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In viaggio: dalle strade alla comunicazione pubblicitaria

Grazie alla sua affidabilità lo Stella Bianca diventa un simbolo dell’“età d’oro delle corse” e l’equipaggiamento di riferimento dell’industria automobilistica italiana, tanto che all’inizio del decennio oltre l’80% delle auto vendute in Italia sono gommate Pirelli. La Fiat “Topolino”, ad esempio, viaggia sin dalla sua nascita nel 1936 su pneumatici Stella Bianca. Inoltre, il suo peculiare disegno battistrada è al centro della comunicazione pubblicitaria di quegli anni: lo esalta, lo rende protagonista di scene in grande formato focalizzate sul tema della velocità. Sono gli anni delle Avanguardie Storiche e la Pirelli, attenta a ogni innovativa forma di comunicazione, non può che trovare nel Futurismo la corrente perfetta per valorizzare lo sportivo, forte e resistente pneumatico delle vittorie”.

Lo Stella Bianca ritorna anche negli anni successivi in grafiche più essenziali o in reportage fotografici di grandissimo livello artistico. Si pensi a quello realizzato dal fotografo Federico Patellani e pubblicato sulla Rivista Pirelli nel 1950 in occasione del Gran Premio di Monza. Qui, un giovane Nino Farina si aggiudica il primo mondiale della storia della Formula Uno a bordo di un’Alfa Romeo 158 gommata Stella Bianca. L’obiettivo è puntato in modo inusuale e inaspettato: i protagonisti di questo servizio sono i meccanici ai box, il controllo delle ruote, le collaborazioni con la manifattura di prestigio dei cerchioni di Carlo Borrani, leggeri e in duralluminio. Ad attirare l’attenzione sono tute e cappellini Pirelli indossati dai meccanici. Noto per i suoi servizi post-bellici, Patellani, con pochi ma precisissimi scatti, riesce nel raccontare il “dietro le quinte” della storica competizione sul leggendario circuito italiano, il più ambito dai piloti di Formula Uno dopo Silverstone.

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Grazie alla sua affidabilità lo Stella Bianca diventa un simbolo dell’“età d’oro delle corse” e l’equipaggiamento di riferimento dell’industria automobilistica italiana, tanto che all’inizio del decennio oltre l’80% delle auto vendute in Italia sono gommate Pirelli. La Fiat “Topolino”, ad esempio, viaggia sin dalla sua nascita nel 1936 su pneumatici Stella Bianca. Inoltre, il suo peculiare disegno battistrada è al centro della comunicazione pubblicitaria di quegli anni: lo esalta, lo rende protagonista di scene in grande formato focalizzate sul tema della velocità. Sono gli anni delle Avanguardie Storiche e la Pirelli, attenta a ogni innovativa forma di comunicazione, non può che trovare nel Futurismo la corrente perfetta per valorizzare lo sportivo, forte e resistente pneumatico delle vittorie”.

Lo Stella Bianca ritorna anche negli anni successivi in grafiche più essenziali o in reportage fotografici di grandissimo livello artistico. Si pensi a quello realizzato dal fotografo Federico Patellani e pubblicato sulla Rivista Pirelli nel 1950 in occasione del Gran Premio di Monza. Qui, un giovane Nino Farina si aggiudica il primo mondiale della storia della Formula Uno a bordo di un’Alfa Romeo 158 gommata Stella Bianca. L’obiettivo è puntato in modo inusuale e inaspettato: i protagonisti di questo servizio sono i meccanici ai box, il controllo delle ruote, le collaborazioni con la manifattura di prestigio dei cerchioni di Carlo Borrani, leggeri e in duralluminio. Ad attirare l’attenzione sono tute e cappellini Pirelli indossati dai meccanici. Noto per i suoi servizi post-bellici, Patellani, con pochi ma precisissimi scatti, riesce nel raccontare il “dietro le quinte” della storica competizione sul leggendario circuito italiano, il più ambito dai piloti di Formula Uno dopo Silverstone.

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Campiello Junior: è iniziata la 3ª edizione

Riparte il Premio Campiello Junior, il riconoscimento letterario nato dalla collaborazione tra Pirelli, la Fondazione Pirelli e la Fondazione Campiello, per opere italiane di narrativa e poesia scritte per ragazzi e ragazze, con l’obiettivo di incentivare la lettura e contribuire alla diffusione del libro tra i giovanissimi.

Quest’anno prende il via la terza edizione che vede alcuni cambiamenti nella composizione della Giuria di Selezione. Il nuovo Presidente sarà Pino Boero. Nato a Genova nel 1949, Boero è stato professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura all’Università di Genova, preside della Facoltà di Scienze della Formazione e prorettore alla formazione dello stesso Ateneo. A livello internazionale ha tenuto lezioni e seguito tesi di dottorato in Università ed Enti formativi di Francia, Lussemburgo, Svizzera, Svezia, Serbia, Argentina, Brasile, Corea, Spagna. Studioso e critico, Pino Boero ha sviluppato fin dagli anni Settanta un consistente interesse verso la letteratura per l’infanzia, collaborando con numerose riviste e pubblicando diversi volumi sulla materia.

Allo scrittore Roberto Piumini, Presidente di Giuria per le prime due edizioni del Premio Campiello Junior, vanno i più sentiti ringraziamenti di Pirelli, della Fondazione Pirelli e della Fondazione Campiello.

Come componenti della Giuria vengono confermati: Chiara Lagani, attrice e drammaturga; Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani; David Tolin, libraio e membro del direttivo di ALIR.

La Fondazione Campiello, Pirelli e la Fondazione Pirelli ringraziano il Prof. Martino Negri per il contributo portato in Giuria in questi anni.

Anche quest’anno Il Premio è composto da due distinte sezioni: la categoria 7-10 anni, rivolta a lettori delle scuole primarie classe III, IV, V e la categoria 11-14 anni rivolta invece a lettori della scuola secondaria di primo grado classe I, II, III. Saranno proprio i giovani lettori provenienti da tutta Italia ma anche dall’estero i veri protagonisti della Giuria dei Lettori, chiamata a scegliere i vincitori che verranno proclamati il 22 marzo 2024.

Per i ragazzi che faranno parte della Giuria e per tutti i giovani appassionati di lettura, Fondazione Pirelli organizzerà dei laboratori didattici incentrati sulla lettura e sui libri.

Per rimanere aggiornati sulle iniziative del Premio Campiello Junior potete trovare maggiori informazioni sui siti: www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Riparte il Premio Campiello Junior, il riconoscimento letterario nato dalla collaborazione tra Pirelli, la Fondazione Pirelli e la Fondazione Campiello, per opere italiane di narrativa e poesia scritte per ragazzi e ragazze, con l’obiettivo di incentivare la lettura e contribuire alla diffusione del libro tra i giovanissimi.

Quest’anno prende il via la terza edizione che vede alcuni cambiamenti nella composizione della Giuria di Selezione. Il nuovo Presidente sarà Pino Boero. Nato a Genova nel 1949, Boero è stato professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura all’Università di Genova, preside della Facoltà di Scienze della Formazione e prorettore alla formazione dello stesso Ateneo. A livello internazionale ha tenuto lezioni e seguito tesi di dottorato in Università ed Enti formativi di Francia, Lussemburgo, Svizzera, Svezia, Serbia, Argentina, Brasile, Corea, Spagna. Studioso e critico, Pino Boero ha sviluppato fin dagli anni Settanta un consistente interesse verso la letteratura per l’infanzia, collaborando con numerose riviste e pubblicando diversi volumi sulla materia.

Allo scrittore Roberto Piumini, Presidente di Giuria per le prime due edizioni del Premio Campiello Junior, vanno i più sentiti ringraziamenti di Pirelli, della Fondazione Pirelli e della Fondazione Campiello.

Come componenti della Giuria vengono confermati: Chiara Lagani, attrice e drammaturga; Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani; David Tolin, libraio e membro del direttivo di ALIR.

La Fondazione Campiello, Pirelli e la Fondazione Pirelli ringraziano il Prof. Martino Negri per il contributo portato in Giuria in questi anni.

Anche quest’anno Il Premio è composto da due distinte sezioni: la categoria 7-10 anni, rivolta a lettori delle scuole primarie classe III, IV, V e la categoria 11-14 anni rivolta invece a lettori della scuola secondaria di primo grado classe I, II, III. Saranno proprio i giovani lettori provenienti da tutta Italia ma anche dall’estero i veri protagonisti della Giuria dei Lettori, chiamata a scegliere i vincitori che verranno proclamati il 22 marzo 2024.

Per i ragazzi che faranno parte della Giuria e per tutti i giovani appassionati di lettura, Fondazione Pirelli organizzerà dei laboratori didattici incentrati sulla lettura e sui libri.

Per rimanere aggiornati sulle iniziative del Premio Campiello Junior potete trovare maggiori informazioni sui siti: www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Imparare a lavorare insieme

Una tesi discussa all’Università di Padova, sintetizza i temi del Lifelong Learning e Teambuilding

 

Imprese fatte da donne e uomini che ogni giorno cooperano per un obiettivo, attenti all’efficienza ma anche al territorio e all’umanità. In fin dei conti è questo il vero “succo” della buona cultura d’impresa che, in modi diversi, cerca di farsi strada nelle organizzazioni della produzione. Attenzione all’umanità dell’impresa (tanto da arrivare in molti casi a quell’umanesimo industriale che costituisce un traguardo per tutti).

E’ partendo da questi temi che ha lavorato Eleonora Francesconi con la sua tesi discussa presso la Scuola di psicologia dell’Università di Padova.

“Lifelong Learning e Teambuilding: analisi storica e metodologie formative” è una buona sintesi di uno degli aspetti fondamentali del fare bene impresa: la formazione delle persone.

Scrive Francesconi: “Intendere le risorse umane come capitale umano di un’azienda inteso proprio come ricchezza porta a investire in esso per un miglior rendimento sia professionale che personale”. Tutto senza concedere nulla al paternalismo inutile. L’attenzione alle risorse umane, quindi, viene raccontata e analizzata partendo dalla constatazione che questa funzione aziendale è “un vero e proprio strumento di politica del lavoro il cui obiettivo è agevolare l’occupazione e l’organizzazione del lavoro al passo con lo sviluppo scientifico e tecnologico”. Formazione, in altri termini, per essere più efficienti e produttivi, oltre che per crescere dal punto di vista umano e professionale.

Il lavoro di Francesconi ripercorre così il tema iniziando da una analisi storico-sociale per arrivare velocemente alla messa a punto degli strumenti e delle metodologie di formazione. Successivamente la tesi pone attenzione agli aspetti di “costruzione del gruppo” che devono seguire quelli formativi.

La ricerca di Eleonora Francesconi non è poi solo teorica, ma contiene anche tre casi studio raccontati da altrettanti responsabili e consulenti nella gestione delle risorse umane aziendali.

La tesi di Eleonora Francesconi non aggiunge nulla di nuovo all’argomento della buona formazione e gestione delle persone che lavorano in un’impresa, ma ha il merito di sintetizzare un tema complesso e variegato e di essere così una buona “guida” per capire meglio.

Lifelong Learning e Teambuilding: analisi storica e metodologie formative

Eleonora Francesconi

Tesi, Università degli studi di Padova, Scuola di psicologia, Corso di Laurea in Scienze Psicologiche Sociali e del Lavoro, 2023

 

Una tesi discussa all’Università di Padova, sintetizza i temi del Lifelong Learning e Teambuilding

 

Imprese fatte da donne e uomini che ogni giorno cooperano per un obiettivo, attenti all’efficienza ma anche al territorio e all’umanità. In fin dei conti è questo il vero “succo” della buona cultura d’impresa che, in modi diversi, cerca di farsi strada nelle organizzazioni della produzione. Attenzione all’umanità dell’impresa (tanto da arrivare in molti casi a quell’umanesimo industriale che costituisce un traguardo per tutti).

E’ partendo da questi temi che ha lavorato Eleonora Francesconi con la sua tesi discussa presso la Scuola di psicologia dell’Università di Padova.

“Lifelong Learning e Teambuilding: analisi storica e metodologie formative” è una buona sintesi di uno degli aspetti fondamentali del fare bene impresa: la formazione delle persone.

Scrive Francesconi: “Intendere le risorse umane come capitale umano di un’azienda inteso proprio come ricchezza porta a investire in esso per un miglior rendimento sia professionale che personale”. Tutto senza concedere nulla al paternalismo inutile. L’attenzione alle risorse umane, quindi, viene raccontata e analizzata partendo dalla constatazione che questa funzione aziendale è “un vero e proprio strumento di politica del lavoro il cui obiettivo è agevolare l’occupazione e l’organizzazione del lavoro al passo con lo sviluppo scientifico e tecnologico”. Formazione, in altri termini, per essere più efficienti e produttivi, oltre che per crescere dal punto di vista umano e professionale.

Il lavoro di Francesconi ripercorre così il tema iniziando da una analisi storico-sociale per arrivare velocemente alla messa a punto degli strumenti e delle metodologie di formazione. Successivamente la tesi pone attenzione agli aspetti di “costruzione del gruppo” che devono seguire quelli formativi.

La ricerca di Eleonora Francesconi non è poi solo teorica, ma contiene anche tre casi studio raccontati da altrettanti responsabili e consulenti nella gestione delle risorse umane aziendali.

La tesi di Eleonora Francesconi non aggiunge nulla di nuovo all’argomento della buona formazione e gestione delle persone che lavorano in un’impresa, ma ha il merito di sintetizzare un tema complesso e variegato e di essere così una buona “guida” per capire meglio.

Lifelong Learning e Teambuilding: analisi storica e metodologie formative

Eleonora Francesconi

Tesi, Università degli studi di Padova, Scuola di psicologia, Corso di Laurea in Scienze Psicologiche Sociali e del Lavoro, 2023

 

Comprendere e decidere

L’ultimo libro di Gianmario Verona analizza la complessità dell’oggi e fornisce un metodo per affrontarla

Persone consapevoli e attente, in grado di compredere e di scegliere la strada giusta. Dovrebbero essere così le donne e e gli uomini d’impresa, soprattutto oggi. Traguardo che deve essere accessibile per tutti, anche se in realtà lo è ancora per pochi. Eppure è di fronte ai momenti complessi e difficili come quello che stiamo vivendo che la capacità di osservare e poi decidere si trasforma nell’elemento vincente. Anche per le imprese.

Gianmario Verona – che insegna economia e gestione delle imprese alla Bocconi di Milano di cui è stato anche rettore -, è partito da questo nodo di temi  per scrivere il suo “Capaci di decidere. Prospettive e buone pratiche dai leader di oggi per i leader di domani”, libro appena pubblicato che cerca di rispondere (e ci riesce) ad una domanda: è ancora possibile essere capaci di decidere?

Tutto inizia dall’osservazione della realtà. Le variabili in gioco sono talmente tante che il loro intreccio diventa imprevedibile: che si tratti del contesto macro degli scenari economici e geopolitici o di quello micro, in cui imprese, istituzioni e professionisti si sono arricchiti di competenze e sensibilità inimmaginabili fino a pochi anni fa, la complessità è il tratto distintivo della nostra epoca. Il mondo del lavoro e della produzione richiede una prospettiva di governo completamente nuova.

L’autore cerca di rispondere a questa esigenza utilizzando due bagagli differenti di conoscenze: da un lato la sua esperienza di sei anni di rettorato dell’ateneo milanese (dal 2016 al 2022), dall’altro i contributi raccolti in una serie di cinquanta interviste ad altrettanti executive  che esprimono le loro considerazioni su cosa caratterizzi il processo decisionale di un manager o comunque di un policy maker moderno. Tutto viene raccontato secondo tre vettori principali: lo sviluppo degli strumenti digitali, la necessità di tenere conto della sostenibilità e il ruolo indispensabile del capitale umano.

Sullo sfondo del racconto, sono non solo la storia dalle Torri Gemelle alla pandemia e alla guerra in Ucraina, ma anche la constatazione che il tratto comune di tutto è, di fatto, la crescita della complessità che occorre comunque affrontare.

Il libro inizia con il racconto, a tratti drammatico, dell’informazione che arriva all’autore dello scatenarsi della pandemia di Covid-19 e passa poi per alcune tappe: l’analisi del tema “complessità e decisioni” e l’approfondimento dei tre vettori che condizionano l’azione. L’indicazione generale che arriva a chi legge è chiara: prima di cercare di risolvere i problemi occorre cercare di analizzarli a fondo e comprenderli. La compolessità, dice in altri termini Verona, prima ancora che essere risolta deve essere compresa. Occorre saperla interpretare adeguatamente, spendere tempo per costruire opportunamente il contesto di riferimento e dedicare risorse a definire il perimetro di azione. Senza dimenticare l’importanza del lavorare insieme. Utilizzando anche le ultimissime tecnologie come l’Intelligenza Artificiale. Arricchisce il libro la raccolta di QR code che rimandano alle cinquanta executive chats tenute dall’autore con altrettanti CEO e manager di grandi imprese nazionali e internazionali, che condividono le loro idee sul futuro e sul governo delle imprese.

Capaci di decidere. Prospettive e buone pratiche dai leader di oggi per i leader di domani

Gianmario Verona

Egea

2023

L’ultimo libro di Gianmario Verona analizza la complessità dell’oggi e fornisce un metodo per affrontarla

Persone consapevoli e attente, in grado di compredere e di scegliere la strada giusta. Dovrebbero essere così le donne e e gli uomini d’impresa, soprattutto oggi. Traguardo che deve essere accessibile per tutti, anche se in realtà lo è ancora per pochi. Eppure è di fronte ai momenti complessi e difficili come quello che stiamo vivendo che la capacità di osservare e poi decidere si trasforma nell’elemento vincente. Anche per le imprese.

Gianmario Verona – che insegna economia e gestione delle imprese alla Bocconi di Milano di cui è stato anche rettore -, è partito da questo nodo di temi  per scrivere il suo “Capaci di decidere. Prospettive e buone pratiche dai leader di oggi per i leader di domani”, libro appena pubblicato che cerca di rispondere (e ci riesce) ad una domanda: è ancora possibile essere capaci di decidere?

Tutto inizia dall’osservazione della realtà. Le variabili in gioco sono talmente tante che il loro intreccio diventa imprevedibile: che si tratti del contesto macro degli scenari economici e geopolitici o di quello micro, in cui imprese, istituzioni e professionisti si sono arricchiti di competenze e sensibilità inimmaginabili fino a pochi anni fa, la complessità è il tratto distintivo della nostra epoca. Il mondo del lavoro e della produzione richiede una prospettiva di governo completamente nuova.

L’autore cerca di rispondere a questa esigenza utilizzando due bagagli differenti di conoscenze: da un lato la sua esperienza di sei anni di rettorato dell’ateneo milanese (dal 2016 al 2022), dall’altro i contributi raccolti in una serie di cinquanta interviste ad altrettanti executive  che esprimono le loro considerazioni su cosa caratterizzi il processo decisionale di un manager o comunque di un policy maker moderno. Tutto viene raccontato secondo tre vettori principali: lo sviluppo degli strumenti digitali, la necessità di tenere conto della sostenibilità e il ruolo indispensabile del capitale umano.

Sullo sfondo del racconto, sono non solo la storia dalle Torri Gemelle alla pandemia e alla guerra in Ucraina, ma anche la constatazione che il tratto comune di tutto è, di fatto, la crescita della complessità che occorre comunque affrontare.

Il libro inizia con il racconto, a tratti drammatico, dell’informazione che arriva all’autore dello scatenarsi della pandemia di Covid-19 e passa poi per alcune tappe: l’analisi del tema “complessità e decisioni” e l’approfondimento dei tre vettori che condizionano l’azione. L’indicazione generale che arriva a chi legge è chiara: prima di cercare di risolvere i problemi occorre cercare di analizzarli a fondo e comprenderli. La compolessità, dice in altri termini Verona, prima ancora che essere risolta deve essere compresa. Occorre saperla interpretare adeguatamente, spendere tempo per costruire opportunamente il contesto di riferimento e dedicare risorse a definire il perimetro di azione. Senza dimenticare l’importanza del lavorare insieme. Utilizzando anche le ultimissime tecnologie come l’Intelligenza Artificiale. Arricchisce il libro la raccolta di QR code che rimandano alle cinquanta executive chats tenute dall’autore con altrettanti CEO e manager di grandi imprese nazionali e internazionali, che condividono le loro idee sul futuro e sul governo delle imprese.

Capaci di decidere. Prospettive e buone pratiche dai leader di oggi per i leader di domani

Gianmario Verona

Egea

2023

Auto Stellantis e “fabbrica delle idee” per rilanciare lo sviluppo del Nord Ovest

La fabbrica delle idee”, è l’affascinante definizione che Renzo Piano dà al grande spazio, nel cuore del Porto di Genova che sta progettando: un palazzo di vetro a tre piani, proprio nel Waterfront di Levante, destinato a ospitare centri di ricerca e start up innovative, in collaborazione con la Columbia University, il Politecnico di Milano, la Normale di Pisa e le università di Parigi e Genova. “Anche un’idea può essere fabbricata. Ecco perché serve un vivaio per fare germogliare nuove attività imprenditoriali”, insiste Piano. E guarda alle relazioni intellettuali ed economiche che si intrecciano nell’area del Nord Ovest, secondo un’idea forte di sviluppo sostenibile tra l’Europa e il Mediterraneo.

Piano ha molto lavorato in questo territorio. I progetti di rifacimento del porto di Genova (città in cui ha ancora uno dei suoi studi principali). La “spina” dello stabilimento industriale Pirelli a Settimo Torinese, la “fabbrica bella”, luminosa e trasparente tra gli alberi di ciliegio. Il grattacielo di Intesa San Paolo a Porta Susa a Torino. L’ex palazzo de “Il Sole24Ore” e i nuovi padiglioni del Politecnico a Milano. E sa bene, per esperienza progettuale e riflessione civile, come i territori produttivi possano avere orizzonti di migliore crescita, nel segno della sostenibilità ambientale e sociale, nella cornice di una Ue più equilibrata e, contemporaneamente, competitiva.

Il progetto di Piano, dunque, può dare nuovi stimoli a una riflessione più ampia che matura da qualche tempo negli ambienti imprenditoriali di Torino, Milano e Genova, ai vertici delle tre organizzazioni territoriali di Confindustria e in dialogo con i sindaci delle città, le fondazioni bancarie e le istituzioni universitarie. Con l’obiettivo di unire le forze per una strategia che rilanci la produttività e la competitività di quello che è stato il motore principale del boom economico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta.

Il “triangolo industriale”, si diceva un tempo. “MiToGeNo”, si dice adesso in sigla, giocando sul significato dell’origine greca, míto e cioè “filo” e genein, “generare”: insistere sui fattori di crescita, stimolare le cellule dello sviluppo e dunque documentando, sulla base di uno studio di Prometeia, i vantaggi di una iniziativa comune.

Quei territori, infatti, valgono quasi il 20% del Pil italiano e il 60% di tutta la ricchezza prodotta dal Nord Ovest, grazie all’attività di 730mila imprese, che danno lavoro a 3,5 milioni di persone. Cardine è l’industria manifatturiera, che pesa oltre 213 miliardi ed è strettamente intrecciata alla logistica collegata al porto di Genova. E altri 170 miliardi sono il fatturato della cosiddetta “economia della conoscenza” e della “economia della salute”, pilastri essenziali di crescita economica e sociale.

A rafforzare quel cardine manifatturiero è arrivata, a metà luglio, una notizia di grande rilievo: l’impegno preso dall’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, con il governo per arrivare a produrre in Italia 1 milione di automobili, invertendo l’attuale declino produttivo e raddoppiando la produzione. Un impegno che “richiede una corsa senza precedenti”, come titola “Il Sole24Ore” (16 luglio) e che comunque rilancia tutto il settore dell’automotive, a cominciare da Torino e dal Piemonte e coinvolgendo anche gli altri territori della filiera, dalla Lombardia alla Motor Valley emiliana e ai fornitori del Nord Est ma anche di aree specializzate del Mezzogiorno.

Chi guarda la mappa degli intrecci tra filiere manifatturiere (oltre all’automotive, l’aerospazio, la meccatronica, la robotica, la chimica e le “tre I” del made in Italy tra agro-alimentare, arredamento e abbigliamento), servizi high tech, relazioni finanziarie che si sviluppano attorno alle tre grandi banche (Intesa, UniCredit e Bpm), strutture della “economia della conoscenza” tra ricerca e formazione, reti delle life sciences e infrastrutture materiali e immateriali, nota infatti un sistema tra i più competitivi in Europa, fortemente correlato con tutte le altre aree produttive della “mega-regione A1/A4”, per usare la sintesi delle grandi autostrade.

Proprio la nuova stagione dell’industria automobilistica secondo gli impegni di Stellantis ma anche secondo l’attenzione degli altri grandi costruttori tedeschi e francesi a favorire il re-shoring in un’Europa considerata come grande piattaforma produttiva, rilancia la centralità del Nord Ovest per la ripresa industriale italiana, tra innovazione tecnologica sofisticata e produttività. Sono infatti le medie e grandi imprese, di cui questo territorio è ricco, le più pronte a seguire le indicazioni della twin transition ambientale e digitale e a utilizzare al meglio le opportunità offerte dall’Intelligenza Artificiale, coinvolgendo le filiere di cui sono a capo e dunque trascinando lungo la strada della qualità le piccole imprese della sub-fornitura.

Per andare speditamente lungo questa strada, servono robusti investimenti sia in innovazione (è il mestiere delle imprese, da stimolare con misure fiscali opportune, come quelle che hanno agevolato la transizione di Industria 4.0) sia, naturalmente, in infrastrutture. E il Pnrr ne è lo strumento essenziale.

L’Assolombarda, l’Unione Industriali di Torino e la Confindustria Genova, sulla base delle indagini di Prometeia, hanno calcolato che l’impatto del Pnrr sui territori, che oggi vale 28,6 miliardi solo per le imprese, potrebbe arrivare a 36,7 miliardi, considerando le potenziali sinergie. E anche il rapporto tra pubblico e privato, tra imprese, amministrazioni locali, università, strutture di ricerca e Fondazioni potrebbe portare a un più efficace investimento delle risorse disponibili.

Che infrastrutture? Il rafforzamento della logistica legata al porto di Genova, migliorando le connessioni con le aree industriali liguri, piemontesi e lombarde. Il Terzo Valico ferroviario, potenziando il resto della rete verso il Corridoio Europeo V. L’Alta Velocità tra Torino e Lione. Il tunnel autostradale in Val di Susa. E così via continuando. I sindaci Beppe Sala a Milano, Stefano Lorusso a Torino e Marco Bucci a Genova, nel dialogo con gli imprenditori, hanno dichiarato d’essere pronti a fare la loro parte, verso il governo italiano e verso la Commissione Ue a Bruxelles. E dell’importanza strategica di questo Progetto Nord Ovest sono consapevoli anche i tre assessori regionali Guido Guidesi per la Lombardia, Andrea Benvenuti per la Liguria e Andrea Tronzano per il Piemonte (“Via al patto per il triangolo industriale 2.0”, ha titolato “la Repubblica”, 18 luglio).

Alla base di tutto c’è una “cultura politecnica” che ha robuste radici nella storia economica e industriale e prospettive di solido futuro. Una cultura d’impresa che lega manifattura, finanza, servizi, in una serie di eccellenze formative di respiro globale e in una diffusa sensibilità per la sostenibilità. Tutte dimensioni fondate su un solido intreccio di valori che creano valore economico e sociale. Una leva fondamentale di lavoro, innovazione e, appunto, sviluppo. Da usare con maggiore efficacia.

(Photo by Stefano Guidi/Getty Images)

La fabbrica delle idee”, è l’affascinante definizione che Renzo Piano dà al grande spazio, nel cuore del Porto di Genova che sta progettando: un palazzo di vetro a tre piani, proprio nel Waterfront di Levante, destinato a ospitare centri di ricerca e start up innovative, in collaborazione con la Columbia University, il Politecnico di Milano, la Normale di Pisa e le università di Parigi e Genova. “Anche un’idea può essere fabbricata. Ecco perché serve un vivaio per fare germogliare nuove attività imprenditoriali”, insiste Piano. E guarda alle relazioni intellettuali ed economiche che si intrecciano nell’area del Nord Ovest, secondo un’idea forte di sviluppo sostenibile tra l’Europa e il Mediterraneo.

Piano ha molto lavorato in questo territorio. I progetti di rifacimento del porto di Genova (città in cui ha ancora uno dei suoi studi principali). La “spina” dello stabilimento industriale Pirelli a Settimo Torinese, la “fabbrica bella”, luminosa e trasparente tra gli alberi di ciliegio. Il grattacielo di Intesa San Paolo a Porta Susa a Torino. L’ex palazzo de “Il Sole24Ore” e i nuovi padiglioni del Politecnico a Milano. E sa bene, per esperienza progettuale e riflessione civile, come i territori produttivi possano avere orizzonti di migliore crescita, nel segno della sostenibilità ambientale e sociale, nella cornice di una Ue più equilibrata e, contemporaneamente, competitiva.

Il progetto di Piano, dunque, può dare nuovi stimoli a una riflessione più ampia che matura da qualche tempo negli ambienti imprenditoriali di Torino, Milano e Genova, ai vertici delle tre organizzazioni territoriali di Confindustria e in dialogo con i sindaci delle città, le fondazioni bancarie e le istituzioni universitarie. Con l’obiettivo di unire le forze per una strategia che rilanci la produttività e la competitività di quello che è stato il motore principale del boom economico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta.

Il “triangolo industriale”, si diceva un tempo. “MiToGeNo”, si dice adesso in sigla, giocando sul significato dell’origine greca, míto e cioè “filo” e genein, “generare”: insistere sui fattori di crescita, stimolare le cellule dello sviluppo e dunque documentando, sulla base di uno studio di Prometeia, i vantaggi di una iniziativa comune.

Quei territori, infatti, valgono quasi il 20% del Pil italiano e il 60% di tutta la ricchezza prodotta dal Nord Ovest, grazie all’attività di 730mila imprese, che danno lavoro a 3,5 milioni di persone. Cardine è l’industria manifatturiera, che pesa oltre 213 miliardi ed è strettamente intrecciata alla logistica collegata al porto di Genova. E altri 170 miliardi sono il fatturato della cosiddetta “economia della conoscenza” e della “economia della salute”, pilastri essenziali di crescita economica e sociale.

A rafforzare quel cardine manifatturiero è arrivata, a metà luglio, una notizia di grande rilievo: l’impegno preso dall’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, con il governo per arrivare a produrre in Italia 1 milione di automobili, invertendo l’attuale declino produttivo e raddoppiando la produzione. Un impegno che “richiede una corsa senza precedenti”, come titola “Il Sole24Ore” (16 luglio) e che comunque rilancia tutto il settore dell’automotive, a cominciare da Torino e dal Piemonte e coinvolgendo anche gli altri territori della filiera, dalla Lombardia alla Motor Valley emiliana e ai fornitori del Nord Est ma anche di aree specializzate del Mezzogiorno.

Chi guarda la mappa degli intrecci tra filiere manifatturiere (oltre all’automotive, l’aerospazio, la meccatronica, la robotica, la chimica e le “tre I” del made in Italy tra agro-alimentare, arredamento e abbigliamento), servizi high tech, relazioni finanziarie che si sviluppano attorno alle tre grandi banche (Intesa, UniCredit e Bpm), strutture della “economia della conoscenza” tra ricerca e formazione, reti delle life sciences e infrastrutture materiali e immateriali, nota infatti un sistema tra i più competitivi in Europa, fortemente correlato con tutte le altre aree produttive della “mega-regione A1/A4”, per usare la sintesi delle grandi autostrade.

Proprio la nuova stagione dell’industria automobilistica secondo gli impegni di Stellantis ma anche secondo l’attenzione degli altri grandi costruttori tedeschi e francesi a favorire il re-shoring in un’Europa considerata come grande piattaforma produttiva, rilancia la centralità del Nord Ovest per la ripresa industriale italiana, tra innovazione tecnologica sofisticata e produttività. Sono infatti le medie e grandi imprese, di cui questo territorio è ricco, le più pronte a seguire le indicazioni della twin transition ambientale e digitale e a utilizzare al meglio le opportunità offerte dall’Intelligenza Artificiale, coinvolgendo le filiere di cui sono a capo e dunque trascinando lungo la strada della qualità le piccole imprese della sub-fornitura.

Per andare speditamente lungo questa strada, servono robusti investimenti sia in innovazione (è il mestiere delle imprese, da stimolare con misure fiscali opportune, come quelle che hanno agevolato la transizione di Industria 4.0) sia, naturalmente, in infrastrutture. E il Pnrr ne è lo strumento essenziale.

L’Assolombarda, l’Unione Industriali di Torino e la Confindustria Genova, sulla base delle indagini di Prometeia, hanno calcolato che l’impatto del Pnrr sui territori, che oggi vale 28,6 miliardi solo per le imprese, potrebbe arrivare a 36,7 miliardi, considerando le potenziali sinergie. E anche il rapporto tra pubblico e privato, tra imprese, amministrazioni locali, università, strutture di ricerca e Fondazioni potrebbe portare a un più efficace investimento delle risorse disponibili.

Che infrastrutture? Il rafforzamento della logistica legata al porto di Genova, migliorando le connessioni con le aree industriali liguri, piemontesi e lombarde. Il Terzo Valico ferroviario, potenziando il resto della rete verso il Corridoio Europeo V. L’Alta Velocità tra Torino e Lione. Il tunnel autostradale in Val di Susa. E così via continuando. I sindaci Beppe Sala a Milano, Stefano Lorusso a Torino e Marco Bucci a Genova, nel dialogo con gli imprenditori, hanno dichiarato d’essere pronti a fare la loro parte, verso il governo italiano e verso la Commissione Ue a Bruxelles. E dell’importanza strategica di questo Progetto Nord Ovest sono consapevoli anche i tre assessori regionali Guido Guidesi per la Lombardia, Andrea Benvenuti per la Liguria e Andrea Tronzano per il Piemonte (“Via al patto per il triangolo industriale 2.0”, ha titolato “la Repubblica”, 18 luglio).

Alla base di tutto c’è una “cultura politecnica” che ha robuste radici nella storia economica e industriale e prospettive di solido futuro. Una cultura d’impresa che lega manifattura, finanza, servizi, in una serie di eccellenze formative di respiro globale e in una diffusa sensibilità per la sostenibilità. Tutte dimensioni fondate su un solido intreccio di valori che creano valore economico e sociale. Una leva fondamentale di lavoro, innovazione e, appunto, sviluppo. Da usare con maggiore efficacia.

(Photo by Stefano Guidi/Getty Images)

Raccontare l’industria e il lavoro

Uno studio appena pubblicato ripercorre le analisi degli ultimi 40 anni su fabbriche e lavoratori

Tornare alla storia del lavoro e delle imprese per capire meglio l’ambito in cui ci si muove adesso e gettare buoni semi per il futuro. Indicazione non nuova, quella di recuperare la conoscenza di ciò che è accaduto per comprendere meglio il presente, indicazione però sempre valida, soprattutto in un periodo di complessità crescente come quello attuale. Servono, come sempre, guide in grado di fare sintesi. E’ ciò che ha provato a fare Pietro Causarano con il suo “Da un secolo all’altro: leggere il lavoro industriale” intervento contenuto in una raccolta di scritti sul lavoro pubblicata recentemente.

Quella di Causarano è una sintesi  dei principali studi che hanno cercato di interpretare e spiegare il lavoro industriale negli ultimi 40 anni circa. Un periodo, occorre notare, da un lato vicino a quello attuale ma, dall’altro, notevolmente distante nei suoi inizi. Anni, gli ultimi due decenni del XX° secolo in cui i vecchi modelli industriali perdevano sempre più pezzi e altri, ancora indefiniti, si facevano avanti tra crisi di mercato, internazionali e locali.

L’autore, quindi, ripercorre il periodo sulla base di alcuni studi dei quali vengono ricordati e tratti fondamentali e i collegamenti con il dibattito in corso allora. Ne emerge il racconto di un’evoluzione di interpretazioni e di approfondimenti delle vicende industriali e del lavoro in Italia che delinea anche un cambio di cultura d’impresa. Il passaggio dal fordismo e dal taylorismo che Causarano ripercorre, è anche il cammino (non sempre facile) verso un’idea diversa di fare industria e di relazioni industriali che sta prendendo forma compiuta adesso e che sta conducendo verso modelli d’impresa più complessi ma probabilmente più aderenti alla realtà dell’oggi. Una cultura del produrre che si evolve con la società dalla quale prende forma.

Da un secolo all’altro: leggere il lavoro industriale

Pietro Causarano, in Fabrizio Loreto, Gilda Zazzara (a cura di) Fondato sul lavoro. Scritti per Stefano Musso, Università degli studi di Torino, Dipartimento di studi storici, 2022, 3-16

 

Uno studio appena pubblicato ripercorre le analisi degli ultimi 40 anni su fabbriche e lavoratori

Tornare alla storia del lavoro e delle imprese per capire meglio l’ambito in cui ci si muove adesso e gettare buoni semi per il futuro. Indicazione non nuova, quella di recuperare la conoscenza di ciò che è accaduto per comprendere meglio il presente, indicazione però sempre valida, soprattutto in un periodo di complessità crescente come quello attuale. Servono, come sempre, guide in grado di fare sintesi. E’ ciò che ha provato a fare Pietro Causarano con il suo “Da un secolo all’altro: leggere il lavoro industriale” intervento contenuto in una raccolta di scritti sul lavoro pubblicata recentemente.

Quella di Causarano è una sintesi  dei principali studi che hanno cercato di interpretare e spiegare il lavoro industriale negli ultimi 40 anni circa. Un periodo, occorre notare, da un lato vicino a quello attuale ma, dall’altro, notevolmente distante nei suoi inizi. Anni, gli ultimi due decenni del XX° secolo in cui i vecchi modelli industriali perdevano sempre più pezzi e altri, ancora indefiniti, si facevano avanti tra crisi di mercato, internazionali e locali.

L’autore, quindi, ripercorre il periodo sulla base di alcuni studi dei quali vengono ricordati e tratti fondamentali e i collegamenti con il dibattito in corso allora. Ne emerge il racconto di un’evoluzione di interpretazioni e di approfondimenti delle vicende industriali e del lavoro in Italia che delinea anche un cambio di cultura d’impresa. Il passaggio dal fordismo e dal taylorismo che Causarano ripercorre, è anche il cammino (non sempre facile) verso un’idea diversa di fare industria e di relazioni industriali che sta prendendo forma compiuta adesso e che sta conducendo verso modelli d’impresa più complessi ma probabilmente più aderenti alla realtà dell’oggi. Una cultura del produrre che si evolve con la società dalla quale prende forma.

Da un secolo all’altro: leggere il lavoro industriale

Pietro Causarano, in Fabrizio Loreto, Gilda Zazzara (a cura di) Fondato sul lavoro. Scritti per Stefano Musso, Università degli studi di Torino, Dipartimento di studi storici, 2022, 3-16

 

Una storia d’impresa

Attraverso le vicende di Giuliano Zuccoli la strada per comprendere meglio le vicende di un comparto cruciale per l’Italia

 

Comprendere il senso del fare impresa attraverso le storie di chi ha fatto impresa. Storie dense di umanità, di sogni, di progetti, di sconfitte e vittorie. Sempre storie, comunque. Racconti di ingegno messo a servizio per un fine (che non è solo quello del profitto a tutti i costi), racconti da conoscere. La buona cultura d’impresa si fa anche così.

E a questo serve leggere il libro che Biagio Longo ha dedicato a Giuliano Zuccoli, indiscusso protagonista dell’industria dell’energia per decenni. “Giuliano Zuccoli. L’energia che ci manca” appena pubblicato, dice tutto nel lungo sottotitolo: “Una vita per l’autonomia energetica del Paese dalla Falck a Sondel, dalla Aem alla Edison e A2A”. Libro la cui pubblicazione cade in un periodo particolare per l’energia, ma che non deve essere letto solo per questo motivo. Perché Zuccoli è stato un imprenditore visionario  che da una centrale idroelettrica nel valtellinese arrivò a fondare quello che oggi è il secondo polo energetico e ambientale del paese: a2a.

Longo – ed è cosa importante -, non ha però scritto un saggio di economia industriale oppure dell’energia, ha scritto la narrazione di una vita. Chi legge, quindi, è condotto per la strada che porta un giovane ingegnere valtellinese passo dopo passo da una diga nella sua valle ai vertici nazionali e internazionali di un comparto delicato e strategico. Racconto di vita, quindi, ma non solo perché l’autore riesce ad affiancare sempre alle vicende personali di Zuccoli quelle del contesto nel quale il protagonista si muove.

E’ anche in questo modo, poi, che si capisce la portata del lavoro condotto da Zuccoli, soprattutto oggi di fronte alla crisi energetica ed ecologica mondiale, aggravata dalla guerra in Ucraina: una situazione che dà alle azioni e alle parole dell’ingegnere valtellinese il valore di vere e proprie profezie.

Racconto che diventa saggio, il libro mette anche a disposizione del lettore la raccolta completa di numerosi documenti tra cui lo strumento principale con cui Zuccoli comunicava, tappa dopo tappa, l’incedere del suo progetto industriale: quella “Lettera agli Azionisti” per l’approvazione del Bilancio tra le cui righe si può cogliere, anno dopo anno (dal 1996 al 2011), un’architettura industriale unica, finalizzata a stimolare e realizzare l’autonomia energetica del nostro Paese. Da leggere con attenzione il libro di Biagio Longo.

Giuliano Zuccoli. L’energia che ci manca

Biagio Longo

Guerini e associati, 2023

Attraverso le vicende di Giuliano Zuccoli la strada per comprendere meglio le vicende di un comparto cruciale per l’Italia

 

Comprendere il senso del fare impresa attraverso le storie di chi ha fatto impresa. Storie dense di umanità, di sogni, di progetti, di sconfitte e vittorie. Sempre storie, comunque. Racconti di ingegno messo a servizio per un fine (che non è solo quello del profitto a tutti i costi), racconti da conoscere. La buona cultura d’impresa si fa anche così.

E a questo serve leggere il libro che Biagio Longo ha dedicato a Giuliano Zuccoli, indiscusso protagonista dell’industria dell’energia per decenni. “Giuliano Zuccoli. L’energia che ci manca” appena pubblicato, dice tutto nel lungo sottotitolo: “Una vita per l’autonomia energetica del Paese dalla Falck a Sondel, dalla Aem alla Edison e A2A”. Libro la cui pubblicazione cade in un periodo particolare per l’energia, ma che non deve essere letto solo per questo motivo. Perché Zuccoli è stato un imprenditore visionario  che da una centrale idroelettrica nel valtellinese arrivò a fondare quello che oggi è il secondo polo energetico e ambientale del paese: a2a.

Longo – ed è cosa importante -, non ha però scritto un saggio di economia industriale oppure dell’energia, ha scritto la narrazione di una vita. Chi legge, quindi, è condotto per la strada che porta un giovane ingegnere valtellinese passo dopo passo da una diga nella sua valle ai vertici nazionali e internazionali di un comparto delicato e strategico. Racconto di vita, quindi, ma non solo perché l’autore riesce ad affiancare sempre alle vicende personali di Zuccoli quelle del contesto nel quale il protagonista si muove.

E’ anche in questo modo, poi, che si capisce la portata del lavoro condotto da Zuccoli, soprattutto oggi di fronte alla crisi energetica ed ecologica mondiale, aggravata dalla guerra in Ucraina: una situazione che dà alle azioni e alle parole dell’ingegnere valtellinese il valore di vere e proprie profezie.

Racconto che diventa saggio, il libro mette anche a disposizione del lettore la raccolta completa di numerosi documenti tra cui lo strumento principale con cui Zuccoli comunicava, tappa dopo tappa, l’incedere del suo progetto industriale: quella “Lettera agli Azionisti” per l’approvazione del Bilancio tra le cui righe si può cogliere, anno dopo anno (dal 1996 al 2011), un’architettura industriale unica, finalizzata a stimolare e realizzare l’autonomia energetica del nostro Paese. Da leggere con attenzione il libro di Biagio Longo.

Giuliano Zuccoli. L’energia che ci manca

Biagio Longo

Guerini e associati, 2023

Filosofi-scienziati per le aziende e l’economia digitale: un nuovo corso nelle università di Bergamo e Pavia

Eccoli, i filosofi pronti a entrare in azienda. E ad affrontare le questioni dell’economia, dell’innovazione, della produttività e, insieme, della sostenibilità ambientale e sociale, delle evoluzioni tecnologiche e della qualità della vita e del lavoro. Lavorando con gli ingegneri e i matematici, i manager della finanza e i cybertecnici, per usare al meglio tutti gli strumenti delle conoscenze politecniche della digital economy. “Philosophical knowledge: foundations, methods, applications”, si intitola il corso di laurea magistrale lanciato nelle scorse settimane dalle università di Bergamo e di Pavia, in collaborazione con lo Iuss (Istituto universitario di studi superiori pavese), il primo in Italia tutto in lingua inglese, coordinato dal professor Andrea Bottani, per fare dialogare tra loro materie umanistiche e aree di formazione scientifica e tecnologica e aprire il mercato a professionisti in grado di fare fronte alle questioni poste dall’evoluzione della “economia della conoscenza” (Corriere della Sera, 12 luglio).
“Stiamo assistendo a una sempre maggiore complessità dei fenomeni. E questo nostro nuovo corso rappresenta l’occasione per mettere a fattor comune anime disciplinari differenti e formare persone in grado di rispondere alle nuove sfide che dovremo affrontare”, sostiene Sergio Cavalieri, Rettore dell’università di Bergamo. “Vogliamo creare un legame strutturale tra il pensiero filosofico e la sua applicazione alle sfide tecnologiche, economiche e sociali”, chiarisce Francesco Svelvo, Rettore a Pavia.

La scelta didattica supera la tradizionale contrapposizione tra “le due culture”, quella umanistica e quella scientifica, che ha segnato parecchie discussioni durante il Novecento (con una grave sottovalutazione, proprio in Italia, dell’importanza e dei valori della cultura scientifica: una condizione che ancora dura, con conseguenze negative anche sul discorso pubblico e la competitività del sistema Paese). E indica una direzione corretta lungo cui fare crescere i percorsi formativi e le evoluzioni del mercato del lavoro.
Un’idea ampia e dinamica della filosofia e della conoscenza, insomma. Vengono in mente le parole dell’”Amleto” di William Shakespeare: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Il mondo ampio della scienza, appunto. E quello dell’economia, dell’ambiente, dei nuovi lavori e dei progressi high tech.
Cosa si studierà, dunque, nel nuovo corso di “Philosophica knowledge” di Bergamo e Pavia? Metafisica, ontologia, epistemologia, etica, filosofia della scienza, della matematica, della logica e della mente ma anche robotica, Intelligenza Artificiale, neuroscienze, economia, gestione aziendale. E accanto agli insegnamenti dei docenti dei due atenei, ci saranno quelli degli invited professors dalle università di Cambridge, Friburgo, Zurigo e dalla Columbia di New York: “Dimensione europea, target internazionale”, commenta il coordinatore del corso Bottani. Con una collaborazione intensa – ecco un altro punto qualificante – con le imprese, grazie al dialogo con Confindustria Bergamo e a una serie di laboratori didattici legati al mondo del lavoro.

Da tempo, anche in Italia, in strutture formativa d’avanguardia per la didattica e la ricerca, come i Politecnici di Milano e di Torino, la filosofia e altre discipline umanistiche sono ben integrate nei corsi di studi, all’insegna di un’efficace multidisciplinarietà. E nello stesso segno si muovono le scelte didattiche dell’Università Humanitas milanese per formare medici-ingegneri, dando risposte alle esigenze di una sempre maggiore e migliore integrazione dei saperi.
C’è, infatti, una dimensione italiana, molto originale, di affrontare la questione della qualità delle discipline Stem (l’acronimo che indica le lauree in science, technology, engineering e mathematics): parlare di Steam, aggiungendo a quelle specializzazioni la a di arts, le conoscenze umanistiche. Un’indicazione su cui, per esempio, già una decine di anni fa, si era impegnata l’Assolombarda, all’epoca presieduta da Gianfelice Rocca e che ha continuato a ispirare il dibattito sulla qualità della formazione applicata al mondo delle imprese e all’evoluzione dell’economia e delle tecnologie.
La questione è di strettissima attualità. Chi organizza, guida, definisce la governance dei processi legati agli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale? Chi ne gestisce la complessità per continuare a garantire il primato della persona umana? Chi ne scrive e ne aggiorna gli algoritmi (ne abbiamo parlato nel blog del 27 giugno)? Non solo gli ingegneri e i matematici, ma anche i filosofi, i cyberscienziati, i neuropsichiatri, gli economisti, i sociologi, i giuristi e i letterati.
Competenze e conoscenze diverse, punti di vista da rendere sempre più fertili di futuro proprio grazie agli incroci e alle collaborazioni. Perché un algoritmo deve tenere conto di significati molteplici, questioni di senso, temi etici e sociali, regole e intrecci tra diritti e doveri. Intelligenza artificiale in mani umane. Con la consapevolezza umanissima del senso del limite. E l’ambizione di voler andare avanti, per “rendere chiara la notte della scienza”, parafrasando le parole della “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Adesso, quella “notte chiara” si intravvede anche da Bergamo e Pavia.

(foto Getty Images)

Eccoli, i filosofi pronti a entrare in azienda. E ad affrontare le questioni dell’economia, dell’innovazione, della produttività e, insieme, della sostenibilità ambientale e sociale, delle evoluzioni tecnologiche e della qualità della vita e del lavoro. Lavorando con gli ingegneri e i matematici, i manager della finanza e i cybertecnici, per usare al meglio tutti gli strumenti delle conoscenze politecniche della digital economy. “Philosophical knowledge: foundations, methods, applications”, si intitola il corso di laurea magistrale lanciato nelle scorse settimane dalle università di Bergamo e di Pavia, in collaborazione con lo Iuss (Istituto universitario di studi superiori pavese), il primo in Italia tutto in lingua inglese, coordinato dal professor Andrea Bottani, per fare dialogare tra loro materie umanistiche e aree di formazione scientifica e tecnologica e aprire il mercato a professionisti in grado di fare fronte alle questioni poste dall’evoluzione della “economia della conoscenza” (Corriere della Sera, 12 luglio).
“Stiamo assistendo a una sempre maggiore complessità dei fenomeni. E questo nostro nuovo corso rappresenta l’occasione per mettere a fattor comune anime disciplinari differenti e formare persone in grado di rispondere alle nuove sfide che dovremo affrontare”, sostiene Sergio Cavalieri, Rettore dell’università di Bergamo. “Vogliamo creare un legame strutturale tra il pensiero filosofico e la sua applicazione alle sfide tecnologiche, economiche e sociali”, chiarisce Francesco Svelvo, Rettore a Pavia.

La scelta didattica supera la tradizionale contrapposizione tra “le due culture”, quella umanistica e quella scientifica, che ha segnato parecchie discussioni durante il Novecento (con una grave sottovalutazione, proprio in Italia, dell’importanza e dei valori della cultura scientifica: una condizione che ancora dura, con conseguenze negative anche sul discorso pubblico e la competitività del sistema Paese). E indica una direzione corretta lungo cui fare crescere i percorsi formativi e le evoluzioni del mercato del lavoro.
Un’idea ampia e dinamica della filosofia e della conoscenza, insomma. Vengono in mente le parole dell’”Amleto” di William Shakespeare: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Il mondo ampio della scienza, appunto. E quello dell’economia, dell’ambiente, dei nuovi lavori e dei progressi high tech.
Cosa si studierà, dunque, nel nuovo corso di “Philosophica knowledge” di Bergamo e Pavia? Metafisica, ontologia, epistemologia, etica, filosofia della scienza, della matematica, della logica e della mente ma anche robotica, Intelligenza Artificiale, neuroscienze, economia, gestione aziendale. E accanto agli insegnamenti dei docenti dei due atenei, ci saranno quelli degli invited professors dalle università di Cambridge, Friburgo, Zurigo e dalla Columbia di New York: “Dimensione europea, target internazionale”, commenta il coordinatore del corso Bottani. Con una collaborazione intensa – ecco un altro punto qualificante – con le imprese, grazie al dialogo con Confindustria Bergamo e a una serie di laboratori didattici legati al mondo del lavoro.

Da tempo, anche in Italia, in strutture formativa d’avanguardia per la didattica e la ricerca, come i Politecnici di Milano e di Torino, la filosofia e altre discipline umanistiche sono ben integrate nei corsi di studi, all’insegna di un’efficace multidisciplinarietà. E nello stesso segno si muovono le scelte didattiche dell’Università Humanitas milanese per formare medici-ingegneri, dando risposte alle esigenze di una sempre maggiore e migliore integrazione dei saperi.
C’è, infatti, una dimensione italiana, molto originale, di affrontare la questione della qualità delle discipline Stem (l’acronimo che indica le lauree in science, technology, engineering e mathematics): parlare di Steam, aggiungendo a quelle specializzazioni la a di arts, le conoscenze umanistiche. Un’indicazione su cui, per esempio, già una decine di anni fa, si era impegnata l’Assolombarda, all’epoca presieduta da Gianfelice Rocca e che ha continuato a ispirare il dibattito sulla qualità della formazione applicata al mondo delle imprese e all’evoluzione dell’economia e delle tecnologie.
La questione è di strettissima attualità. Chi organizza, guida, definisce la governance dei processi legati agli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale? Chi ne gestisce la complessità per continuare a garantire il primato della persona umana? Chi ne scrive e ne aggiorna gli algoritmi (ne abbiamo parlato nel blog del 27 giugno)? Non solo gli ingegneri e i matematici, ma anche i filosofi, i cyberscienziati, i neuropsichiatri, gli economisti, i sociologi, i giuristi e i letterati.
Competenze e conoscenze diverse, punti di vista da rendere sempre più fertili di futuro proprio grazie agli incroci e alle collaborazioni. Perché un algoritmo deve tenere conto di significati molteplici, questioni di senso, temi etici e sociali, regole e intrecci tra diritti e doveri. Intelligenza artificiale in mani umane. Con la consapevolezza umanissima del senso del limite. E l’ambizione di voler andare avanti, per “rendere chiara la notte della scienza”, parafrasando le parole della “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Adesso, quella “notte chiara” si intravvede anche da Bergamo e Pavia.

(foto Getty Images)

L’idea di lavoro ieri e oggi

Una tesi discussa all’università di Padova approfondisce le rappresentazioni sociali del lavorare

Il lavoro nella sua realtà quotidiana ma anche nelle sue rappresentazioni sociali. Ma anche l’idea di lavoro e la realtà nella quale quest’idea prende forma concreta e vissuta. Nucleo di ragionamenti non banali, quello della rappresentazione del lavoro nello spazio e nel tempo. Soprattutto per i legami che tale rappresentazione può avere nel processo di costruzione di nuove modalità di lavorare.

E’ attorno a questi temi che ragiona Sabrina Cameletti con la sua tesi discussa presso l’Università di Padova (corso di laurea in scienze psicologiche sociali e del lavoro). “Rappresentazioni sociali del lavoro ieri e oggi” è una sintetica analisi, prima teorica e poi basata su un caso studio, su come il lavoro e il lavorare siano stati “rappresentati” e quindi raccontati e vissuti socialmente.

L’indagine – pur nelle sue dimensioni contenute -, affronta prima il tema dal punto di vista sociale, psicologico e poi storico e filosofico, dandone una sintetica descrizione fino ad arrivare alla pandemia del 2020. Lo stesso tema viene quindi inquadrato dal punto di vista teorico per poi arrivare ad una ricerca “sul campo” (presso un piccolo nucleo di dipendenti di Autostrade per l’Italia) con lo scopo di far emergere la rappresentazione sociale dell’idea di lavoro e le caratteristiche del concetto di “lavorare bene” oggi e venti anni fa.

Indicatore di una cultura del produrre vista da una particolare posizione (quella del dipendente e non dell’imprenditore), quello della rappresentazione sociale del lavoro è un aspetto importante di cui tenere conto – spiega Cameletti -, in ogni processo che ha anche fare con il mercato del lavoro e con le relazioni tra imprese e manodopera. Il mutare negli anni dell’idea di “lavorare bene” è, d’altra parte, indicatore di un cambiamento sociale ed economico la cui comprensione è utile per capire meglio l’evoluzione generale dell’economia e della società. Sabrina Cameletti è riuscita a fornire una sintesi efficace di tutto questo.

Rappresentazioni sociali del lavoro ieri e oggi

Sabrina Cameletti

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA), Corso di Laurea in Scienze Psicologiche Sociali e del Lavoro, 2023

Una tesi discussa all’università di Padova approfondisce le rappresentazioni sociali del lavorare

Il lavoro nella sua realtà quotidiana ma anche nelle sue rappresentazioni sociali. Ma anche l’idea di lavoro e la realtà nella quale quest’idea prende forma concreta e vissuta. Nucleo di ragionamenti non banali, quello della rappresentazione del lavoro nello spazio e nel tempo. Soprattutto per i legami che tale rappresentazione può avere nel processo di costruzione di nuove modalità di lavorare.

E’ attorno a questi temi che ragiona Sabrina Cameletti con la sua tesi discussa presso l’Università di Padova (corso di laurea in scienze psicologiche sociali e del lavoro). “Rappresentazioni sociali del lavoro ieri e oggi” è una sintetica analisi, prima teorica e poi basata su un caso studio, su come il lavoro e il lavorare siano stati “rappresentati” e quindi raccontati e vissuti socialmente.

L’indagine – pur nelle sue dimensioni contenute -, affronta prima il tema dal punto di vista sociale, psicologico e poi storico e filosofico, dandone una sintetica descrizione fino ad arrivare alla pandemia del 2020. Lo stesso tema viene quindi inquadrato dal punto di vista teorico per poi arrivare ad una ricerca “sul campo” (presso un piccolo nucleo di dipendenti di Autostrade per l’Italia) con lo scopo di far emergere la rappresentazione sociale dell’idea di lavoro e le caratteristiche del concetto di “lavorare bene” oggi e venti anni fa.

Indicatore di una cultura del produrre vista da una particolare posizione (quella del dipendente e non dell’imprenditore), quello della rappresentazione sociale del lavoro è un aspetto importante di cui tenere conto – spiega Cameletti -, in ogni processo che ha anche fare con il mercato del lavoro e con le relazioni tra imprese e manodopera. Il mutare negli anni dell’idea di “lavorare bene” è, d’altra parte, indicatore di un cambiamento sociale ed economico la cui comprensione è utile per capire meglio l’evoluzione generale dell’economia e della società. Sabrina Cameletti è riuscita a fornire una sintesi efficace di tutto questo.

Rappresentazioni sociali del lavoro ieri e oggi

Sabrina Cameletti

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA), Corso di Laurea in Scienze Psicologiche Sociali e del Lavoro, 2023

I giovani lombardi vogliono fare gli imprenditori ma non avvertono il fascino della manifattura

Fare l’imprenditore. E’ proprio questo il desiderio che sta in cima ai pensieri della maggior parte dei giovani lombardi. O, anche, fare il professionista. Essere, insomma, protagonisti del proprio tempo e della propria vita. Altro che choosy (e cioè pretenziosi, in attesa che cada loro dal cielo il lavoro ideale) oppure bamboccioni, “sdraiati”, inclini alla subcultura del non lavoro. Siamo di fronte a un sorprendente ritratto delle aspettative personali e lavorative delle nuove generazioni. Su cui riflettere attentamente.

Il ritratto emerge da un’indagine condotta da Eumetra per l’Assolombarda, realizzata nel maggio scorso, intervistando 1.000 ragazzi e ragazze tra i 18 e i 26 anni residenti nelle province di Milano, Pavia, Monza e Brianza e Lodi, con un diploma di scuola secondaria in tasca e, nel 36% dei casi, una laurea. E i risultati sono stati presentati e discussi, una settimana fa, durante un convegno su “I giovani, il lavoro e la cultura d’impresa” durante le iniziative del programma di “Pavia capitale della cultura d’impresa”.

Cosa dicono esattamente quei dati? Il 29% degli intervistati si immagina un futuro da imprenditore (la percentuale sale al 35% tra i giovani laureati e al 41% tra i laureati che studiano e lavorano) e un altro 28% da libero professionista. Fatte le somme, il 57% vuole mettersi in proprio. E solo il 28% desidera “un lavoro da dipendente”. Il “posto fisso” tanto caro alle parodie del film di Checco Zalone, insomma, esercita scarso fascino, in Lombardia.

Ma “imprenditorie” o “professionista” per fare esattamente cosa? La “consulenza” è la prima preferenza (17%). Poi, l’ambito sanitario e sociale, il settore bancario, finanziario e assicurativo, il commercio, l’informatica, il turismo, le professioni creative, il mondo pubblico. In coda ci sono il settore manifatturiero e quello energetico e, ultimo, il “no profit”.

Ecco un punto chiave: la fabbrica, anche la neo-fabbrica digitale e sostenibile, attrae poco. Solo il 15% degli intervistati, infatti, indica la manifattura come “settore trainante dell’economia italiana”, attribuendo invece questo ruolo soprattutto al turismo (49% delle risposte). E proprio qui c’è un approfondimento da fare. Dati analoghi, infatti, erano emersi nel 2009 e poi nel 2010 da una indagine condotta da Ipsos, a livello nazionale, per il volume “Orgoglio industriale” (pubblicato da Mondadori) e poi per Assolombarda. E il fatto di ritrovarli confermati adesso, dopo gli anni della ripresa post Covid trainata dalla manifattura e in una zona (Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia) segnata da una forte presenza industriale e dei servizi ad alta tecnologia collegati rivela una vera e propria carenza di racconto affidabile da parte dei protagonisti del mondo dell’impresa verso le nuove generazioni e di permanenza di robuste diffidenze nei confronti dell’industria.

Sostiene l’indagine Assolombarda-Eumetra: “Più della metà del campione (54%) considera la manifattura  un sintomo di specializzazione e solo il 39% la collega all’innovazione. A conferma di tale percezione, il 53% degli intervistati pensa che le mansioni nell’industria manifatturiera richiedano una maggiore esperienza e competenza tecnica rispetto al passato, mentre solo il 35% ritiene che gli operai abbiano maggiori diritti e tutele rispetto agli ultimi anni e solo il 23% crede che l’ambiente in cui lavorano sia più sicuro e sano di allora”.

La percezione negativa della fabbrica, insomma, continua a pesare sulle nuove generazioni, nonostante il cammino fatto sul versante della sostenibilità ambientale e sociale, della qualità delle nuove architetture industriali (“la fabbrica bella” ben progettata, trasparente, luminosa, sicura) e delle radicali trasformazioni high tech.

C’è un dettaglio che fa comunque sperare: il 42% dei giovani laureati pensa che “l’industria manifatturiera offra buone opportunità per impieghi legati alla sostenibilità ambientale”. Un buon punto di riferimento positivo su cui fare leva.

Ancora un paio di dati, per capire meglio il contesto: il 55% degli intervistati cerca “flessibilità oraria”, il 49% vorrebbe “avere tempo libero per attività extra lavorative” e solo il 35% vorrebbe poter fare affidamento sullo smart working. Anche da qui emerge l’inclinazione a essere “padroni” del proprio tempo. E il valore dominante? Per l’81%, “la famiglia e gli affetti”. Prima, dunque, di successo e carriera.

Fin qui, i dati essenziali dell’indagine Assolombarda. Dati che suscitano alcune riflessioni conclusive, su cui varrebbe la pena approfondire il discorso pubblico sia del mondo politico (che misure mettere in campo, per l’orientamento delle nuove generazioni al lavoro e dunque come spendere bene le risorse pubbliche nazionali ed europee?) sia, soprattutto, delle organizzazioni di rappresentanza imprenditoriali e dei responsabili delle imprese.

I valori dell’intraprendenza e della libertà di scelta nella costruzione del proprio futuro emergono con grande evidenza, naturalmente condizionati positivamente dall’essere, i giovani in questione, cresciuti in ambienti (la Milano metropoli e le sue città collegate) in cui l’imprenditorialità, trasversale a molto settori, è un fattore socio-culturale quanto mai caratterizzante. Sarebbe interessante, dunque, verificare l’indagine anche in altre aree di impresa diffusa, tra Nord Ovest, Nord Est ed Emilia-Romagna e in aree in cui, come il Centro e il Mezzogiorno, l’impresa invece non è un attore forte e storicamente attrattivo.

La seconda riflessione riguarda l’idea di impresa industriale percepita dalle nuove generazioni, da rendere più gratificante e attraente, facendo risaltare, molto meglio di quanto ancora non succeda, la forza dei nuovi paradigmi produttivi ad alta tecnologia ed elevati livelli di qualità e sostenibilità (le affascinanti acciaierie green e le imprese chimiche e farmaceutiche la cui competitività è garantita dal massimo dell’attenzione all’ambiente e all’inclusione sociale).

C’è insomma da insistere sui valori del miglior made in Italy, senza cadere nell’illusione retorica del pittoresco e del “piccolo è bello”. E fare risaltare un mondo di straordinarie opportunità di lavoro e di sviluppo personale e professionale per ragazze e ragazzi intraprendenti, offerte da meccatronica, automotive, industria aerospaziale e nautica, imprese delle life sciences, arredamento, moda, agro-industria, etc.

In sintesi, costruire un “nuovo racconto della fabbrica”, usando tutti i media più efficaci e i linguaggi più adatti alle nuove generazioni, è una sfida ineludibile. Anche per dare concretezza e futuro a quel desiderio giovanile da cui siamo partiti: fare l’imprenditore.

Fare l’imprenditore. E’ proprio questo il desiderio che sta in cima ai pensieri della maggior parte dei giovani lombardi. O, anche, fare il professionista. Essere, insomma, protagonisti del proprio tempo e della propria vita. Altro che choosy (e cioè pretenziosi, in attesa che cada loro dal cielo il lavoro ideale) oppure bamboccioni, “sdraiati”, inclini alla subcultura del non lavoro. Siamo di fronte a un sorprendente ritratto delle aspettative personali e lavorative delle nuove generazioni. Su cui riflettere attentamente.

Il ritratto emerge da un’indagine condotta da Eumetra per l’Assolombarda, realizzata nel maggio scorso, intervistando 1.000 ragazzi e ragazze tra i 18 e i 26 anni residenti nelle province di Milano, Pavia, Monza e Brianza e Lodi, con un diploma di scuola secondaria in tasca e, nel 36% dei casi, una laurea. E i risultati sono stati presentati e discussi, una settimana fa, durante un convegno su “I giovani, il lavoro e la cultura d’impresa” durante le iniziative del programma di “Pavia capitale della cultura d’impresa”.

Cosa dicono esattamente quei dati? Il 29% degli intervistati si immagina un futuro da imprenditore (la percentuale sale al 35% tra i giovani laureati e al 41% tra i laureati che studiano e lavorano) e un altro 28% da libero professionista. Fatte le somme, il 57% vuole mettersi in proprio. E solo il 28% desidera “un lavoro da dipendente”. Il “posto fisso” tanto caro alle parodie del film di Checco Zalone, insomma, esercita scarso fascino, in Lombardia.

Ma “imprenditorie” o “professionista” per fare esattamente cosa? La “consulenza” è la prima preferenza (17%). Poi, l’ambito sanitario e sociale, il settore bancario, finanziario e assicurativo, il commercio, l’informatica, il turismo, le professioni creative, il mondo pubblico. In coda ci sono il settore manifatturiero e quello energetico e, ultimo, il “no profit”.

Ecco un punto chiave: la fabbrica, anche la neo-fabbrica digitale e sostenibile, attrae poco. Solo il 15% degli intervistati, infatti, indica la manifattura come “settore trainante dell’economia italiana”, attribuendo invece questo ruolo soprattutto al turismo (49% delle risposte). E proprio qui c’è un approfondimento da fare. Dati analoghi, infatti, erano emersi nel 2009 e poi nel 2010 da una indagine condotta da Ipsos, a livello nazionale, per il volume “Orgoglio industriale” (pubblicato da Mondadori) e poi per Assolombarda. E il fatto di ritrovarli confermati adesso, dopo gli anni della ripresa post Covid trainata dalla manifattura e in una zona (Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia) segnata da una forte presenza industriale e dei servizi ad alta tecnologia collegati rivela una vera e propria carenza di racconto affidabile da parte dei protagonisti del mondo dell’impresa verso le nuove generazioni e di permanenza di robuste diffidenze nei confronti dell’industria.

Sostiene l’indagine Assolombarda-Eumetra: “Più della metà del campione (54%) considera la manifattura  un sintomo di specializzazione e solo il 39% la collega all’innovazione. A conferma di tale percezione, il 53% degli intervistati pensa che le mansioni nell’industria manifatturiera richiedano una maggiore esperienza e competenza tecnica rispetto al passato, mentre solo il 35% ritiene che gli operai abbiano maggiori diritti e tutele rispetto agli ultimi anni e solo il 23% crede che l’ambiente in cui lavorano sia più sicuro e sano di allora”.

La percezione negativa della fabbrica, insomma, continua a pesare sulle nuove generazioni, nonostante il cammino fatto sul versante della sostenibilità ambientale e sociale, della qualità delle nuove architetture industriali (“la fabbrica bella” ben progettata, trasparente, luminosa, sicura) e delle radicali trasformazioni high tech.

C’è un dettaglio che fa comunque sperare: il 42% dei giovani laureati pensa che “l’industria manifatturiera offra buone opportunità per impieghi legati alla sostenibilità ambientale”. Un buon punto di riferimento positivo su cui fare leva.

Ancora un paio di dati, per capire meglio il contesto: il 55% degli intervistati cerca “flessibilità oraria”, il 49% vorrebbe “avere tempo libero per attività extra lavorative” e solo il 35% vorrebbe poter fare affidamento sullo smart working. Anche da qui emerge l’inclinazione a essere “padroni” del proprio tempo. E il valore dominante? Per l’81%, “la famiglia e gli affetti”. Prima, dunque, di successo e carriera.

Fin qui, i dati essenziali dell’indagine Assolombarda. Dati che suscitano alcune riflessioni conclusive, su cui varrebbe la pena approfondire il discorso pubblico sia del mondo politico (che misure mettere in campo, per l’orientamento delle nuove generazioni al lavoro e dunque come spendere bene le risorse pubbliche nazionali ed europee?) sia, soprattutto, delle organizzazioni di rappresentanza imprenditoriali e dei responsabili delle imprese.

I valori dell’intraprendenza e della libertà di scelta nella costruzione del proprio futuro emergono con grande evidenza, naturalmente condizionati positivamente dall’essere, i giovani in questione, cresciuti in ambienti (la Milano metropoli e le sue città collegate) in cui l’imprenditorialità, trasversale a molto settori, è un fattore socio-culturale quanto mai caratterizzante. Sarebbe interessante, dunque, verificare l’indagine anche in altre aree di impresa diffusa, tra Nord Ovest, Nord Est ed Emilia-Romagna e in aree in cui, come il Centro e il Mezzogiorno, l’impresa invece non è un attore forte e storicamente attrattivo.

La seconda riflessione riguarda l’idea di impresa industriale percepita dalle nuove generazioni, da rendere più gratificante e attraente, facendo risaltare, molto meglio di quanto ancora non succeda, la forza dei nuovi paradigmi produttivi ad alta tecnologia ed elevati livelli di qualità e sostenibilità (le affascinanti acciaierie green e le imprese chimiche e farmaceutiche la cui competitività è garantita dal massimo dell’attenzione all’ambiente e all’inclusione sociale).

C’è insomma da insistere sui valori del miglior made in Italy, senza cadere nell’illusione retorica del pittoresco e del “piccolo è bello”. E fare risaltare un mondo di straordinarie opportunità di lavoro e di sviluppo personale e professionale per ragazze e ragazzi intraprendenti, offerte da meccatronica, automotive, industria aerospaziale e nautica, imprese delle life sciences, arredamento, moda, agro-industria, etc.

In sintesi, costruire un “nuovo racconto della fabbrica”, usando tutti i media più efficaci e i linguaggi più adatti alle nuove generazioni, è una sfida ineludibile. Anche per dare concretezza e futuro a quel desiderio giovanile da cui siamo partiti: fare l’imprenditore.

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