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 La forza essenziale e “leggera” delle parole di Mattarella e Draghi

C’è una straordinaria forza, nelle parole. Come per esempio nei tre aggettivi, “sanitario”, “economico” e “sociale”, usati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella breve dichiarazione subito dopo aver ricevuto la notizia ufficiale della rielezione al Quirinale, per definire il terreno delle emergenze che l’Italia si trova ad affrontare. Tre aggettivi chiari, essenziali, che chiedono risposte politiche, programmi di governo, riforme in Parlamento. Per la salute. E lo sviluppo sostenibile.

Anche Mario Draghi, rassicurato e rinsaldato alla presidenza del Consiglio proprio dalla rielezione di Mattarella, è una persona abituata al linguaggio scabro e preciso. Resta, nell’annuario della buona politica, quella sua frase in tre parole, “whatever it takes”, che salvò l’euro e l’Europa (e dunque anche la tenuta economica e sociale dell’Italia). Adesso, coerentemente, Draghi sta facendo “tutto ciò che serve” per le riforme e gli investimenti necessari a portare il paese fuori dalle traversie dolorose della pandemia e della recessione.

C’è un’altra parola fondamentale , che ricorre nei loro discorsi pubblici: “conoscenza”. Che si declina anche in “competenza” e, naturalmente, in “formazione” e “scuola”.

“I giovani – aveva detto Draghi in un discorso del settembre 2017 al Trinity College di Dublino – non vogliono vivere di sussidi. Vogliono lavorare e accrescere le opportunità della loro vita”. E l’impegno di chi governa è fare fronte “a un’eredità di speranze deluse, rabbia e, in definitiva, sfiducia nei valori della nostra società e nell’identità della democrazia”. Fiducia da ricostruire, appunto, senza “alimentare false speranze” ma con indicazioni e scelte per speranze concrete”. Perché “privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. E dunque “la scuola è la prima spesa produttiva su cui investire”.

Adesso Draghi governa. Traduce parole progettuali in atti, norme, stanziamenti. Le scelte concrete del Pnrr, secondo le indicazioni del Recovery Plan della Ue, vanno in questa direzione.

Le parole sono importanti. “Pietre”, come ci ha insegnato Carlo Levi. Ma anche “leggere”, tutt’altro che vaghe e volatili, secondo le “Lezioni americane” di Italo Calvino: “Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. O i versi di Paul Valéry: “Si deve essere leggeri come l’uccello che vola e non come la piuma”.

La “leggerezza” responsabile e istituzionale di Mattarella. La “leggerezza” progettuale e pragmatica del buon governo di Draghi. Facile? “La facilità è una forma di perfezione che contiene la sostanza di un lungo lavoro”, per dirla con Paolo Conte, musicista capace di straordinaria poesia.

Mattarella è un giurista, forte di un’ampia e sofisticata cultura umanistica. Conosce bene, per studi ed esperienza, il significato di due frasi care alla cultura romana: “Rem tene, verba sequentur” ma anche “nomina sunt consequentia rerum”. E se è vero che il latino è il ragionare, ecco che le parole definiscono il mondo, ne raccontano la storia e ne indicano il futuro solo quando c’è una forte relazione con la sostanza delle cose. Altrimenti, si tratta di vuota retorica. Un buon giurista, appunto, lo sa.

Mario Draghi è un economista. Ha studiato in un ottimo liceo classico, dai gesuiti del “Massimo” di Roma e conosce bene anche lui il valore del discorso e il peso dei dati. Dal suo maestro universitario, Federico Caffè, ha imparato, tra l’altro, l’importanza dell’“economia degli affetti”, ragionando di valori, diritti delle persone, aspettative d’una migliore qualità della vita e del lavoro. E ne interpreta, in modo originale, un’idea forte del riformismo: “Il riformista preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione del ‘sistema’”.

Vale, per Mattarella e Draghi, il richiamo a una sottile eppur fondamentale differenza linguistica: “eloquens”, dicevano i latini, per indicare “colui che parla bene, in modo etico”, ben diverso dal loquens, “colui che parla”, spesso impropriamente. Tutta la differenza, radicale, sta in una “e”. La vita politica, anche adesso, ne offre parecchi esempi.

D’altronde, “il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto ‘sonoro’ potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino“. Il giudizio, severo e attualissimo, è di Giovannino Guareschi, scrittore acuto e sensibile, nell’Italia degli anni Cinquanta.

Oggi, la rivalutazione dello studio delle lingue classiche (il latino e il greco della filosofia e della scienza, oltre che della poesia e del grande teatro) nel contesto della “cultura politecnica” fa ben sperare. Conoscenza, appunto.

Continuando a ragionare di parole, viene in mente un altro gioco di sottili differenze. I francesi distinguono “écrivain”, lo scrittore (il romanziere, il filosofo, il saggista, l’autore di qualità) da “écrivant”, chi fa il mestiere d’una scrittura tecnica, usuale, burocratica. Scrittore e scrivano, insomma.

Sono fondamentali, gli occhi attenti alle differenze. In un mondo di gente che parla e scrive senza senso né intelligente cura per la responsabilità.

Mattarella è siciliano, d’animo retto e forte, tutto il contrario del “gattopardismo”, delle contorsioni verbali, delle imposture retoriche del potere, che ben conosce ma che per robusta etica personale e politica, non usa. E ha sicuramente dimestichezza con le pagine di Leonardo Sciascia. Come questa, tratta da “Gli zii di Sicilia”: “Io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; e il colonnello Carini, sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma a ogni momento pronto all’azione: un uomo che non pare abbia molte speranze eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori… una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e familiare la morte. Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto e amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice”.

Ecco, appunto: parole parche e dirette. Ancora Sciascia: “Credo nel mistero delle parole e che le parole possano diventare vita, destino, così come diventano bellezza”.

Bellezza è una parola “leggera”. Essenziale. Un impegno di lavoro e di vita. E, perché no?, di governo.

C’è una straordinaria forza, nelle parole. Come per esempio nei tre aggettivi, “sanitario”, “economico” e “sociale”, usati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella breve dichiarazione subito dopo aver ricevuto la notizia ufficiale della rielezione al Quirinale, per definire il terreno delle emergenze che l’Italia si trova ad affrontare. Tre aggettivi chiari, essenziali, che chiedono risposte politiche, programmi di governo, riforme in Parlamento. Per la salute. E lo sviluppo sostenibile.

Anche Mario Draghi, rassicurato e rinsaldato alla presidenza del Consiglio proprio dalla rielezione di Mattarella, è una persona abituata al linguaggio scabro e preciso. Resta, nell’annuario della buona politica, quella sua frase in tre parole, “whatever it takes”, che salvò l’euro e l’Europa (e dunque anche la tenuta economica e sociale dell’Italia). Adesso, coerentemente, Draghi sta facendo “tutto ciò che serve” per le riforme e gli investimenti necessari a portare il paese fuori dalle traversie dolorose della pandemia e della recessione.

C’è un’altra parola fondamentale , che ricorre nei loro discorsi pubblici: “conoscenza”. Che si declina anche in “competenza” e, naturalmente, in “formazione” e “scuola”.

“I giovani – aveva detto Draghi in un discorso del settembre 2017 al Trinity College di Dublino – non vogliono vivere di sussidi. Vogliono lavorare e accrescere le opportunità della loro vita”. E l’impegno di chi governa è fare fronte “a un’eredità di speranze deluse, rabbia e, in definitiva, sfiducia nei valori della nostra società e nell’identità della democrazia”. Fiducia da ricostruire, appunto, senza “alimentare false speranze” ma con indicazioni e scelte per speranze concrete”. Perché “privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. E dunque “la scuola è la prima spesa produttiva su cui investire”.

Adesso Draghi governa. Traduce parole progettuali in atti, norme, stanziamenti. Le scelte concrete del Pnrr, secondo le indicazioni del Recovery Plan della Ue, vanno in questa direzione.

Le parole sono importanti. “Pietre”, come ci ha insegnato Carlo Levi. Ma anche “leggere”, tutt’altro che vaghe e volatili, secondo le “Lezioni americane” di Italo Calvino: “Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. O i versi di Paul Valéry: “Si deve essere leggeri come l’uccello che vola e non come la piuma”.

La “leggerezza” responsabile e istituzionale di Mattarella. La “leggerezza” progettuale e pragmatica del buon governo di Draghi. Facile? “La facilità è una forma di perfezione che contiene la sostanza di un lungo lavoro”, per dirla con Paolo Conte, musicista capace di straordinaria poesia.

Mattarella è un giurista, forte di un’ampia e sofisticata cultura umanistica. Conosce bene, per studi ed esperienza, il significato di due frasi care alla cultura romana: “Rem tene, verba sequentur” ma anche “nomina sunt consequentia rerum”. E se è vero che il latino è il ragionare, ecco che le parole definiscono il mondo, ne raccontano la storia e ne indicano il futuro solo quando c’è una forte relazione con la sostanza delle cose. Altrimenti, si tratta di vuota retorica. Un buon giurista, appunto, lo sa.

Mario Draghi è un economista. Ha studiato in un ottimo liceo classico, dai gesuiti del “Massimo” di Roma e conosce bene anche lui il valore del discorso e il peso dei dati. Dal suo maestro universitario, Federico Caffè, ha imparato, tra l’altro, l’importanza dell’“economia degli affetti”, ragionando di valori, diritti delle persone, aspettative d’una migliore qualità della vita e del lavoro. E ne interpreta, in modo originale, un’idea forte del riformismo: “Il riformista preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione del ‘sistema’”.

Vale, per Mattarella e Draghi, il richiamo a una sottile eppur fondamentale differenza linguistica: “eloquens”, dicevano i latini, per indicare “colui che parla bene, in modo etico”, ben diverso dal loquens, “colui che parla”, spesso impropriamente. Tutta la differenza, radicale, sta in una “e”. La vita politica, anche adesso, ne offre parecchi esempi.

D’altronde, “il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto ‘sonoro’ potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino“. Il giudizio, severo e attualissimo, è di Giovannino Guareschi, scrittore acuto e sensibile, nell’Italia degli anni Cinquanta.

Oggi, la rivalutazione dello studio delle lingue classiche (il latino e il greco della filosofia e della scienza, oltre che della poesia e del grande teatro) nel contesto della “cultura politecnica” fa ben sperare. Conoscenza, appunto.

Continuando a ragionare di parole, viene in mente un altro gioco di sottili differenze. I francesi distinguono “écrivain”, lo scrittore (il romanziere, il filosofo, il saggista, l’autore di qualità) da “écrivant”, chi fa il mestiere d’una scrittura tecnica, usuale, burocratica. Scrittore e scrivano, insomma.

Sono fondamentali, gli occhi attenti alle differenze. In un mondo di gente che parla e scrive senza senso né intelligente cura per la responsabilità.

Mattarella è siciliano, d’animo retto e forte, tutto il contrario del “gattopardismo”, delle contorsioni verbali, delle imposture retoriche del potere, che ben conosce ma che per robusta etica personale e politica, non usa. E ha sicuramente dimestichezza con le pagine di Leonardo Sciascia. Come questa, tratta da “Gli zii di Sicilia”: “Io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; e il colonnello Carini, sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma a ogni momento pronto all’azione: un uomo che non pare abbia molte speranze eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori… una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e familiare la morte. Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto e amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice”.

Ecco, appunto: parole parche e dirette. Ancora Sciascia: “Credo nel mistero delle parole e che le parole possano diventare vita, destino, così come diventano bellezza”.

Bellezza è una parola “leggera”. Essenziale. Un impegno di lavoro e di vita. E, perché no?, di governo.

“Di mole non comune e robusta eleganza”: lo stabilimento Pirelli di via Ponte Seveso a Milano

Il 28 gennaio 1872 davanti al notaio Stefano Allocchio nasce la G.B. Pirelli & C., società in accomandita semplice per la fabbricazione e vendita di articoli di gomma elastica. Come si legge nell’atto notarile di costituzione, la società avrebbe avuto la durata di 9 anni, un capitale sociale di 215.000 lire e la sede “ai Corpi Santi di Milano”. Qui, precisamente in via Ponte Seveso, oggi via Fabio Filzi, iniziano ai primi di aprile i lavori per la costruzione della fabbrica, condotti dall’impresa dei fratelli Peregrini. Nel giugno del 1873 sono avviate le produzioni, inizialmente circoscritte agli articoli tecnici in gomma.

Lo stabilimento è descritto dal periodico “L’industriale” come “di mole non comune e non privo di quella robusta eleganza di cui vanno superbi molti stabilimenti esteri”. Come ci mostra un acquerello di Salvatore Corvaja, la prima fabbrica Pirelli occupa 1.000 metri quadri, in aperta campagna, con l’edificio destinato agli uffici sulla sinistra e lo stabilimento produttivo sulla destra. Impiega 40 operai e 5 impiegati, ma è destinato a crescere rapidamente, seguendo lo sviluppo della produzione, che nel 1876 si amplia fino a includere gli articoli per il consumo e nel 1879 i cavi elettrici e telegrafici. Ed ecco che nel 1881 gli operai sono saliti a 200 e lo stabilimento appare ingrandito, pur mantenendo la stessa struttura, come si vede nella raffigurazione stampata su una carta intestata di qualche anno dopo.

Nel 1883 viene avviata la produzione di filo elastico, una lavorazione particolarmente complessa che giustifica il salto dimensionale avvenuto subito dopo in termini di addetti e di struttura aziendale: nel 1884 la manodopera è infatti raddoppiata (400 operai) e l’area occupata dallo stabilimento è pari a 7.400 metri quadri, dei quali 6.150 coperti, con 4 motrici a vapore dalla potenza complessiva di 160 cavalli, 12 mescolatori, 3 calandre, 14 vulcanizzatori. Questa crescita è ben rappresentata in un disegno di Antonio Bonamore del 1888: l’area si è notevolmente ampliata e si sono moltiplicati i corpi di fabbrica, con 4 ciminiere. Nel 1890 sono i pneumatici per bicicletta a entrare nel catalogo dei prodotti Pirelli, seguiti nel 1901 da quelli per automobile.

Ed ecco una nuova espansione dello stabilimento, fino a raggiungere il massimo della superficie occupabile, vista la crescita concomitante della città intorno alla fabbrica: lo documenta la veduta pubblicata per la prima volta su un listino prezzi del 1900, poi ripresa e adattata da Domenico Bonamini nel 1922. Si renderà necessario l’acquisto di nuovi terreni, nell’area poco distante della Bicocca: inizia la storia del secondo sito produttivo Pirelli che segnerà il paesaggio e la storia della città di Milano.

Il 28 gennaio 1872 davanti al notaio Stefano Allocchio nasce la G.B. Pirelli & C., società in accomandita semplice per la fabbricazione e vendita di articoli di gomma elastica. Come si legge nell’atto notarile di costituzione, la società avrebbe avuto la durata di 9 anni, un capitale sociale di 215.000 lire e la sede “ai Corpi Santi di Milano”. Qui, precisamente in via Ponte Seveso, oggi via Fabio Filzi, iniziano ai primi di aprile i lavori per la costruzione della fabbrica, condotti dall’impresa dei fratelli Peregrini. Nel giugno del 1873 sono avviate le produzioni, inizialmente circoscritte agli articoli tecnici in gomma.

Lo stabilimento è descritto dal periodico “L’industriale” come “di mole non comune e non privo di quella robusta eleganza di cui vanno superbi molti stabilimenti esteri”. Come ci mostra un acquerello di Salvatore Corvaja, la prima fabbrica Pirelli occupa 1.000 metri quadri, in aperta campagna, con l’edificio destinato agli uffici sulla sinistra e lo stabilimento produttivo sulla destra. Impiega 40 operai e 5 impiegati, ma è destinato a crescere rapidamente, seguendo lo sviluppo della produzione, che nel 1876 si amplia fino a includere gli articoli per il consumo e nel 1879 i cavi elettrici e telegrafici. Ed ecco che nel 1881 gli operai sono saliti a 200 e lo stabilimento appare ingrandito, pur mantenendo la stessa struttura, come si vede nella raffigurazione stampata su una carta intestata di qualche anno dopo.

Nel 1883 viene avviata la produzione di filo elastico, una lavorazione particolarmente complessa che giustifica il salto dimensionale avvenuto subito dopo in termini di addetti e di struttura aziendale: nel 1884 la manodopera è infatti raddoppiata (400 operai) e l’area occupata dallo stabilimento è pari a 7.400 metri quadri, dei quali 6.150 coperti, con 4 motrici a vapore dalla potenza complessiva di 160 cavalli, 12 mescolatori, 3 calandre, 14 vulcanizzatori. Questa crescita è ben rappresentata in un disegno di Antonio Bonamore del 1888: l’area si è notevolmente ampliata e si sono moltiplicati i corpi di fabbrica, con 4 ciminiere. Nel 1890 sono i pneumatici per bicicletta a entrare nel catalogo dei prodotti Pirelli, seguiti nel 1901 da quelli per automobile.

Ed ecco una nuova espansione dello stabilimento, fino a raggiungere il massimo della superficie occupabile, vista la crescita concomitante della città intorno alla fabbrica: lo documenta la veduta pubblicata per la prima volta su un listino prezzi del 1900, poi ripresa e adattata da Domenico Bonamini nel 1922. Si renderà necessario l’acquisto di nuovi terreni, nell’area poco distante della Bicocca: inizia la storia del secondo sito produttivo Pirelli che segnerà il paesaggio e la storia della città di Milano.

Milano – Torino andata e ritorno: avviata la collaborazione tra Fondazione Pirelli Educational e il dipartimento educativo del Museo Lavazza

Un filo diretto collega in questo nuovo anno Milano a Torino attraverso le scuole di tutta Italia. Per la prima volta infatti i dipartimenti educativi della Fondazione Pirelli e del Museo Lavazza collaborano in sinergia per permettere agli studenti di avvicinarsi a due aziende la cui storia è legata alla ricerca di materiali innovativi e allo sviluppo di prodotti. Due aziende che hanno valorizzato, fin dalle origini, la propria cultura d’impresa e   mantenuto costante nel tempo l’attenzione verso la sostenibilità. Sono proprio alcuni degli aspetti che riguardano la sfera della sostenibilità, come l’attenzione verso le persone e i luoghi di lavoro, la ricerca di materie prime sostenibili e l’utilizzo di energie rinnovabili, al centro di tre percorsi comuni dedicati agli studenti di scuole e università.

Alle scuole secondarie di II grado è dedicato il percorso Sulla strada dell’innovazione per conoscere i cambiamenti, le novità e le invenzioni tecnologiche introdotte da Pirelli nell’arco di 150 anni, che ricorrono quest’anno, e parallelamente entrare nel cuore di Lavazza attraverso il percorso Una cura di eccellenza. Il progetto Tierra! che li condurrà alla scoperta della storia del caffé.

Grazie a questa collaborazione anche gli studenti universitari potranno conoscere le storie d’impresa delle due aziende nate dal forte spirito imprenditioriale di due figure come Giovanni Battista Pirelli e Luigi Lavazza  attraverso i rispettivi percorsi dedicati L’impresa ieri e oggi e Angelo Moriondo e Luigi Lavazza: uomini d’impresa nel mondo del caffe’. Infine per gli studenti di architettura, in particolare, sarà possibile analizzare le trasformazioni urbanistiche che hanno interessato alcune grandi aree di Milano e di Torino grazie agli interventi di Pirelli e Lavazza, rispettivamente nell’area Bicocca dove ha sede l’Headquarters Pirelli progettato da Vittorio Gregotti e la Nuvola Lavazza di Cino Zucchi che accoglie anche il Museo aziendale (Le architetture dell’industria e Il Museo Lavazza in una Nuvola)

Per maggiori informazioni scrivere a scuole@fondazionepirelli.org (Fondazione Pirelli), info.museo@lavazza.com (Museo Lavazza)

Un filo diretto collega in questo nuovo anno Milano a Torino attraverso le scuole di tutta Italia. Per la prima volta infatti i dipartimenti educativi della Fondazione Pirelli e del Museo Lavazza collaborano in sinergia per permettere agli studenti di avvicinarsi a due aziende la cui storia è legata alla ricerca di materiali innovativi e allo sviluppo di prodotti. Due aziende che hanno valorizzato, fin dalle origini, la propria cultura d’impresa e   mantenuto costante nel tempo l’attenzione verso la sostenibilità. Sono proprio alcuni degli aspetti che riguardano la sfera della sostenibilità, come l’attenzione verso le persone e i luoghi di lavoro, la ricerca di materie prime sostenibili e l’utilizzo di energie rinnovabili, al centro di tre percorsi comuni dedicati agli studenti di scuole e università.

Alle scuole secondarie di II grado è dedicato il percorso Sulla strada dell’innovazione per conoscere i cambiamenti, le novità e le invenzioni tecnologiche introdotte da Pirelli nell’arco di 150 anni, che ricorrono quest’anno, e parallelamente entrare nel cuore di Lavazza attraverso il percorso Una cura di eccellenza. Il progetto Tierra! che li condurrà alla scoperta della storia del caffé.

Grazie a questa collaborazione anche gli studenti universitari potranno conoscere le storie d’impresa delle due aziende nate dal forte spirito imprenditioriale di due figure come Giovanni Battista Pirelli e Luigi Lavazza  attraverso i rispettivi percorsi dedicati L’impresa ieri e oggi e Angelo Moriondo e Luigi Lavazza: uomini d’impresa nel mondo del caffe’. Infine per gli studenti di architettura, in particolare, sarà possibile analizzare le trasformazioni urbanistiche che hanno interessato alcune grandi aree di Milano e di Torino grazie agli interventi di Pirelli e Lavazza, rispettivamente nell’area Bicocca dove ha sede l’Headquarters Pirelli progettato da Vittorio Gregotti e la Nuvola Lavazza di Cino Zucchi che accoglie anche il Museo aziendale (Le architetture dell’industria e Il Museo Lavazza in una Nuvola)

Per maggiori informazioni scrivere a scuole@fondazionepirelli.org (Fondazione Pirelli), info.museo@lavazza.com (Museo Lavazza)

Un trittico di monete e un francobollo per celebrare 150 anni di Pirelli

“La Collezione Numismatica del 2022 è innovativa nei temi e nelle tecniche di produzione, oltre che nelle modalità di comunicazione e commercializzazione. È un esempio di come le aziende pubbliche possono essere portatrici di grande innovazione, mentre curano obiettivi di interesse generale. Molti soggetti della collezione 2022 ricordano e celebrano protagonisti e progetti importanti per l’Italia e l’Europa.” Ha così commentato il Direttore Generale del Tesoro, Alessandro Rivera, la Collezione Numismatica 2022, presentata oggi dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Poligrafico e Zecca dello Stato al Museo della Zecca di Roma. All’interno del catalogo, nella Serie “Eccellenze Italiane”, anche un trittico di monete celebrative in oro e argento, dedicate al 150° anniversario della fondazione della Pirelli. I soggetti riprodotti sulle tre monete con tecniche manuali e digitali e con inserti a colori, rappresentano le innovazioni dei prodotti e della comunicazione visiva dell’azienda nel tempo: un pneumatico che corre su un’auto stilizzata, le iconiche campagne pubblicitarie dei primi del Novecento e degli anni Sessanta, l’immagine della prima fabbrica, fondata nel 1872 da Giovanni Battista Pirelli in via Ponte Seveso, a Milano. Venerdì 28 gennaio sarà emesso anche un francobollo dedicato all’azienda, nella serie tematica “le Eccellenze del sistema produttivo ed economico”. Creatività, genio e industria vengono così celebrati attraverso oggetti da collezione che esprimono l’identità storica, artistica, culturale e ideale del Gruppo Pirelli.

“La Collezione Numismatica del 2022 è innovativa nei temi e nelle tecniche di produzione, oltre che nelle modalità di comunicazione e commercializzazione. È un esempio di come le aziende pubbliche possono essere portatrici di grande innovazione, mentre curano obiettivi di interesse generale. Molti soggetti della collezione 2022 ricordano e celebrano protagonisti e progetti importanti per l’Italia e l’Europa.” Ha così commentato il Direttore Generale del Tesoro, Alessandro Rivera, la Collezione Numismatica 2022, presentata oggi dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Poligrafico e Zecca dello Stato al Museo della Zecca di Roma. All’interno del catalogo, nella Serie “Eccellenze Italiane”, anche un trittico di monete celebrative in oro e argento, dedicate al 150° anniversario della fondazione della Pirelli. I soggetti riprodotti sulle tre monete con tecniche manuali e digitali e con inserti a colori, rappresentano le innovazioni dei prodotti e della comunicazione visiva dell’azienda nel tempo: un pneumatico che corre su un’auto stilizzata, le iconiche campagne pubblicitarie dei primi del Novecento e degli anni Sessanta, l’immagine della prima fabbrica, fondata nel 1872 da Giovanni Battista Pirelli in via Ponte Seveso, a Milano. Venerdì 28 gennaio sarà emesso anche un francobollo dedicato all’azienda, nella serie tematica “le Eccellenze del sistema produttivo ed economico”. Creatività, genio e industria vengono così celebrati attraverso oggetti da collezione che esprimono l’identità storica, artistica, culturale e ideale del Gruppo Pirelli.

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Come cambiare

Pubblicato in Italia “Impact”, il libro che delinea un orizzonte nel quale la buona cultura d’impresa trova la sua realizzazione migliore

 

Attenzione al profitto ma anche all’etica. Successo a tutto tondo, non solo di bilancio. E’ sicuramente questo il nuovo orizzonte dell’economia e della produzione. Orizzonte delineato nelle sue componenti principali ma ancora difficile da raggiungere per molte imprese e vasti territori. E che, ormai a livello globale, ha un nome preciso: impact revolution. E’ attorno a questo concetto – ed a tutto quello che si porta dietro -, che è dedicato “Impact. La rivoluzione che sta cambiando il capitalismo” scritto da Ronald Cohen  e appena pubblicato anche in Italia.

Il libro è una sorta di sintesi proprio del nuovo orizzonte che i sistemi economici e sociali hanno davanti. E che viene ben espresso fin dalle prime righe: “Non possiamo cambiare il mondo iniettando altri soldi in idee vecchie che non funzionano più; abbiamo bisogno di idee e approcci nuovi”. Che, detto in altro modo, significa cercare una via alternativa per arrivare a un mondo nuovo dove la disuguaglianza diminuisca, dove le risorse naturali vengano rigenerate e le persone possano beneficiare di una prosperità conzivisa. Prospettive che non significano dar vita a imprese buoniste dedite ad una beneficienza fine a se stessa, ma a qualcosa di completamente nuovo rispetto al passato (e a buona parte del presente). Cohen – investitore, imprenditore, filantropo, innovatore nell’ambito della finanza sociale – cerca di dare ordine alle idee che ruotano attorno alla impact revolution. Ad iniziare proprio dal chiarire cosa significhino e cosa possano contenere i due vocaboli impact revolution (è in queste pagine che appare anche la cosiddetta “tripla elica rischio-rendimento-impatto”), per passare poi a raccontare gli imprenditori che prima di altri ne hanno colto il senso e quindi arrivare al ruolo degli investitori che stanno già spingendo le imprese a integrare il concetto di “impatto nei loro prodotti”. Successivamente, quindi, Cohen si occupa degli effetti della impact revolution all’interno delle grandi imprese e poi del significato della filantropia “per fare in modo che la vita delle persone e l’ambiente migliorino il più possibile”. Gli ultimi due passaggi del libro, infine, sono dedicati a quanto possono fare governi e istituzioni e al cammino che ancora deve essere compiuto.

Scrive ad un certo punto del libro l’autore: “Non possiamo rimanere aggrappati a un sistema che non cerca attivamente di avere un impatto positivo e al tempo stesso dà luogo a conseguenze negative che costringono i governi a spendere una fortuna per cercare di porvi rimedio”.

Ronald Cohen ha certamente scritto un libro affascinante e visionario, da leggere e ragionare con attenzione. Anche in Italia e anche nelle imprese italiane.

Impact. La rivoluzione che sta cambiando il capitalismo

Ronald Cohen

Luiss University Press, 2022

Pubblicato in Italia “Impact”, il libro che delinea un orizzonte nel quale la buona cultura d’impresa trova la sua realizzazione migliore

 

Attenzione al profitto ma anche all’etica. Successo a tutto tondo, non solo di bilancio. E’ sicuramente questo il nuovo orizzonte dell’economia e della produzione. Orizzonte delineato nelle sue componenti principali ma ancora difficile da raggiungere per molte imprese e vasti territori. E che, ormai a livello globale, ha un nome preciso: impact revolution. E’ attorno a questo concetto – ed a tutto quello che si porta dietro -, che è dedicato “Impact. La rivoluzione che sta cambiando il capitalismo” scritto da Ronald Cohen  e appena pubblicato anche in Italia.

Il libro è una sorta di sintesi proprio del nuovo orizzonte che i sistemi economici e sociali hanno davanti. E che viene ben espresso fin dalle prime righe: “Non possiamo cambiare il mondo iniettando altri soldi in idee vecchie che non funzionano più; abbiamo bisogno di idee e approcci nuovi”. Che, detto in altro modo, significa cercare una via alternativa per arrivare a un mondo nuovo dove la disuguaglianza diminuisca, dove le risorse naturali vengano rigenerate e le persone possano beneficiare di una prosperità conzivisa. Prospettive che non significano dar vita a imprese buoniste dedite ad una beneficienza fine a se stessa, ma a qualcosa di completamente nuovo rispetto al passato (e a buona parte del presente). Cohen – investitore, imprenditore, filantropo, innovatore nell’ambito della finanza sociale – cerca di dare ordine alle idee che ruotano attorno alla impact revolution. Ad iniziare proprio dal chiarire cosa significhino e cosa possano contenere i due vocaboli impact revolution (è in queste pagine che appare anche la cosiddetta “tripla elica rischio-rendimento-impatto”), per passare poi a raccontare gli imprenditori che prima di altri ne hanno colto il senso e quindi arrivare al ruolo degli investitori che stanno già spingendo le imprese a integrare il concetto di “impatto nei loro prodotti”. Successivamente, quindi, Cohen si occupa degli effetti della impact revolution all’interno delle grandi imprese e poi del significato della filantropia “per fare in modo che la vita delle persone e l’ambiente migliorino il più possibile”. Gli ultimi due passaggi del libro, infine, sono dedicati a quanto possono fare governi e istituzioni e al cammino che ancora deve essere compiuto.

Scrive ad un certo punto del libro l’autore: “Non possiamo rimanere aggrappati a un sistema che non cerca attivamente di avere un impatto positivo e al tempo stesso dà luogo a conseguenze negative che costringono i governi a spendere una fortuna per cercare di porvi rimedio”.

Ronald Cohen ha certamente scritto un libro affascinante e visionario, da leggere e ragionare con attenzione. Anche in Italia e anche nelle imprese italiane.

Impact. La rivoluzione che sta cambiando il capitalismo

Ronald Cohen

Luiss University Press, 2022

Le tante ricostruzioni possibili da qui in avanti

Una raccolta di saggi e ricerche mette a fuoco i molteplici aspetti delle “ricostruzioni” alle quali istituzioni, imprese e cittadini sono chiamati

Ricostruire. Missione difficile ma non impossibile che oggi un po’ tutti si trovano davanti: singoli cittadini e istituzioni, famiglie e imprese. Ricostruire qualcosa che – non sempre e non totalmente ma comunque in buona parte per tutto e per tutti -, è andato distrutto non per causa di una guerra ma per una pandemia che ha stravolto, relativamente in breve tempo, vite, organizzazioni, aziende, piani e progetti per il futuro. E’ attorno a questo obiettivo – materiale ma anche culturale -, che ragiona l’insieme di interventi raccolto in “Ricostruzioni”, l’ultimo numero del 2021 della rivista “il Mulino” da poco pubblicato.

Ricostruire, quindi, dopo una guerra, dopo una carestia, dopo un disastro naturale come un terremoto o un’alluvione. E, naturalmente, dopo una pandemia. E cioè rimettere in moto processi virtuosi per ridare luce a un futuro per le nostre comunità, per una società più equa e un’economia più sostenibile. La raccolta di saggi cerca di prendere in considerazione ogni sfaccettatura del tema. E ci riesce.

Ad iniziare dal ragionamento condotto attorno al concetto stesso di ricostruzione (e cioè tra il conservare e basta oppure il rinnovare), per passare poi agli aspetti più legati all’economia e quindi a quelli affini alle strutture politiche e sociali che possono essere coinvolte in una ricostruzione. E senza trascurare temi più puntuali e particolari come quelli della fiducia nelle istituzioni, della necessaria riforma della sanità, della necessità di guardare oltre la pandemia (in qualche modo contingente) per trovare spunti e risorse da dedicare alla realizzazione di un altro Paese migliore di quello che ci si è lasciato alle spalle.

La raccolta di saggi e ricerche de “il Mulino” contiene poi approfondimenti solo in apparenza distanti dall’oggi come i racconti di cosa accadde all’indomani di alcune guerre guerreggiate oppure altri che fanno riferimento all’ambiente e al mutamento climatico.

E fa da sintesi splendida a tutto la citazione di un passo dei diari di Piero Calamandrei: “Non più indipendenza, ma ‘interdipendenza’: questa è la parola non nuova in cui, se non si vuol che il domani ripeta e aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato: libertà come consapevolezza della solidarietà umana che unisce in essa gli individui e i popoli, come coscienza della loro dipendenza scambievole; come condizione di giustizia sociale da rispettare e da difendere prima negli altri che in noi; come reciprocità e come collaborazione a una più vasta unità”.

Tutto da leggere l’ultimo numero del 2021 de “il Mulino”.

 

Ricostruzioni

AA.VV.

il Mulino, 4/21

Una raccolta di saggi e ricerche mette a fuoco i molteplici aspetti delle “ricostruzioni” alle quali istituzioni, imprese e cittadini sono chiamati

Ricostruire. Missione difficile ma non impossibile che oggi un po’ tutti si trovano davanti: singoli cittadini e istituzioni, famiglie e imprese. Ricostruire qualcosa che – non sempre e non totalmente ma comunque in buona parte per tutto e per tutti -, è andato distrutto non per causa di una guerra ma per una pandemia che ha stravolto, relativamente in breve tempo, vite, organizzazioni, aziende, piani e progetti per il futuro. E’ attorno a questo obiettivo – materiale ma anche culturale -, che ragiona l’insieme di interventi raccolto in “Ricostruzioni”, l’ultimo numero del 2021 della rivista “il Mulino” da poco pubblicato.

Ricostruire, quindi, dopo una guerra, dopo una carestia, dopo un disastro naturale come un terremoto o un’alluvione. E, naturalmente, dopo una pandemia. E cioè rimettere in moto processi virtuosi per ridare luce a un futuro per le nostre comunità, per una società più equa e un’economia più sostenibile. La raccolta di saggi cerca di prendere in considerazione ogni sfaccettatura del tema. E ci riesce.

Ad iniziare dal ragionamento condotto attorno al concetto stesso di ricostruzione (e cioè tra il conservare e basta oppure il rinnovare), per passare poi agli aspetti più legati all’economia e quindi a quelli affini alle strutture politiche e sociali che possono essere coinvolte in una ricostruzione. E senza trascurare temi più puntuali e particolari come quelli della fiducia nelle istituzioni, della necessaria riforma della sanità, della necessità di guardare oltre la pandemia (in qualche modo contingente) per trovare spunti e risorse da dedicare alla realizzazione di un altro Paese migliore di quello che ci si è lasciato alle spalle.

La raccolta di saggi e ricerche de “il Mulino” contiene poi approfondimenti solo in apparenza distanti dall’oggi come i racconti di cosa accadde all’indomani di alcune guerre guerreggiate oppure altri che fanno riferimento all’ambiente e al mutamento climatico.

E fa da sintesi splendida a tutto la citazione di un passo dei diari di Piero Calamandrei: “Non più indipendenza, ma ‘interdipendenza’: questa è la parola non nuova in cui, se non si vuol che il domani ripeta e aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato: libertà come consapevolezza della solidarietà umana che unisce in essa gli individui e i popoli, come coscienza della loro dipendenza scambievole; come condizione di giustizia sociale da rispettare e da difendere prima negli altri che in noi; come reciprocità e come collaborazione a una più vasta unità”.

Tutto da leggere l’ultimo numero del 2021 de “il Mulino”.

 

Ricostruzioni

AA.VV.

il Mulino, 4/21

150 ANNI DI STORIA: INDUSTRIA, CULTURA, INNOVAZIONE, PERSONE, PER COSTRUIRE UN FUTURO SOSTENIBILE

La nostra industria è per sua natura progressiva”. È il 1880 quando Giovanni Battista Pirelli dà, dell’impresa da poco fondata, questa definizione che in poche, essenziali battute, ricapitola il senso e l’orizzonte del progetto che da poco ha preso vita. “Progressiva” e cioè impegnata a interpretare, realizzare e rilanciare il progresso. Industriale, tecnologico, produttivo, ma anche economico e sociale.

L’ultimo trentennio dell’Ottocento, anche in Italia, ha i colori dell’ottimismo. Si respira fiducia. Si immaginano finalmente “magnifiche sorti, e progressive”, capovolgendo in positivo il pessimismo critico de “La ginestra” di Giacomo Leopardi.

Il secolo che va verso la fine sembra tutt’altro che “superbo e sciocco”. Le nubi dei conflitti si allontanano, dopo la guerra franco-prussiana del ‘70-‘71. L’Italia, con la presa di Porta Pia, nel settembre 1870, ha finalmente Roma come capitale. L’industria avanza impetuosamente in tutta Europa e pure l’Italia, soprattutto in Lombardia, in Piemonte e in Liguria, ma anche nella Palermo dei Florio, cerca di recuperare lo svantaggio dei ritardi di partenza. Girano soldi, nascono banche. C’è effervescenza per le avventure coloniali in terra d’Africa. Si aprono manifatture, si costruiscono ferrovie e si fondano giornali, il “Corriere della Sera” a Milano nel 1876, “La Stampa” a Torino nel 1867 (con il nome iniziale di “Gazzetta Piemontese”), “Il Messaggero” a Roma nel 1878. Fare. E fare sapere. L’impresa. E il suo racconto.

Irrompe la modernità. Si sperimentano novità in letteratura e in pittura, nella musica e nelle scienze, nella moda e nei costumi, più allegri, disinvolti, liberi. La realtà delle trasformazioni economiche e sociali si rafforza con i sentimenti audaci d’una borghesia che pretende cambiamenti. Ci si prepara all’avvento del Novecento e alla frenesia della Belle Époque. Quell’aggettivo usato dal giovane industriale Pirelli, “progressivo”, coglie bene il segno dei tempi.

E definisce subito una tendenza che accompagnerà il lungo corso di vita dell’impresa che porta il suo nome: la sintonia con la contemporaneità, l’attitudine all’innovazione.
Lungo corso: 150 anni. Da festeggiare, con una serie di iniziative che cominciano venerdì 28, la data dell’atto di fondazione della Pirelli, con una rappresentazione al Piccolo Teatro di Milano costruita sull’intreccio tra ricostruzioni storiche, testimonianze d’attualità e ipotesi di futuro (sul palco e in collegamento in diretta, Ferruccio de Bortoli, Stefano Domenicali, Giampiero Massolo, Paolo Mieli, Renzo Piano, Alberto Pirelli, Ferruccio Resta, Anna Maria Testa e Marco Tronchetti Provera, con la conduzione di Ilaria D’Amico). Si continua con un calendario di altre iniziative, istituzionali, culturali ed economiche, anche nei paesi del mondo in cui Pirelli ha una forte presenza industriale e commerciale (tra le iniziative, per scelta della Zecca e del Poligrafico dello Stato, ci sono anche tre monete commemorative e un francobollo speciale, nella serie dedicata “alle eccellenze del sistema economico”).
Il senso di fondo delle rappresentazioni è raccontare come si sia costruita una storia particolare che lega industria, tecnologie, cultura, comunicazione, sport. E come, nel segno dell’innovazione, ci sia ancora molta strada da poter percorrere.

Tutto comincia, appunto, il 28 gennaio del 1872, nello studio del notaio Stefano Allocchio, a Milano. Nasce la società in accomandita semplice GB Pirelli & C. L’imprenditore, Giovanni Battista Pirelli, è fresco di laurea al Politecnico di Milano e reduce da un lungo viaggio d’istruzione nei paesi allora più industrializzati d’Europa, dove concentra l’attenzione su una lavorazione che ancora in Italia non c’è: quella della gomma, del caoutchouc.

Eccolo, il germe dell’impresa: un’idea innovativa che diventa cinghie, valvole, tubi, cavi rivestiti e poi ancora impermeabili, cuffie, giocattoli… E, dall’inizio del Novecento, pneumatici. Tutto di gomma. Si parte in un piccolo stabilimento industriale, in via Ponte Seveso, pochi operai, macchine d’avanguardia. Poi, si cresce. In Italia. E, rapidamente, nel mondo.
Il segno dell’innovazione è duplice: nei prodotti e nella scelta di muoversi sui mercati internazionali più selettivi, severi: i cavi per trasportare energia e segnali di comunicazione, i pneumatici per le competizioni sportive più impegnative (si comincia con la vittoria della Pechino-Parigi nel 1907) e per l’utilizzo quotidiano più sofisticato.
L’intero corso del Novecento si snoda secondo queste direttrici, insistendo anche sulla qualità e sull’efficienza degli impianti produttivi, un po’ dovunque nel mondo, dall’Italia alla Germania, dalla Gran Bretagna alla Romania, dal Brasile all’Argentina, dagli Stati Uniti al Messico, dalla Russia alla Cina, dalla Turchia all’Indonesia (per citare solo i paesi in cui c’è ancora oggi una presenza industriale).

L’attualità racconta fabbriche innovative, digitali. Con un’attenzione rilevante alla sostenibilità ambientale e sociale, all’energia rinnovabile, alla sicurezza. E con un’idea di fondo, quella della “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, trasparente, sicura, in cui la qualità dei luoghi di lavoro e la qualità dei prodotti siano in piena sintonia. Lo stabilimento di Settimo Torinese, con “la Spina” progettata da Renzo Piano e che lega le due strutture produttive, ospitando uffici, servizi e laboratori di ricerca, in una sorta di parco con quattrocento alberi di ciliegio, ne è un buon esempio, un paradigma adottato anche in altri stabilimenti nel mondo. La qualità delle architetture industriali, d’altronde, è un altro segno distintivo della lunga esperienza Pirelli: il Grattacielo Pirelli progettato da Gio Ponti, simbolo del boom economico degli anni Sessanta e la ristrutturazione della Bicocca firmata da Vittorio Gregotti, con l’Headquarter Pirelli tutt’attorno alla Torre di raffreddamento della vecchia fabbrica. Progetti e costruzioni che fanno da landmark metropolitani della contemporaneità.
Un’impresa, infatti, “vive, nel corso del tempo, se ha dei valori che ispirano le persone che la guidano e coinvolgono tutti coloro che vi operano. La passione per il lavoro ben fatto, per esempio. Il gusto spiccato per l’innovazione. La consapevolezza di essere un attore fondamentale non solo della crescita economica, ma più in generale dello sviluppo sociale, civile, culturale. Sono valori forti, elementi di un’identità che si evolve, ma che mantiene salde radici nella propria memoria e uno sguardo sempre aperto al cambiamento, alle sfide della contemporaneità”, sostiene Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli.

La relazione, storica e contemporanea, con il mondo delle corse è testimonianza evidente della forza di queste sfide.
Le competizioni, infatti, dai rally alla Formula 1, sono una straordinaria opportunità di test e di evoluzione dei prodotti. Le piste di gara e quelle di prova sono un laboratorio speciale a cielo aperto, un banco di sperimentazione dei prodotti in condizioni estreme di uso. E i risultati si riflettono sulle produzioni per il mercato. Con una circolarità di rapporti, tra pista e strada, che rafforzano la capacità competitiva della Pirelli e ne definiscono, anche in prospettiva, l’orizzonte di sviluppo.
L’innovazione, insomma, è un percorso a tutto tondo, anche adesso che si entra nel vivo delle nuove dimensioni del produrre e del vivere. L’auto elettrica e la mobilità da smart city. Le fabbriche digitali. I robot nelle strutture della fabbrica data driven. I simulatori high-tech. Le nanotecnologie. I cybertyre. E l’Intelligenza Artificiale applicata alla ricerca, alla produzione, al consumo. Tutti i capitoli di una storia che si sta proprio adesso vivendo e scrivendo. E che chiede anche alla cultura economica e alla cultura d’impresa un profondo impegno di analisi e di proposte sui nuovi equilibri economici e sociali.

Mercato, welfare, democrazia stessi sono in tensione. Scienza e conoscenza sono sollecitate a una inedita dimensione della responsabilità.
C’è uno slogan, che caratterizza la comunicazione Pirelli: “Power is nothing without control”. Accompagnava una campagna pubblicitaria del 1994, con Carl Lewis, straordinario campione mondiale di velocità, fotografato da Annie Leibovitz con un paio di scarpe rosse con i tacchi a spillo. Innovazione e ironia. Lo slogan, nel tempo, è andato al di là di quella brillante scelta di comunicazione. Ha ampliato il suo senso. Parla di relazione tra potenza (e potere) e controllo e dunque di equilibrio, di responsabilità. Una scelta di cultura d’impresa. Ma anche un’indicazione di cultura e di senso civile generale. Un “classico”, insomma. Carico dunque d’un forte valore d’attualità.

La nostra industria è per sua natura progressiva”. È il 1880 quando Giovanni Battista Pirelli dà, dell’impresa da poco fondata, questa definizione che in poche, essenziali battute, ricapitola il senso e l’orizzonte del progetto che da poco ha preso vita. “Progressiva” e cioè impegnata a interpretare, realizzare e rilanciare il progresso. Industriale, tecnologico, produttivo, ma anche economico e sociale.

L’ultimo trentennio dell’Ottocento, anche in Italia, ha i colori dell’ottimismo. Si respira fiducia. Si immaginano finalmente “magnifiche sorti, e progressive”, capovolgendo in positivo il pessimismo critico de “La ginestra” di Giacomo Leopardi.

Il secolo che va verso la fine sembra tutt’altro che “superbo e sciocco”. Le nubi dei conflitti si allontanano, dopo la guerra franco-prussiana del ‘70-‘71. L’Italia, con la presa di Porta Pia, nel settembre 1870, ha finalmente Roma come capitale. L’industria avanza impetuosamente in tutta Europa e pure l’Italia, soprattutto in Lombardia, in Piemonte e in Liguria, ma anche nella Palermo dei Florio, cerca di recuperare lo svantaggio dei ritardi di partenza. Girano soldi, nascono banche. C’è effervescenza per le avventure coloniali in terra d’Africa. Si aprono manifatture, si costruiscono ferrovie e si fondano giornali, il “Corriere della Sera” a Milano nel 1876, “La Stampa” a Torino nel 1867 (con il nome iniziale di “Gazzetta Piemontese”), “Il Messaggero” a Roma nel 1878. Fare. E fare sapere. L’impresa. E il suo racconto.

Irrompe la modernità. Si sperimentano novità in letteratura e in pittura, nella musica e nelle scienze, nella moda e nei costumi, più allegri, disinvolti, liberi. La realtà delle trasformazioni economiche e sociali si rafforza con i sentimenti audaci d’una borghesia che pretende cambiamenti. Ci si prepara all’avvento del Novecento e alla frenesia della Belle Époque. Quell’aggettivo usato dal giovane industriale Pirelli, “progressivo”, coglie bene il segno dei tempi.

E definisce subito una tendenza che accompagnerà il lungo corso di vita dell’impresa che porta il suo nome: la sintonia con la contemporaneità, l’attitudine all’innovazione.
Lungo corso: 150 anni. Da festeggiare, con una serie di iniziative che cominciano venerdì 28, la data dell’atto di fondazione della Pirelli, con una rappresentazione al Piccolo Teatro di Milano costruita sull’intreccio tra ricostruzioni storiche, testimonianze d’attualità e ipotesi di futuro (sul palco e in collegamento in diretta, Ferruccio de Bortoli, Stefano Domenicali, Giampiero Massolo, Paolo Mieli, Renzo Piano, Alberto Pirelli, Ferruccio Resta, Anna Maria Testa e Marco Tronchetti Provera, con la conduzione di Ilaria D’Amico). Si continua con un calendario di altre iniziative, istituzionali, culturali ed economiche, anche nei paesi del mondo in cui Pirelli ha una forte presenza industriale e commerciale (tra le iniziative, per scelta della Zecca e del Poligrafico dello Stato, ci sono anche tre monete commemorative e un francobollo speciale, nella serie dedicata “alle eccellenze del sistema economico”).
Il senso di fondo delle rappresentazioni è raccontare come si sia costruita una storia particolare che lega industria, tecnologie, cultura, comunicazione, sport. E come, nel segno dell’innovazione, ci sia ancora molta strada da poter percorrere.

Tutto comincia, appunto, il 28 gennaio del 1872, nello studio del notaio Stefano Allocchio, a Milano. Nasce la società in accomandita semplice GB Pirelli & C. L’imprenditore, Giovanni Battista Pirelli, è fresco di laurea al Politecnico di Milano e reduce da un lungo viaggio d’istruzione nei paesi allora più industrializzati d’Europa, dove concentra l’attenzione su una lavorazione che ancora in Italia non c’è: quella della gomma, del caoutchouc.

Eccolo, il germe dell’impresa: un’idea innovativa che diventa cinghie, valvole, tubi, cavi rivestiti e poi ancora impermeabili, cuffie, giocattoli… E, dall’inizio del Novecento, pneumatici. Tutto di gomma. Si parte in un piccolo stabilimento industriale, in via Ponte Seveso, pochi operai, macchine d’avanguardia. Poi, si cresce. In Italia. E, rapidamente, nel mondo.
Il segno dell’innovazione è duplice: nei prodotti e nella scelta di muoversi sui mercati internazionali più selettivi, severi: i cavi per trasportare energia e segnali di comunicazione, i pneumatici per le competizioni sportive più impegnative (si comincia con la vittoria della Pechino-Parigi nel 1907) e per l’utilizzo quotidiano più sofisticato.
L’intero corso del Novecento si snoda secondo queste direttrici, insistendo anche sulla qualità e sull’efficienza degli impianti produttivi, un po’ dovunque nel mondo, dall’Italia alla Germania, dalla Gran Bretagna alla Romania, dal Brasile all’Argentina, dagli Stati Uniti al Messico, dalla Russia alla Cina, dalla Turchia all’Indonesia (per citare solo i paesi in cui c’è ancora oggi una presenza industriale).

L’attualità racconta fabbriche innovative, digitali. Con un’attenzione rilevante alla sostenibilità ambientale e sociale, all’energia rinnovabile, alla sicurezza. E con un’idea di fondo, quella della “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, trasparente, sicura, in cui la qualità dei luoghi di lavoro e la qualità dei prodotti siano in piena sintonia. Lo stabilimento di Settimo Torinese, con “la Spina” progettata da Renzo Piano e che lega le due strutture produttive, ospitando uffici, servizi e laboratori di ricerca, in una sorta di parco con quattrocento alberi di ciliegio, ne è un buon esempio, un paradigma adottato anche in altri stabilimenti nel mondo. La qualità delle architetture industriali, d’altronde, è un altro segno distintivo della lunga esperienza Pirelli: il Grattacielo Pirelli progettato da Gio Ponti, simbolo del boom economico degli anni Sessanta e la ristrutturazione della Bicocca firmata da Vittorio Gregotti, con l’Headquarter Pirelli tutt’attorno alla Torre di raffreddamento della vecchia fabbrica. Progetti e costruzioni che fanno da landmark metropolitani della contemporaneità.
Un’impresa, infatti, “vive, nel corso del tempo, se ha dei valori che ispirano le persone che la guidano e coinvolgono tutti coloro che vi operano. La passione per il lavoro ben fatto, per esempio. Il gusto spiccato per l’innovazione. La consapevolezza di essere un attore fondamentale non solo della crescita economica, ma più in generale dello sviluppo sociale, civile, culturale. Sono valori forti, elementi di un’identità che si evolve, ma che mantiene salde radici nella propria memoria e uno sguardo sempre aperto al cambiamento, alle sfide della contemporaneità”, sostiene Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli.

La relazione, storica e contemporanea, con il mondo delle corse è testimonianza evidente della forza di queste sfide.
Le competizioni, infatti, dai rally alla Formula 1, sono una straordinaria opportunità di test e di evoluzione dei prodotti. Le piste di gara e quelle di prova sono un laboratorio speciale a cielo aperto, un banco di sperimentazione dei prodotti in condizioni estreme di uso. E i risultati si riflettono sulle produzioni per il mercato. Con una circolarità di rapporti, tra pista e strada, che rafforzano la capacità competitiva della Pirelli e ne definiscono, anche in prospettiva, l’orizzonte di sviluppo.
L’innovazione, insomma, è un percorso a tutto tondo, anche adesso che si entra nel vivo delle nuove dimensioni del produrre e del vivere. L’auto elettrica e la mobilità da smart city. Le fabbriche digitali. I robot nelle strutture della fabbrica data driven. I simulatori high-tech. Le nanotecnologie. I cybertyre. E l’Intelligenza Artificiale applicata alla ricerca, alla produzione, al consumo. Tutti i capitoli di una storia che si sta proprio adesso vivendo e scrivendo. E che chiede anche alla cultura economica e alla cultura d’impresa un profondo impegno di analisi e di proposte sui nuovi equilibri economici e sociali.

Mercato, welfare, democrazia stessi sono in tensione. Scienza e conoscenza sono sollecitate a una inedita dimensione della responsabilità.
C’è uno slogan, che caratterizza la comunicazione Pirelli: “Power is nothing without control”. Accompagnava una campagna pubblicitaria del 1994, con Carl Lewis, straordinario campione mondiale di velocità, fotografato da Annie Leibovitz con un paio di scarpe rosse con i tacchi a spillo. Innovazione e ironia. Lo slogan, nel tempo, è andato al di là di quella brillante scelta di comunicazione. Ha ampliato il suo senso. Parla di relazione tra potenza (e potere) e controllo e dunque di equilibrio, di responsabilità. Una scelta di cultura d’impresa. Ma anche un’indicazione di cultura e di senso civile generale. Un “classico”, insomma. Carico dunque d’un forte valore d’attualità.

Da Ponte Seveso alla Bicocca il viaggio in città della Pirelli

Giovanni Battista Pirelli e la “scoperta” della gomma

Il 28 gennaio 1872 il ventitreenne Giovanni Battista Pirelli fonda a Milano la “G.B. Pirelli & C.”, azienda per la fabbricazione e la vendita di articoli in gomma elastica. Si tratta di una industria del tutto nuova in Italia, in un settore che anche all’estero è ai suoi albori. Ma come si arriva a questa innovativa scelta imprenditoriale, che porterà alla fondazione di un’impresa che si accinge a festeggiare i 150 anni di vita? Nel 1867 Giovanni Battista Pirelli, originario di Varenna, si iscrive all’Istituto Tecnico Superiore di Milano (poi Politecnico), inizialmente al corso di ingegneria civile, per poi passare, dopo il primo anno, a quello di ingegneria industriale.

Nel 1870 Pirelli è tra i primi laureati del corso, insieme ad altri brillanti giovani che saranno protagonisti di altrettante avventure imprenditoriali di successo (come Alberto Riva, Cesare Saldini, Angelo Salmoiraaghi, per citarne solo alcuni). In qualità di miglior studente del proprio corso, Pirelli ottiene una borsa di studio di 3.000 lire finanziata dalla nobildonna Teresa Berra Kramer per compiere un viaggio all’estero, allo scopo di studiare un’industria nuova da avviare in Italia, sull’esempio delle produzioni già iniziate nelle aree più industrializzate d’Europa. Indirizzato dal suo maestro, l’ingegnere Giuseppe Colombo, Giovanni Battista decide di studiare l’industria della gomma, una produzione strategica per il progresso del paese, come aveva messo in evidenza qualche anno prima la vicenda dell’«Affondatore», nave da guerra italiana che nel 1866 si era inabissata tra Ancona e Falconara senza possibilità di recupero, sino a quando un industriale francese non aveva fornito i tubi di gomma necessari a farla riaffiorare. Nel novembre del 1870 Pirelli lascia così l’Italia alla volta della Svizzera, dove deve trattenersi più del previsto (in totale 4 mesi) a causa della guerra franco-prussiana che gli impedisce il passaggio in Germania. In Svizzera visita soprattutto stabilimenti tessili, dai quali rimane favorevolmente impressionato. Di fronte all’entusiasmo manifestato da Pirelli, Colombo lo esorta a “non perdere di vista l’obiettivo del caoutchouc: questa sarebbe un’industria nuova affatto, mentre quella della seta è già tanto sfruttata da noi che poco margine ci resta”.

A marzo il viaggio prosegue in Germania dove Pirelli deve trattenersi per altri 4 mesi attendendo la risoluzione della Comune a Parigi e dove visita prevalentemente imprese metalmeccaniche, ma anche la prima fabbrica di gomma a Mannheim. Dopo tre settimane in Belgio, finalmente giunge in Francia, a Parigi, dove soggiornerà per 10 giorni. In 9 mesi, su un totale di 138 imprese visitate, quelle del settore della gomma sono solo 6: oltre alle limitazioni finanziarie e di tempo, motivo per il quale dall’itinerario viene esclusa la Gran Bretagna, paese in cui l’industria del caucciù si era notevolmente sviluppata, le difficoltà di accesso agli stabilimenti sono inerenti alla ritrosia da parte degli imprenditori della gomma ad aprire le porte delle loro aziende. I pochi casi in cui Pirelli ha la meglio sono dovuti all’influenza degli ambienti del Politecnico su alcuni imprenditori. Tra questi Antoine Aimé Goulard che introduce Pirelli a un fabbricante parigino, François Casassa, che mostrerà la sua fabbrica di Charenton-le-Pont,  nella regione dell’Île-de-France.

Al suo rientro in Italia, sempre sostenuto dai professori Colombo e Francesco Brioschi, Giovanni Battista riesce a reperire i capitali necessari per la costituzione della sua società. E proprio i pochi rapporti intrecciati con fabbricanti stranieri durante il viaggio lo sostengono nell’avvio dell’attività: Goulard viene infatti nominato direttore tecnico della Pirelli & C. nel febbraio del 1872. Come si legge nella convenzione stipulata tra i due, Goulard avrebbe fatto conoscere a Pirelli «in tutti i più particolari e colla maggiore esattezza i processi tecnici di fabbricazione degli articoli di gomma elastica» e avrebbe fornito «tutti quegli schiarimenti che gli verranno dallo stesso Pirelli richiesti». Il Goulard era inoltre tenuto a «sorvegliare ed istruire gli operai e vigilare al buon andamento del lavoro». Mentre era in costruzione il primo stabilimento lungo il Sevesetto, fuori Porta Nuova a Milano, Pirelli si procura i macchinari necessari all’avvio della produzione: depuratori, masticatori, mescolatori e calandre, acquistati personalmente in Gran Bretagna e, quando possibile, da ditte milanesi come la Edoardo Suffert. Lo stabilimento entra in funzione nel giugno del 1873, con 40 operai e 5 impiegati su un’area di 1.000 metri quadri coperti. I primi articoli prodotti: tubi, cinghie, valvole, guarnizioni.

Cominciava una storia che non si è mai fermata.

Il 28 gennaio 1872 il ventitreenne Giovanni Battista Pirelli fonda a Milano la “G.B. Pirelli & C.”, azienda per la fabbricazione e la vendita di articoli in gomma elastica. Si tratta di una industria del tutto nuova in Italia, in un settore che anche all’estero è ai suoi albori. Ma come si arriva a questa innovativa scelta imprenditoriale, che porterà alla fondazione di un’impresa che si accinge a festeggiare i 150 anni di vita? Nel 1867 Giovanni Battista Pirelli, originario di Varenna, si iscrive all’Istituto Tecnico Superiore di Milano (poi Politecnico), inizialmente al corso di ingegneria civile, per poi passare, dopo il primo anno, a quello di ingegneria industriale.

Nel 1870 Pirelli è tra i primi laureati del corso, insieme ad altri brillanti giovani che saranno protagonisti di altrettante avventure imprenditoriali di successo (come Alberto Riva, Cesare Saldini, Angelo Salmoiraaghi, per citarne solo alcuni). In qualità di miglior studente del proprio corso, Pirelli ottiene una borsa di studio di 3.000 lire finanziata dalla nobildonna Teresa Berra Kramer per compiere un viaggio all’estero, allo scopo di studiare un’industria nuova da avviare in Italia, sull’esempio delle produzioni già iniziate nelle aree più industrializzate d’Europa. Indirizzato dal suo maestro, l’ingegnere Giuseppe Colombo, Giovanni Battista decide di studiare l’industria della gomma, una produzione strategica per il progresso del paese, come aveva messo in evidenza qualche anno prima la vicenda dell’«Affondatore», nave da guerra italiana che nel 1866 si era inabissata tra Ancona e Falconara senza possibilità di recupero, sino a quando un industriale francese non aveva fornito i tubi di gomma necessari a farla riaffiorare. Nel novembre del 1870 Pirelli lascia così l’Italia alla volta della Svizzera, dove deve trattenersi più del previsto (in totale 4 mesi) a causa della guerra franco-prussiana che gli impedisce il passaggio in Germania. In Svizzera visita soprattutto stabilimenti tessili, dai quali rimane favorevolmente impressionato. Di fronte all’entusiasmo manifestato da Pirelli, Colombo lo esorta a “non perdere di vista l’obiettivo del caoutchouc: questa sarebbe un’industria nuova affatto, mentre quella della seta è già tanto sfruttata da noi che poco margine ci resta”.

A marzo il viaggio prosegue in Germania dove Pirelli deve trattenersi per altri 4 mesi attendendo la risoluzione della Comune a Parigi e dove visita prevalentemente imprese metalmeccaniche, ma anche la prima fabbrica di gomma a Mannheim. Dopo tre settimane in Belgio, finalmente giunge in Francia, a Parigi, dove soggiornerà per 10 giorni. In 9 mesi, su un totale di 138 imprese visitate, quelle del settore della gomma sono solo 6: oltre alle limitazioni finanziarie e di tempo, motivo per il quale dall’itinerario viene esclusa la Gran Bretagna, paese in cui l’industria del caucciù si era notevolmente sviluppata, le difficoltà di accesso agli stabilimenti sono inerenti alla ritrosia da parte degli imprenditori della gomma ad aprire le porte delle loro aziende. I pochi casi in cui Pirelli ha la meglio sono dovuti all’influenza degli ambienti del Politecnico su alcuni imprenditori. Tra questi Antoine Aimé Goulard che introduce Pirelli a un fabbricante parigino, François Casassa, che mostrerà la sua fabbrica di Charenton-le-Pont,  nella regione dell’Île-de-France.

Al suo rientro in Italia, sempre sostenuto dai professori Colombo e Francesco Brioschi, Giovanni Battista riesce a reperire i capitali necessari per la costituzione della sua società. E proprio i pochi rapporti intrecciati con fabbricanti stranieri durante il viaggio lo sostengono nell’avvio dell’attività: Goulard viene infatti nominato direttore tecnico della Pirelli & C. nel febbraio del 1872. Come si legge nella convenzione stipulata tra i due, Goulard avrebbe fatto conoscere a Pirelli «in tutti i più particolari e colla maggiore esattezza i processi tecnici di fabbricazione degli articoli di gomma elastica» e avrebbe fornito «tutti quegli schiarimenti che gli verranno dallo stesso Pirelli richiesti». Il Goulard era inoltre tenuto a «sorvegliare ed istruire gli operai e vigilare al buon andamento del lavoro». Mentre era in costruzione il primo stabilimento lungo il Sevesetto, fuori Porta Nuova a Milano, Pirelli si procura i macchinari necessari all’avvio della produzione: depuratori, masticatori, mescolatori e calandre, acquistati personalmente in Gran Bretagna e, quando possibile, da ditte milanesi come la Edoardo Suffert. Lo stabilimento entra in funzione nel giugno del 1873, con 40 operai e 5 impiegati su un’area di 1.000 metri quadri coperti. I primi articoli prodotti: tubi, cinghie, valvole, guarnizioni.

Cominciava una storia che non si è mai fermata.

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Il racconto di Milano tra immagini e ricorrenze: una città in movimento

Raccontare Milano per immagini, parole letterarie in trasformazione, ricorrenze, musei. Raccontarla, per esempio, con un volume speciale fatto di lunghe strisce di carta che in due metri di disegni ne rappresentano lo skyline, tra persistenze storiche e grattacieli contemporanei: “Ecco Milano. Ritratto di una città che cambia” di Matteo Pericoli, architetto, per le edizioni Rizzoli (dopo analoghe iniziative per Londra e New York), con la convinzione che “i nuovi grattacieli hanno un alto potenziale narrativo”.

Raccontarla, ancora, con una serie Tv, “Monterossi”, su Amazon Prime Video (da lunedì), portando sugli schermi il personaggio letterario, Carlo Monterossi, appunto, protagonista dei brillanti “gialli” di Alessandro Robecchi per Sellerio. Il personaggio è interpretato con efficacia da Fabrizio Bentivoglio perfettamente a suo agio nei panni dell’autore di un programma da trash Tv, “Crazy Love” che si vergogna dei suoi prodotti ma gode dei ricchi compensi, coltiva passioni investigative e malinconie, ascolta ossessivamente le canzoni di Bob Dylan ed è “un vincente involontario che ama i perdenti” (parola del suo creatore Robecchi). Protagonista è anche la stessa Milano, nera e ironica, tutto il contrario delle “mille luci” di finanza, moda e comunicazione, tanto da fare dire a Robecchi, insofferente degli stereotipi: “Da trent’anni a Milano siamo tutti modelle e designer. Vorrei dire che non è così, ci vive gente normale. Si pensa al milanese come a un coglione ricco, da milanese mi vorrei ribellare” (“la Repubblica”, 15 gennaio).

Il design dei luoghi comuni, naturalmente. Perché poi, apparenze a parte, c’è il design vero, quello che connota, nel segno della qualità e della bellezza, la migliore cultura dell’industria e dell’immagine del nostro Paese e che a Milano offre straordinari racconti di sé all’ADI Design Museum in piazza Compasso d’Oro e in alcuni dei principali musei aziendali riuniti in Museimpresa (l’associazione fondata vent’anni da Assolombarda e Confindustria). Lì, all’Adi Museum, si esprime “l’identità di Milano attraverso la merce che si è fatta simbolo, civiltà materiale del nostro abitare”, come nota con sagacia Aldo Bonomi, sociologo attentissimo alle metamorfosi culturali e sociali e si documenta come continui a crescere, con rilevanza internazionale e ottimi risultati di export, un “capitalismo di territorio” che parla con i consumatori globali e ogni anno fa vivere un Salone del Mobile come iniziativa milanese e italiana d’eccellenza con respiro internazionale, punto d’incontro fondamentale tra industria, cultura e, appunto, design (“Il Sole24Ore”, 11 gennaio).

Raccontare Milano con le sue ricorrenze culturali, ancora. I cent’anni dalla nascita di Giorgio Strehler, con un fitto calendario di iniziative al Piccolo Teatro e con i dialoghi con altri soggetti di primo piano del panorama culturale, sotto la sapiente regia di Claudio Longhi, direttore del Piccolo, affascinato dalle risonanze ancora evidenti dell’Illuminismo lombardo e da una città “che conserva un senso del teatro in rapporto alla comunità abbastanza unico” (“la Repubblica”, 23 dicembre ‘21).

C’è anche il mezzo secolo di vita del Teatro Franco Parenti, inaugurato il 16 gennaio del 1973 con la rappresentazione dell’“Ambleto” di Giovanni Testori e ricordato proprio domenica sera, in annuncio e anticipazione, da Gioele Dix e Andrée Ruth Shammah, che del teatro è anima creativa indomabile.

O, ancora, i vent’anni del Teatro degli Arcimboldi, progettato da Vittorio Gregotti nel quartiere della Bicocca che era storica sede degli stabilimenti Pirelli. Un teatro che oggi è “hub di cultura e socialità, uno spazio dove possono star bene tutti, spettatori e artisti”, secondo il giudizio del suo gestore Gianmario Longoni (“la Repubblica”, 11 gennaio). Tutt’attorno, un quartiere in crescita, che ospita una grande università (oltre 30mila, gli studenti), residenze e attività di servizi, sedi di imprese (compreso l’Headquarters di Pirelli).

Il racconto delle ricorrenze, d’altronde, a Milano, non è mai “amarcord”. Semmai, un’occasione di bilancio e di annuncio di nuovi progetti. Un gioco d’intrecci tra memoria e futuro. L’abitudine, insomma, à quella di raccontare una città con la rappresentazione della sua vita in movimento. Perché qui si presume, tra impegni, investimenti e ambiziosi progetti, che il movimento sia particolarmente intenso, sino alla frenesia vanitosa. E qui, comunque, molte cose avvengono davvero, a dare retta per esempio alla classifica della qualità della vita elaborata, come ogni anno, da “Il Sole24Ore”, dove nel 2021 Milano torna in testa, subito dopo Trieste, riavvicinandosi al primato assoluto del 2019.Milano laboriosa, Milano vanitosa, messa in difficoltà, nelle sue tante dimensioni sociali e culturali (e dunque, anche chiaramente economiche), dal perdurare della pandemia da Covid19, tanto da pensare di rinviare all’estate il Salone del Mobile di aprile ma comunque mai ferma: si aprono _ tanto per ricordare solo le più recenti notizie di cronaca – i cantieri di MilanoSesto, sui 250mila metri quadri dell’ex area Falck (una delle principali riqualificazioni urbane d’Europa), prende corpo il nuovo Campus dell’Accademia d’arte di Brera nell’ex scalo ferroviario Farini, arrivano nuovi investimenti per Mind (Milano Innovation District, là dove sette anni fa si aprì l’Expo, l’impetuosa ripartenza della metropoli).

Nessuno, tra i soggetti sociali e culturali, nel mondo delle imprese e nei luoghi della pubblica amministrazione, si nasconde il peso della crisi. Nessuno ne sottovaluta i costi personali e sociali. Resta però chiara la coscienza di una caratteristica di fondo di una metropoli che richiama, assorbe, inserisce e sa come far vivere, insieme, produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà: una cultura del progetto, del lavoro, dell’impresa, del “saper fare”. Ripartenze, appunto. Anche il racconto ne fa parte.

(Photo by Emanuele Cremaschi/Getty Images)

Raccontare Milano per immagini, parole letterarie in trasformazione, ricorrenze, musei. Raccontarla, per esempio, con un volume speciale fatto di lunghe strisce di carta che in due metri di disegni ne rappresentano lo skyline, tra persistenze storiche e grattacieli contemporanei: “Ecco Milano. Ritratto di una città che cambia” di Matteo Pericoli, architetto, per le edizioni Rizzoli (dopo analoghe iniziative per Londra e New York), con la convinzione che “i nuovi grattacieli hanno un alto potenziale narrativo”.

Raccontarla, ancora, con una serie Tv, “Monterossi”, su Amazon Prime Video (da lunedì), portando sugli schermi il personaggio letterario, Carlo Monterossi, appunto, protagonista dei brillanti “gialli” di Alessandro Robecchi per Sellerio. Il personaggio è interpretato con efficacia da Fabrizio Bentivoglio perfettamente a suo agio nei panni dell’autore di un programma da trash Tv, “Crazy Love” che si vergogna dei suoi prodotti ma gode dei ricchi compensi, coltiva passioni investigative e malinconie, ascolta ossessivamente le canzoni di Bob Dylan ed è “un vincente involontario che ama i perdenti” (parola del suo creatore Robecchi). Protagonista è anche la stessa Milano, nera e ironica, tutto il contrario delle “mille luci” di finanza, moda e comunicazione, tanto da fare dire a Robecchi, insofferente degli stereotipi: “Da trent’anni a Milano siamo tutti modelle e designer. Vorrei dire che non è così, ci vive gente normale. Si pensa al milanese come a un coglione ricco, da milanese mi vorrei ribellare” (“la Repubblica”, 15 gennaio).

Il design dei luoghi comuni, naturalmente. Perché poi, apparenze a parte, c’è il design vero, quello che connota, nel segno della qualità e della bellezza, la migliore cultura dell’industria e dell’immagine del nostro Paese e che a Milano offre straordinari racconti di sé all’ADI Design Museum in piazza Compasso d’Oro e in alcuni dei principali musei aziendali riuniti in Museimpresa (l’associazione fondata vent’anni da Assolombarda e Confindustria). Lì, all’Adi Museum, si esprime “l’identità di Milano attraverso la merce che si è fatta simbolo, civiltà materiale del nostro abitare”, come nota con sagacia Aldo Bonomi, sociologo attentissimo alle metamorfosi culturali e sociali e si documenta come continui a crescere, con rilevanza internazionale e ottimi risultati di export, un “capitalismo di territorio” che parla con i consumatori globali e ogni anno fa vivere un Salone del Mobile come iniziativa milanese e italiana d’eccellenza con respiro internazionale, punto d’incontro fondamentale tra industria, cultura e, appunto, design (“Il Sole24Ore”, 11 gennaio).

Raccontare Milano con le sue ricorrenze culturali, ancora. I cent’anni dalla nascita di Giorgio Strehler, con un fitto calendario di iniziative al Piccolo Teatro e con i dialoghi con altri soggetti di primo piano del panorama culturale, sotto la sapiente regia di Claudio Longhi, direttore del Piccolo, affascinato dalle risonanze ancora evidenti dell’Illuminismo lombardo e da una città “che conserva un senso del teatro in rapporto alla comunità abbastanza unico” (“la Repubblica”, 23 dicembre ‘21).

C’è anche il mezzo secolo di vita del Teatro Franco Parenti, inaugurato il 16 gennaio del 1973 con la rappresentazione dell’“Ambleto” di Giovanni Testori e ricordato proprio domenica sera, in annuncio e anticipazione, da Gioele Dix e Andrée Ruth Shammah, che del teatro è anima creativa indomabile.

O, ancora, i vent’anni del Teatro degli Arcimboldi, progettato da Vittorio Gregotti nel quartiere della Bicocca che era storica sede degli stabilimenti Pirelli. Un teatro che oggi è “hub di cultura e socialità, uno spazio dove possono star bene tutti, spettatori e artisti”, secondo il giudizio del suo gestore Gianmario Longoni (“la Repubblica”, 11 gennaio). Tutt’attorno, un quartiere in crescita, che ospita una grande università (oltre 30mila, gli studenti), residenze e attività di servizi, sedi di imprese (compreso l’Headquarters di Pirelli).

Il racconto delle ricorrenze, d’altronde, a Milano, non è mai “amarcord”. Semmai, un’occasione di bilancio e di annuncio di nuovi progetti. Un gioco d’intrecci tra memoria e futuro. L’abitudine, insomma, à quella di raccontare una città con la rappresentazione della sua vita in movimento. Perché qui si presume, tra impegni, investimenti e ambiziosi progetti, che il movimento sia particolarmente intenso, sino alla frenesia vanitosa. E qui, comunque, molte cose avvengono davvero, a dare retta per esempio alla classifica della qualità della vita elaborata, come ogni anno, da “Il Sole24Ore”, dove nel 2021 Milano torna in testa, subito dopo Trieste, riavvicinandosi al primato assoluto del 2019.Milano laboriosa, Milano vanitosa, messa in difficoltà, nelle sue tante dimensioni sociali e culturali (e dunque, anche chiaramente economiche), dal perdurare della pandemia da Covid19, tanto da pensare di rinviare all’estate il Salone del Mobile di aprile ma comunque mai ferma: si aprono _ tanto per ricordare solo le più recenti notizie di cronaca – i cantieri di MilanoSesto, sui 250mila metri quadri dell’ex area Falck (una delle principali riqualificazioni urbane d’Europa), prende corpo il nuovo Campus dell’Accademia d’arte di Brera nell’ex scalo ferroviario Farini, arrivano nuovi investimenti per Mind (Milano Innovation District, là dove sette anni fa si aprì l’Expo, l’impetuosa ripartenza della metropoli).

Nessuno, tra i soggetti sociali e culturali, nel mondo delle imprese e nei luoghi della pubblica amministrazione, si nasconde il peso della crisi. Nessuno ne sottovaluta i costi personali e sociali. Resta però chiara la coscienza di una caratteristica di fondo di una metropoli che richiama, assorbe, inserisce e sa come far vivere, insieme, produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà: una cultura del progetto, del lavoro, dell’impresa, del “saper fare”. Ripartenze, appunto. Anche il racconto ne fa parte.

(Photo by Emanuele Cremaschi/Getty Images)

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