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Milano tra successi della Design Week e migliori equilibri sociali da rilanciare 

Milano splendida splendente, all’indomani della chiusura della Design Week e del Salone del Mobile. Milano cardine della creatività e dell’innovazione internazionale. Milano fabbrica e vetrina. Milano, per l’ennesima volta, attrattiva e vitale.

Si può giocare, a buon diritto, con la retorica dei record e dei superlativi, anche mettendo in fila i numeri: oltre 350mila presenze, tra Salone e Fuorisalone, 1950 espositori da tutto il mondo, più di 1300 eventi, un indotto che vale 261 milioni di euro, con un incremento del 13,7% rispetto al ‘23. Un via vai di persone tra il cuore della città (Brera, l’Università Statale, Porta Venezia, l’Arco della Pace al Parco Sempione, la Triennale e l’Adi Museum, via Durini) ma anche i Navigli, via Tortona, via Sarpi e cioè Chinatown e poi ancora NoLo (North of Loreto, via Padova insomma, quartiere trendy da nuovo stile di gentrification), Scalo Farini e Lambrate, Mecenate e Assago…

Tutta quanta la città, insomma, strade e piazze, palazzi e cortili, allargandosi anche, per la prima volta, verso l’hinterland, a Varedo. Installazioni luminose e sorprendenti, amarcord di “venerati maestri” come Alessandro Mendini e Cini Boeri, inni alla “sostenibilità” degli arredi e delle installazioni stesse. E una gran passione per il colore verde in tutte le sue tonalità.

In aggiunta, tutto un grande via vai con le altre due manifestazioni contemporanee, il Vinitaly a Verona e soprattutto la Biennale a Venezia. Calici e brindisi, inaugurazioni e feste, “Salone mare e monti. E fritto misto”, con scrive con sapida ironia Michele Masneri (“Il Foglio”, 16 aprile).

Tutto bene, dunque? Certamente. L’importante, però, è non illudersi che l’ennesimo, meritato successo d’un così grande evento come la Design Week possa essere una risposta sufficiente ai tanti problemi aperti a Milano, ai sempre più frequenti segnali di crisi di una metropoli arrivata a un passaggio essenziale della sua vita.

Si dice “crisi” e non “declino” proprio insistendo sulla semantica, sul senso profondo della parola: stato di cambiamento che si può evolvere in alterne direzioni, crinale tra due diversi percorsi giù per uno o per l’altro pendio, crivello (e cioè setaccio) tra il grano prezioso e il loglio di scarto, weiji per l’alfabeto cinese e cioè, secondo una traduzione approssimativa, “pericolo” e “opportunità” o, per essere più precisi, “passaggio cruciale” e cioè momento in cui comincia o cambia qualcosa.

Eccola, dunque, “Milano sul crinale”, tra modi originali in cui rinnovare la sua capacità di essere, contemporaneamente, competitiva e socialmente inclusiva, tra le opportunità di un’attrattività che polarizza ed esclude e una dinamica economica che non si limiti alla crescita (più affari, più soldi, più ricchezza istantanea luccicante ed effimera) ma punti allo sviluppo, naturalmente sostenibile, sia ambientale che sociale. Milano, insomma, davanti alla responsabilità di un migliore futuro (ne discute da tempo, appassionatamente, il Centro Studi Grande Milano presieduto da Daniela Mainini).

Il dibattito è naturalmente ampio. Riguarda il ruolo delle metropoli, il futuro della “economia della conoscenza” e dunque anche delle università, le strategie delle imprese e della Fiera di Milano (un polo economico che potrebbe assumere un peso crescente, come centro di servizi e laboratorio di idee). E soprattutto i nodi di una radicale questione sociale: come fare convivere le logiche creative della competitività con la necessità di abbattere le diseguaglianze amplificate proprio da quelle logiche, se non ben governate da politiche di welfare, scelte urbanistiche, ambiziose scelte fiscali e culturali.

Proprio su questi temi, eventologia delle “week” a parte, Milano, insieme a Venezia, si prepara a un paio di appuntamenti strategici legati al destino delle metropoli: l’Esposizione Internazionale in Triennale dedicata al tema “Inequalities. How to mend the fractures oh humanity” da maggio a novembre 2025 e, nello stesso periodo, la prossima Biennale di Architettura a Venezia, per ragionare di concentrazione di ricchezze e dunque di diseguaglianze nelle metropoli e nelle megalopoli, di crisi climatiche, di utilizzo efficace dei dati sui flussi di persone, merci e idee, grazie all’Artificial Intelligence e dunque di democrazia, economia circolare e, appunto, sviluppo sostenibile (ne discutono Stefano Boeri, presidente della Triennale e Carlo Ratti, esperto di smart City al Mit di Boston e curatore della Biennale veneziana, su “la Repubblica”, 21 aprile).

Ecco il punto: la funzione essenziale dell’urbanistica e della buona politica per ridisegnare le città. A cominciare proprio da Milano. Come suggeriscono, partendo dal successo del Salone del Mobile, anche Federica Verona (“Non bastano i grandi numeri, servono progetti che restano”, la Repubblica, 20 aprile) e Dario Di Vico (“Il Salone delle prossime sfide: Milano deve continuare a essere inclusiva e attrattiva”, Corriere della Sera, 21 aprile).

L’essere, Milano, una grande città universitaria, con oltre 200mila studenti provenienti dal resto d’Italia e, sempre più spesso, dall’estero, è un grande vantaggio, sulla forza della ricerca e delle idee. E può pesare adesso, con risposte originali ai problemi, anche il fatto che ci sono tre donne alla guida delle principali università pubbliche milanesi: Marina Brambilla appena eletta rettrice della Statale, Giovanna Iannantuoni alla Bicocca e Donatella Sciuto al Politecnico. L’importante è garantire, agli studenti, ai ricercatori e ai professori universitari condizioni abitative e costi di vita che non li facciano fuggire via o li spingano a vivere Milano con disagio, fastidio, ostilità.

I progetti del Comune sul social housing e gli impegni di una multinazionale immobiliare come Hines (“Una città con i sogni giusti. Il nuovo ciclo di Milano sarà un mix di mercato e welòfare: studentati e housing”, sostiene Mario Abbadessa, responsabile italiano del gruppo americano; Il Foglio, 11 aprile) dicono che ci sono passi avanti verso una migliore dimensione civile del vivere e dell’abitare. Di tutt’altro segno, naturalmente, rispetto al clamore delle operazioni immobiliari di gran lusso, come lo shopping da 1,3 miliardi del gruppo Kering di Francois Pinault (moda) per un palazzo in via Montenapoleone, oramai la seconda strada più cara al mondo dopo la Fifth Avenue a New York (la stima è di Cushman & Wakefield, Il Sole24Ore, 5 aprile).

Il mercato, naturalmente, anche per il settore immobiliare, fa il suo mestiere. Ma una metropoli, organismo vivente, civitas e non solo urbs (le strutture, le strade, i palazzi) non può essere lasciata soltanto alle dinamiche di mercato. Ha bisogno di politica sapiente, efficiente pubblica amministrazione, lungimirante urbanistica, solida cultura dell’innovazione e dell’inclusione sociale. Pena la perdita delle caratteristiche di fondo di Milano, della sua anima solidale, dunque nel lungo periodo della sua stessa bellezza e attrattività.

Salute, ambiente, qualità della vita, sviluppo sostenibile, dunque. Temi comuni a quell’area fortemente antropizzata ed economicamente e culturalmente dinamica che comprende il Nord Ovest, la Lombardia, l’Emilia e il Nord Est, cuore produttivo europeo con un originale e robusto capitale sociale di imprese, università, banche, strutture culturali e di ricerca e istituzioni e organizzazioni ricche di virtù civili (ne abbiamo scritto nel blog del 3 aprile).

Ne discutono, in questi giorni, appunto a Milano, per la “Giornata della Terra”, i sindaci dei comuni padani (oltre che Milano, anche Torino, Bologna, Treviso, Venezia, etc, calcolando che nella grande area vivono 23 milioni di cittadini). E il sindaco di Milano ne fa una sintesi così: “Nel nostro futuro, mobilità green e città multicentrica” (la Repubblica, 21 aprile). Si vedrà.

(Foto Getty Images)

Milano splendida splendente, all’indomani della chiusura della Design Week e del Salone del Mobile. Milano cardine della creatività e dell’innovazione internazionale. Milano fabbrica e vetrina. Milano, per l’ennesima volta, attrattiva e vitale.

Si può giocare, a buon diritto, con la retorica dei record e dei superlativi, anche mettendo in fila i numeri: oltre 350mila presenze, tra Salone e Fuorisalone, 1950 espositori da tutto il mondo, più di 1300 eventi, un indotto che vale 261 milioni di euro, con un incremento del 13,7% rispetto al ‘23. Un via vai di persone tra il cuore della città (Brera, l’Università Statale, Porta Venezia, l’Arco della Pace al Parco Sempione, la Triennale e l’Adi Museum, via Durini) ma anche i Navigli, via Tortona, via Sarpi e cioè Chinatown e poi ancora NoLo (North of Loreto, via Padova insomma, quartiere trendy da nuovo stile di gentrification), Scalo Farini e Lambrate, Mecenate e Assago…

Tutta quanta la città, insomma, strade e piazze, palazzi e cortili, allargandosi anche, per la prima volta, verso l’hinterland, a Varedo. Installazioni luminose e sorprendenti, amarcord di “venerati maestri” come Alessandro Mendini e Cini Boeri, inni alla “sostenibilità” degli arredi e delle installazioni stesse. E una gran passione per il colore verde in tutte le sue tonalità.

In aggiunta, tutto un grande via vai con le altre due manifestazioni contemporanee, il Vinitaly a Verona e soprattutto la Biennale a Venezia. Calici e brindisi, inaugurazioni e feste, “Salone mare e monti. E fritto misto”, con scrive con sapida ironia Michele Masneri (“Il Foglio”, 16 aprile).

Tutto bene, dunque? Certamente. L’importante, però, è non illudersi che l’ennesimo, meritato successo d’un così grande evento come la Design Week possa essere una risposta sufficiente ai tanti problemi aperti a Milano, ai sempre più frequenti segnali di crisi di una metropoli arrivata a un passaggio essenziale della sua vita.

Si dice “crisi” e non “declino” proprio insistendo sulla semantica, sul senso profondo della parola: stato di cambiamento che si può evolvere in alterne direzioni, crinale tra due diversi percorsi giù per uno o per l’altro pendio, crivello (e cioè setaccio) tra il grano prezioso e il loglio di scarto, weiji per l’alfabeto cinese e cioè, secondo una traduzione approssimativa, “pericolo” e “opportunità” o, per essere più precisi, “passaggio cruciale” e cioè momento in cui comincia o cambia qualcosa.

Eccola, dunque, “Milano sul crinale”, tra modi originali in cui rinnovare la sua capacità di essere, contemporaneamente, competitiva e socialmente inclusiva, tra le opportunità di un’attrattività che polarizza ed esclude e una dinamica economica che non si limiti alla crescita (più affari, più soldi, più ricchezza istantanea luccicante ed effimera) ma punti allo sviluppo, naturalmente sostenibile, sia ambientale che sociale. Milano, insomma, davanti alla responsabilità di un migliore futuro (ne discute da tempo, appassionatamente, il Centro Studi Grande Milano presieduto da Daniela Mainini).

Il dibattito è naturalmente ampio. Riguarda il ruolo delle metropoli, il futuro della “economia della conoscenza” e dunque anche delle università, le strategie delle imprese e della Fiera di Milano (un polo economico che potrebbe assumere un peso crescente, come centro di servizi e laboratorio di idee). E soprattutto i nodi di una radicale questione sociale: come fare convivere le logiche creative della competitività con la necessità di abbattere le diseguaglianze amplificate proprio da quelle logiche, se non ben governate da politiche di welfare, scelte urbanistiche, ambiziose scelte fiscali e culturali.

Proprio su questi temi, eventologia delle “week” a parte, Milano, insieme a Venezia, si prepara a un paio di appuntamenti strategici legati al destino delle metropoli: l’Esposizione Internazionale in Triennale dedicata al tema “Inequalities. How to mend the fractures oh humanity” da maggio a novembre 2025 e, nello stesso periodo, la prossima Biennale di Architettura a Venezia, per ragionare di concentrazione di ricchezze e dunque di diseguaglianze nelle metropoli e nelle megalopoli, di crisi climatiche, di utilizzo efficace dei dati sui flussi di persone, merci e idee, grazie all’Artificial Intelligence e dunque di democrazia, economia circolare e, appunto, sviluppo sostenibile (ne discutono Stefano Boeri, presidente della Triennale e Carlo Ratti, esperto di smart City al Mit di Boston e curatore della Biennale veneziana, su “la Repubblica”, 21 aprile).

Ecco il punto: la funzione essenziale dell’urbanistica e della buona politica per ridisegnare le città. A cominciare proprio da Milano. Come suggeriscono, partendo dal successo del Salone del Mobile, anche Federica Verona (“Non bastano i grandi numeri, servono progetti che restano”, la Repubblica, 20 aprile) e Dario Di Vico (“Il Salone delle prossime sfide: Milano deve continuare a essere inclusiva e attrattiva”, Corriere della Sera, 21 aprile).

L’essere, Milano, una grande città universitaria, con oltre 200mila studenti provenienti dal resto d’Italia e, sempre più spesso, dall’estero, è un grande vantaggio, sulla forza della ricerca e delle idee. E può pesare adesso, con risposte originali ai problemi, anche il fatto che ci sono tre donne alla guida delle principali università pubbliche milanesi: Marina Brambilla appena eletta rettrice della Statale, Giovanna Iannantuoni alla Bicocca e Donatella Sciuto al Politecnico. L’importante è garantire, agli studenti, ai ricercatori e ai professori universitari condizioni abitative e costi di vita che non li facciano fuggire via o li spingano a vivere Milano con disagio, fastidio, ostilità.

I progetti del Comune sul social housing e gli impegni di una multinazionale immobiliare come Hines (“Una città con i sogni giusti. Il nuovo ciclo di Milano sarà un mix di mercato e welòfare: studentati e housing”, sostiene Mario Abbadessa, responsabile italiano del gruppo americano; Il Foglio, 11 aprile) dicono che ci sono passi avanti verso una migliore dimensione civile del vivere e dell’abitare. Di tutt’altro segno, naturalmente, rispetto al clamore delle operazioni immobiliari di gran lusso, come lo shopping da 1,3 miliardi del gruppo Kering di Francois Pinault (moda) per un palazzo in via Montenapoleone, oramai la seconda strada più cara al mondo dopo la Fifth Avenue a New York (la stima è di Cushman & Wakefield, Il Sole24Ore, 5 aprile).

Il mercato, naturalmente, anche per il settore immobiliare, fa il suo mestiere. Ma una metropoli, organismo vivente, civitas e non solo urbs (le strutture, le strade, i palazzi) non può essere lasciata soltanto alle dinamiche di mercato. Ha bisogno di politica sapiente, efficiente pubblica amministrazione, lungimirante urbanistica, solida cultura dell’innovazione e dell’inclusione sociale. Pena la perdita delle caratteristiche di fondo di Milano, della sua anima solidale, dunque nel lungo periodo della sua stessa bellezza e attrattività.

Salute, ambiente, qualità della vita, sviluppo sostenibile, dunque. Temi comuni a quell’area fortemente antropizzata ed economicamente e culturalmente dinamica che comprende il Nord Ovest, la Lombardia, l’Emilia e il Nord Est, cuore produttivo europeo con un originale e robusto capitale sociale di imprese, università, banche, strutture culturali e di ricerca e istituzioni e organizzazioni ricche di virtù civili (ne abbiamo scritto nel blog del 3 aprile).

Ne discutono, in questi giorni, appunto a Milano, per la “Giornata della Terra”, i sindaci dei comuni padani (oltre che Milano, anche Torino, Bologna, Treviso, Venezia, etc, calcolando che nella grande area vivono 23 milioni di cittadini). E il sindaco di Milano ne fa una sintesi così: “Nel nostro futuro, mobilità green e città multicentrica” (la Repubblica, 21 aprile). Si vedrà.

(Foto Getty Images)

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