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Pane d’impresa

Il racconto delle vicende umane e aziendali di un panettiere si trasforma in un perfetto manuale di gestione delle organizzazioni della produzione

 

L’impresa sempre, anche con il pane (forse soprattutto con il pane). Comunque sempre impresa, cioè l’intrapresa di qualcosa di nuovo, fatto come lo si sente dentro. E progettato, costruito, conquistato giorno per giorno con caparbietà, ingegno, innovazione e fantasia. Sono sempre così le storie d’impresa. Sempre uguali e sempre completamente diverse le une dalle altre. Ed è sempre la “pratica” che insegna alla “teoria”. Per questo si impara ogni volta qualcosa dalla lettura delle vicende di imprenditrici e imprenditori che “hanno costruito la loro impresa”.

E’ il caso di “Volevo solo fare il panettiere” scritto da Luigi Luini panettiere per davvero e cioè imprenditore per davvero. Che ad un certo punto della sua lunga vita ha deciso di scrivere la sua storia in forma di libro che, adesso, oltre che un racconto imperdibile, è un perfetto manuale di gestione d’impresa. Tanto che la prefazione viene scritta da Sandro Castaldo professore ordinario di economia e gestione delle imprese alla Bocconi di Milano il quale non esita a rendere onore al panettiere di origini pugliesi trapiantato a Milano e, in puro linguaggio accademico, conferma quanto la “Luini Milano forno dal 1888” sia un esempio perfetto di impresa innovativa eppure legata alla tradizione, capace di crescere con gli strumenti più moderni del marketing eppure in grado di dare continuità al prodotto senza perdere mercato.

Luini scrive e racconta iniziando con un’affermazione di principio: “Io non vedo alcuna differenza di principio tra un prodotto da forno e una stretta di mano. Panzerotti, taralli, friselle e rosette sono questione di mani, e quelle mani appartengono soltanto a un uomo, che nelle sue mani profonde tutta la sua intelligenza, tutto se stesso”. Mani e cioè manifattura, fabbricazione di qualcosa che deriva da lontano, che si rinnova pur rimanendo uguale. Luini ripercorre quindi novant’anni di storia aziendale che, insieme a tante immagini, recuperano ricordi d’infanzia e vicende familiari, curiosità, aneddoti e scelte alla base di un successo imprenditoriale fatto di tradizione e coraggiosa innovazione. La storia del forno Luini si intreccia poi con quella del nostro Paese, riattraversando lo Stivale sulle tracce di un nonno materno che, emigrato da Bisceglie, porta con sé il suo paio di baffi, una camicia buona e i segreti di una cucina pugliese destinata a conquistare una città (Milano), imponendosi come prodotto locale, fino poi a rimbalzare all’altro capo del mondo in un passaparola globale. Oggi si direbbe: tutto frutto di un’attenzione costante alla qualità del prodotto e all’innovazione. In sintesi: saggezza d’impresa. Che Luigi Luini racconta con trasporto, senza nascondersi nulla. E affascinando chi legge.

L’accademico della Bocconi presentando la fatica letteraria di Luini ammette quanto Luini stesso insieme a tutti gli imprenditori che davvero vogliono dirsi tali, sanno perfettamente: “Le sue parole ci confermano che alla fine le risorse fondamentali delle aziende sono le donne e gli uomini che le animano, i loro sentimenti e le loro idee”. Tutto da leggere il libro di Luigi Luini.

Volevo solo fare il panettiere

Luigi Luini

EGEA, 2021

Il racconto delle vicende umane e aziendali di un panettiere si trasforma in un perfetto manuale di gestione delle organizzazioni della produzione

 

L’impresa sempre, anche con il pane (forse soprattutto con il pane). Comunque sempre impresa, cioè l’intrapresa di qualcosa di nuovo, fatto come lo si sente dentro. E progettato, costruito, conquistato giorno per giorno con caparbietà, ingegno, innovazione e fantasia. Sono sempre così le storie d’impresa. Sempre uguali e sempre completamente diverse le une dalle altre. Ed è sempre la “pratica” che insegna alla “teoria”. Per questo si impara ogni volta qualcosa dalla lettura delle vicende di imprenditrici e imprenditori che “hanno costruito la loro impresa”.

E’ il caso di “Volevo solo fare il panettiere” scritto da Luigi Luini panettiere per davvero e cioè imprenditore per davvero. Che ad un certo punto della sua lunga vita ha deciso di scrivere la sua storia in forma di libro che, adesso, oltre che un racconto imperdibile, è un perfetto manuale di gestione d’impresa. Tanto che la prefazione viene scritta da Sandro Castaldo professore ordinario di economia e gestione delle imprese alla Bocconi di Milano il quale non esita a rendere onore al panettiere di origini pugliesi trapiantato a Milano e, in puro linguaggio accademico, conferma quanto la “Luini Milano forno dal 1888” sia un esempio perfetto di impresa innovativa eppure legata alla tradizione, capace di crescere con gli strumenti più moderni del marketing eppure in grado di dare continuità al prodotto senza perdere mercato.

Luini scrive e racconta iniziando con un’affermazione di principio: “Io non vedo alcuna differenza di principio tra un prodotto da forno e una stretta di mano. Panzerotti, taralli, friselle e rosette sono questione di mani, e quelle mani appartengono soltanto a un uomo, che nelle sue mani profonde tutta la sua intelligenza, tutto se stesso”. Mani e cioè manifattura, fabbricazione di qualcosa che deriva da lontano, che si rinnova pur rimanendo uguale. Luini ripercorre quindi novant’anni di storia aziendale che, insieme a tante immagini, recuperano ricordi d’infanzia e vicende familiari, curiosità, aneddoti e scelte alla base di un successo imprenditoriale fatto di tradizione e coraggiosa innovazione. La storia del forno Luini si intreccia poi con quella del nostro Paese, riattraversando lo Stivale sulle tracce di un nonno materno che, emigrato da Bisceglie, porta con sé il suo paio di baffi, una camicia buona e i segreti di una cucina pugliese destinata a conquistare una città (Milano), imponendosi come prodotto locale, fino poi a rimbalzare all’altro capo del mondo in un passaparola globale. Oggi si direbbe: tutto frutto di un’attenzione costante alla qualità del prodotto e all’innovazione. In sintesi: saggezza d’impresa. Che Luigi Luini racconta con trasporto, senza nascondersi nulla. E affascinando chi legge.

L’accademico della Bocconi presentando la fatica letteraria di Luini ammette quanto Luini stesso insieme a tutti gli imprenditori che davvero vogliono dirsi tali, sanno perfettamente: “Le sue parole ci confermano che alla fine le risorse fondamentali delle aziende sono le donne e gli uomini che le animano, i loro sentimenti e le loro idee”. Tutto da leggere il libro di Luigi Luini.

Volevo solo fare il panettiere

Luigi Luini

EGEA, 2021

Internet delle cose e big data, quale cultura?

Una ricerca appena pubblicata ragiona attorno al nodo di temi tra digitalizzazione, organizzazione d’impresa e sfide umane

 

Digitalizzazione contro tutti? Oppure digitalizzazione per tutti? Domande cruciali. Anche, e soprattutto, nelle imprese e nelle organizzazioni della produzione. Il tema è complesso e vario. E non può essere certo risolto in poche righe. Occorre studiare per capire, e studiare molto. A questo serve leggere “Internet of Things and Big Data Analytics” appena pubblicato da Sultan Nezihe Turhan (della Galatasaray University, Facoltà di ingegneria e tecnologia) nell’ambito della raccolta “Industry 4.0 and Global Businesses”.

Il ragionamento della Turhan inizia da una constatazione: Internet delle cose (IoT) e Big Data sono gli elementi precursori delle tecnologie Industry 4.0 e hanno acquisito grande importanza negli ultimi anni. Le imprese – non tutte -, stanno cercando di diventare “4.0” incamminandosi lungo il sentiero della trasformazione digitale e adattando queste due importanti tecnologie ai propri processi aziendali. I vantaggi – dice sempre Turhan – indubbiamente ci sono in termini di gestione, organizzazione e marketing. Gli svantaggi, in termini di difficoltà e complessità per quanto riguarda la privacy dei dati e dei sistemi raccolti ma anche della gestione quotidiani di questi strumenti, sono altrettanto evidenti.

Tuttavia, Turhan  spiega nella sua ricerca che IoT e Big Data Analytics svolgono un ruolo determinante come “fattori di ristrutturazione di prodotti, servizi e soprattutto processi aziendali”.

Il tema da affrontare, adesso, non è più solamente tecnologico ma culturale. Ed è ciò che Turhan cerca di fare discutendo proprio IoT e Big Data Analytics dal punto di vista della cultura aziendale, del marketing e della gestione. In altri termini, spiega l’autrice, IoT e Big Data Analytics devono essere esaminati anche sulla base degli atteggiamenti e delle sfide che le organizzazioni che li adottano sono o non sono disposte a realizzare. Non solo tecnica e tecnologia, dunque, ma anche atteggiamento umano. Una condizione che, viene ricordato nella stessa ricerca, ha assunto un’importanza maggiore di prima dopo l’esplosione della pandemia di Covid-19 che ha costretto ad un uso più forte e diffuso proprio di  IoT e Big Data Analytics

Internet of Things and Big Data Analytics

Sultan Nezihe Turhan

Industry 4.0 and Global Businesses

21 January 2022

Una ricerca appena pubblicata ragiona attorno al nodo di temi tra digitalizzazione, organizzazione d’impresa e sfide umane

 

Digitalizzazione contro tutti? Oppure digitalizzazione per tutti? Domande cruciali. Anche, e soprattutto, nelle imprese e nelle organizzazioni della produzione. Il tema è complesso e vario. E non può essere certo risolto in poche righe. Occorre studiare per capire, e studiare molto. A questo serve leggere “Internet of Things and Big Data Analytics” appena pubblicato da Sultan Nezihe Turhan (della Galatasaray University, Facoltà di ingegneria e tecnologia) nell’ambito della raccolta “Industry 4.0 and Global Businesses”.

Il ragionamento della Turhan inizia da una constatazione: Internet delle cose (IoT) e Big Data sono gli elementi precursori delle tecnologie Industry 4.0 e hanno acquisito grande importanza negli ultimi anni. Le imprese – non tutte -, stanno cercando di diventare “4.0” incamminandosi lungo il sentiero della trasformazione digitale e adattando queste due importanti tecnologie ai propri processi aziendali. I vantaggi – dice sempre Turhan – indubbiamente ci sono in termini di gestione, organizzazione e marketing. Gli svantaggi, in termini di difficoltà e complessità per quanto riguarda la privacy dei dati e dei sistemi raccolti ma anche della gestione quotidiani di questi strumenti, sono altrettanto evidenti.

Tuttavia, Turhan  spiega nella sua ricerca che IoT e Big Data Analytics svolgono un ruolo determinante come “fattori di ristrutturazione di prodotti, servizi e soprattutto processi aziendali”.

Il tema da affrontare, adesso, non è più solamente tecnologico ma culturale. Ed è ciò che Turhan cerca di fare discutendo proprio IoT e Big Data Analytics dal punto di vista della cultura aziendale, del marketing e della gestione. In altri termini, spiega l’autrice, IoT e Big Data Analytics devono essere esaminati anche sulla base degli atteggiamenti e delle sfide che le organizzazioni che li adottano sono o non sono disposte a realizzare. Non solo tecnica e tecnologia, dunque, ma anche atteggiamento umano. Una condizione che, viene ricordato nella stessa ricerca, ha assunto un’importanza maggiore di prima dopo l’esplosione della pandemia di Covid-19 che ha costretto ad un uso più forte e diffuso proprio di  IoT e Big Data Analytics

Internet of Things and Big Data Analytics

Sultan Nezihe Turhan

Industry 4.0 and Global Businesses

21 January 2022

Nuovi lavoratori e nuove regole da costruire

Il caso dei creatori di contenuti digitali al vaglio del diritto del lavoro

 

L’evoluzione della produzione porta alla creazione di nuove figure di imprenditori e di lavoratori. E’ il continuo rinnovarsi anche della cultura del produrre che – magari ignorata dai più -, permane nel retroterra delle imprese. Lavori nuovi, dunque, ma anche diritti nuovi oppure rinnovati. Diritti che vanno individuati con attenzione e difesi, se occorre. E’ attorno a questo nodi di argomenti che ragiona Anna Rota (Dottore di ricerca in diritto del lavoro all’Università di Bologna) con il suo contributo “I creatori di contenuti digitali sono lavoratori?” apparso recentemente in Labour & Law Issues.

Rota inizia la sua ricerca dalla constatazione di quanto avvenuto nello scorso aprile quando la XI Commissione Lavoro Pubblico e Privato della Camera dei Deputati ha avviato un’indagine  sulla realtà in espansione di creatori di contenuti digitali. Obiettivo dell’iniziativa era quello di acquisire elementi utili per un’azione legislativa coerente con le caratteristiche di questi lavoratori. Tra il subordinato e l’indipendente, con una forte formazione tecnologica, in relazione mediata tra di loro e con il datore di lavoro, immersi totalmente in un comparto in costante (e veloce) evoluzione, questi lavoratori appartengono ad una categoria che rappresenta forse più di altre il modello concreto più significativo per comprendere come sta cambiando il sistema della produzione e del lavoro.

Anna Rota analizza quindi prima i tratti caratteristici di questo nuovo tipo di lavori e quelli delle piattaforme on line a cui fanno riferimento, l’indagine passa poi ad approfondire la natura del rapporto di lavoro che si instaura nei casi di elaborazione dei contenuti digitali per arrivare così ad individuare le relazioni concrete tra datore e lavoratore e quindi individuare quali possano essere i tratti salienti di una possibile nuova regolamentazione contrattuale.

L’indagine di Anna Rota non è di facile lettura e, anzi, in alcuni passaggi è fatta per specialisti piuttosto che per altri, ma è importante per il tentativo che compie di mettere ordine in un tema complesso, vario, mutevole. Ne emerge, ancora una volta, la necessità di un continuo adattamento e scambio tra regole applicate, realtà dei fatti e cultura della produzione.

I creatori di contenuti digitali sono lavoratori?

Anna Rota

Labour & Law Issues, 7, n. 2/2021

Il caso dei creatori di contenuti digitali al vaglio del diritto del lavoro

 

L’evoluzione della produzione porta alla creazione di nuove figure di imprenditori e di lavoratori. E’ il continuo rinnovarsi anche della cultura del produrre che – magari ignorata dai più -, permane nel retroterra delle imprese. Lavori nuovi, dunque, ma anche diritti nuovi oppure rinnovati. Diritti che vanno individuati con attenzione e difesi, se occorre. E’ attorno a questo nodi di argomenti che ragiona Anna Rota (Dottore di ricerca in diritto del lavoro all’Università di Bologna) con il suo contributo “I creatori di contenuti digitali sono lavoratori?” apparso recentemente in Labour & Law Issues.

Rota inizia la sua ricerca dalla constatazione di quanto avvenuto nello scorso aprile quando la XI Commissione Lavoro Pubblico e Privato della Camera dei Deputati ha avviato un’indagine  sulla realtà in espansione di creatori di contenuti digitali. Obiettivo dell’iniziativa era quello di acquisire elementi utili per un’azione legislativa coerente con le caratteristiche di questi lavoratori. Tra il subordinato e l’indipendente, con una forte formazione tecnologica, in relazione mediata tra di loro e con il datore di lavoro, immersi totalmente in un comparto in costante (e veloce) evoluzione, questi lavoratori appartengono ad una categoria che rappresenta forse più di altre il modello concreto più significativo per comprendere come sta cambiando il sistema della produzione e del lavoro.

Anna Rota analizza quindi prima i tratti caratteristici di questo nuovo tipo di lavori e quelli delle piattaforme on line a cui fanno riferimento, l’indagine passa poi ad approfondire la natura del rapporto di lavoro che si instaura nei casi di elaborazione dei contenuti digitali per arrivare così ad individuare le relazioni concrete tra datore e lavoratore e quindi individuare quali possano essere i tratti salienti di una possibile nuova regolamentazione contrattuale.

L’indagine di Anna Rota non è di facile lettura e, anzi, in alcuni passaggi è fatta per specialisti piuttosto che per altri, ma è importante per il tentativo che compie di mettere ordine in un tema complesso, vario, mutevole. Ne emerge, ancora una volta, la necessità di un continuo adattamento e scambio tra regole applicate, realtà dei fatti e cultura della produzione.

I creatori di contenuti digitali sono lavoratori?

Anna Rota

Labour & Law Issues, 7, n. 2/2021

Come cambia la cultura del produrre

Un manuale operativo di gestione del cambiamento d’impresa fornisce interpretazione strumenti d’azione e imprenditori e manager

Per affrontare il cambiamento occorrono strumenti nuovi, e metodi di analisi rinnovate. E’ necessario, in altre parole, rivedere sempre il contenuto della cassetta degli attrezzi a disposizione degli imprenditori e dei loro manager. E’ per questo che è utile leggere l’edizione rivista e rinnovata di “Culture d’impresa. Come affrontare con successo le transizioni e i cambiamenti organizzativi” manuale scritto a quattro mani da Edgar e Peter Schein.
Il libro propone storie e strumenti pratici di gestione aziendale che hanno l’obiettivo di aiutare chi è alle prese con la gestione del cambiamento soprattutto nella fase di valutazione delle culture d’impresa esistenti. Attraverso nuovi casi studio e una maggiore attenzione alle competenze manageriali chiave, il manuale degli Schein offre a chi legge un bagaglio di conoscenze utili per pensare in modo critico al rinnovamento della cultura del produrre.
“Culture d’impresa” inizia quindi a descrivere i tratta salienti di chi deve governare il cambiamento, ma anche cosa davvero significhino i concetti di cambiamento, leadership e cultura. Fissati e chiariti i concetti di base, in una seconda parte, poi, i due autori cercano di spiegare la struttura stessa della cultura d’impresa moderna per arrivare, con un ulteriore passaggio, ad indicare come cambiano il metodo di produzione e i suoi paradigmi culturali e fornendo – a questo punto – strumenti nuovi di intervento. Una particolare attenzione, oltre agli aspetti tecnici, viene sempre posta nei confronti delle relazioni sociali all’interno delle imprese. Ed è quindi la consapevolezza dell’importanza dell’attenzione verso le persone, quella che emerge dalle pagine del libro.
Gli autori spiegano così esattamente come funziona il cambiamento nella pratica, identificando che cosa deve mutare all’interno di una cultura organizzativa totalmente o parzialmente disfunzionale.
Il libro Edgar e Peter Schein è una buona guida da consultare per percorrere quel tratto di strada complesso, e spesso tortuoso, che porta un’impresa a cambiare non solo pelle ma anche contenuto.

Culture d’impresa. Come affrontare con successo le transizioni e i cambiamenti organizzativi
Edgar H. Schein, Peter A. Schein
Raffaello Cortina Editore, 2021

Un manuale operativo di gestione del cambiamento d’impresa fornisce interpretazione strumenti d’azione e imprenditori e manager

Per affrontare il cambiamento occorrono strumenti nuovi, e metodi di analisi rinnovate. E’ necessario, in altre parole, rivedere sempre il contenuto della cassetta degli attrezzi a disposizione degli imprenditori e dei loro manager. E’ per questo che è utile leggere l’edizione rivista e rinnovata di “Culture d’impresa. Come affrontare con successo le transizioni e i cambiamenti organizzativi” manuale scritto a quattro mani da Edgar e Peter Schein.
Il libro propone storie e strumenti pratici di gestione aziendale che hanno l’obiettivo di aiutare chi è alle prese con la gestione del cambiamento soprattutto nella fase di valutazione delle culture d’impresa esistenti. Attraverso nuovi casi studio e una maggiore attenzione alle competenze manageriali chiave, il manuale degli Schein offre a chi legge un bagaglio di conoscenze utili per pensare in modo critico al rinnovamento della cultura del produrre.
“Culture d’impresa” inizia quindi a descrivere i tratta salienti di chi deve governare il cambiamento, ma anche cosa davvero significhino i concetti di cambiamento, leadership e cultura. Fissati e chiariti i concetti di base, in una seconda parte, poi, i due autori cercano di spiegare la struttura stessa della cultura d’impresa moderna per arrivare, con un ulteriore passaggio, ad indicare come cambiano il metodo di produzione e i suoi paradigmi culturali e fornendo – a questo punto – strumenti nuovi di intervento. Una particolare attenzione, oltre agli aspetti tecnici, viene sempre posta nei confronti delle relazioni sociali all’interno delle imprese. Ed è quindi la consapevolezza dell’importanza dell’attenzione verso le persone, quella che emerge dalle pagine del libro.
Gli autori spiegano così esattamente come funziona il cambiamento nella pratica, identificando che cosa deve mutare all’interno di una cultura organizzativa totalmente o parzialmente disfunzionale.
Il libro Edgar e Peter Schein è una buona guida da consultare per percorrere quel tratto di strada complesso, e spesso tortuoso, che porta un’impresa a cambiare non solo pelle ma anche contenuto.

Culture d’impresa. Come affrontare con successo le transizioni e i cambiamenti organizzativi
Edgar H. Schein, Peter A. Schein
Raffaello Cortina Editore, 2021

Un cauto ottimismo: la forza dell’industria stanella crescita di brevetti, start up ed export

L’anno nuovo è cominciato nel segno delle preoccupazioni per l’immediato futuro dell’economia. Imprese e consumatori vivono con inquietudine il drammatico aumento dei prezzi dell’energia, che si riflettono sulla crescita dell’inflazione. E anche su tutti gli italiani pesa l’andamento della nuova ondata della pandemia da Covid, con l’altissimo livello di contagi della variante Omicron: pensavamo di essere finalmente usciti dalla restrizioni che investono attività economiche e relazioni personali e invece siamo ancora qui, tra pericoli e limiti ai viaggi, agli incontri, alle iniziative culturali e sportive, agli affari. E il governo, che dovrebbe concentrare tutte le sue energie sugli investimenti alimentati dai fondi del Recovery Plan della Ue (molto ha comunque fatto e programmato, per nostra fortuna), è costretto a occuparsi ancora con defatigante impegno dell’emergenza sanitaria, mentre tra le forze di maggioranza crescono tensioni, divari e conflitti politici.
La prossima scadenza per l’elezioni del presidente della Repubblica, in un contesto politico confuso, rissoso, segnato da velleità e vanità personali e particolari, aggrava in quadro. Lo spread tra titoli italiani e tedeschi in crescita da alcune settimane è un allarmante termometro delle preoccupazioni dei mercati finanziari internazionali sui rischi di instabilità politica nel nostro paese.

Eppure, nonostante tutto, pur nella piena consapevolezza della nostra fragilità politica, economica e sociale, vale la pena dedicare una grande attenzione anche ad altri segnali di fondo sulle condizioni di salute dell’economia. Apprezzare i risultati conseguiti da una stagione di impegno innovativo e di investimenti delle imprese. E insistere sui dati su cui fare leva, per rafforzare la crescita in corso (quel 6,3 di aumento del Pil segnato nel 2021 è in gran parte rimbalzo dopo il crollo del 2020, ma ha pure rilevanti elementi strutturali).

La prima serie di dati da considerare riguarda l’aumento del numero dei brevetti, sintomo di investimenti innovativi e di lungimirante intraprendenza. La seconda serie documenta le start up. E la terza le ottime prestazioni dei settori più impegnati nell’export sui mercati globali.
Cominciamo dai brevetti. Le domande pubblicate dall’Epo (European Patent Office, dati 2020) sono state 4.465, con un aumento del 5,3% rispetto all’anno precedente. Anche in piena pandemia, insomma, le imprese e gli enti di ricerca ma anche le persone fisiche hanno continuato a lavorare, creare, innovare.
Analizzando meglio i dati, secondo gli approfondimenti di Unioncamere-Dintech, un brevetto su cinque riguarda le sei Key Enabling Technologies raccomandate dalla Ue come settori d’avanguardia e motori generali di sviluppo e cioè biotech, fotonica, materiali avanzati, nano e microelettronica, nanotecnologie e manufatti avanzati, cioè robotica e automazione industriale. Proprio in quest’ultimo settore, i brevetti sono stati 670, 53 in più dell’anno precedente, con un aumento percentuale del 9% circa, ben più alto della media generale del 5,3% di cui abbiamo parlato: un segno evidente della forza innovativa della nostra meccatronica.

Ancora qualche dato su cui riflettere: la prima regione per capacità innovativa è la Lombardia (1.506 brevetti), seguita dall’Emilia Romagna (703), dal Veneto (596) e dal Piemonte (480). Sono le aree a maggior presenza industriale, che consolidano il loro primato nazionale e confermano una solida forza produttiva di livello europeo. D’altronde, è una tendenza di lungo periodo: guardando i dati dal 2008 a oggi, l’80% dei brevetti è arrivato dalle regioni del Nord, ricche di imprese, centri di ricerca, università pubbliche e private efficienti.
C’è ancora un altro elemento da considerare: nello scorso anno in Italia sono nate 4.200 start up, con un aumento del 25% rispetto al 2020 (con una presenza particolarmente significativa per engineering e attività legate alla block chain). E Milano è la città più innovativa, con 818 nuove imprese high tech (“Il Sole24Ore”, 7 gennaio).
La locomotiva industriale del Paese continua a funzionare. Anche se è sempre più chiaro che tutto il resto del paese deve crescere in termini di innovazione, cultura dell’impresa e del mercato, produttività e competitività.

La terza serie di dati rassicuranti sul futuro dell’economia italiana riguarda la forza dell’export. Elaborati dalla Fondazione Edison e illustrati da Marco Fortis su “Il Sole24Ore” (6 gennaio), quei dati mostrano come le nostre esportazioni abbiano superato i livelli precedenti alla diffusione della pandemia, con una crescita del 5,8%, da gennaio a settembre ‘21, rispetto al corrispondente periodo del 2019. A fare da motore, i sette settori che, secondo le classifiche internazionali, possiamo chiamare “3F” e “4M”: Food and wine, Fashion, Furniture and building materials e poi Metal products, Machinery, Motoryachts and other transport equipments, Medicaments and personal care products. Il surplus commerciale con l’estero dei prodotti dei “magnifici sette” tocca i 138,4 miliardi di dollari.

Le serie dei dati di cui stiamo parlando – brevetti, start up ed export – sono il risultato di scelte di fondo della parte migliore del nostro sistema produttivo e delle strutture di ricerca e trasferimento tecnologico, che risalgono all’indomani della Grande Crisi finanziaria del 2008 e sono state sostenute da una intelligente legislazione fiscale di governi pronti a rafforzare la manifattura di qualità e stimolare l’innovazione digitale, il processo di “Industria 4.0”. Le scelte, cioè, riguardanti l’impegno di rilancio dell’economia reale, gli investimenti sulla qualità e, oramai da tempo, la sostenibilità di prodotti e sistemi di produzione, la connessione tra industria e servizi, la conquista crescente di nicchie ad alto valore aggiunto sui mercati globali.
Sono punti di forza da solida economia industriale, di respiro europeo. Su cui continuare a investire, anche come leva di forza grazie alla quale aiutare l’intero sistema Paese a fare fronte ai momenti di congiuntura negativa.

L’anno nuovo è cominciato nel segno delle preoccupazioni per l’immediato futuro dell’economia. Imprese e consumatori vivono con inquietudine il drammatico aumento dei prezzi dell’energia, che si riflettono sulla crescita dell’inflazione. E anche su tutti gli italiani pesa l’andamento della nuova ondata della pandemia da Covid, con l’altissimo livello di contagi della variante Omicron: pensavamo di essere finalmente usciti dalla restrizioni che investono attività economiche e relazioni personali e invece siamo ancora qui, tra pericoli e limiti ai viaggi, agli incontri, alle iniziative culturali e sportive, agli affari. E il governo, che dovrebbe concentrare tutte le sue energie sugli investimenti alimentati dai fondi del Recovery Plan della Ue (molto ha comunque fatto e programmato, per nostra fortuna), è costretto a occuparsi ancora con defatigante impegno dell’emergenza sanitaria, mentre tra le forze di maggioranza crescono tensioni, divari e conflitti politici.
La prossima scadenza per l’elezioni del presidente della Repubblica, in un contesto politico confuso, rissoso, segnato da velleità e vanità personali e particolari, aggrava in quadro. Lo spread tra titoli italiani e tedeschi in crescita da alcune settimane è un allarmante termometro delle preoccupazioni dei mercati finanziari internazionali sui rischi di instabilità politica nel nostro paese.

Eppure, nonostante tutto, pur nella piena consapevolezza della nostra fragilità politica, economica e sociale, vale la pena dedicare una grande attenzione anche ad altri segnali di fondo sulle condizioni di salute dell’economia. Apprezzare i risultati conseguiti da una stagione di impegno innovativo e di investimenti delle imprese. E insistere sui dati su cui fare leva, per rafforzare la crescita in corso (quel 6,3 di aumento del Pil segnato nel 2021 è in gran parte rimbalzo dopo il crollo del 2020, ma ha pure rilevanti elementi strutturali).

La prima serie di dati da considerare riguarda l’aumento del numero dei brevetti, sintomo di investimenti innovativi e di lungimirante intraprendenza. La seconda serie documenta le start up. E la terza le ottime prestazioni dei settori più impegnati nell’export sui mercati globali.
Cominciamo dai brevetti. Le domande pubblicate dall’Epo (European Patent Office, dati 2020) sono state 4.465, con un aumento del 5,3% rispetto all’anno precedente. Anche in piena pandemia, insomma, le imprese e gli enti di ricerca ma anche le persone fisiche hanno continuato a lavorare, creare, innovare.
Analizzando meglio i dati, secondo gli approfondimenti di Unioncamere-Dintech, un brevetto su cinque riguarda le sei Key Enabling Technologies raccomandate dalla Ue come settori d’avanguardia e motori generali di sviluppo e cioè biotech, fotonica, materiali avanzati, nano e microelettronica, nanotecnologie e manufatti avanzati, cioè robotica e automazione industriale. Proprio in quest’ultimo settore, i brevetti sono stati 670, 53 in più dell’anno precedente, con un aumento percentuale del 9% circa, ben più alto della media generale del 5,3% di cui abbiamo parlato: un segno evidente della forza innovativa della nostra meccatronica.

Ancora qualche dato su cui riflettere: la prima regione per capacità innovativa è la Lombardia (1.506 brevetti), seguita dall’Emilia Romagna (703), dal Veneto (596) e dal Piemonte (480). Sono le aree a maggior presenza industriale, che consolidano il loro primato nazionale e confermano una solida forza produttiva di livello europeo. D’altronde, è una tendenza di lungo periodo: guardando i dati dal 2008 a oggi, l’80% dei brevetti è arrivato dalle regioni del Nord, ricche di imprese, centri di ricerca, università pubbliche e private efficienti.
C’è ancora un altro elemento da considerare: nello scorso anno in Italia sono nate 4.200 start up, con un aumento del 25% rispetto al 2020 (con una presenza particolarmente significativa per engineering e attività legate alla block chain). E Milano è la città più innovativa, con 818 nuove imprese high tech (“Il Sole24Ore”, 7 gennaio).
La locomotiva industriale del Paese continua a funzionare. Anche se è sempre più chiaro che tutto il resto del paese deve crescere in termini di innovazione, cultura dell’impresa e del mercato, produttività e competitività.

La terza serie di dati rassicuranti sul futuro dell’economia italiana riguarda la forza dell’export. Elaborati dalla Fondazione Edison e illustrati da Marco Fortis su “Il Sole24Ore” (6 gennaio), quei dati mostrano come le nostre esportazioni abbiano superato i livelli precedenti alla diffusione della pandemia, con una crescita del 5,8%, da gennaio a settembre ‘21, rispetto al corrispondente periodo del 2019. A fare da motore, i sette settori che, secondo le classifiche internazionali, possiamo chiamare “3F” e “4M”: Food and wine, Fashion, Furniture and building materials e poi Metal products, Machinery, Motoryachts and other transport equipments, Medicaments and personal care products. Il surplus commerciale con l’estero dei prodotti dei “magnifici sette” tocca i 138,4 miliardi di dollari.

Le serie dei dati di cui stiamo parlando – brevetti, start up ed export – sono il risultato di scelte di fondo della parte migliore del nostro sistema produttivo e delle strutture di ricerca e trasferimento tecnologico, che risalgono all’indomani della Grande Crisi finanziaria del 2008 e sono state sostenute da una intelligente legislazione fiscale di governi pronti a rafforzare la manifattura di qualità e stimolare l’innovazione digitale, il processo di “Industria 4.0”. Le scelte, cioè, riguardanti l’impegno di rilancio dell’economia reale, gli investimenti sulla qualità e, oramai da tempo, la sostenibilità di prodotti e sistemi di produzione, la connessione tra industria e servizi, la conquista crescente di nicchie ad alto valore aggiunto sui mercati globali.
Sono punti di forza da solida economia industriale, di respiro europeo. Su cui continuare a investire, anche come leva di forza grazie alla quale aiutare l’intero sistema Paese a fare fronte ai momenti di congiuntura negativa.

Riforme da completare e limiti da superare dopo il riconoscimento di “The Economist”

L’Italietta. Pizza, mafia e mandolino. Mangiaspaghetti. Cicale. Malati d’Europa. Gli stereotipi, per il momento, vanno nel cestino. L’Italia, infatti, è diventata “il Paese dell’anno” sulle pagine di “The Economist”, il settimanale britannico che non ci ha mai risparmiato critiche sferzanti e ironie taglienti, sino a definirci, proprio l’anno scorso, nel 2020, “un paese in declino, che vale nulla sulla scena mondiale, con un’economia che non cresce e una classe dirigente che spreca idee e risorse”. Una tradizione critica, confermata dalla dedica, negli anni precedenti, di copertine urticanti per Berlusconi “unfit to lead Italy”, ancora per Berlusconi in compagnia di Grillo con il titolo “Send in the clowns” (cioè “fate entrare i clown”) e per la precarietà complessiva del Paese, con un autobus tricolore in bilico sul precipizio e il titolo “The Italia job” come causa di “Europe’s next crisis”.

Adesso, si cambia registro. E si tributano all’Italia “Triumphal honours”. Perché “è quello che è migliorato di più nel 2021”. Tutto merito di Mario Draghi che, eletto dal Parlamento a Palazzo Chigi, “ha cambiato il Paese”. Con lui, infatti, l’Italia “ha acquisito un primo ministro competente e rispettato internazionalmente”. E, grazie a questa svolta, voluta e sostenuta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “un’ampia maggioranza dei politici italiani ha seppellito le proprie differenze per sostenere un programma di riforme complessive che dovrebbero permetterle di ottenere i fondi ai quali ha diritto in base al piano di Recovery europeo”.

Ecco il punto. Secondo “The Economist”, che riflette abitualmente i punti di vista più autorevoli e diffusi nella business community non solo inglese ma occidentale, siamo il paese che in quest’anno, tra pandemia e recessione, è cambiato di più e in meglio.

Vengono in mente anche i giudizi positivi dati dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, negli ultimi giorni del suo governo: fare come l’Italia contro il Covid19 e le sue varianti e prendere il nostro paese come esempio anche per rilanciare l’economia (guardando i dati sul Pil, stiamo “rimbalzando” meglio di Germania e Francia).

“The Economist” come un bel regalo di Natale? La soddisfazione, nei nostri ambienti politici e imprenditoriali, è evidente. Onore al merito, appunto. Si mettono da canto le tendenze purtroppo diffuse in ampi settori dell’opinione pubblica a parlare particolarmente male di noi stessi, a essere ipercritici, a esasperare le ampie zone d’ombra della politica e della società (tutto comunque reali). E si cerca di costruire una rappresentazione attendibile delle tante cose che vanno bene (le imprese innovative, la solidarietà sociale, le iniziative generose del “terzo settore”, le fondazioni bancarie che, come Fondazione Cariplo e Compagnia di San Paolo, per dirla con il presidente dell’Acri Francesco Profumo, “creano alleanze per fini di interesse collettivo”, le iniziative culturali di qualità, le testimonianze diffuse di un robusto “capitarle sociale positivo”).

L’Italia – sostengono da tempo studiosi e osservatori dell’economia e della società – merita un racconto migliore su se stessa. Il riconoscimento di “The Economist” aiuta. Così come i successi internazionali nello sport. O il premio Nobel per la Fisica a Giorgio Parisi. O, ancora, il riconoscimento a Luciano Floridi, professore a Oxford, come “filosofo più influente del mondo”.

Sono soddisfazioni. Su cui fare leva per continuare a migliorare. Ma cui, però, non abbandonarsi con eccessi d’orgoglio.

Sempre “The Economist”, infatti, ci ricorda che la stabilità italiana è comunque precaria, che la “week governance”, il sistema di governo debole, è un pericolo che si può ripresentare e che l’eventuale abbandono di Palazzo Chigi da parte di Draghi per andare al Quirinale potrebbe incrinare la ripresa in corso.

L’Italia mantiene, infatti, parecchi dei suoi storici elementi di fragilità, politica, economica e sociale. E ha ragione Sabino Cassese quando, sul “Corriere della Sera” (18 dicembre) parla di “Ripresa” ma “senza illusioni” per i “troppi punti deboli” che riguardano la qualità della politica, i limiti della pubblica amministrazione, il peso del debito pubblico, le crisi di produttività soprattutto nei servizi pubblici e in quelli che non vivono di mercato, le carenze della scuola (aggravate dalla bassa qualità degli insegnanti, per colpa di un reclutamento disattento a meriti e competenze), i guasti di ambiente e territorio e così via continuando in un elenco di riforme mancate nel corso degli anni, di mancati rinnovamenti, di pesi giganteschi di corporazioni e clientele, di diffuse presenze criminali (dalla massiccia evasione fiscale alla pervasività delle mafie).

Alcune riforme sono in corso, è vero. E il Recovery Plan Next Generation Ue, oltre che stanziare risorse finanziarie imponenti, ha costretto Governo e Parlamento a prendere atto della necessità e dell’urgenza delle riforme necessarie a spendere bene quei soldi. L’arrivo di Draghi a palazzo Chigi ha per fortuna accelerato un processo che altrimenti rischiava di impantanarsi.

Molto resta comunque da fare. E forse, proprio partendo da questa consapevolezza, la lettura di “The Economist”, oltre che essere un riconoscimento di cui essere un po’ fieri, può costituire un utile stimolo ad andare avanti, e uno sprone per il ceto politico e gli attori sociali a farsi carico seriamente della responsabilità di costruire un paese finalmente migliore.

L’Italietta. Pizza, mafia e mandolino. Mangiaspaghetti. Cicale. Malati d’Europa. Gli stereotipi, per il momento, vanno nel cestino. L’Italia, infatti, è diventata “il Paese dell’anno” sulle pagine di “The Economist”, il settimanale britannico che non ci ha mai risparmiato critiche sferzanti e ironie taglienti, sino a definirci, proprio l’anno scorso, nel 2020, “un paese in declino, che vale nulla sulla scena mondiale, con un’economia che non cresce e una classe dirigente che spreca idee e risorse”. Una tradizione critica, confermata dalla dedica, negli anni precedenti, di copertine urticanti per Berlusconi “unfit to lead Italy”, ancora per Berlusconi in compagnia di Grillo con il titolo “Send in the clowns” (cioè “fate entrare i clown”) e per la precarietà complessiva del Paese, con un autobus tricolore in bilico sul precipizio e il titolo “The Italia job” come causa di “Europe’s next crisis”.

Adesso, si cambia registro. E si tributano all’Italia “Triumphal honours”. Perché “è quello che è migliorato di più nel 2021”. Tutto merito di Mario Draghi che, eletto dal Parlamento a Palazzo Chigi, “ha cambiato il Paese”. Con lui, infatti, l’Italia “ha acquisito un primo ministro competente e rispettato internazionalmente”. E, grazie a questa svolta, voluta e sostenuta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “un’ampia maggioranza dei politici italiani ha seppellito le proprie differenze per sostenere un programma di riforme complessive che dovrebbero permetterle di ottenere i fondi ai quali ha diritto in base al piano di Recovery europeo”.

Ecco il punto. Secondo “The Economist”, che riflette abitualmente i punti di vista più autorevoli e diffusi nella business community non solo inglese ma occidentale, siamo il paese che in quest’anno, tra pandemia e recessione, è cambiato di più e in meglio.

Vengono in mente anche i giudizi positivi dati dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, negli ultimi giorni del suo governo: fare come l’Italia contro il Covid19 e le sue varianti e prendere il nostro paese come esempio anche per rilanciare l’economia (guardando i dati sul Pil, stiamo “rimbalzando” meglio di Germania e Francia).

“The Economist” come un bel regalo di Natale? La soddisfazione, nei nostri ambienti politici e imprenditoriali, è evidente. Onore al merito, appunto. Si mettono da canto le tendenze purtroppo diffuse in ampi settori dell’opinione pubblica a parlare particolarmente male di noi stessi, a essere ipercritici, a esasperare le ampie zone d’ombra della politica e della società (tutto comunque reali). E si cerca di costruire una rappresentazione attendibile delle tante cose che vanno bene (le imprese innovative, la solidarietà sociale, le iniziative generose del “terzo settore”, le fondazioni bancarie che, come Fondazione Cariplo e Compagnia di San Paolo, per dirla con il presidente dell’Acri Francesco Profumo, “creano alleanze per fini di interesse collettivo”, le iniziative culturali di qualità, le testimonianze diffuse di un robusto “capitarle sociale positivo”).

L’Italia – sostengono da tempo studiosi e osservatori dell’economia e della società – merita un racconto migliore su se stessa. Il riconoscimento di “The Economist” aiuta. Così come i successi internazionali nello sport. O il premio Nobel per la Fisica a Giorgio Parisi. O, ancora, il riconoscimento a Luciano Floridi, professore a Oxford, come “filosofo più influente del mondo”.

Sono soddisfazioni. Su cui fare leva per continuare a migliorare. Ma cui, però, non abbandonarsi con eccessi d’orgoglio.

Sempre “The Economist”, infatti, ci ricorda che la stabilità italiana è comunque precaria, che la “week governance”, il sistema di governo debole, è un pericolo che si può ripresentare e che l’eventuale abbandono di Palazzo Chigi da parte di Draghi per andare al Quirinale potrebbe incrinare la ripresa in corso.

L’Italia mantiene, infatti, parecchi dei suoi storici elementi di fragilità, politica, economica e sociale. E ha ragione Sabino Cassese quando, sul “Corriere della Sera” (18 dicembre) parla di “Ripresa” ma “senza illusioni” per i “troppi punti deboli” che riguardano la qualità della politica, i limiti della pubblica amministrazione, il peso del debito pubblico, le crisi di produttività soprattutto nei servizi pubblici e in quelli che non vivono di mercato, le carenze della scuola (aggravate dalla bassa qualità degli insegnanti, per colpa di un reclutamento disattento a meriti e competenze), i guasti di ambiente e territorio e così via continuando in un elenco di riforme mancate nel corso degli anni, di mancati rinnovamenti, di pesi giganteschi di corporazioni e clientele, di diffuse presenze criminali (dalla massiccia evasione fiscale alla pervasività delle mafie).

Alcune riforme sono in corso, è vero. E il Recovery Plan Next Generation Ue, oltre che stanziare risorse finanziarie imponenti, ha costretto Governo e Parlamento a prendere atto della necessità e dell’urgenza delle riforme necessarie a spendere bene quei soldi. L’arrivo di Draghi a palazzo Chigi ha per fortuna accelerato un processo che altrimenti rischiava di impantanarsi.

Molto resta comunque da fare. E forse, proprio partendo da questa consapevolezza, la lettura di “The Economist”, oltre che essere un riconoscimento di cui essere un po’ fieri, può costituire un utile stimolo ad andare avanti, e uno sprone per il ceto politico e gli attori sociali a farsi carico seriamente della responsabilità di costruire un paese finalmente migliore.

Smart working. Quali effetti e quali vincoli?

Una tesi discussa presso il Politecnico di Torino porta un contributo all’utilità del lavoro a distanza nelle piccole imrpese

 

Cambio forte delle modalità di lavorare. E’ quanto accaduto in questi ultimi tempi nell’ambito di molte imprese. Anche in Italia. Effetto Covid-19, certo. Che tuttavia ha trovato buon terreno per svilupparsi; e che ha fatto scoprire nuove forme di lavoro prima trascurate. E’ il caso dello smart working. Superata la sorpresa, è necessario però interrogarsi non solo sulle corrette modalità di questa partica di lavoro, ma anche sui reali effetti nell’ambito delle singole imprese e in generale. E’ quanto ha provato a fare Claudio Camillo con il suo lavoro di tesi “Analisi degli effetti dello Smart Working sulla produttività delle PMI Italiane” discusso presso il Politecnico di Torino nell’ambito del ciclo di studi in ingegneria gestionale.

Due gli obiettivi dell’indagine subito dichiarati: “Fare chiarezza sul fenomeno dello smart working e valutare l’influenza del lavoro in smart working sulla produttività aziendale delle PMI italiane nel 2020”.

Il lavoro quindi procede dalla descrizione del fenomeno dello smart working, andandone ad analizzare le peculiarità principali, le similitudini e le differenze con le altre forme di lavoro flessibile e la sua diffusione nel periodo pre-pandemico e pandemico. Successivamente, l’analisi si concentra sullo studio della letteratura esistente soprattutto per quanto concerne la prospettiva aziendale e dei singoli lavoratori e gli aspetti mentali di quest’ultimi. Camillo, poi, cerca di evidenziare gli aspetti positivi e negativi di questa pratica così come già colti dalla ormai vasta produzione letteraria. Nella terza parte, infine, l’indagine scende sul campo ed espone i risultati del lavoro di un gruppo di ricerca composto da studenti appartenenti al Politecnico di Torino e all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Ciò he emerge dalla ricerca è sostanzialmente l’indicazione di un effetto positivo sulla produttività aziendale da parte dello smart working. Certo, occorre “andare a vedere” ogni singola realtà aziendale  per capire meglio e, soprattutto, constatare la pratica lavorativa. Eppure, il lavoro di Camillo indica un percorso da sviluppare, con attenzione, e che porta tra ‘altro ad una cultura del produrre evoluta (non sempre applicabile), che cerca di conciliare esigenze d’impresa con quelle delle persone che la popolano.

Analisi degli effetti dello Smart Working sulla produttività delle PMI Italiane

Claudio Camillo

Tesi, Politecnico di Torino, Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, 2021

Una tesi discussa presso il Politecnico di Torino porta un contributo all’utilità del lavoro a distanza nelle piccole imrpese

 

Cambio forte delle modalità di lavorare. E’ quanto accaduto in questi ultimi tempi nell’ambito di molte imprese. Anche in Italia. Effetto Covid-19, certo. Che tuttavia ha trovato buon terreno per svilupparsi; e che ha fatto scoprire nuove forme di lavoro prima trascurate. E’ il caso dello smart working. Superata la sorpresa, è necessario però interrogarsi non solo sulle corrette modalità di questa partica di lavoro, ma anche sui reali effetti nell’ambito delle singole imprese e in generale. E’ quanto ha provato a fare Claudio Camillo con il suo lavoro di tesi “Analisi degli effetti dello Smart Working sulla produttività delle PMI Italiane” discusso presso il Politecnico di Torino nell’ambito del ciclo di studi in ingegneria gestionale.

Due gli obiettivi dell’indagine subito dichiarati: “Fare chiarezza sul fenomeno dello smart working e valutare l’influenza del lavoro in smart working sulla produttività aziendale delle PMI italiane nel 2020”.

Il lavoro quindi procede dalla descrizione del fenomeno dello smart working, andandone ad analizzare le peculiarità principali, le similitudini e le differenze con le altre forme di lavoro flessibile e la sua diffusione nel periodo pre-pandemico e pandemico. Successivamente, l’analisi si concentra sullo studio della letteratura esistente soprattutto per quanto concerne la prospettiva aziendale e dei singoli lavoratori e gli aspetti mentali di quest’ultimi. Camillo, poi, cerca di evidenziare gli aspetti positivi e negativi di questa pratica così come già colti dalla ormai vasta produzione letteraria. Nella terza parte, infine, l’indagine scende sul campo ed espone i risultati del lavoro di un gruppo di ricerca composto da studenti appartenenti al Politecnico di Torino e all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Ciò he emerge dalla ricerca è sostanzialmente l’indicazione di un effetto positivo sulla produttività aziendale da parte dello smart working. Certo, occorre “andare a vedere” ogni singola realtà aziendale  per capire meglio e, soprattutto, constatare la pratica lavorativa. Eppure, il lavoro di Camillo indica un percorso da sviluppare, con attenzione, e che porta tra ‘altro ad una cultura del produrre evoluta (non sempre applicabile), che cerca di conciliare esigenze d’impresa con quelle delle persone che la popolano.

Analisi degli effetti dello Smart Working sulla produttività delle PMI Italiane

Claudio Camillo

Tesi, Politecnico di Torino, Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, 2021

Quale capitalismo

Un libro appena tradotto in italiano mette in discussione le interpretazioni tradizionali dell’ideologia economica predominante

 

La buona cultura d’impresa ragiona non solo sulla “fabbrica” ma anche su tutto ciò che la circonda. Consapevolezza di dove si è  collocati; immaginazione che si sforza di capire dove si va. Comprensione del presente e approfondimento del passato per delineare un futuro non certo ma possibile. Per tutto questo servono – come spesso ricordato qui -, buone guide. Ed è una buona guida “Capitalismo. Il futuro di un’illusione” libro appena tradotto in italiano di Fred L. Block sociologo e intellettuale americano che allo studio delle ideologie, e di ciò che si portano dietro, ha dedicato buona parte della sua attività.

La tesi del libro – ben sintetizzata nelle prime pagine da Emanuele Felice -, è che l’economia di mercato capitalista sia “un prodotto del divenire storico, della società e della politica (oltre che del caso)”. E che questa “presenta intrinseche contraddizioni, come insegnavano sia coloro che la volevano rovesciare (Marx) sia coloro che la volevano riformare (Keynes). E va da sé che qualsiasi azione pubblica volta a migliorare l’economia e la vita dei cittadini dovrebbe partire da una tale consapevolezza”.  E non solo, perché “fino a quando avremo classi dirigenti ed élite economiche convinte di essere prive di margini d’azione e di riforma, perché certe che il capitalismo sia un sistema immutabile e dunque non riformabile, ci troveremo di fronte al rischio di una riedizione delle tragedie degli anni Trenta, con un panorama popolato da pericolose figure autoritarie in grado di prendere il potere e di paventare la minaccia di un’altra guerra mondiale”.

Attualissimo, quindi, il libro di Block (anche se scritto prima dell’esplosione della pandemia di Covid-19), soprattutto quando rimette in gioco sia la “versione di sinistra” sia “quella di destra” dell’interpretazione del capitalismo arrivando a dimostrare che le possibilità di costruire un’economia che risponda meglio ai bisogni umani sono in realtà molto meno limitate di quanto normalmente immaginiamo.

Il libro si articola in una serie di sette capitoli a partire “dall’illusione capitalista” attraverso altre illusioni collegate – dall’illusione che la democrazia sia una minaccia dell’economia fino alla possibilità di un ordine globale organizzato dal capitalismo -, per arrivare ad identificare soluzioni che salvino gli aspetti positivi di questo modo di produzione e tuttavia tengano sotto controllo i molti aspetti negativi degli accordi economici che governano il mondo. Scrive nelle ultime pagine Block: “La logica del profitto e i meccanismi a essa sottesi possono essere utilizzati per premiare e incentivare individui o imprese che si impegnino in processi di innovazione economica, tesi a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone, secondo un modello di sviluppo economico che sia efficiente e produttivo e al contempo in grado di risparmiare risorse materiali nei processi produttivi”.

“Capitalismo. Il futuro di un’illusione” è un libro da leggere con attenzione da parte di tutti quelli che vogliono capire di più e meglio dove vivono e dove lavorano.

Capitalismo. Il futuro di un’illusione

Fred L. Block

il Mulino, 2021

Un libro appena tradotto in italiano mette in discussione le interpretazioni tradizionali dell’ideologia economica predominante

 

La buona cultura d’impresa ragiona non solo sulla “fabbrica” ma anche su tutto ciò che la circonda. Consapevolezza di dove si è  collocati; immaginazione che si sforza di capire dove si va. Comprensione del presente e approfondimento del passato per delineare un futuro non certo ma possibile. Per tutto questo servono – come spesso ricordato qui -, buone guide. Ed è una buona guida “Capitalismo. Il futuro di un’illusione” libro appena tradotto in italiano di Fred L. Block sociologo e intellettuale americano che allo studio delle ideologie, e di ciò che si portano dietro, ha dedicato buona parte della sua attività.

La tesi del libro – ben sintetizzata nelle prime pagine da Emanuele Felice -, è che l’economia di mercato capitalista sia “un prodotto del divenire storico, della società e della politica (oltre che del caso)”. E che questa “presenta intrinseche contraddizioni, come insegnavano sia coloro che la volevano rovesciare (Marx) sia coloro che la volevano riformare (Keynes). E va da sé che qualsiasi azione pubblica volta a migliorare l’economia e la vita dei cittadini dovrebbe partire da una tale consapevolezza”.  E non solo, perché “fino a quando avremo classi dirigenti ed élite economiche convinte di essere prive di margini d’azione e di riforma, perché certe che il capitalismo sia un sistema immutabile e dunque non riformabile, ci troveremo di fronte al rischio di una riedizione delle tragedie degli anni Trenta, con un panorama popolato da pericolose figure autoritarie in grado di prendere il potere e di paventare la minaccia di un’altra guerra mondiale”.

Attualissimo, quindi, il libro di Block (anche se scritto prima dell’esplosione della pandemia di Covid-19), soprattutto quando rimette in gioco sia la “versione di sinistra” sia “quella di destra” dell’interpretazione del capitalismo arrivando a dimostrare che le possibilità di costruire un’economia che risponda meglio ai bisogni umani sono in realtà molto meno limitate di quanto normalmente immaginiamo.

Il libro si articola in una serie di sette capitoli a partire “dall’illusione capitalista” attraverso altre illusioni collegate – dall’illusione che la democrazia sia una minaccia dell’economia fino alla possibilità di un ordine globale organizzato dal capitalismo -, per arrivare ad identificare soluzioni che salvino gli aspetti positivi di questo modo di produzione e tuttavia tengano sotto controllo i molti aspetti negativi degli accordi economici che governano il mondo. Scrive nelle ultime pagine Block: “La logica del profitto e i meccanismi a essa sottesi possono essere utilizzati per premiare e incentivare individui o imprese che si impegnino in processi di innovazione economica, tesi a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone, secondo un modello di sviluppo economico che sia efficiente e produttivo e al contempo in grado di risparmiare risorse materiali nei processi produttivi”.

“Capitalismo. Il futuro di un’illusione” è un libro da leggere con attenzione da parte di tutti quelli che vogliono capire di più e meglio dove vivono e dove lavorano.

Capitalismo. Il futuro di un’illusione

Fred L. Block

il Mulino, 2021

Annunciati i tre finalisti del Premio Campiello Junior

Il 10 dicembre, in diretta streaming dall’Auditorium Headquarters Pirelli, è stata selezionata la terna finalista della 1a edizione del Campiello Junior, il nuovo riconoscimento letterario nato dalla collaborazione tra la Fondazione Campiello e le biblioteche Pirelli per opere italiane di narrativa e poesia scritte per ragazzi tra i 10 e i 14 anni.

Nel corso della Cerimonia di selezione la Giuria Tecnica del Premio ha scelto, tra gli oltre 81 libri ammessi, i tre finalisti:

Chiara Carminati, “Un pinguino a Trieste” (Bompiani),

Guido Quarzo – Anna Vivarelli, “La scatola dei sogni” (Editoriale Scienza),

Antonella Sbuelz, “Questa notte non torno” (Feltrinelli).

In questi giorni è stata composta una Giuria di 160 ragazzi dell’ultimo anno delle scuole primarie e del triennio delle scuole secondarie di primo grado, che tiene conto dei criteri statistici di distribuzione geografica e di fasce di età. Nei prossimi mesi la Giuria sarà chiamata a scegliere il vincitore, che sarà annunciato nel maggio 2022 e celebrato a settembre durante la Cerimonia di Premiazione del Campiello 2022.

Fondazione Pirelli insieme al Premio Campiello organizzerà inoltre, durante la primavera 2022, una serie di iniziative dedicate al mondo del libro e dell’editoria per ragazzi, rivolte alla giuria dei ragazzi, alle scuole e ai giovani lettori di tutta Italia, che vedranno anche la partecipazione degli autori dei libri finalisti.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.orgwww.premiocampiello.org.

Il 10 dicembre, in diretta streaming dall’Auditorium Headquarters Pirelli, è stata selezionata la terna finalista della 1a edizione del Campiello Junior, il nuovo riconoscimento letterario nato dalla collaborazione tra la Fondazione Campiello e le biblioteche Pirelli per opere italiane di narrativa e poesia scritte per ragazzi tra i 10 e i 14 anni.

Nel corso della Cerimonia di selezione la Giuria Tecnica del Premio ha scelto, tra gli oltre 81 libri ammessi, i tre finalisti:

Chiara Carminati, “Un pinguino a Trieste” (Bompiani),

Guido Quarzo – Anna Vivarelli, “La scatola dei sogni” (Editoriale Scienza),

Antonella Sbuelz, “Questa notte non torno” (Feltrinelli).

In questi giorni è stata composta una Giuria di 160 ragazzi dell’ultimo anno delle scuole primarie e del triennio delle scuole secondarie di primo grado, che tiene conto dei criteri statistici di distribuzione geografica e di fasce di età. Nei prossimi mesi la Giuria sarà chiamata a scegliere il vincitore, che sarà annunciato nel maggio 2022 e celebrato a settembre durante la Cerimonia di Premiazione del Campiello 2022.

Fondazione Pirelli insieme al Premio Campiello organizzerà inoltre, durante la primavera 2022, una serie di iniziative dedicate al mondo del libro e dell’editoria per ragazzi, rivolte alla giuria dei ragazzi, alle scuole e ai giovani lettori di tutta Italia, che vedranno anche la partecipazione degli autori dei libri finalisti.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.orgwww.premiocampiello.org.

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Che lavoro?

Una conversazione tra un esperto di risorse umane e un filosofo, condensa in poche pagine il senso del lavorare

 

Lavorare, dunque essere felici? Oppure, lavorare, dunque soffrire di una maledizione ineliminabile. Non si tratta di domande astratte, ma di interrogativi concreti e quotidiani. Che coinvolgono anche la natura stessa dell’impresa e cioè di quel luogo – materiale e immateriale -, entro il qual il lavoro si applica in gran parte delle occasioni. Anche oggi. Anche nel mondo della digitalizzazione nel quale impresa e lavoro si trovano ad operare.

E’ attorno a questi temi che ragionano Paolo Iacci – esperto di risorse umane -, e Umberto Galimberti – filosofo, accademico e psicoanalista -, in una conversazione a due voci riportata in “Dialogo sul lavoro e la felicità con Umberto Galimberti” pubblicato da poco.  Per la precisione, i due ragionano sulla risposta da dare ad una domanda precisa: il lavoro è una via per la felicità o una maledizione a cui è impossibile sottrarsi?

E’ dalle possibili risposte a questo quesito che si dipana il libro – poco più di cento pagine -, che raccoglie tutto lo scibile filosofico ed esperienziale che si è formato intorno al concetto e alla pratica del lavoro. E bastano i due estremi indicati nel dialogo tra Iacci e Galimberti per comprendere interesse e utilità del volume. Per gli antichi greci il primo passo verso la felicità consisteva nel conoscere la propria natura per poterla realizzare. L’attuale mondo del lavoro – regolato dal mercato e basato su logiche di mera efficienza produttiva – impedisce all’uomo di abbracciare la totalità del processo di produzione di cui è parte e di comprendere la valenza etica del suo impiego. A queste condizioni, il lavoro non può essere un mezzo per realizzare il proprio potenziale e raggiungere la felicità.

Equilibrio e partecipazione, coinvolgimento ed equità, realizzazione di se’ e vincoli da rispettare e molto altro ancora costituiscono tutti elementi che entrano nelle conversazioni del libro e che partono da numerosi richiami letterari e filosofici. Chi legge – occorre dirlo subito -, non trova soluzioni facili e preconfezionate, ma molti dubbi e molte domande, spunti per riflettere su ciò che accade oggi, strumenti per capire. Il lavoro che rende felici – è il messaggio di Iacci e Galimberti -, può esistere a patto che vincoli e ostacoli alla sua realizzazione siano rimossi. In che modo, è tutto da scoprire.  Percorso dunque difficile e complesso quello prospettato, che, ancora oggi, non sempre si compie fino in fondo.

Lettura affascinante – lasciata apposta in forma di dialogo -, quella che si può fare con questo libro. Che fin dalle prime righe dà tutto il senso della complessità del tema attraverso due citazioni – quella de “La chiave a stella” di Primo Levi e quella della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso contenuta nella “Genesi” -, ma anche con una bella frase dello stesso Galimberti: “Per me il lavoro è sempre stato l’ancoraggio alla vita e ai suoi problemi reali”.

Dialogo sul lavoro e la felicità con Umberto Galimberti

Paolo Iacci

Egea, 2021

Una conversazione tra un esperto di risorse umane e un filosofo, condensa in poche pagine il senso del lavorare

 

Lavorare, dunque essere felici? Oppure, lavorare, dunque soffrire di una maledizione ineliminabile. Non si tratta di domande astratte, ma di interrogativi concreti e quotidiani. Che coinvolgono anche la natura stessa dell’impresa e cioè di quel luogo – materiale e immateriale -, entro il qual il lavoro si applica in gran parte delle occasioni. Anche oggi. Anche nel mondo della digitalizzazione nel quale impresa e lavoro si trovano ad operare.

E’ attorno a questi temi che ragionano Paolo Iacci – esperto di risorse umane -, e Umberto Galimberti – filosofo, accademico e psicoanalista -, in una conversazione a due voci riportata in “Dialogo sul lavoro e la felicità con Umberto Galimberti” pubblicato da poco.  Per la precisione, i due ragionano sulla risposta da dare ad una domanda precisa: il lavoro è una via per la felicità o una maledizione a cui è impossibile sottrarsi?

E’ dalle possibili risposte a questo quesito che si dipana il libro – poco più di cento pagine -, che raccoglie tutto lo scibile filosofico ed esperienziale che si è formato intorno al concetto e alla pratica del lavoro. E bastano i due estremi indicati nel dialogo tra Iacci e Galimberti per comprendere interesse e utilità del volume. Per gli antichi greci il primo passo verso la felicità consisteva nel conoscere la propria natura per poterla realizzare. L’attuale mondo del lavoro – regolato dal mercato e basato su logiche di mera efficienza produttiva – impedisce all’uomo di abbracciare la totalità del processo di produzione di cui è parte e di comprendere la valenza etica del suo impiego. A queste condizioni, il lavoro non può essere un mezzo per realizzare il proprio potenziale e raggiungere la felicità.

Equilibrio e partecipazione, coinvolgimento ed equità, realizzazione di se’ e vincoli da rispettare e molto altro ancora costituiscono tutti elementi che entrano nelle conversazioni del libro e che partono da numerosi richiami letterari e filosofici. Chi legge – occorre dirlo subito -, non trova soluzioni facili e preconfezionate, ma molti dubbi e molte domande, spunti per riflettere su ciò che accade oggi, strumenti per capire. Il lavoro che rende felici – è il messaggio di Iacci e Galimberti -, può esistere a patto che vincoli e ostacoli alla sua realizzazione siano rimossi. In che modo, è tutto da scoprire.  Percorso dunque difficile e complesso quello prospettato, che, ancora oggi, non sempre si compie fino in fondo.

Lettura affascinante – lasciata apposta in forma di dialogo -, quella che si può fare con questo libro. Che fin dalle prime righe dà tutto il senso della complessità del tema attraverso due citazioni – quella de “La chiave a stella” di Primo Levi e quella della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso contenuta nella “Genesi” -, ma anche con una bella frase dello stesso Galimberti: “Per me il lavoro è sempre stato l’ancoraggio alla vita e ai suoi problemi reali”.

Dialogo sul lavoro e la felicità con Umberto Galimberti

Paolo Iacci

Egea, 2021

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?