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La buona reputazione delle imprese italiane merita una migliore politica industriale

Campioni di buona reputazione. Ci sono cinque aziende italiane tra le prime quaranta al mondo nella classifica Rep Track 2019 del Reputation Institute: Ferrero, Pirelli, Armani, Barilla e Lavazza. Confermano che il “made in Italy” fatto da qualità, tecnologia, gusto, visione internazionale ma anche profonda identità storica e culturale della migliore manifattura sono valori vincenti, capaci di produrre valore per gli azionisti ma soprattutto consenso di mercati e stakeholders.

Al primo posto della classifica mondiale c’è Rolex. Poi Lego e Walt Disney. Ancora dopo, Adidas, Microsoft, Sony, Canon, Michelin, Netflix e Bosch. La prima delle italiane è Ferrero, al 19° posto. Pirelli è al 23°, seguita da Armani. 31° Barilla, 38° Lavazza (con un recupero di ben undici posizioni rispetto all’anno precedente). La classifica è stilata raccogliendo più di 230mila valutazioni individuali nel gennaio 2019 e misurando così la reputazione di circa 10mila aziende in 15 mercati diversi: giudizi comparativi, trend di mercato, affidabilità dei brand, riconoscimenti per comportamenti aziendali e qualità e corrispondenza dei prodotti alle comunicazioni rivolte a consumatori e investitori.

La reputazione, naturalmente, ha effetti anche sul business delle imprese positivamente riconosciute: nasce dal rapporto con tutti gli interlocutori (fornitori, clienti, investitori, lavoratori, comunità in cui si manifesta la presenza aziendale, produttiva o commerciale), influenza nuovi consumi, stimola investimenti. E’ un termometro di fiducia e attrattività, anche per le nuove generazioni che cercano aziende in cui è bello andare a lavorare.

La conferma e il miglioramento della reputazione delle imprese italiane è una buona notizia, in tempi così difficili e controversi di recessione. L’Ocse teme per l’Italia nel 2019 una crescita sotto zero, -0,2% per l’esattezza, in un quadro generale di rallentamento dell’economia mondiale, la Banca d’Italia parla di “rischi veri per l’economia”, altri autorevoli osservatori economici concordano su una tendenza che oscilla tra recessione e stagnazione. Il governo giallo-verde aveva calcolato invece l’1%, con una previsione clamorosamente irrealistica.

Eppure, nonostante tutto, le imprese più dinamiche si muovono, crescono, confermano la fiducia di consumatori e investitori internazionali, dicono che la partita dello sviluppo è tutt’altro che persa. A patto che esistano scelte di governo per la politica economica e la politica industriale che tengano accesi i motori della crescita, tutto il contrario cioè di quello che la maggioranza Lega-M5S a Palazzo Chigi sta facendo.

Cosa dicono ancora i risultati della classifica del Reputation Institute? Siamo di fronte a cinque multinazionali italiane forti di un’ampia presenza sui mercati del mondo, ma anche di un robusto radicamento nei territori d’origine (Alba e il Piemonte, Milano, Parma, Torino) che garantisce una solida cultura d’impresa capace di fare sintesi sempre originali tra memoria e innovazione, investendo molto in ricerca e sviluppo e mostrando sofisticate capacità di fare comunicazione riconoscibile, essenziale per rafforzare la fiducia. Sono imprese capaci di crescere secondo i paradigmi della “fabbrica bella” e cioè ben progettata, accogliente, luminosa, sicura, ambientalmente e socialmente sostenibile (ne sono esempio lo stabilimento hi tech Pirelli a Settimo Torinese progettato da Renzo Piano e l’esemplare stabilimento Lavazza, sempre a Settimo). Gruppi manifatturieri che da gran tempo considerano la sostenibilità come leva fondamentale della competitività.

Sono imprese, insomma, attente a costruire supply chain ricche di piccole e medie imprese, stimolando così un allargamento dell’innovazione e della produttività. Grandi imprese come principale motore economico di ampi tessuti industriali, tutto il contrario cioè della retorica del “piccolo è bello” e del privilegio delle micro imprese contrapposte alle grandi che caratterizza le scelte governative.

Le cinque aziende nella “Top 40” per alta reputazione sono, naturalmente, eccellenze. Ma tutt’altro che casi isolati. Chi conosce il mondo dell’industria e dei servizi collegati sa bene che anche in questi anni difficili moltissime imprese hanno investito, innovato, puntato sulla qualità e sui prodotti d’alta gamma, fatto ricerca in accordo con le università, conquistato spazi sui mercati internazionali. Hanno creato occupazione e, contemporaneamente, garantito un migliore benessere diffuso, non solo per i loro dipendenti, ma anche per i territori legati agli stabilimenti produttivi, con originali forme di welfare aziendale. Sono state all’altezza elle sfide digitali di “Industria 4.0” e fatto da motore fondamentale per la ripresa economica.

Meritano dunque attenzione, fiducia, politiche fiscali che continuino a stimolare l’innovazione (proprio quei provvedimenti che in governi diversi, di centro destra e di centro sinistra, hanno consentito la crescita economica) e infrastrutture materiali (ferrovie, autostrade, porti, sistemi logistici, etc.) e immateriali (reti digitali, investimenti in ricerca e formazione). Una politica industriale, appunto. Proprio quella che sinora il governo Conte e i suoi ministri non hanno fatto.

Campioni di buona reputazione. Ci sono cinque aziende italiane tra le prime quaranta al mondo nella classifica Rep Track 2019 del Reputation Institute: Ferrero, Pirelli, Armani, Barilla e Lavazza. Confermano che il “made in Italy” fatto da qualità, tecnologia, gusto, visione internazionale ma anche profonda identità storica e culturale della migliore manifattura sono valori vincenti, capaci di produrre valore per gli azionisti ma soprattutto consenso di mercati e stakeholders.

Al primo posto della classifica mondiale c’è Rolex. Poi Lego e Walt Disney. Ancora dopo, Adidas, Microsoft, Sony, Canon, Michelin, Netflix e Bosch. La prima delle italiane è Ferrero, al 19° posto. Pirelli è al 23°, seguita da Armani. 31° Barilla, 38° Lavazza (con un recupero di ben undici posizioni rispetto all’anno precedente). La classifica è stilata raccogliendo più di 230mila valutazioni individuali nel gennaio 2019 e misurando così la reputazione di circa 10mila aziende in 15 mercati diversi: giudizi comparativi, trend di mercato, affidabilità dei brand, riconoscimenti per comportamenti aziendali e qualità e corrispondenza dei prodotti alle comunicazioni rivolte a consumatori e investitori.

La reputazione, naturalmente, ha effetti anche sul business delle imprese positivamente riconosciute: nasce dal rapporto con tutti gli interlocutori (fornitori, clienti, investitori, lavoratori, comunità in cui si manifesta la presenza aziendale, produttiva o commerciale), influenza nuovi consumi, stimola investimenti. E’ un termometro di fiducia e attrattività, anche per le nuove generazioni che cercano aziende in cui è bello andare a lavorare.

La conferma e il miglioramento della reputazione delle imprese italiane è una buona notizia, in tempi così difficili e controversi di recessione. L’Ocse teme per l’Italia nel 2019 una crescita sotto zero, -0,2% per l’esattezza, in un quadro generale di rallentamento dell’economia mondiale, la Banca d’Italia parla di “rischi veri per l’economia”, altri autorevoli osservatori economici concordano su una tendenza che oscilla tra recessione e stagnazione. Il governo giallo-verde aveva calcolato invece l’1%, con una previsione clamorosamente irrealistica.

Eppure, nonostante tutto, le imprese più dinamiche si muovono, crescono, confermano la fiducia di consumatori e investitori internazionali, dicono che la partita dello sviluppo è tutt’altro che persa. A patto che esistano scelte di governo per la politica economica e la politica industriale che tengano accesi i motori della crescita, tutto il contrario cioè di quello che la maggioranza Lega-M5S a Palazzo Chigi sta facendo.

Cosa dicono ancora i risultati della classifica del Reputation Institute? Siamo di fronte a cinque multinazionali italiane forti di un’ampia presenza sui mercati del mondo, ma anche di un robusto radicamento nei territori d’origine (Alba e il Piemonte, Milano, Parma, Torino) che garantisce una solida cultura d’impresa capace di fare sintesi sempre originali tra memoria e innovazione, investendo molto in ricerca e sviluppo e mostrando sofisticate capacità di fare comunicazione riconoscibile, essenziale per rafforzare la fiducia. Sono imprese capaci di crescere secondo i paradigmi della “fabbrica bella” e cioè ben progettata, accogliente, luminosa, sicura, ambientalmente e socialmente sostenibile (ne sono esempio lo stabilimento hi tech Pirelli a Settimo Torinese progettato da Renzo Piano e l’esemplare stabilimento Lavazza, sempre a Settimo). Gruppi manifatturieri che da gran tempo considerano la sostenibilità come leva fondamentale della competitività.

Sono imprese, insomma, attente a costruire supply chain ricche di piccole e medie imprese, stimolando così un allargamento dell’innovazione e della produttività. Grandi imprese come principale motore economico di ampi tessuti industriali, tutto il contrario cioè della retorica del “piccolo è bello” e del privilegio delle micro imprese contrapposte alle grandi che caratterizza le scelte governative.

Le cinque aziende nella “Top 40” per alta reputazione sono, naturalmente, eccellenze. Ma tutt’altro che casi isolati. Chi conosce il mondo dell’industria e dei servizi collegati sa bene che anche in questi anni difficili moltissime imprese hanno investito, innovato, puntato sulla qualità e sui prodotti d’alta gamma, fatto ricerca in accordo con le università, conquistato spazi sui mercati internazionali. Hanno creato occupazione e, contemporaneamente, garantito un migliore benessere diffuso, non solo per i loro dipendenti, ma anche per i territori legati agli stabilimenti produttivi, con originali forme di welfare aziendale. Sono state all’altezza elle sfide digitali di “Industria 4.0” e fatto da motore fondamentale per la ripresa economica.

Meritano dunque attenzione, fiducia, politiche fiscali che continuino a stimolare l’innovazione (proprio quei provvedimenti che in governi diversi, di centro destra e di centro sinistra, hanno consentito la crescita economica) e infrastrutture materiali (ferrovie, autostrade, porti, sistemi logistici, etc.) e immateriali (reti digitali, investimenti in ricerca e formazione). Una politica industriale, appunto. Proprio quella che sinora il governo Conte e i suoi ministri non hanno fatto.

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