserto del Nevada, accanto all’Area 51. Coinvolto in un progetto segreto per il Governo degli Stati Uniti, “il Professore” vede la propria vita solitaria stravolta da un evento improvviso. Un delicato racconto sulla solitudine, la forza dell’amore e l’elaborazione del lutto.

Con la quinta lezione del corso, condotta da Miriam Focaccia, ricercatrice presso il Centro Studi e Ricerche Enrico Fermi di Roma, si è analizzato il ruolo della figura femminile nell’ambito astronomico, tracciando le biografie di alcune delle più grandi scienziate della storia: dalle sorelle Manfredi, attive a Bologna nel Settecento, fino a Margherita Hack e Samantha Cristoforetti.
La prima astronauta italiana a volare nello Spazio è anche la protagonista del documentario Astrosamantha, di Gianluca Cerasola, che ha accompagnato i corsisti lungo tre anni della vita della Cristoforetti: dalle fasi di preparazione della missione all’avventura in orbita vissuta con il suo team, fino all’emozionante rientro a casa.

L’ultimo appuntamento del corso è stato dedicato al laboratorio Universi immaginati: scienza e realtà nel mirino del cinema, curato dal Cinema Beltrade con l’obiettivo di supportare gli insegnanti nell’utilizzo del testo filmico in classe. Monica Naldi ha tracciato un articolato excursus del genere fantascientifico, capace da oltre un secolo di dar forma alle paure e alle speranze sociali e politiche di tutte le generazioni, esaminandone in particolare le potenzialità didattiche.

Giunge al termine la XII edizione di “Cinema & Storia”, il corso di formazione gratuito per docenti delle scuole secondarie, promosso da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC in collaborazione con il Cinema Beltrade di Milano. “Il cosmo: la prossima frontiera” è stata la proposta che, articolata in sei appuntamenti online, ha coinvolto circa 200 docenti da tutta Italia sul tema dello Spazio cosmico: alle cinque lezioni storiche condotte da docenti universitari sono stati affiancati, a cura del Cinema Beltrade, un laboratorio sui linguaggi cinematografici e una selezione di film resi disponibili in modalità streaming.

Il corso è stato inaugurato dall’intervento di David Burigana, professore associato di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Padova, che ha approfondito le implicazioni geopolitiche della moon race dalla Guerra Fredda al lancio della Stazione Spaziale Internazionale, concentrandosi in particolare sull’importanza della Space Diplomacy.
Un delicato equilibrio intergalattico, un regime pacifico di condivisione del sapere e un pericolo che ne minaccia il crollo sono gli elementi principali del film Valerian: la città dei mille pianeti di Luc Besson, selezionato per affiancare la prima lezione. Un viaggio cinematografico ai confini dell’Universo tra culture aliene e terre incontaminate.

Durante l’incontro di Massimo Sideri, professore aggiunto di Storia socio-economica dell’Innovazione all’Università Luiss Guido Carli di Roma ed editorialista del «Corriere della Sera», sono state esaminate le conseguenze del lancio in orbita nel 1957 del primo satellite artificiale da parte dell’Unione Sovietica: la nascita di una moderna forma di divulgazione scientifica è stata tra i più importanti risultati del cosiddetto “effetto Sputnik”.
Il documentario Star Stuff di Milad Tangshir ha idealmente condotto i corsisti in Cile, Sud Africa e sulle Isole Canarie alla scoperta di tre degli osservatori astronomici più tecnologicamente avanzati al mondo; comunità indigene e piccoli villaggi convivono con questi luoghi privilegiati di ricerca, grazie ai quali la comunità scientifica internazionale ha raggiunto importanti scoperte sulle origini dell’Universo e della vita sulla Terra.

La terza lezione tenuta da Silvia Cavalli, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha permesso di riflettere sull’influenza della corsa allo Spazio rispetto all’immaginario letterario; nuove tematiche si impongono all’attenzione di autori come Italo Calvino e Primo Levi.
L’importanza della letteratura fantascientifica è stata indagata anche nel film Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich, che documenta uno dei progetti più visionari dell’intera storia del cinema: la trasposizione mai realizzata sul grande schermo dei romanzi della saga di “Dune” da parte di Alejandro Jodorowsky. Un’idea rivoluzionaria raccontata attraverso interviste e un’intima conversazione con il celebre regista filmata nel corso di 3 anni.

Il professor Matteo Landoni, del Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli Studi di Brescia, ha messo in luce il contributo dell’industria aerospaziale italiana alle più importanti missioni spaziali internazionali, ripercorrendo la storia economica e lo sviluppo tecnologico del nostro paese, oggi terzo contribuente dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
Protagonista del film Tito e gli alieni di Paola Randi è infatti un professore e scienziato italiano, isolato dal mondo in una casa mobile nel deserto del Nevada, accanto all’Area 51. Coinvolto in un progetto segreto per il Governo degli Stati Uniti, “il Professore” vede la propria vita solitaria stravolta da un evento improvviso. Un delicato racconto sulla solitudine, la forza dell’amore e l’elaborazione del lutto.

Con la quinta lezione del corso, condotta da Miriam Focaccia, ricercatrice presso il Centro Studi e Ricerche Enrico Fermi di Roma, si è analizzato il ruolo della figura femminile nell’ambito astronomico, tracciando le biografie di alcune delle più grandi scienziate della storia: dalle sorelle Manfredi, attive a Bologna nel Settecento, fino a Margherita Hack e Samantha Cristoforetti.
La prima astronauta italiana a volare nello Spazio è anche la protagonista del documentario Astrosamantha, di Gianluca Cerasola, che ha accompagnato i corsisti lungo tre anni della vita della Cristoforetti: dalle fasi di preparazione della missione all’avventura in orbita vissuta con il suo team, fino all’emozionante rientro a casa.

L’ultimo appuntamento del corso è stato dedicato al laboratorio Universi immaginati: scienza e realtà nel mirino del cinema, curato dal Cinema Beltrade con l’obiettivo di supportare gli insegnanti nell’utilizzo del testo filmico in classe. Monica Naldi ha tracciato un articolato excursus del genere fantascientifico, capace da oltre un secolo di dar forma alle paure e alle speranze sociali e politiche di tutte le generazioni, esaminandone in particolare le potenzialità didattiche.

Svelati i vincitori del
Campiello Junior 2024

Si è conclusa oggi a Vicenza, presso la Sala del Ridotto del Teatro Comunale, la terza edizione del Premio Campiello Junior.

L’evento dedicato ai ragazzi e alla lettura, che ha visto il coinvolgimento di tanti studenti delle scuole del territorio, è stato presentato dalla giornalista Valentina De Poli, per undici anni direttrice di Topolino, insieme all’autore e regista Davide Stefanato, e trasmesso in diretta sul canale Youtube del Premio Campiello.

I giovani lettori della giuria popolare, composta da 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero, hanno votato il loro libro preferito scegliendo i due vincitori di questa edizione:

Per la categoria 7-10 anni: Angelo Petrosino, Un bambino,una gatta e un cane, Einaudi Ragazzi

Per la categoria 11-14 anni: Daniela Palumbo, La notte più bella, Il Battello a Vapore

Hanno partecipato all’evento anche i componenti della Giuria di Selezione del Premio: lo scrittore Pino Boero, Presidente di Giuria, Chiara Lagani, attrice e drammaturga; Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani e David Tolin, libraio e membro del direttivo di ALIR.
Sono intervenuti, inoltre, Enrico Carraro, Presidente della Fondazione il Campiello e di Confindustria Veneto e Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli.

I due vincitori verranno premiati a settembre durante la Cerimonia di Premiazione del Campiello 2024.

Per rivivere l’evento clicca qui.

Si è conclusa oggi a Vicenza, presso la Sala del Ridotto del Teatro Comunale, la terza edizione del Premio Campiello Junior.

L’evento dedicato ai ragazzi e alla lettura, che ha visto il coinvolgimento di tanti studenti delle scuole del territorio, è stato presentato dalla giornalista Valentina De Poli, per undici anni direttrice di Topolino, insieme all’autore e regista Davide Stefanato, e trasmesso in diretta sul canale Youtube del Premio Campiello.

I giovani lettori della giuria popolare, composta da 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero, hanno votato il loro libro preferito scegliendo i due vincitori di questa edizione:

Per la categoria 7-10 anni: Angelo Petrosino, Un bambino,una gatta e un cane, Einaudi Ragazzi

Per la categoria 11-14 anni: Daniela Palumbo, La notte più bella, Il Battello a Vapore

Hanno partecipato all’evento anche i componenti della Giuria di Selezione del Premio: lo scrittore Pino Boero, Presidente di Giuria, Chiara Lagani, attrice e drammaturga; Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani e David Tolin, libraio e membro del direttivo di ALIR.
Sono intervenuti, inoltre, Enrico Carraro, Presidente della Fondazione il Campiello e di Confindustria Veneto e Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli.

I due vincitori verranno premiati a settembre durante la Cerimonia di Premiazione del Campiello 2024.

Per rivivere l’evento clicca qui.

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IT diversa per imprese diverse

Una ricerca del Politecnico di Torino aiuta a comprendere meglio come cambiano gli effetti dell’Information Technology in base alle differenti organizzazioni della produzione

 

L’Information Techonology tocca le imprese con effetti diversi a seconda delle imprese. Osservazione comune nella quotidianità dei sistemi produttivi che, tuttavia, assume significati diversi e più importanti quando viene convalidata dal metodo scientifico. D’altra parte, passare dall’osservazione alle prove che la convalidano, consente alla cultura d’impresa di evolversi, accogliendo nuovi elementi e crescendo in modo più solido e completo. Attorno agli impatti dell’IT sulle imprese in base alle tipologie di prodotto e comparto, hanno ragionato Danilo Pesce e Paolo Neirotti del Dipartimento di management del Politecnico di Torino arrivando a proporre una nuova “tassonomia di settore”, cioè una classificazione diversa e più efficace, degli effetti che l’IT determina a seconda del comparto aziendale e del tipo di prodotto.

“The impact of IT–business strategic alignment on firm performance: The evolving role of IT in industries” – apparso recentemente in Information & Management – cerca di estendere la tradizionale analisi sul ruolo strategico dell’IT (automatizzazione, informazione, trasformazione) considerando come l’IT sta cambiando la natura del prodotto oppure del servizio in settori particolari. Applicando un modello di analisi matematico, gli autori hanno scoperto che nei comparti in cui il prodotto/servizio è di natura digitale, le aziende che ottengono rendimenti economici più elevati sono quelle in cui l’IT viene utilizzato per supportare strategie duali basate sull’integrazione di leadership di costo e differenziazione. Al contrario, in altri settori – ad eccezione di quelli che producono materie prime – le aziende che ottengono rendimenti superiori sono quelle che utilizzano l’IT per supportare la differenziazione.

In altri termini, l’IT è differente in base a chi la applica. Come dire che una stessa tecnologia oppure uno stesso metodo di lavoro, ottengono risultati diversi perché condizionati dal comparto di riferimento dell’impresa, dai processi produttivi, dalle persone che vi lavorano. Culture del produrre, quindi, ben più complesse di un semplice diagramma di flusso oppure di un’equazione matematica magari complessa. Culture che cambiano, di fatto, per ogni impresa. E che devono essere ben comprese. Anche quando l’innovazione tecnologica appare essere determinante. Complessità della realtà che deve essere analizzata con attenzione, compito per il quale la ricerca di Pesce e Neirotti può dare un valido aiuto.

The impact of IT–business strategic alignment on firm performance: The evolving role of IT in industries

Danilo Pesce, Paolo Neirotti

Information & Management, 60 2023

Una ricerca del Politecnico di Torino aiuta a comprendere meglio come cambiano gli effetti dell’Information Technology in base alle differenti organizzazioni della produzione

 

L’Information Techonology tocca le imprese con effetti diversi a seconda delle imprese. Osservazione comune nella quotidianità dei sistemi produttivi che, tuttavia, assume significati diversi e più importanti quando viene convalidata dal metodo scientifico. D’altra parte, passare dall’osservazione alle prove che la convalidano, consente alla cultura d’impresa di evolversi, accogliendo nuovi elementi e crescendo in modo più solido e completo. Attorno agli impatti dell’IT sulle imprese in base alle tipologie di prodotto e comparto, hanno ragionato Danilo Pesce e Paolo Neirotti del Dipartimento di management del Politecnico di Torino arrivando a proporre una nuova “tassonomia di settore”, cioè una classificazione diversa e più efficace, degli effetti che l’IT determina a seconda del comparto aziendale e del tipo di prodotto.

“The impact of IT–business strategic alignment on firm performance: The evolving role of IT in industries” – apparso recentemente in Information & Management – cerca di estendere la tradizionale analisi sul ruolo strategico dell’IT (automatizzazione, informazione, trasformazione) considerando come l’IT sta cambiando la natura del prodotto oppure del servizio in settori particolari. Applicando un modello di analisi matematico, gli autori hanno scoperto che nei comparti in cui il prodotto/servizio è di natura digitale, le aziende che ottengono rendimenti economici più elevati sono quelle in cui l’IT viene utilizzato per supportare strategie duali basate sull’integrazione di leadership di costo e differenziazione. Al contrario, in altri settori – ad eccezione di quelli che producono materie prime – le aziende che ottengono rendimenti superiori sono quelle che utilizzano l’IT per supportare la differenziazione.

In altri termini, l’IT è differente in base a chi la applica. Come dire che una stessa tecnologia oppure uno stesso metodo di lavoro, ottengono risultati diversi perché condizionati dal comparto di riferimento dell’impresa, dai processi produttivi, dalle persone che vi lavorano. Culture del produrre, quindi, ben più complesse di un semplice diagramma di flusso oppure di un’equazione matematica magari complessa. Culture che cambiano, di fatto, per ogni impresa. E che devono essere ben comprese. Anche quando l’innovazione tecnologica appare essere determinante. Complessità della realtà che deve essere analizzata con attenzione, compito per il quale la ricerca di Pesce e Neirotti può dare un valido aiuto.

The impact of IT–business strategic alignment on firm performance: The evolving role of IT in industries

Danilo Pesce, Paolo Neirotti

Information & Management, 60 2023

Questione d’età per far crescere la cultura d’impresa

Pubblicato un libro che ragiona sulle differenze generazionali per trovare nuovi strumenti in favore dello sviluppo delle imprese

 

“Non ho l’età”, oppure “non ha l’età”. Nelle organizzazioni della produzione circola sempre di più un nuovo tema di dibattito che, con un brutto termine, ha assunto il nome di “ageismo”. Questione di età, appunto.  E cioè di pregiudizi non di classe oppure di genere, ma legati all’età. Che occorre superare per non rischiare di mandare in crisi imprese che, altrimenti, avrebbero numeri per crescere. Pregiudizi che, se non superati, rischiano di bloccare quella buona cultura del produrre che fa proprio della diversità (anche di età) uno dei suoi segreti.

E’ da qui che nasce l’interesse per “Il valore non ha età. Persone e organizzazioni oltre il divario generazionale”, libro appena pubblicato e scritto da Giulia Tossici, Ilaria Marchioni e Gaia Moretti che hanno unito esperienze diverse per arrivare ad una sintesi efficace di un tema complesso: il tema delle generazioni, dei bias e degli stereotipi legati all’età, tutti aspetti, cioè, che hanno sempre più spazio nelle imprese tanto da aver dato vita al age management.

Obiettivo di tutto è comunque sempre lo stesso: favorire la crescita, la consapevolezza e la comprensione reciproca fra persone che hanno età diverse, con ripercussioni importanti sulla motivazione, la creatività, la voglia di collaborare e, di conseguenza, anche la loro produttività quando lavorano insieme. Un tema che, con l’ingresso nelle aziende e nelle organizzazioni in generale dei giovanissimi della Gen Z, ha assunto ancora più importanza e attualità.

Sfida per tutti – si spiega nel libro – è saper cogliere gli elementi positivi di innovazione, diversità e richiesta di cambiamento che tutto questo pone alle organizzazioni. Le aziende che sapranno vincere la sfida, è la tesi del libro, svilupperanno un vantaggio competitivo notevole.

Ma come? La chiave per traguardare tutto questo, e che nel libro viene descritta, è l’integrazione e la messa insieme delle diversità in ambienti di lavoro sempre più inclusivi.

Tutto questo viene raccontato e spiegato in poco meno di duecento pagine che conducono chi legge passo dopo passo alla comprensione del tema dell’età e degli strumenti per affrontarlo al meglio. Si inizi quindi con la descrizione delle differenze generazionali per passare poi alle istruzioni per deliberare le generazioni in azienda e quindi per approfondire gli stereotipi di genere che è necessario combattere. Il libro poi prende in considerazione il tema del ricambio generazionale e quindi i modelli intergenerazionali che si possono mettere in campo.

“Il valore non ha età” di Tossici, Marchioni e Moretti potrà anche sorprendere oppure irritare chi legge, ma è certamente da leggere con attenzione e mente aperta.

Il valore non ha età. Persone e organizzazioni oltre il divario generazionale
Giulia Tossici, Ilaria Marchioni, Gaia Moretti
Egea, 2024

Pubblicato un libro che ragiona sulle differenze generazionali per trovare nuovi strumenti in favore dello sviluppo delle imprese

 

“Non ho l’età”, oppure “non ha l’età”. Nelle organizzazioni della produzione circola sempre di più un nuovo tema di dibattito che, con un brutto termine, ha assunto il nome di “ageismo”. Questione di età, appunto.  E cioè di pregiudizi non di classe oppure di genere, ma legati all’età. Che occorre superare per non rischiare di mandare in crisi imprese che, altrimenti, avrebbero numeri per crescere. Pregiudizi che, se non superati, rischiano di bloccare quella buona cultura del produrre che fa proprio della diversità (anche di età) uno dei suoi segreti.

E’ da qui che nasce l’interesse per “Il valore non ha età. Persone e organizzazioni oltre il divario generazionale”, libro appena pubblicato e scritto da Giulia Tossici, Ilaria Marchioni e Gaia Moretti che hanno unito esperienze diverse per arrivare ad una sintesi efficace di un tema complesso: il tema delle generazioni, dei bias e degli stereotipi legati all’età, tutti aspetti, cioè, che hanno sempre più spazio nelle imprese tanto da aver dato vita al age management.

Obiettivo di tutto è comunque sempre lo stesso: favorire la crescita, la consapevolezza e la comprensione reciproca fra persone che hanno età diverse, con ripercussioni importanti sulla motivazione, la creatività, la voglia di collaborare e, di conseguenza, anche la loro produttività quando lavorano insieme. Un tema che, con l’ingresso nelle aziende e nelle organizzazioni in generale dei giovanissimi della Gen Z, ha assunto ancora più importanza e attualità.

Sfida per tutti – si spiega nel libro – è saper cogliere gli elementi positivi di innovazione, diversità e richiesta di cambiamento che tutto questo pone alle organizzazioni. Le aziende che sapranno vincere la sfida, è la tesi del libro, svilupperanno un vantaggio competitivo notevole.

Ma come? La chiave per traguardare tutto questo, e che nel libro viene descritta, è l’integrazione e la messa insieme delle diversità in ambienti di lavoro sempre più inclusivi.

Tutto questo viene raccontato e spiegato in poco meno di duecento pagine che conducono chi legge passo dopo passo alla comprensione del tema dell’età e degli strumenti per affrontarlo al meglio. Si inizi quindi con la descrizione delle differenze generazionali per passare poi alle istruzioni per deliberare le generazioni in azienda e quindi per approfondire gli stereotipi di genere che è necessario combattere. Il libro poi prende in considerazione il tema del ricambio generazionale e quindi i modelli intergenerazionali che si possono mettere in campo.

“Il valore non ha età” di Tossici, Marchioni e Moretti potrà anche sorprendere oppure irritare chi legge, ma è certamente da leggere con attenzione e mente aperta.

Il valore non ha età. Persone e organizzazioni oltre il divario generazionale
Giulia Tossici, Ilaria Marchioni, Gaia Moretti
Egea, 2024

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